sabato 30 novembre 2013

STORIA DI UNA "CRESCITA" STAGIONALE PRIMA DELL'INVERNO SENZA FINE: IL CASO PORTOGHESE (soltanto?)

Pubblichiamo questo bellissmo post di Riccardo Seremedi sulla "zattera di pietra". Mi scuso con l'autore se non tutti i links sono al "posto giusto", ma problemi tecnici che...lui sa...
Nello stile di Riccardo, trovate una mole impressionante di notizie documentate: ma è il quadro che ne discende il dato più raggelante.
Come per la Grecia e per l'Italia, l'interrogativo di fondo è: "perchè li votate?".
The answer is blowing in the wind; un vento che nasce dalla ciclonica perturbazione mediatico-liberista dei nostri tempi e dalla mancanza di una qualsiasi chance, finora, per una formazione di pensiero ed una rappresentanza politica che denunci il disegno restauratore del "capitalismo sfrenato" e rivendichi i valori della democrazia costituzionale come inviolabili.
Lasciando al più il peso di una episodica e non complessiva "resistenza", alle pronunce della Corte costituzionale. Solitaria "isola di pietra" sotto gli attacchi di istituzioni interne, europee e "finanziarie" tout-court
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IL PRINCIPIO DELL’INCERTEZZA

In un paesino sui Pirenei Orientali, al confine franco-spagnolo, si verifica un evento incredibile: per cause ignote la terra comincia a spaccarsi fino a provocare una frattura che conduce alla separazione della Penisola Iberica dal corpo dell’Europa, lasciando fluttuare la neo Isola di Hispania verso l’Oceano Atlantico alla ricerca della propria identità; una nuova Itaca, l’Isola come metafora, tòpos poetico che esprime il percorso esistenziale di chi afferma la propria specificità, il Viaggio inteso come doloroso distacco causato da circostanze esogene, l’Isola come punto di partenza verso una Terra Promessa. “La Zattera di Pietra” (A jangada de pedra) è uno dei più famosi romanzi di Josè Saramago – premio Nobel per la Letteratura 1998 – che lo scrittore portoghese pubblicò nel 1986, all’indomani dell’ingresso del Portogallo nella Comunità Europea. Con una narrazione ricca di metafore e allegorie, lo scrittore lusitano rivendicava le peculiarità storico-culturali della penisola iberica contrapposte al Pensiero Unico che si andava delineando in seno ai nascenti organismi tecnocratici comunitari, in cui il valore economico era ed è l’unica discriminante tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.
Saramago, come del resto Fernando Pessoa, credeva in un’unione – soprattutto su base culturale – con la Spagna, l’Iberismo in contrapposizione al Liberismo; con notevole lungimiranza egli temeva il Mercato Comune, con il Portogallo e la Spagna che avrebbero pagato cara la loro entrata nella CEE: “Io non parlo contro l’Europa, parlo in rapporto, ai margini dell’Europa.[…] Ma ho anche ben chiaro che per ora l’Europa è solo un’astrazione, o una mistificazione: ci vogliono riempire la testa di luoghi comuni per nascondere il fatto sostanziale che la Comunità è stata creata da e in funzione dei paesi più ricchi. Mi sento manipolato. Non mi pare che questa sia la strada del Portogallo”.
Tacciato sicuramente di misoneismo, Saramago stigmatizzava il proto-vincolismo lusitano: “[…] Invece, come tutti sanno, le differenze tra i paesi del nord e quelli iberici sono enormi, l’Europa delle disuguaglianze. Si è tentato, qui in Portogallo di risolvere gli immensi a volte tragici problemi scaricandoli all’esterno, beandosi della parola “europei”, come se questa da sola potesse risolvere tutto.[…]. Suona familiare, vero?
“Ce lo chiede l’Europa!”
Ne “La Zattera di Pietra” , lo scrittore di Azinhaga mette alla berlina proprio i governanti con i loro proclami vanagloriosi e l’ex premier Josè Socrates può entrare a buon diritto in questa categoria. Personaggio controverso, spesso al centro di scandali come l’affaire “Freeport” ( dal Freeport Retail Outlet, centro commerciale britannico, edificato ad Alcochete vicino Lisbona in una zona naturalistica protetta, quando Socrates era Ministro dell’Ambiente) o le indebite pressioni per silenziare voci scomode, il 55enne leader socialista passerà alla Storia per essere stato colui che – dopo la Rivoluzione dei Garofani del 1974 – ha “riportato” la dittatura in Portogallo, sia pure sotto mentite spoglie.
Le difficoltà dell’esecutivo nell’approvare il programma di riduzione del deficit causate dal malcontento dilagante, la prospettiva di elezioni anticipate e il declassamento dei bond portoghesi da parte di Moody’s hanno portato, nel marzo 2011, i tassi d’interesse alle stelle.
Sono seguite settimane convulse che hanno avuto l’epilogo nelle dimissioni del premier il 23 marzo, dopo che il suo quarto piano di austerità in un anno era stato respinto in Parlamento.
Alla fine, dopo l’Irlanda e la Grecia, anche il Portogallo ha dovuto alzare bandiera bianca e chiedere formalmente l’intervento di Bruxelles, con il consueto corollario di austerity, privatizzazioni e quant’altro. L’incertezza economica ha portato molte aziende portoghesi a delocalizzare, come il gruppo Jeronimo Martins – holding che controlla, tra gli altri, anche la catena di supermercati Pingo Doce – che ha trasferito parte del capitale sociale nei Paesi Bassi, principalmente per il vantaggioso trattamento fiscale, causando vibranti proteste in madrepatria per una scelta che assomiglia molto a una pugnalata alla schiena.
Un mese dopo le dimissioni di Socrates, la richiesta di aiuto si è concretizzata in un bailout di 78 miliardi di euro erogato in più tranche, capitale ricevuto con un interesse del 4%.
Una delle clausole nel “contratto” prevede ispezioni a intervalli regolari per controllare i libri contabili del Paese; mentre una squadra di giovani tecnici armata di computer portatili è intenta a spigolare in documenti, cifre e scadenze, tre alti funzionari agiscono a livello politico: Abebe Selassie (FMI), Jurgen Kroger (CE) e Rasmus Ruffer (BCE).
Nel frattempo, a giugno 2011, si sono tenute le elezioni anticipate per dare un governo al Paese; il partito socialdemocratico (PSD) del nuovo premier Pedro Passos Coelho ha ottenuto il 38,6% e il suo alleato CDS-PP di Paulo Portas l’11,7%: il neo-premier ha subito “zufolato” il consueto refrain di “rispettare gli impegni presi con UE e FMI” e di “ripristinare la fiducia dei mercati e il prestigio del Portogallo”.
Da segnalare il livello di astensionismo che ha toccato il massimo storico, il 41,1% degli oltre 9,6 milioni di aventi diritto al voto. Quello di Coelho è il più giovane e il più piccolo governo portoghese dalla Rivoluzione dei Garofani.
Quattro degli undici ministeri sono stati assegnati a tecnici, tra cui il titolare delle Finanze, Vitor Gaspar.
Ex direttore generale della Ricerca alla BCE per sei anni, Gaspar è un convinto assertore dell’austerità ed è stato lodato pubblicamente per le riforme effettuate; dello zelante e levantino tecnocrate ci piace ricordare il colloquio con Schauble a Bruxelles durante la riunione dei Ministri delle Finanze europei, “catturato” dalla troupe televisiva portoghese TVi24 che ce lo mostra ossequioso e assenziente come uno scolaretto.
Erano in pochi a pensare che passando da Socrates a Passos Coelho le cose sarebbero cambiate.
Una delle prime “riforme strutturali”” implementate dal nuovo esecutivo è stato il ricorso alla nazionalizzazione di fondi pensionistici delle banche, una bazzecola pari a 6 miliardi di euro (circa il 3,5% del PIL); successivamente si è passati al “programma Von Hayek”, quello “one size, fits all”: riduzione del personale della Pubblica Amministrazione; aumento dell’età pensionabile; diminuzione del numero e dell’ammontare degli ammortizzatori sociali, quali sussidi alla disoccupazione, assegni di mantenimento per categorie socialmente disagiate.
Dulcis in fundo, aumento della pressione fiscale, aumento aliquota IVA in servizi essenziali come acqua e gas, aumento delle accise sulla benzina (che ha raggiunto il prezzo record di 1,8 euro al litro) e aumento delle tariffe dei servizi pubblici.
La garrota sociale imposta dal governo sta soffocando letteralmente l’economia nazionale; il Portogallo è il paese più povero dell’Europa occidentale, con un PIL pro capite di 15.500 euro.
Il 22% della popolazione sopravvive con meno di 500 euro al mese, un milione di anziani con una pensione di 280 euro; il quotidiano lisboeta “Publico” ha scritto che “la classe media va alla mensa dei poveri, gente che aveva lavoro, ferie, tv via cavo, internet.”
Il presidente dell’Unione Misericordias, Manuel Lemos, spiega: ”Mangiano girati verso la parete, si vergognano. Chiedono aiuto professori, avvocati, ingegneri, nessuno pensava che potessero un giorno averne bisogno”.
Coloro che in realtà si dovrebbero vergognare sono i politici che – a Lisbona come Atene, a Roma piuttosto che a Madrid – dopo avere salvato le chiappe alle banche (rigorosamente private) pensano bene di dileggiare i loro concittadini - pardon, sudditi – con slogan del tipo “abbassate le vostre aspettative” o “ vivete secondo le vostre possibilità”: della serie cornuti e mazziati.
Un esempio dell’arte di arrangiarsi, in salsa portoghese, ci viene da Porto, dove tre architetti disoccupati hanno deciso di aprire un’anomala agenzia chiamata “ The Worst Tour”; questa inconsueta “agenzia di turismo low-rated” offre ai turisti la possibilità di comprendere come la crisi economica abbia cambiato in modo drammatico la vita delle persone a Porto – essi spiegano: “E’ facile rendersi conto della crisi; la città si sta erodendo in seguito all’austerità, si sta svuotando, povertà ovunque[…] Porto si sta trasformando in una città fantasma, in ogni strada ci sono decine di case vuote con le finestre rotte e il cartello ‘in vendita’ “.
Anche Lisbona sta vivendo un lungo periodo di involuzione urbanistica; secondo gli ultimi dati ufficiali in città si contano 12mila edifici in rovina, su un totale di 55mila, con le famiglie giovani che si spostano in periferia e la capitale che negli ultimi 10 anni ha perso circa 100mila abitanti.
Per contrastare il degrado cittadino Helena Roseta, architetto e urbanista portoghese, ha pensato ad una politica per un alloggio dignitoso; nasce così il progetto Reabilita primeiro, paga depois (ristruttura prima, paga dopo) che, attraverso un opportuno monitoraggio zona per zona, consente di creare delle categorie di famiglie più bisognose per insediarle in un’unità abitativa che si impegnano a ristrutturare con i mezzi a disposizione e a farla propria nel tempo.
Nonostante le difficoltà, Lisbona esercita sempre un notevole fascino sui visitatori assai numerosi, con quella “luce” particolare che la città emana, una felice combinazione data dal riverbero degli azulejos dei palazzi con la calçada portuguesa, la pavimentazione a tessere bianche e nere che ha nei calceteiros i suoi profeti e maestri; un’arte che la crisi sta portando via, con la chiusura della Escola de calceteiros quattro anni fa.
Ad inizio febbraio 2012 i trasporti pubblici urbani si paralizzano per la terza volta da novembre, con sindacati e lavoratori che protestano contro le misure di austerità che prevedono tagli a salari e posti di lavoro nelle imprese di trasporto statali. In un clima da tregenda i cosiddetti “mercati” prezzano il rischio default del Portogallo con un aumento dei CDS, con le banche che esigono che tali contratti vengano regolati in contanti (cosa non usuale) e provocando l’ennesima spirale di avvitamento del debito.

