lunedì 8 aprile 2013

EUROPA, DISINFORMATJA: L'INGANNO INFINITO DEL CAMBIO FISSO E DEL DEBITO PUBBLICO

L'interesse suscitato dall'ultimo post di Sofia in tema di informazione e potere di mercato dei grandi gruppi che, direttamente o indirettamente, la controllano, ci induce a "fare il punto", in base alla serie di post che sono già stai pubblicati sull'argomento. Agli stessi rinviamo per l'integrale sviluppo delle argomentazioni e dati che vi sono analizzati.
Intanto però possiamo fare un riassunto del percorso seguito, in modo da comprenderne, anche in base all'ulteriore confronto tra gli attenti commentatori di questo blog, le possibili prospettive e, ancor più, per gli esiti auspicabili ai fini di una ripresa della democrazia e della situazione socio-economica italiana.
Cominciamo dal post "Oltre il PUD€ -2. Oil and finance. That's all", che ci dà un approccio sullo scenario globale in cui la questione si inserisce:
"Per ora, dobbiamo prendere atto delle conclusioni del report dell'UNCTAD sopra linkato: un cauto "non liquet" circa l'influenza univoca dalla finanziarizzazione dei mercati "commodities" sui crescenti prezzi del cibo. Cioè su un settore di indagine che riflette ma non coincide integralmente con quello energetico.
Tuttavia, poichè neanche l'UNCTAD esclude la obiettiva rilevanza dei problema, partendo dalle riportate ipotesi iniziali (che comunque riflettono dei fatti storicamente avvenuti, riassunti anche nel citato grafico della World Bank), mi pare giusto citare un ulteriore aspetto che oltrepassa le cautele dell'UNCTAD e da' risposta alla cruciale domanda fatta da Sofia.
Si tratta della rilevazione degli stretti legami tra la finanza e il mondo dei combustibili fossili: "chi siede nel consiglio di amministrazione di chi, l’influenza esercitata da istituzioni politiche e sociali nei consigli di amministrazione di banche e compagnie petrolifere. In una competizione che, come dice George Kirkland, presidente di Chevron Nigeria, non è tra aziende ma col pianeta".
In tal senso andate a vedere nel post appena linkato (al blog "Non con i miei soldi"), la Infografica ricostruita dal Transnational Institute dove viene chiaramente mostrato l'intreccio nei boards (consigli di amministrazione) tra "le maggiori banche e le maggior compagnie petrolifere".
Questa considerazione di un indicatore molto rilevante (come vedremo), se accertata su basi di indagine ufficializzate dagli stessi UNCTAD-FAO, li avrebbe forse condotti a diverse conclusioni; tant'è che lo studio dell'UNCTAD, "nel dubbio", si sente di raccomandare, in sede di G20, l'introduzione di una regulation sulla "trasparenza" anche della governance. Ne avete mai sentito poi parlare in sede di G20?
Non dimentichiamo, però, che la legislazione Antitrust USA - cioè la stessa origine mondiale del concetto normativo: Sherman Act del 1890, e Clayton Act del 1913- nacque proprio dalla rilevazione degli intrecci di consiglieri di amministrazione nei boards dei vari settori che conducono alle pratiche concordate, in conseguenza delle quali le imprese collegatesi agiscono come un unico soggetto, programmando modalità, livelli e ripartizioni dei profitti.
Solo che qui "l'unico soggetto" accumula un potere talmente immenso da non avere alcun limite pratico: può persino pianificare a tavolino l'orientamento mediatico e quindi del consenso in qualsiasi parte del mondo e, più ancora, condizionare i governi, specie se esposti ai mercati nella - "stranamente spontanea", da parte degli stessi governi- collocazione sul mercato dei titoli del debito sovrano.
Ma ciò parrebbe persino scontato e talmente detto che non preoccupa più quasi nessuno! Anzi viene liquidato come complottismo: salvo che l'UNCTAD non liquida certo, irridente, l'ipotesi, auspicando "trasparenza" regolata dai governi G20.
Quello che invece è più inquietante è che questa forza economica soverchiante possa impadronirsi del web e, in generale, di ogni nuova forma di "communication technology", attraverso la creazione di potentissime società ramificate in tutto il mondo, programmando e scansionando lo stesso paradigma culturale di un'epoca"
Circa la "metodologia" della nuova "communication technology" e la sua capacità di moltiplicare in modo quasi inavvertito i suoi effetti di condizionamento, riportiamo un passo saliente del post di Poggio Poggiolini "Oltre il PUD€-1. La cosa 2.0, la casa "x.y.z." & la sposa meccanica": 
"Il “viral marketing” veicola l’amabilità trasversale di “soft skills” che collaborano armonicamente, flessibilmente, mutevolmente, appartenentemente, empaticamente al progetto “unico”.
Che è basato su capacità comunicative, verbali, fisiche, gestuali, in grado di (ri)trasmettere efficacemente, efficientemente, produttivamente nelle piattaforme a loro “deputate”, il linguaggio e la comunicazione stabilita dagli “hard skills”, cioè tecnici esperti che elaborano strategicamente i messaggi dalle “dark & cleaning rooms”.
“Online il 90% dei contenuti viene creato dal 10% degli utenti: queste persone sono i “influencers”..
I darwinist “leader influencers” che, dotati di “superiori” capacità elaborative, capaci di elaborare oltre 7 variabili alla volta , consapevoli degli  handicap cognitivi degli “altri”, (limiti attenzionali, di memoria, di coerenza ....), giocondano con la manipolazione ridondante dello stesso concetto fino a farlo credere “vero”, senza nulla cambiare nella comunicazione goebbelsiana, ripetuta ripetutamente, dellla menzogna che diviene “verità”.
Stabilite queste premesse generali di scenario e di strumenti di realizzazione di un disegno globale di orientamento mediatico, andiamo più sul dettaglio delle dinamiche macroeconomiche altrettanto globali, secondo le tendenze geo-politiche mondializzate che sembrano profilarsi. E qui ci soccorre il post di Flavio "Oltre il PUD€-3. Il futuro dello sviluppo e il legame tra investimento pubblico, nuove tecnologie e occupazione":