Ed ecco che, tomo tomo, cacchio cacchio, arriva il Dr. Troika per la terza visita al “paziente modello”; la relazione che ne consegue è giudicata “soddisfacente”, dimostrando un certo compiacimento per “l’impegno politico a sostegno della stabilità del sistema finanziario”, con “le riforme dei mercati del lavoro e dei prodotti che stanno segnando dei progressi”.
Le condizionalità che seguono, precedute dal sintagma “Il Portogallo adotta…”, sono la Summa della cancrena antidemocratica che corrompe la nostra Società; questi per sommi capi i punti salienti:

B) Il Portogallo mira a una riduzione delle spese nel 2012 di almeno 6,8 miliardi di euro, comprendente la riduzione dei dipendenti e degli stipendi del settore pubblico, tagli alle pensioni, una riorganizzazione globale dell’amministrazione, la riduzione dei trasferimenti a imprese di proprietà pubblica, la riduzione dei comuni e dei distretti, tagli nei settori dell’istruzione e della sanità.[…].
C) Sul lato delle entrate il Portogallo attiva misure per un importo pari a circa 3 miliardi di euro, tra cui l’allargamento delle basi per l’IVA tramite la riduzione delle esenzioni e il rimaneggiamento degli elenchi dei prodotti e dei servizi soggetti ad aliquote ridotte, intermedie e superiori; un aumento delle accise[…].
I) Il Portogallo continua ad attuare il programma di privatizzazioni[…], avviando la privatizzazione del ramo merci di Comboios de Portugal (settore ferroviario), Correios de Portugal (servizio postale) e della gestione dei rifiuti. Si prepara una strategia per Parpublica, considerando la possibilità di smantellarla o di integrarla nel settore pubblico.
J) Il Portogallo applica la legislazione volta a riformare il sistema dell’assicurazione, tra l’altro riducendo la durata massima dei sussidi di disoccupazione[…].
M) Il Portogallo promuove un andamento dei salari coerente con gli obiettivi di promuovere la creazione di posti di lavoro e migliorare la competitività delle imprese al fine di correggere gli squilibri macroeconomici. Nel corso del programma i salari minimi sono aumentati solo se gli sviluppi della situazione economica e del mercato del lavoro lo giustificano. Q) Il Portogallo prosegue l’apertura dell’economia alla concorrenza. Il governo portoghese adotta le misure necessarie per garantire che i suoi interventi non creino ostacoli alla libera circolazione dei capitali e, in particolare, che lo Stato portoghese o altri organismi pubblici non concludano, in veste di azionisti, accordi suscettibili di ostacolare la libera circolazione dei capitali o di influenzarne il controllo sulla gestione delle imprese[…].
Il papello è un esaustivo compendio sui modi “pacifici” di conquistare e soggiogare una nazione sovrana, assoggettandola ai capricci di multinazionali e affini, con la notevole contradictio in adiecto - stile “austerità espansiva” – al punto M: come si può creare occupazione correggendo nel contempo gli squilibri di parte corrente, quando in regime gold standard tali squilibri si temperano solo abbassando i salari?
Evidentemente non si può, quindi si deflaziona (guai a dirlo esplicitamente) e si gioca tutti a chi è più bravo ad esportare, con disoccupazione in doppia cifra e salari ridicoli.
E’ supremamente interessante anche la parte relativa alle privatizzazioni, quando nel finale del punto I si accenna a Parpublica.
Parpublica – Participaçoes Publicas SGPS SA è una società di gestione delle partecipazioni a pieno controllo statale, il cui scopo è la valorizzazione delle controllate e la gestione – tramite holding associate – del patrimonio immobiliare dello Stato portoghese.
Tra i numerosi asset vanta la compagnia aerea di bandiera TAP Portugal; ANA – Aeroports de Portugal; la Companhia das Lezirias, azienda agricolo-forestale pubblica composta da 48.000 ettari di terreno tra il fiume Tago e il fiume Sado, dove si produce vino, sughero ecc.; varie società di gestioni immobiliari e Aguas de Portugal: proprio l’acqua è una delle risorse che la Commissione Europea preme per fare privatizzare.
A novembre 2012 la Merkel, ripetendo la simpatica consuetudine di Schauble di recarsi nei possedimenti alemanni d’oltre Reno, ha fatto tappa proprio in Portogallo, dove in una Lisbona listata a lutto centinaia di migliaia di persone le hanno urlato con veemenza il loro disgusto; con un opportunismo vomitevole, la Cancelliera è infatti arrivata scortata da un nutrito gruppo di imprenditori tedeschi, nei cui investimenti sembra sperare il governo portoghese.
Famosa anche a Lisbona per la sua avvenenza, la Merkel ha ricevuto tanti attestati di simpatia; è particolarmente gustoso il murales in cui il premier Coelho, in atteggiamento servile, le bacia il dereTaunus, con il titolo evocativo Esto beijo deixa-nos tesos (Questo bacio ci lascia senza un soldo).
Alcuni giorni prima, 100 intellettuali e artisti di sinistra avevano pubblicato in Rete una lettera aperta in cui la Merkel veniva definita “persona non grata in territorio portoghese perché pretende chiaramente di interferire con le decisioni dello Stato,senza essere stata nominata dalle persone che qui vivono”; tutto ciò è giusto e sacrosanto ma… “Il programma è applicato dal Portogallo in maniera eccellente, si tratta di un grande risultato”, “sostiene Merkel” e fine delle trasmissioni.
Anche il 2013 è iniziato come era finito l’anno precedente; Pedro Passos Coelho e il suo sodale Gaspar, più realisti del re, stanno tagliando e privatizzando a più non posso.
“Forti” della drastica riduzione del deficit pubblico (come già detto, più per la nazionalizzazione dei fondi pensione) passato dal 6,7% del 2011 al 5,6% di fine 2012 – dopo avere vendute le due società elettriche REN (Red Electrica National) e EDP (Electricidade de Portugal) a investitori cinesi per 3,3 miliardi di euro, l’operatore aeroportuale ANA alla francese VINCI per 3,08 miliardi di euro e, in attesa di cedere la compagnia aerea TAP e la radiotelevisione pubblica, sono stati messi in vendita anche i cantieri navali di Viana do Castelo.
Creati nel 1944 e nazionalizzati nel 1975, poco dopo la morte di Salazar, negli anni ’90 arrivarono ad impiegare fino a 2.800 dipendenti; nel 2012, dopo l’avvicendamento di potenziali acquirenti cinesi e brasiliani, sembrava che il gruppo russo RSI del magnate Andreij Kissilov si fosse aggiudicato il complesso industriale per 10 milioni di euro.
Tutto però si è bloccato per una procedura di infrazione aperta dalla Commissione Europea che contesta a Lisbona 180 milioni di euro in aiuti di Stato, tra il 2006 e il 2010, e non notificati a Bruxelles; questo contrattempo ha costretto il governo portoghese ad optare per una concessione amministrativa a lungo termine (2031) e a riformulare un’altra gara pubblica che vede finora sei offerte, tra le quali spiccano l’azienda norvegese Volstad Maritime AS, specializzata nelle costruzioni offshore per l’industria petrolifera e il gigante tedesco Mpc Ferrostaal.
Toh!... ancora i tedeschi, questi incorrotti censori e fustigatori dei comportamenti altrui, da esercitare possibilmente in casa del presunto reprobo (Piller & Gumpel docet).
Se c’è una storia in cui il famoso aforisma andreottiano “del pensar male” calza a pennello, ebbene signori è proprio questa. Tutto nasce nel 2004 quando Josè Durao Barroso contrattualizzò con il consorzio tedesco German Submarine Consortium (GSC), del quale faceva parte la Ferrostaal, l’acquisto di 2 sottomarini da guerra U-214 “Tridente” e “Arpione”.
I due gingili (che invero trascorrono più tempo in riparazione che in mare… affidabilità tedesca!) sono costati circa 700 milioni di euro, da pagarsi a rate fino al 2026 con uno “swap sintetico” (garantito da una banca portoghese e una svizzera), cifra che ha oltrepassato il miliardo con indicizzazioni e “piccoli ritocchi”; la Ferrostaal è, per la cronaca, la stessa l’azienda che nel medesimo periodo ne piazzava altri quattro alla Grecia pagando tangenti all’ex ministro della Difesa del Pasok, Akis Tsochatzopoulos, condannato poche settimane fa a 20 anni di reclusione.
Nonostante la stampa italiana non ne faccia menzione, impegnata com’è nell’esaltazione mistica del superomismo ariano, la vicenda è molto grave e la giustizia tedesca ha condannato ad una multa la Ferrostaal e due ex dirigenti, che hanno patteggiato la pena ammettendo il pagamento di tangenti.
In Portogallo, invece, il processo istruito nel 2006 va per le lunghe; la cosa è comprensibile visto che tutti i protagonisti di allora sono saldamente al comando: JOSE’ BARROSO (allora Primo Ministro) presidente Commissione Europea; PAULO PORTAS (allora Ministro della Difesa) vice-premier Portogallo e ANIBAL CAVACO SILVA attuale Presidente della Repubblica, gran figura del PSD a cui appartengono lo stesso premier Passos Coelho e Barroso, che vanta tante analogie con Nonno Napo, non ultima quella di “blindare” esecutivi graditi all’estero. Lo sviluppo delle indagini ha portato alla ribalta anche una delle maggiori banche lusitane, il BANCO ESPIRITO SANTO che, attraverso la sua controllata Escom, ricevette 30 milioni di euro dal consorzio tedesco per “intermediare” l’affare.
La giustizia, pur tra mille difficoltà (parte del carteggio tra il Ministro della Difesa e il consorzio bancario che ha avallato l’operazione è scomparso) ha indagato tre persone: Helder Bataglia, Luis Horta e Costa e Pedro Ferreira Neto; questo filone processuale si è aperto grazie alle intercettazioni telefoniche relative al processo PORTUCALE(vedi sezione “controversie”) e nei dialoghi tra l’allora presidente di Escom, Horta e Costa, con Paulo Portas e Abel Pinheiro, cassiere del CDS, gli inquirenti hanno trovato prove di accordi e sospettano che i 30 milioni siano, in realtà, una maxi-tangente.
Ecco perché, alla luce di quanto sopra, il destino dei cantieri navali di Viana do Castelo appare virtualmente deciso, con i tedeschi che come al solito non perdono tempo: già ad agosto dello scorso anno, il”Jornal do Negocios” dava notizia della partnership con la Amal, gruppo metalmeccanico detenuto per il 30% dall’Espirito Santo Capital (gruppo finanziario del Banco) per l’ingresso negli Estaleiros di Viana; stessi attori, stesso scenario.
Per l’Alto Minho e i circa 80.000 abitanti di Viana la sorte dei cantieri è essenziale, con la disoccupazione oltre il 50% le prospettive sono assai grame, ma è tutto il Portogallo che s’interroga sul proprio futuro: gli scioperi stanno diventando una costante degli ultimi mesi, come quello imponente del 2 marzo a Lisbona, dove 800mila persone hanno cantato “Grandola, vila morena, la canzone-simbolo della rivoluzione portoghese del 25 aprile 1974.
Con la crisi economica le famiglie a reddito medio/basso hanno perso circa il 27% del potere di acquisto in beni di prima necessità e i drastici tagli alla spesa sanitaria nazionale hanno costretto quasi 89mila pazienti a rivolgersi a strutture private, dirottati dal sistema pubblico reso inefficiente da accorpamenti, reparti chiusi e tempi di attesa raddoppiati; cambiano i Paesi ma l’intento inconfessato è sempre lo stesso: Stato hayekkiano ai minimi termini e sanità a regime prevalentemente privato.
Arriva aprile e accade l’imponderabile: la Corte Costituzionale boccia quattro misure di austerity introdotte nella legge finanziaria 2013, nella quale figuravano il taglio alla 14° mensilità per i dipendenti pubblici e la riduzione delle pensioni sempre nel pubblico impiego – motivando l’iniquità nella distribuzione dei sacrifici.
La decisione della Corte Costituzionale è giunta inaspettata anche a Bruxelles, ma il successivo stizzito comunicato della CE non ha lasciato adito ad alcun dubbio: “Ogni scostamento degli obiettivi del piano di aiuti o la loro rinegoziazione neutralizzerebbe gli sforzi già compiuti dai cittadini portoghesi”.
Allora che si fa? Il 9 aprile, il Ministro delle Finanze Vitor Gaspar fa il de-cretino, cosa che gli riesce assai bene, congelando ogni tipo di spesa ad eccezione di quelle correnti, giudiziarie e per il personale; quindi ispettori che non svolgono il loro lavoro per mancanza di carburante, l’Università di Lisbona che deve bloccare contratti di collaborazione internazionale e ispettori del lavoro obbligati a trasformarsi in colf e a portarsi anche la carta igienica da casa.
Chi può lascia il paese (specie i laureati) verso le ex colonie Brasile e Angola, con quest’ultima che si fa preferire per le molteplici opportunità che offre.
In una sorta di nemesi storica l’ex colonia Angola, oltre ad assorbire mano d’opera qualificata dal Portogallo, sta anche effettuando massicci investimenti in terra portoghese; il paese africano sta vivendo un boom economico senza precedenti, derivato dai proventi dei diamanti e del petrolio, le cui esportazioni hanno garantito 64 miliardi di dollari lo scorso anno e con 30 miliardi di dollari di riserve si è già assicurato quote sostanziali nel Banco Portugues de Investimento e di BIC Portugal, due dei maggiori gruppi bancari portoghesi, della compagnia petrolifera GALP e della piattaforma di telecomunicazioni ZON Multimedia.
Fra i maggiori investitori troviamo la compagnia petrolifera statale SONANGOL e Isabel dos Santos; l’intervento di investitori angolani serve poi alla banche: senza Sonangol, il Banco Comercial Portugues (Millenium BCP, la maggiore banca portoghese) non sarebbe sopravvissuto alla crisi.
Un ottimo reportage di Mediapart ha gettato una luce poco rassicurante sulla provenienza dei soldi angolani; il Portogallo, con l’acqua alla gola, è disposto a tutto pur di attirare investimenti esteri, anche a diventare un centro per il riciclaggio di denaro sporco.
Le commistioni tra l’entourage, assai poco commendevole, del presidente angolano Dos Santos e il sistema politico-finanziario portoghese sono così forti che, più che di intrecci, si può parlare di “configurazioni laocoontiche”; lettura fortemente consigliata qui e qui.
Sembra che la “sopravvivenza” per il Portogallo (come Spagna, Irlanda ecc.) sia legata ai “salvifici” IDE; Passos Coelho e compagnia stanno cercando di attirare investitori stranieri anche nel campo dell’attività estrattiva, sperando nell’incasso del 4% sulle royalties.
In particolare la miniera di Neves-Corvo, circa 100 chilometri a nord di Faro, si trova nella zona occidentale della “Cintura iberica nell’Alentejo”, uno dei più vasti giacimenti al mondo di solfuri massivi di origine vulcanica, ricco di rame e zinco.
La miniera è gestita dalla SOMINCOR, consociata interamente controllata dal gruppo canadese Lundin Mining Corporation, con sede a Toronto e siti estrattivi in Spagna, Svezia e nella Repubblica Democratica del Congo.
L’esecutivo portoghese e il colosso minerario anglo-australiano Rio-Tinto stanno ultimando una concessione sperimentale per lo sfruttamento di giacimenti di ferro nel Nord del paese, per un investimento valutato più di 1 miliardo di euro.
Un consulente minerario al Ministero dell’Economia, Ricardo Pinto, ha dichiarato: “Con la strategia che abbiamo portato avanti per il settore minerario, le risorse del Portogallo e il suo potenziale potrebbe aumentare fino a 2 volte il PIL, vale a dire più di 200 miliardi di euro”.
Peter Rose - analista della banca indipendente londinese Fox-Davies, specializzata in investimenti in risorse naturali – vede nello sfruttamento minerario il ruolo chiave per la ripresa del Portogallo, grazie “alla elevata qualità delle risorse, buone infrastrutture locali e salari modesti”. Un altro sito “papabile” è quello di Panasaqueira, una delle poche miniere di tungsteno operanti fuori dai confini cinesi, con materiale di alta qualità: anche in questo caso l’azienda mineraria è canadese, la Colt Resources, e sta raccogliendo i capitali necessari per avviare un grosso investimento.
L’IDE si subisce, non si chiede: si subisce quando non ho soldi o competenze” disse il prof. Pozzi a Pescara: evidentemente a Lisbona come a Roma (vero Letta?!) queste cose non si sanno o si fa finta di non saperle. Esplode l’estate e con essa il deficit pubblico: a fine giugno l’Istituto nazionale di Statistica lo certifica al 10,6% del PIL nel primo trimestre del 2013, 2,7 punti in più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno (7,9%), con il valore – in termini congiunturali – più alto di quando il governo di centro-sinistra di Josè Socrates chiese l’intervento della Troika.
Pochi giorni dopo i ministri delle Finanze, Vitor Gaspar, e degli Esteri, Paulo Portas si dimettono provocando un terremoto politico nazionale ed europeo.
Con l’instabilità politica e la situazione economica in caduta libera, i tassi di interesse sui titoli di Stato decennali schizzano oltre i 7 punti percentuali; si verrà a sapere qualche mese dopo che il forte rialzo era stato provocato da vendite di investitori (sarebbe meglio dire banche) tedeschi e britannici per rispettivamente 1,8 miliardi e 450 milioni di euro in bond portoghesi.
A salvare capra e cavoli ci pensa ancora il presidente Cavaco Silva , che con il suo interventismo “napolitanesco” avverte i portoghesi che il Governo è questo, PUNTO; anche i due partiti di governo vengono richiamati all’ordine dagli ukase presidenziali poiché “devono essere sintonizzati in maniera duratura e inequivocabile per portare a compimento fino al giugno 2014 il programma”. Quindi le dimissioni di Portas vengono respinte e anzi viene nominato vice-premier con l’incarico di gestire la politica economica e i rapporti col la Troika, mentre Gaspar è sostituito con la segretaria di Stato, Maria Luis Albuquerque; Gaspar, tecnocrate materiato di dispatia, era il vero Presidente del Consiglio e l’interlocutore privilegiato della Trimurti, l’artefice delle due finanziarie poi bocciate dalla Corte Costituzionale; per questo egli aveva già presentate le dimissioni mesi prima, ma il Paese non se lo poteva permettere.
E così i tycoon e i banchieri lusitani hanno tirato un sospiro di sollievo: “Diario Economico”, il Sole24ORE locale, ne aveva riportato le paturnie qualche settimana prima titolando “Gli imprenditori e i banchieri non vogliono le elezioni anticipate”; è buffo e deprimente constatare come cambiando Paese il “rumore di fondo” rimanga invariabilmente il medesimo.
Nel 2° trimestre di quest’anno, dopo due anni e mezzo di trend negativi, il PIL è cresciuto dell’1,1%, rispetto al -0,4% del trimestre precedente.
L’INE (l’Istituto nazionale di Statistica) ha pubblicato i risultati che attestano una crescita delle esportazioni, tra aprile e giugno, del 6,3% in più rispetto al trimestre precedente.
Il governo ha subito celebrato i dati, non mancando di sottolineare la bontà delle scelte attuate. Peccato che questi risultati siano dovuti alla stagionalità; ad esempio il turismo (molti stranieri hanno scelto l’Algarve per la sua convenienza) e l’aumento del prezzo del petrolio; le esportazioni di carburante sono aumentate del 37%, grazie soprattutto agli investimenti fatti nella raffineria della GALP di Sines.
Anche l’ultimo trimestre “striminzitamente” positivo (+0,2%) sta facendo gongolare i pasdaran dell’austerità espansiva: il guappo dell’FMI per il Portogallo, Subir Lall, ha dichiarato che il Paese deve proseguire nella politica di austerità ed ha espresso il timore che la Corte Costituzionale possa intervenire sulla manovra finanziaria approvata dal Governo, causando un "freno al recupero economico".
Hanno la faccia come il sedere!
Queste Costituzioni così obsolete, piene di inutili orpelli e tutele per questi “meddlesome outsiders”, come ebbe a dire quel galantuomo di Cippa Lippmann.
Joao Galamba, economista e deputato indipendente socialista, ha le idee chiare: “Non ho dubbi che il Portogallo ritornerà in recessione fra poco e là rimarremo per tutto il 2014.[…] Il Portogallo non sarà in grado di finanziarsi quando ritornerà sui mercati se non ha i mezzi di finanziamento europei alle spalle”.
E allora, adiante! Anche per il 2014 la nuova legge di bilancio prevede esuberi, tagli alle pensioni e agli stipendi dei dipendenti pubblici, l’innalzamento dell’età pensionabile a 65 anni e la settimana lavorativa a 40 ore; così il nuovo Ministro delle Finanze Albuquerque: “Siamo convinti che queste siano le misure giuste. Sono state progettate dopo uno studio molto approfondito (ambarabà-ciccì-coccò…) relativo alla necessità di ridurre, in termini strutturali ,la spesa pubblica.
Continuate a correre dritti verso il burrone, mentre la Troika di Hamelin vi ipnotizza con il suono del suo piffero; del resto quando un “giornale” – in piena Sindrome di Stoccolma – si esprime in questi termini verso gli aguzzini del proprio Paese vuol dire che “l’Euro ve lo meritate”, come chioserebbe il prof. Bagnai.
L’unica a non aver calato ancora le braghe è la Corte Costituzionale che continua a bocciare – la terza in pochi mesi – le misure introdotte dal governo di Passos Coelho; questa volta le “riforme” riguardavano il mercato del lavoro - invalidando due norme che, rendendo più facili i licenziamenti - violavano le leggi portoghesi in materia di “giusta causa”; i rapporti tra il premier e i giudici sono tesi, con Coelho che accusa di remare contro il salvataggio del Paese e creare instabilità politica, senza contare il fastidio della CE per queste continue intromissioni.
Paul Buck in suo libro ha scritto di Lisbona che “non le manca certo la materia della quale sono fatti i sospiri”: chissà se al Padrao dos Descobrimentos, insieme ai Grandi del passato – da Vasco da Gama a Ferdinando Magellano – anche Enrico il Navigatore, ritto sulla prua della caravella, sospirerà guardando meditabondo verso l’Oceano Atlantico alla ricerca della gloria perduta, interrogandosi sul futuro incerto del Portogallo.