"Partiamo dal principio: gli Usa dal 2020 diventeranno i più grandi produttori di petrolio al mondo, con tutte le conseguenze del caso: divenendo esportatori netti, avranno grossa voce in capitolo sui prezzi.
E chi rimane indietro (nel senso di dipendenza dal greggio), non avrà scampo. L’articolo linkato meriterebbe di essere letto in toto, soprattutto la parte finale, dove si prefigurano possibili scenari futuri dei prezzi, andando quindi ad incidere sui costi delle imprese e sull’inflazione di tutti i paesi dipendenti da tale materia prima:
Il prezzo del petrolio, sempre secondo l'Aie, crescerà moderatamente in concomitanza con la domanda. Il greggio arriverà a circa 125 dollari al barile in termini reali (al netto dell'inflazione) nel 2035, dai circa 108 dollari registrati attualmente.
Le incognite, però restano. Del resto il petrolio ha già abituato gli investitori a violente escursioni nel prezzo. Dopo aver raggiunto il picco storico a 147 dollari al barile nel luglio del 2008 è crollato nel 2009 in area 50 dollari per poi ritornare nel 2012 intorno a quota 100 (con il Brent londinese a 108,7 dollari e il Wti di New York a 85).
La posizione di indipendenza energetica verso cui si proiettano gli Stati Uniti potrebbe cambiare gli attuali equilibri con i Paesi dell'Opec (l'Organizzazione dei produttori del petrolio fondata nel 1960 per porre un freno al predominio delle aziende anglo-americane, allora conosciute come le "sette sorelle").
...gli USA punteranno ad essere quasi un price maker del greggio all'estero, mentre per il mercato interno puntano ad eliminarlo virando sull'auto verde ed il gas (via fracking), grazie ai miliardi concessi alla ricerca. Ciò che vogliamo sottolineare qui è lo stretto legame fra una banca centrale che sostiene il sistema attraverso acquisto titoli Tesoro ed un governo incentrato, con tutti i difetti intrinseci del suo operato, a portare la propria economia in qualche modo fuori dallo stallo in cui l’ipertrofia finanziaria l’ha portato a danno dell’economia reale. L’articolo del Sole chiarisce una questione cruciale, l’investimento pubblico nella ricerca, la tanto vituperata SPESA PUBBLICA che sta alla base di tale politica
Al terzo punto, intravediamo in concreto altri campi in cui negli USA si punta pesantemente. Anche qui sono gli investimenti pubblici a trainare la ricerca in campi strategici per l’avvenire: Lockheed Martin, il colosso della Difesa americana (quella dei cacciabombardieri F-35 per capirci), trova il modo di trasformare acqua salata in acqua dolce grazie al grafene...
Guardando loro e noi – e non me ne vogliate perché io amo il mio paese e non lo credo secondo a nessuno –  non posso notare come in fatto di investimenti pubblici per la ricerca noi siamo indietro anni luce dai tanto bistrattati “cugini” americani.
Ci vuole una spinta decisiva, ci vuole quindi l’unica via che in questo momento ha la concreta possibilità di dare respiro ad una economia intera sull’orlo del collasso: l’investimento pubblico.
Ciò che serve all’Italia è un piano nazionale di ricostruzione economica, energetica, monetaria.
Mettiamo il caso che si possa, attraverso politica fiscale e monetaria che agiscano nuovamente di concerto, risparmiare ad esempio 30miliardi l’anno di interessi. Cosa ci potremmo fare? Cosa potremmo finanziare? Quali ambiti di ricerca potremmo sostenere? A quanti ricercatori potremmo dare lavoro? Di quanto potrebbe crescerebbe il PIL? Quante tasse si raccoglierebbero con una economia che riparte? E, ultimo ma non meno importante, quanto capitale umano potremmo finalmente mettere in campo per riappropriarci di quel qualcosa che i tecnocrati della BCE ci stanno togliendo… il futuro!"
Il problema evidenziato da Flavio segnala uno scostamento clamoroso tra razionale perseguimento dell'interesse generale dell'intera comunità nazionale italiana (e non solo: il discorso potrebbe estendersi all'intera area UEM), e le politiche cui siamo in tutti i modi irrazionalmente vincolati.
Dall'ultimo post di Sofia ricaviamo una spiegazione possibile dell'allucinante mancanza di opzioni razionali cui sono assoggettati i cittadini, intesi come pubblica opinione che è poi chiamata a pronunciarsi come "elettorato". 
Un elettorato dilaniato tra falsi problemi che si possono riassumere nell'interrogativo: quale modello di decrescita preferite? Quello della recessione-disoccupazione-depatrimonializzazione imposto dall'UEM o quello della "decrescita felice" imposto, in contrapposizione del tutto apparente, come "via d'uscita alternativa"?
O, come direbbe Istwine, riassumendo il tutto in un'unico interrogativo: "Più Africa per tutti"?:
"Il sistema, è ormai cosa nota, gestisce l’informazione ma anche, in modi indiretti e spesso occultati, la stessa contro-informazione:  per cui, il prodotto che giunge al cittadino medio è la disinformazione, cioè la famosa “verità ufficiale”, più efficacemente divulgata se contenente, al suo interno, un'apparente dialettica di versioni "opposte", provenienti però dalla stessa indistinta "fonte di divulgazione"
Alla lunga, questo perverso meccanismo, produce anemia intellettuale, passività e pigrizia inconscia.
La maggioranza dei cittadini finisce per perdere così quella capacità di analisi critica nel leggere le notizie e, quindi, farsi un’opinione personale dei fatti e degli eventi di cui viene a conoscenza. 
Lo scopo del sistema al potere è quello di impedire l’accesso dei cittadini alle notizie oggettive e, al loro posto, offrire un complesso sistema informativo apparentemente pluralista ma sostanzialmente monolitico...In questo contesto, la stessa libertà di informazione è in serio pericolo anche perché i media a larga a diffusione appartengono a pochi grandi gruppi di imprese, che tentano di mantenere ed estendere il controllo su gran parte delle fonti ufficiali di informazione.
La posizione politico-economica di questi stessi gruppi dipende, a sua volta, sempre più, da contenuti prestabiliti e notizie preconfezionate (conflitto di interesse)." 

Circa la praticabilità effettiva di queste politiche, che vedono al centro lo Stato e la spesa pubblica in situazione di sovranità fiscale e cambio flessibile, riportiamo una notizia, appunto, "nascosta", che è poi un'analisi economica, di quelle che una volta potevano essere compiute e che oggi sono scomparse, prima ancora che dall'armamentario della cultura economica, dalla stessa sintassi dell'informazione mediatica.
Ci riferiamo a questo studio del 1989 di Francesco Giavazzi e Luigi Spaventa, sulla via italiana, inizialmente seguita, alla uscita dalla crisi dovuta al doppio shock petrolifero degli anni '70, pur perseguendosi simultaneamente la deflazione, ottenuta in realtà per vie del tutto autonome da quelle che si credette fossero efficaci in base alla "ubriacatura" neo-macroeconomica classica (in un modo che avrebbe poi "preso la mano" fino a condurre all'attuale crisi di domanda, che si continua a trattare come una crisi sul lato dell'offerta).  
Le conclusioni dell'analisi riportate nel "summary" qui sotto riprodotto, sono addirittura clamorose se rapportate al pensiero oggi dominante nel "mattatoio UEM".
Queste "informazioni rimosse" ce la dicono lunga su quanto l'uso "non selettivo" di Internet, cioè non criticamente compiuto in base a un bagaglio di conoscenze createsi al di fuori del "flusso" irresistibile degli influencers mediatici, ci privi di ogni capacità di reazione e, in definitiva, di possibilità di scelta democratica sul nostro futuro
The Italian economy has often puzzled foreign observers over the past 15 years. In the early 1970s supply shocks caused huge domestic and external imbalances which made Italy a lost cause in the view of many. But the recovery of output was stronger and the turn-around in profitability happened earlier than in other 'healthier' countries.
In this article we attempt to interpret these developments. One important result is that, in spite of wage indexation, inflation was an effective policy instrument and disinflation was relatively painless.
Without supply-side measures, however, inflation would have been neutral, at best: thanks to a non-indexed tax system, inflation provided the revenue to finance the subsidies that permitted at the same time a recovery of profits and the demand stimulus coming from a real depreciation. The costs of subsequent disinflation were low precisely because inflation and currency depreciation had boosted firms' profitability. The paper develops a close comparison with the UK experience that took off from conditions very similar to those in Italy.
We argue that the success of the Italian stabilization, and its apparently superior outcome when compared with the UK, crucially depended on the timing and the sequence of the policies pursued: by raising profit margins first, and forcing adjustment subsequently, Italy never underwent the wave of plant closures observed in the UK.
The role of the initial level of profits in determining the output cost of a disinflation provides a good example of hysteresis - namely the possibility that temporary fluctuations may have long-lasting effects on the economy. But there is another side to the picture: high fiscal deficits have been a permanent feature of the period and the Italian public debt has steadily mounted to record levels. We show, however, that the origins of the debt problem are quite unrelated to the policies discussed in this paper: debt has a history of its own.