giovedì 28 novembre 2013

L'UNIONE EUROPEA, IN BASE AI TRATTATI, NON COINCIDE CON LA MONETA UNICA. L'EURO EXIT COME OPZIONE DI RECUPERO DEL CAMMINO COMUNE EUROPEO.

Carissimi frequentatori del blog, con questo scritto vi offro una sorta di "summa" che consegue ad un discorso complessivamente affrontato negli ultimi mesi. Abbiamo tentato di precisare e di rendere più nitida una linea interpretativa dei trattati che offra soluzioni di salvezza alla società democratica italiana, alternativa all'attuale rinchiuderla in un ostinato accanimento distruttivo che preclude ormai persino la possibilità di un ritorno al benessere ed ai principi supremi della nostra Costituzione.
Ci auguriamo che, da qualche parte, e in qualche modo, ci ascoltino. Con attenzione, e senza pregiudizi ideologici. Temiamo che ciò risulti quantomeno improbabile.
Ma, in una situazione di emergenza nazionale come quella che stiamo vivendo, e con la prospettiva di ritrovarsi, di qui a pochi mesi, in un'accelerazione del disastro "ce lo chiede l'Europa", abbiamo cercato di fare il "possibile".
Possiamo solo "attivamente" sperare (disperatamente) che "qualcosa" ponga fine all'attuale "sonno della Ragione".

AVVISO DI LETTURA: LO SCRITTO è STATO FATTO IN PREPARAZIONE DI UNA LEZIONE AGLI STUDENTI DELLA LUISS CONSENTITAMI DALL'AMICO CESARE POZZI. DATA LA GRAN MOLE DI ANALISI INTERPRETATIVE RELATIVE A NUMEROSI DATI NORMATIVI, PER UNA MIGLIORE COMPRENSIONE, E' CONSIGLIATA (almeno) UNA DUPLICE LETTURA



1. PARTE PRIMA: L'EQUIVOCO DELLA IMMAGINARIA NATURA SOLIDARISTICA E TUTRICE DELLA PACE ASCRITTA AI TRATTATI EUROPEI.
C'è la diffusa idea, tra i ranghi delle persone che amano l'euro in nome della pace e della apertura delle frontiere alla immigrazione (?), che la globalizzazione esiga una "moneta forte" e, specialmente, "unica", esattamente come la concepiva Mussolini, che peraltro sosteneva il pregio di una moneta forte ("quota 90") arrivandoci da un altro percorso, se vogliamo economicamente più coerente (cioè con un più verosimile mascheramento del favore per il capitale).
Sulla solidità economica, per il benessere dei popoli europei (art.3, par.1 TUE) dell'idea della moneta forte e della inscindibile deflazione (lotta all'inflazione, contabbandata come soluzione ai problemi delle classi lavoratrici) che essa comporta, ed ha in effetti comportato, si sono espressi i più grandi economisti mondiali ed italiani. Sui "problemini" pratici che questa affrettata idea comporti proprio per il livello di occupazione e, conseguentemente, dei salari, abbiamo, illustrato le teorie della neo-macroeconomia classica, evolutasi dal monetarismo e dalla teoria generale dello Stato di von Hayek, nel raccordarle alla dottrina delle banche centrali indipendenti.