Il successivo passaggio che riportiamo, poi, parla in modo equilibrato di sostenibilità del debito e di come lo stesso si sia accumulato per via diversa rispetto alla presunta indisciplina fiscale, fintanto che le politiche monetaria e appunto fiscale erano state nella disponibilità del governo democraticamente eletto.
La "incontrollabilità del debito" - qui non viene esplicitamente ammesso ma è "in re ipsa", come noi sappiamo- nasce proprio dalle scelte deflazioniste accelerate successive al divorzio tesoro-bankitalia e alla fase iniziale dell'adesione allo SME: la crescita, di cui nello studio si ammette il trade-off rispetto alla deflazione, è stata considerata un bene "recessivo", incentivando l'aumento vertiginoso dell'onere degli interessi sul debito e la simultanea compressione della spesa pubblica e del sostegno occupazionale che questa consentiva.
Il lungo suicidio espresso nella famosa progressiva "perdita della produttività" che, causata da una folle logica del cambio fisso, è stata poi imputata a titolo di colpa alla "indole" italiana!
Once a gap between expenditures and revenues is opened, the subsequent growth of the debt ratio depends on the real interest rate and on the growth rate of the economy. As shown in Figure 6, just when primary deficits increased, inflation turned the stock of debt into an asset rather than a liability, as nominal interest rates fell much below the growth rate of income and helped to stabilize the debt ratio. Though low real rates were not special to Italy in the 1970s, there is evidence that exchange controls allowed the Italian authorities to keep domestic rates below the level they would have reached otherwise"

3 commenti:

  1. La mia personale sensazione, dopo ormai quasi un anno dall'apertura dei miei occhi (grazie a blog come questo, come Goofynomics, ed altri), è che l'inganno della logica del cambio fisso ha fatto, ad oggi, solo perdenti.

    Anche la classe imprenditoriale italiana, inizialmente allettata dalla possibilità di "disciplinare" i lavoratori tramite il vincolo esterno è stata abbagliata. Quella "disciplina", all'inizio tanto gradita, presenta oggi un conto più che salato, stante il numero di fallimenti di imprese che si registra in italia.
    A tal punto che perfino il Völkischer Beobachter "Della sera" è costretto ad accorgersene:(http://www.corriere.it/economia/13_aprile_08/tutti-sul-caffe-gratis-buvette-imprese-capolinea-di-vico_9eeaea00-a00c-11e2-b85a-0540f7c490c5.shtml).

    Lapidario il presidente di confindustria dell'Emilia Romagna: «Da quaranta giorni si discute del prezzo del caffè alla buvette di Montecitorio e intanto attorno ci casca il mondo e si stanno perdendo occasioni di sviluppo».

    Lapidario anche il passo secondo cui "Persino le aziende esportatrici [..] del sistema Emilia rallentano", mentre (e questo era arci-noto), "quelle che lavorano per il mercato interno sono disperate".

    Insomma. Sembra che il meraviglioso mondo dell'euro vada stretto anche agli imprenditori italiani. Non c'è nessuno (e dico nessuno), in questo paese che ne tragga vantaggio: non i salariati, non le imprese, non l'efficienza dei servizi e della macchina statale.......

    Cui prodest? (Domanda sconsolata. So la risposta: ad un paese che, dopo oltre mezzo secolo di "Europa dei Popoli", si serve delle istituzioni sovranazionali europee sulla base della stessa mentalità egemonica che aveva nel 1914. Questo sì che si chiama -ironicamente parlando- "progresso"......).

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    1. Uno potrebbe pensare che alle banche neppure sia andata bene: ma solo se non pensa che alla base di tutto ci sia la liberalizzazione mondiale dei capitali. Cioè l'apertura, insieme con l'accesso indiscriminato a TUTTO il risparmio delle famiglie alle banche rese generaliste, del gran casinò planetario delle scommesse truccate (per i piccoli risparmiatori).
      Senza il cambio fisso e le banche centrali indipendenti che le hanno protette tenendole per mano, le banche UE non avrebbero potuto partecipare alla grande al giochino. E senza questa bella trovata dell'UEM le loro perdite e la protezione dei loro profitti non sarebbero state possibili a carico dei lavoratori e cittadini: colpevoli di aver vissuto al di sopra delle "loro" possibilità

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    2. Che poi, dico io: vogliamo essere "liberisti"? Allora perché non esserlo fino in fondo?

      - se il depositante è (secondo la "Weidmann vision"), un investitore come un altro, perché il tasso di interesse sul conto corrente non deve essere rapportato al rating dell'istituto di credito? (Non è "liberista" commisurare la remunerazione di un investimento al rischio del medesimo? Io sapevo di si....);
      - un sistema "liberista" non tutela ogni membro della "popolazione economica"? Se non mi fido più di investire i miei soldi in una banca quotata BB-, ho tutto il diritto di andarmene -dall'oggi al domani- in un'altro istituto con tutti i miei risparmi, senza costi aggiuntivi!
      - allo stesso modo, un sistema autenticamente "liberista" dovrebbe accettare anche la figura del "non investitore", ossia di colui che preferisce depositare i soldi presso casa sua. E quindi non porre nessuna restrizione all'uso del contante.....
      - in un sistema autenticamente "liberista", una cattiva banca può fallire come una cattiva impresa. I signori banchieri rinunceranno alle loro liquidazioni. Le corse agli sportelli non vanno fermate. Quando la banca esaurisce la liquidità, se ne escute il patrimonio come per qualsiasi altro soggetto economico (e il depositante è creditore equiparato all'azionista, in quanto ne condivide lo stesso rischio..)......

      Ma siamo di fronte al classico sistema UE "a due pesi e due misure": liberisti quando fa comodo ai banchieri e all'industria tedesca; staliniani quando si tratta degli altri.....

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