Sulla pace tra i popoli quale obiettivo presuntamente perseguibile attraverso l'euro, (o più generalmente con l'applicazione di un trattato congegnato come quello di Maastricht e ss.), si è visto sia cosa comporti l'attuale sistema in termini di esasperata competizione commerciale attraverso i tassi di cambio reale e gli artifici tedeschi mirati a procurarsi una posizione di vantaggio inattaccabile, attraverso una preventiva violazione dei trattati, sia attraverso la successiva imposizione del fiscal compact e del pareggio di bilancio in Costituzione.

I risultati, davanti agli occhi di tutti quelli che li vogliono scorgere, sono equivalenti a quelli di una guerra di colonizzazione (del resto d'Europa), e, nel lungo periodo, non meno devastanti; questi risultati (che il velo di un'affrettata ideologia semplificatrice ad autoassolutoria tende a ignorare), sono complessivamente disastrosi proprio rispetto all'obiettivo di una "crescita equilibrata" e rispetto alle condizioni sociali e di lavoro in cui si trovano a vivere coloro che sono costretti alla "circolazione delle persone" (in quanto cittadini UE) o alla "immigrazione" (art.3, par.2, TUE).

Ma coloro che si ostinano a portare il presunto vessillo pacificatore e solidaristico dell'UE, - senza saperla distinguere, come impone il piano normativo, dalla Unione monetaria, cioè dall'euro, strumento non "costitutivo" della personalità giuridica UE nonchè della stesso status di appartenenza all'Unione, come è palese in base all'art.3, par. 4 del TUE (letto senza infingimenti nel suo senso logico-letterale)-, non conoscono la effettiva disciplina dei Trattati, che li smentisce senza residuo di dubbio.
Il sospetto è, piuttosto, che non li abbiano mai letti e che, in ogni modo, non siano in grado di decifrarne la effettiva portata normativa.

L'Europa "fortemente competitiva", di cui parla come principio fondamentale l'art.3, par.3 - sempre accostandolo alla stabilità dei prezzi ed alla connessa e subordinata "piena occupazione" di stampo neo-classico- è, come evidenzia con inesorabile chiarezza scientifica Krugman, quella di una competizione tra Stati, rispondente alla convenienza delle posizioni espressamente antisolidaristiche contenute nel Trattato (artt.123, 124 e 125 TFUE) ed intessuta sulla guerra finanziaria e commerciale di un mercato aperto principalmente alla libera circolazione dei capitali e al dominio politico realizzato tramite l'asservimento della domanda degli Stati "vicini" alla propria produzione industriale e al proprio sistema bancario-finanziario.

Quanto tutto questo abbia a che fare con la pace e con la difesa delle condizioni sociali del lavoro, programmaticamente ricondotto a "merce", è poi evidenziabile nel fatto che, a prescindere dalla enunciazioni "per sentito dire" nonché ossequiose di slogan lanciati senza alcuna considerazione dell'effettivo sistema dei trattati, nella grund-norm dei trattati campeggia la formula, propagandistica e puramente cosmetica, della "economia sociale di mercato" (rammentiamo" fortemente competitiva"), contenuta dell'art.3, par.3, del TUE.

2- IL QUADRO NORMATIVO DEI TRATTATI E LA LORO PORTATA GIURIDICA E MACROECONOMICA.
Sintetizzando, secondo quanto già evidenziato in precedenza, questo è il quadro normativo europeo e il disegno che, in una corretta operazione ermeneutica, se ne ricava:
- in un contesto normativo e istituzionale come quello delineato dai Trattati, nella portata confermata dalle politiche attuative poi seguite univocamente da Commissione e Consiglio, nonchè nei seguenti atti modificativi dei trattati stessi, il principio della "economia sociale di mercato fortemente competitiva" (cardine dell'art.3, par.3), non può riferirsi, sul piano normativo letterale e sistematico, alla instaurazione della concorrenza perfetta, obiettivo neppure larvatamente riconoscibile nella disciplina della concorrenza di cui agli artt.101-106 del TFUE;

- per necessità logica e coerentemente sistematica, tale principio rinvia invece all'applicazione della pura legge della domanda e dell'offerta al mercato del lavoro, proprio perchè è obiettivamente connesso al perseguimento espresso di quella simultanea "stabilità dei prezzi" (equiordinato principio-cardine che si proietta su tutto il resto della disciplina dei Trattati), che vincola alla continuata deflazione salariale, quale strumento principe di controllo dell'inflazione;

- quest'ultimo principio supremo dell'ordine impresso dai trattati, a sua volta, trova immediata spiegazione solo in uno schema programmatico, culminante nel funzionamento inevitabile di qualunque area a cambio fisso governata dal solo istituto di una banca centrale indipendente "pura" unita all'esclusione, espressa e rafforzata, di ogni forma di trasferimento fiscalizzato tra i diversi Stati partecipanti all'Unione monetaria stessa(artt.123-125 TFUE);

- tale configurazione normativa esplicita ed inequivocabile determina l'istituzionalizzazione di una competizione tra Stati in forma di reciproca lotta mercantilistica, fondata cioè sul "merito" dell'acquisizione di porzioni crescenti della domanda altrui;

- ciò al punto che i criteri attuativi dello schema dei Trattati tollerano un surplus delle partite correnti, per ciascuno Stato, nella ragguardevole misura del 6% del relativo PIL, senza prevedere un efficace sistema sanzionatorio, adeguatamente correttivo,(come invece si verifica nel caso dell'indebitamento pubblico "eccessivo"), per la violazione di tale limite (già in sè equivalente a un'ampia licenza a perseguire la competizione mercantilistica);

- a coronamento ulteriore di queste conclusioni, v'è la conferma della risibile "clausola solidaristica" dell'art.222 del TFUE, attivabile nel limitato caso di "attacco terroristico" e di "calamità naturale o provocata dall'uomo", ma sempre nei limiti delle "disponibilità" di bilancio dell'UE, e fatta salva, con una certa ovvietà la (comunque esistente) facoltà del paese "colpito" di richiedere "assistenza" agli altri Stati membri; questi, peraltro, non sono tenuti a prestarla, se non sul piano della propria discrezionale autonomia negoziale di diritto internazionale, secondo uno schema che, sul piano logico-giuridico, pone gli Stati-membri nella stessa posizione discrezionale di qualunque altro Stato della comunità internazionale (non appartenente all'Unione).

Ora di fronte a queste evidenze normative, risultanti dai principi-cardine del massimo livello del diritto europeo, non è chi non veda come sia del tutto fuori luogo associare i trattati stessi, e in modo ancor più evidente, la moneta unica, al perseguimento di una qualunque finalità di "pace" e di solidarietà tra i popoli dell'Unione.

Sulla puntuale rispondenza di tale formula alle mire obiettivamente occultate dell'"ordoliberismo", propugnato prima dalla Thatcher (e ben gradito a Pinochet), abbiamo pure acquisito la fonte diretta della sua orchestrazione strategica all'interno della costruzione della "grande società" di von Hayek.
Ora von Hayek, non è identificabile come il male assoluto, ma, nondimeno, aderire ad una visione così fortemente liberista, per totale precomprensione (sarebbe da dire "rimozione") circa la sua influenza decisiva sulla costruzione europea, è obiettivamente inconciliabile non solo con l'enunciazione di un'Europa portatrice di "pace e solidarietà", ma proprio con il riconoscimento dei supremi valori sostanziali della Costituzione ancora vigente in Italia.

3. L'ADESIONE ALLA DISTINTA "UNIONE MONETARIA ED ECONOMICA" COME ELEMENTO NON COSTITUTIVO DELLO STATUS DI PAESE MEMBRO DELL'UNIONE: ANALISI ALLA STREGUA DEI PRINCIPI NORMATIVI DEI TRATTATI.
Fatte queste premesse che rinviano a un intero percorso che si snoda lungo le fonti sopra citate, ci vorremmo soffermare sulla "strana" convinzione che l'euro coincida con l'Europa, o meglio con la Unione europea, fino al punto di sostenere che rinunciare ad esso, mera opzione relativa al sistema monetario adottabile all'interno di tale organizzazione internazionale, implicherebbe il ritorno alle contese tra Stati, magari guerreggiate, ed alla fuoriuscita dalla stessa UE.
Ciò è giuridicamente errato e frutto di una alterata comprensione del testo dei trattati.
Si è già esaminata in un precedente lavoro l'ipotesi di "recesso dall'Unione" di cui all'art.50 del TUE, evidenziando come la norma sia riferibile a una clausola "speciale" di disciplina dell'ordinario istituto del recesso "sine causa" (cioè frutto di un'autonoma decisione politica dello Stato interessato), quale previsto, in termini generali, dal diritto dei trattati contenuto nella Convenzione di Vienna.

Questa ipotesi, peraltro, a ben vedere, conferma che il recesso dall'Unione, con l'effetto di far cessare lo status di parte contraente-aderente del trattato, riguarda lo status specifico di Stato-membro e pone capo ad una valutazione più complessiva che implica il libero apprezzamento politico della convenienza a rimanere vincolato al quadro socio-economico dei trattati. Questo quadro, però, va subito precisato, non implica, di per sè, quel livello più intenso di vincolo e di adeguamento dell'ordinamento interno implicato dalla successiva ed autonoma adesione all'Unione monetaria.
Passeremo perciò in rassegna il dato positivo delle clausole dei trattati.
Quella prioritariamente indicativa è il già citato art.3, par.4, del TFUE, cui, per la sua collocazione, è da attribuire natura di principio-fonte al vertice della definizione del problema.

4- LA DISCIPLINA POSITIVA DEI TRATTATI RELATIVA ALL'ADESIONE ALL'UNIONE MONETARIA.
l'art.3, par.4, recita "L'Unione istituisce un'unione economica e monetaria la cui moneta è l'euro". Da ciò possono ritrarsi alcune importanti conseguenze:
1) la istituzione dell'unione monetaria procede, come necessaria implicazione dello stesso dato letterale, come atto successivo a quello del pieno perfezionamento del trattato sull'Unione che, nel dargli vita secondo apposite procedure, presuppone di agire già nella sua compiuta ed indipendente soggettività. La configurabilità giuridica di quest'ultima, dunque, prescinde dalla istituzione della "unione economica e monetaria", sia nel senso che non è elemento costitutivo della sua "personalità giuridica" (e infatti, nell'attribuirla, l'art.47 TUE non vi fa cenno), sia nel senso, strettamente conseguenziale, che lo status di membro dell'Unione non implica l'adesione a tale fase di attuazione programmatica del trattato. Quest'ultimo, dunque, anteriormente a tale atto, configura già un compiuto ordinamento pattizio internazionale (si tende a dire "sovranazionale", per sottolineare la controversa prevalenza delle sue disposizioni sulle norme interne degli Stati-membri);

2) dunque l'unione monetaria, come atto imputabile ad un' "Unione", già dotata di presupposta personalità giuridica autolegittimantesi al di fuori dell'esistenza dell'unione monetaria stessa, comporta che l'organizzazione internazionale "Unione" non preveda nel suo "statuto" nè abbia successivamente previsto, rispetto al progressivo compimento di questa sua attività, alcun espresso obbligo di partecipazione a carico degli Stati membri, a conferma che lo status di paese aderente all'Unione non sottointenda l'adesione alla moneta come elemento costitutivo dello status stesso;

3) eloquente corollario, pienamente in linea con quanto precede, è che gli artt.139 e 140 del TFUE prevedono la figura deli "Stati con deroga", attualmente una decina, definiti come gli STATI MEMBRI "per i quali il Consiglio non ha deciso che soddisfino le condizioni per l'adozione dell'euro";

4) nè vale a rendere meno significativa la disciplina di tali artt.139-140, l'essere inseriti nel capo 5 del TFUE sotto l'intitolazione "Disposizioni transitorie": il nomen juris, in una normale operazione interpretativa recede di fronte al dato sistematico delineato dalle prevalenti disposizioni di principio finora illustrate:
- una norma è transitoria, al di là della partizione nominalistica della fonte in cui è collocata, in quanto sia soggetta ad un termine normativo, e quindi vincolante, di sua applicabilità. Ciò non si verifica per detti artt.139-140, dato che nessun termine "finale" risulta essere posto rispetto alla conclusione del procedimento di adesione generalizzata all'unione monetaria di tutti gli Stati-membri dell'Unione;
- le norme stesse non risultano transitorie anche alla luce dell'applicazione pratica che ne è scaturita; ciò in quanto regolano status ormai stabilmente compresenti nell'Unione - cioè paesi "con deroga" che permangono indefinitamente in tale loro condizione riservandosi, ad libitum , se attivare o meno la procedura di adesione. Per di più, le stesse procedure, sempre per la mancanza di un qualunque termine finale vincolante, finiscono per disciplinare, in via generale ed astratta, un allargamento dell'unione monetaria ad applicazione indefinitamente "ripetibile" (per ogni caso che si possa presentare in astratto e al di là di ogni limite di tempo).
- e non poteva essere diversamente, dato che, come abbiamo visto, l'art.3, par.4, non pone alcun termine ed alcuna obbligatorietà della partecipazione aal'UEM che, piuttosto, come risulta evidente, sono gli stessi artt.139-140 ad escludere come oggetto di obbligo, configurando una complessa procedura in cui, non solo in fase di attivazione, ma anche nella stessa fase finale di "ammissione", presuppone sempre la libera iniziativa e prestazione del consenso del Paese-membro interessato . Ciò si desume agevolmente non solo dal par.1 dello stesso art.140, relativo alla previsione di una richiesta "attivativa" (risalente all'operatività di Maastricht o successiva ai trattati modificativi), richiesta, liberamente manifestata, implicitamente imprescindibile, ma anche dal successivo par.3, in virtù del quale l'atto finale "ammissivo" nell'unione monetaria è obbligatoriamente adottato dal Consiglio "all'unanimità degli Stati membri la cui moneta è l'euro e dello Stato membro in questione". Tale Stato richiedente, quindi, anche avendo positivamente superato lo scrutinio, previsto al par.2, relativo all'osservanza dei criteri di convergenza (posti dal par.1), mantiene intatta la propria libertà , di adesione o meno all'euro, fino alla fase deliberativa definitiva, potendo semplicemente far mancare il suo consenso finale e la conseguente prescrtta unanimità complessiva (pur avendo appunto superato l'esame di convergenza deliberato dal Consiglio);
- e dunque, una procedura relativa ad una fase attuativa del trattato attivabile su richiesta dello Stato membro, ad adesione non obbligatoria in conseguenza di tale status, e non soggetta a termine finale, configura semmai una disciplina "a regime", cioè stabilmente devoluta a consentire l'ampliamento della stessa unione monetaria;
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5) l'unione monetaria, dunque, è un istituto "auspicato" ma non giuridicamente costitutivo dell'Unione europea, risultando configurato, sotto ogni profilo, come conseguenza di un provvedimento ampliativo "eventuale", di uno status autonomamente sussistente nella sua pienezza (quello cui si riferisce, semmai, il già visto recesso ex art.50 del TUE. La natura di provvedimento ampliativo implica, per corollario logico necessario, che esso sia disciplinato alla stregua dell'attribuzione "concessoria" di un quid pluris "vantaggioso", un bene della vita aggiuntivo, che può spettare al richiedente solo a condizione che attivi la relativa procedura e presti il suo consenso fino all'adozione del provvedimento costitutivo di tale status aggiuntivo (a quello di membro dell'Unione);

6) ne discende ulteriormente, che l'intero regime giuridico dell'ammissione (ad adesione coessenziale e costitutiva in quanto espressa dallo Stato interessato) divenga quello proprio degli atti c.d. ampliativi. E cioè esso risulta costantemente mantenibile a condizione del protrarsi del consenso coessenziale del paese "beneficiato". Come una licenza-autorizzazione edilizia ovvero come una licenza per la vendita degli alcolici, il titolare avrà sempre e comunque, in omaggio alla libera disponibilità volontaria del bene "aggiuntivo" attribuitogli dall'Autorità concedente, la facoltà di rinunciarvi e di sottrarsi in tal modo al complesso dei controlli e sanzioni che condizionano, nell'ambito della funzione pubblicistica del provvedimento ampliativo, il successivo rapporto di durata con la stessa Autorità concedente;

7) ciò, va ribadito, configura tale libera disponibilità come principio di civiltà giuridica comune alla nazioni civili e non ha bisogno, per poter essere affermato, della esplicita previsione di una procedura eguale e contraria per poter essere ammessa: la cessazione degli effetti dell'atto ampliativo consegue naturalmente al contrarius consensus del "beneficiato", poichè, ove si negasse ciò, l'atto ampliativo, con la sua base "causale" di necessaria e perdurante prestazione del consenso da parte dell'istante, si trasformerebbe diversamente in atto ablativo, cioè espropriativo proprio di quella stessa volontà dispositiva dei propri interessi insita obiettivamente nel sistema degli artt.139-140;

8) mentre, d'altra parte, sarebbe contrario allo jus cogens contenuto nella Convenzione di Vienna, la prestazione di un consenso irretrattabile, rispetto ad una situazione di durata che è pur sempre necessariamente soggetta alla regola di diritto internazionale generale del "rebus sic stantibus". Circostanze sopravvenute e non pienamente previste e prevedibili dalle parti: tipicamente una prassi applicativa dei trattati, praeter ac contra legem, intesa ex bona fide, che renda insostenibile il mantenimento dell'insieme congiunto dei "criteri di convergenza". Cioè, poi, esattamente la situazione che, come ci dicono gli evidenti dati macroeconomici sugli squilibri commerciali, e conseguentemente fiscali, venutisi a creare nell'ambito dell'unione monetaria, ci troviamo oggi a fronteggiare.

5- LA FUORIUSCITA DAL QUADRO UEM COME RIAFFERMAZIONE DELL'AUTONOMIA NEGOZIALE PREVISTA DAGLI STESSI TRATTATTI E COME INCENTIVAZIONE DEL LIBERO PROCESSO NEGOZIALE "VERSO UNA NUOVA EUROPA".
La conseguenza di tutto quanto sopra illustrato, dunque, è che non soltanto un paese può direttamente e liberamente revocare il proprio consenso costitutivo, secondo lo stesso regime di adesione contenuto nei trattati, del suo status di "paese membro la cui moneta è l'euro", ma tale autonoma decisione, pienamente in linea col regime giuridico dei trattati, pone capo, senza alcun dubbio, alla conservazione della piena qualità di Stato membro.

A tale Stato, peraltro, si applicherà automaticamente la disciplina prevista, sotto il profilo delle politiche monetarie ed economico-fiscali, per gli Stati "con deroga". Essa comporta:

I) la sottrazione al regime sanzionatorio per "disavanzo eccessivo" previsto dall'art.126 del TFUE, come espressamente prevede l'art.139, par.2, lettera b);

II) la sottrazione agli indirizzi di massima per le politiche economiche concernenti, ai sensi dell'art.121, par.2, i soli paesi dell'area-euro, come prevede lo stesso art.139, par.2, lettera a), nonchè la simultanea sottrazione a tutti gli altri meccanismi di vincolo previsti dalle restanti lettere dello stesso par.2;


III) la sottrazione allo stesso obbligo di incondizionato adeguamento della disciplina della propria banca centrale agli artt. 130 e 131 del TFUE, nonchè agli stessi limiti di azione sanciti dall'art.123 del TFUE (il ben noto divieto di acquisti diretti di titoli del debito pubblico), dato che il mancato o incompleto adeguamento dello Statuto della banca centrale al regime dei trattati è esclusivamente "sanzionato" con la preclusione, per difetto del primo dei "criteri di convergenza", alla "ammissione" nell'unione monetaria, cioè proprio a quel meccanismo a cui, lo Stato membro ridivenuto "con deroga", si è appena sottratto. Eloquente esempio di ciò è la Bank of England, tra l'altro, una delle più importanti non solo all'interno della stessa Unione ma dell'intero panorama finanziario mondiale.

IV) la sottrazione all'osservanza immediata dei più stringenti obblighi fiscali previsti dal "TRATTATO SULLA STABILITÀ, SUL COORDINAMENTO E SULLA GOVERNANCE NELL'UNIONE ECONOMICA E MONETARIA" c.d. "fiscal compact", che infatti al suo art.14, par.5, prevede, in termini non equivocabili: "Il presente trattato si applica alle parti contraenti con deroga, quali definite all'articolo 139, paragrafo 1, del trattato sul funzionamento dell'Unione europea, o con esenzione, di cui al protocollo (n. 16) su talune disposizioni relative alla Danimarca allegato ai trattati dell'Unione europea, che hanno ratificato il presente trattato, dalla data di decorrenza degli effetti della decisione di abrogazione di tale deroga o esenzione, a meno che la parte contraente interessata dichiari che intende essere vincolata, in tutto o in parte, dalle disposizioni dei titoli III e IV del presente trattato prima di tale data"

Non vanno perciò sottaciuti, in questo quadro, gli enormi vantaggi che ne scaturirebbero proprio per un recupero della capacità negoziale italiana con riguardo alla revisione del quadro complessivo dei trattati.

L'Italia, mantenutasi a pieno titolo nella qualità di uno dei più importanti Stati membri dell'Unione, potrebbe far valere con effettività le sue posizioni verso un rilancio del quadro cooperativo e solidaristico dell'Europa, col superamento dei difetti genetici e funzionali che oggi rendono sempre più insostenibile l'unione monetaria.
Questo in quanto potrebbe nuovamente dare il suo tradizionale apporto, di fondamentale paese "fondatore" della costruzione europea, senza essere astretta dai vincoli e dalle sanzioni che oggi non solo smorzano sul nascere la sua autonomia negoziale, ma la costringono ad inseguire politiche economico-fiscali eteroimposteche, dati i difetti macroscopici di impostazione (monetarista e liberista) della moneta unica, le impediscono di promuovere, sui trattati stessi, quelle modifiche esponenziali dei principi inviolabili del proprio ordinamento costituzionale.
Con ciò potendosi anche, nella permanenza della qualità di Stato membro, e tuttavia non invasiva della sua autonomia monetaria e fiscale, correggere la contrarietà sempre più pronunciata dell'applicazione dei trattati ai prerequisiti di loro recepimento post dall'art.11 Cost.
, quali illustrati nella prima parte.

mercoledì 27 novembre 2013

IL "TAPPO" DEL PUD€ SALTA: PROPAGANDA MEDIATICA SENZA RETE (ma ancor più, "a reti unificate")

La pentola si sta veramente allargando a dismisura. E il coperchio è saltato.
Eravamo rimasti a evidenziare come: "questa "epurazione" sia un segno di eccessiva sicurezza: perchè la forza monopolistica mediatica del "controllo istituzionale sovranazionale", perderebbe, entro poco, il "villain", la cui presenza in scena era fondamentale per poter proseguire, contro ogni realtà dei fatti, nella falsificazione su cause e rimedi della crisi. Il che apre uno spiraglio di incertezza (almeno questo) sulla efficacia e sulla irreversibilità della "loro" strategia di distruzione della democrazia dei popoli."
Tra l'altro, guardate qui che "buchino" nei conti dello Stato si crea, al netto della una tantum che, tra tre anni, esauritine gli effetti, obbligherà ad alzare le tasse per ripagare i profitti corrisposti alle banche "azioniste" (per grazia ricevuta da privatizzazioni "ce-lo-chiede-l'europa").

Ora alla deflazione e all'imminente "mattanza alla greca" determinata dall'imminente applicazione del pareggio di bilancio, non è possibile frapporre più alcuno schermo propagandistico: la telenovela potrà non finire ancora, ma ormai ha fatto il suo tempo.
Persino il puddino sarà senza rete se non quella di continuare, sempre più in patetica solitudine, a giustificare il disastro come il frutto del ventennio che non è un ventennio.
Il re perde la faccia (ma così neanche troppo, considerando che tra Cassibile e Brindisi molto può ancora dire), ma ora dovranno per forza arrivare al 25 luglio del regime puddino. Stavolta non hanno scampo.

martedì 26 novembre 2013

APPENDICE DI PESCARA. LA PARTE "NON DETTA" DELL'INTERVENTO DI CESARE POZZI. C'è un futuro per l'economia italiana?

Sì lo so: il titolo può risultare angosciante. E mi scuso subito se non ho fatto sempre parlare Cesare fino in fondo: ciò è dovuto al mio volerlo "stanare" sulle soluzioni praticabili. Ma anche alla preoccupazione, tutta mia (e come tale discutibile, lo ammetto) di "proteggervi" dalla schiacciante evidenza circa gli effetti irreversibili della devastazione del know how e della capacità industriale provocati da 15 anni di euro.
Intanto potrete ritrarre dal filmato un notizia significativa: la Cina già nel 1820 aveva il primo PIL mondiale. E ciò non ha impedito certo nè la seconda rivoluzione industriale nè la stessa crescita europea (certo, ancorata alla visione colonialista del mercato di "sbocco"), portata avanti dagli Stati nazionali.
Nel complesso, il discorso focalizza una possibile prospettiva positiva.
La si intravede soltanto, e richiede una chiarezza strategica molto accurata e tempestiva, come evidenzia Cesare, ma c'è. Ci torneremo e, proprio con Cesare, ci stiamo lavorando, consci dell'esigenza che ciò coinvolga il ripensamento istituzionale dell'assetto italiano . Che è poi un recupero della Costituzione "primigenia", rispetto agli elementi "spuri" del pareggio di bilancio e della stessa riforma del Titolo V.
Aggiungiamo che, per le caratteristiche strutturali dell'economia italiana, è più che mai una scelta necessaria: ma solo avendo la guida dello Stato nazionale democratico, in definitiva, la si può realisticamente perseguire, collocandosi, notate bene, proprio all'avanguardia di uno sviluppo sostenibile, guidato dalle conoscenze prodotte dal territorio; da ciascun territorio democraticamente governato con il coinvolgimento dei cittadini nella loro piena dignità.
E anche: certamente, solo questo sviluppo sostenibile può evitare il suicidio planetario, ma solo se non serva come formula (ipocrita) per mascherare una nuova colonizzazione tecnologica su scala globale (e intrisencamente contraddittoria rispetto ai suoi fini apparenti, contrabbandati dai media).
Se si realizzerà questa anticipazione di modello "pilota", italiana, non solo avremo salvato la nostra democrazia, ma avremo anche sconfitto l'internazionalismo finanziario della delocalizzazione.
La reingegnerizzazione industriale, non distruttiva delle limitate risorse del "fondo" ambientale, di cui si parla ampiamente, mostra una difficile via che presuppone una coscienza culturale di cui le forze che oggi governano l'Europa sono completamente prive.
Per il semplice fatto che parlano di tutela ambientale, certo, ma solo in termini di politiche di imposizione sanzionatoria-fiscale e di incentivi (supply side), senza governare il processo in termini di risorse pubbliche effettivamente disponibili e incontestabilmente accettate nella misura razionalmente necessaria: e ciò per non interferire nel dogma della libera circolazione dei capitali, svincolandolo dalla assoluta priorità politico-fiscale dell'investimento in "conoscenze", vuotamente enunciato ma del tutto subordinato al deleverage e al consolidamento fiscale a favore del sistema bancario visto come attore principale, se non unico, del fenomeno economico.
Tant'è vero che la stessa governance europea se ne cura solo in via subordinata ad una strategia che mira sempre più al libero-scambismo orientato verso l'unificazione col mercato nordamericano e verso l'accelerazione dello "Stato minimo".
Su questi ultimi oggetti, la riflessione potrà essere ulteriormente estesa.

E poi, comunque, nonostante la lunghezza, sarà sempre meglio di Ballarò :-)




lunedì 25 novembre 2013

1° ANNIVERSARIO DEL BLOG - LIBERISMO E LEGALITA' COSTITUZIONALE (o noi o "loro")

PREMESSA: oggi il blog compie un anno di vita. Ma bando alle ciance di circostanza. La situazione è sempre più grave e sempre meno seria. Per "festeggiare" questo compleanno "in trincea", vi propongo un post che cerca di andare al vero nucleo del problema complessivamente affrontato dal blog. E ciò nella sua tragica e scottante attualità: perchè "i nodi stanno venendo al pettine" e la campana suona sempre più forte...
Ovviamente un ringraziamento e un grande abbraccio a tutti voi che mi avete sostenuto costruttivamente e dato analisi e informazioni preziose nello sviluppo del discorso (un discorso che, nel suo "piccolo", si è allargato a circa 600.000 contatti). Posso dire che, appunto grazie a voi, il blog risulta, obiettivamente, il "cutting edge" culturale nel panorama italiano. Per un recupero della democrazia
.

1. Lorenzo Carnimeo pone questa articolata questione:
"...Tu quindi sosterresti che l'involuzione regressiva potrebbe essere "insita" nella politica liberista, la cui "norma fondamentale" (a questo punto -se non erro- descritta da Von Hayek nei suoi aspetti giuridico politici), cozza contro quella di "qualsiasi democrazia" così come la conosciamo, e quindi pertanto delle due l'una: o il liberismo, o la democrazia parlamentare basata sul suffragio universale.
L'esperienza, sia storica che attuale, sembrerebbe confermarlo. Da un lato, le società liberiste ottocentesche ammettevano il suffragio censitario e si mostravano insofferenti verso l'evoluzione in senso parlamentare della democrazia (vedi Italia di fine '800). Dall'altro, oggi, si cerca di "aggirare" i meccanismi della democrazia "proprio" per dare al liberismo la sua espressione più compiuta (approccio paternalistico de "il popolo va costretto perché non lo vorrebbe mai", delegittimazione delle istituzioni democratiche per via mediatica e tramite retorica della corruzione e di una presunta "incapacità di fondo" della politica di essere responsabile della sovranità conferitale, immagine della spesa pubblica come "spreco" a prescindere).
Qualora il liberismo accettasse di sottomettersi alle regole democratiche, semplicemente dovrebbe accettare di non realizzarsi mai!

E' sicuramente da approfondire. Ti domando però: in società anglosassoni, caratterizzate da una forte tradizione parlamentare (USA, UK), le due cose sembrano coesistere. Si tratta -allora- di una convivenza forzata e/o solo apparente? Quanto l'affermazione delle politiche liberiste ha compromesso, anche lì (ancorché in maniera meno appariscente) i meccanismi della democrazia?
O forse il carattere apparente della convivenza è dimostrata dalle misure poste in essere dalle banche centrali e dai governi di quei paesi, che, arrivati al punto di scegliere tra liberismo integrale e democrazia, hanno scelto, in entrambi i casi la seconda (al contrario dell'europa continentale dove sembra prevalere il primo?)."

2. La mia risposta è stata questa, nel contesto del dibattito:
"Caro Lorenzo, il libro illustra per esteso il punto.
Dipende da quale modello costituzionale, cioè legale-supremo, assumi. UK, ad esempio, non ritenne di creare (ed aggiornare) una Costituzione rigida: l'affermazione dello Stato interventista del welfare, a partire dal famoso "Rapporto Beveridge", fu possibile grazie all'affermazione politica del partito laburista.
Negli USA, abbiamo una struttura costituzionale diversa, certamente fondata su una visione liberale settecentesca, che spetta alla Corte Suprema aggiornare, in funzione della sensibilità politica in evoluzione. Ma hanno una banca centrale con una diversa mission, volta alla (più o meno) piena occupazione.

Non è un caso quindi, che le democrazie europee:
a) da un lato abbiano registrato la proposizione del super-trattato come simulata evoluzione, internazionalista, delle Costituzioni dei diritti fondamentali (per farne accettare, in una cornice etica contraffatta come omogenea, la strisciante disattivazione);
b) dall'altro, vedano attualmente la stretta finale dell'attacco alle Costituzioni del welfare in nome di un preteso adeguamento (del tutto pretestuoso) al mondo che cambia ("la Cina")."Strano", (no?) nota bene, come negli USA non si parli di cambiare una Costituzione molto più risalente e meno dettagliata, sul piano delle implicazioni "Stato-garanzia dei diritti fondamentali".
Eppure anche per loro il mondo cambia e c'è, più che mai, la Cina.

Questa mistificazione (che nasconde il vero scopo dell'attacco sistematico alle Costituzioni), tipica dell'età neo-liberista, passa in Europa, per l'alibi della sovraesposizione dei diritti cosmetici (che, come illustro, sempre nel libro, cercano ipocritamente di affermare la fine dell'età del "bisogno")."
3. Ma una più approfondita riflessione mi porta a ritenere che sia necessaria qualche ulteriore puntualizzazione.
La democrazia dei diritti fondamentali, nella forma accolta in Costituzione, basata sull'obbligo di attivazione delle istituzioni di "governo", per rendere effettivi i diritti nella loro specifica portata assunta come "sociale", viene indicata, da Mortati stesso, come "forma necessitata".
Cioè affermatosi un concetto di democrazia capace di riassumere gli interessi equiordinati di tutti i cittadini senza distinzione di classe (sesso e credo reglioso), la democrazia o "vive" in questo obbligo di attivazione, e quindi nella realtà di politiche pubbliche rispondenti ai diritti fondamentali (di cui il lavoro, serve forse ripeterlo, è il primo) o "non è".

4. Il liberismo, per definizione, è uno schema diametralmente opposto alla democrazia "necessitata" accolta dalla nostra Costituzione.
Se non altro perchè esso postula, esattamente come i trattati UE, la proposizione astratta della "forte" concorrenza. Abbiamo visto come la "concorrenza perfetta", sul lato dell'offerta, non sia affatto predicata nè dai teorici del neo-liberismo (scuola austriaca, in primis), nè dai trattati.
Si ammette sia il fenomeno dell'oligopolio, predicandone il limite sfuggente della "non abusività" (una sorta di "licenza di rendita", purchè non si esageri...in danno degli altri concorrenti), sia un concetto dinamico di monopolio, e come tale lecito, a condizione che si riveli transitorio o comunque non portatore di "abusi", via via che i mercati si sviluppino nella loro naturale dimensione internazionalmente allargata. Solo lo Stato, con la sua fissità territoriale, e la sua correlata sovranità, sarebbe il responsabile dei monopoli da vietare (cfr; pur nella terminologia sfumata, gli artt.101, 102 e 106 del TFUE).

Ora, questa idea di concorrenza "fisiologicamente imperfetta" - non a caso chiamata nel diritto antitrust a matrice anglosassone "workable competition"- opererebbe, rispetto alla platea dei "produttori", mentre si suppone che il fattore finanziario, in regime di liberalizzazione della circolazione dei capitali, sia in sostanziale concorrenza perfetta, ignorando la frequente "nazionalizzazione" e settorializzazione degli interessi finanziari; ciò implica, che il puro agire della domanda e della offerta, al di fuori cioè di situazioni di vischiosità strutturale e di rendita, viene dallo stesso liberismo accettato come residuale.

5. Ma a quale "residuo" viene considerata incondizionatamente applicabile?
Al mercato del "lavoro", tanto che tutta la teoria macroeconomica neo-classica, si incentra sulla teorizzazione del lavoro come "merce", soggetto esclusivamente alla legge della domanda e dell'offerta (altrimenti si predica l'inefficienza del sistema, anzi, della stessa "struttura del capitale", secondo von Hayek).
Da qui i corollari della disattivazione dell'intervento dello Stato nell'economia, che viene visto come creatore di privilegi distorsivi a favore dello scambio puramente "libero" tra lavoro e salario, nonchè della stabilità del valore della moneta, in assenza di tensioni inflattive. Queste, infatti, sarebbero sempre il sintomo di rigidità nel mercato del lavoro, che provocherebbero eccessi di pretese retributive, (considerate normalmente agevolate dall'esistenza della spesa pubblica ad orientamento sociale-redistributivo).

Se questa è l'essenza del (neo)liberismo, confermata nei trattati dall'art.3, par.3, inteso nelle sue priorità proiettate su tutte le altre norme europee, è agevole rilevare che esso risulta inconciliabilmente in contrasto con le Costituzioni democratiche, interventiste, pluriclasse e incentrate sulla tutela integrale del lavoro (non cioè volte, come i trattati, alla mera "piena occupazione" intesa come qualsiasi livello di impiego raggiungibile in situazione di libera azione della legge della domanda e dell'offerta e di stabile riduzione delle aspettative di inflazione).

6. Le conseguenze pratiche del riaffermarsi del liberismo, o capitalismo "sfrenato" (secondo Popper), fondato sul lavoro merce, sono ben tangibili e immediate, in termini di sopravvenuta irrealizzabilità del dettato costituzionale (de facto e senza passare per le procedure di revisione costituzionale, che, tra l'altro, in materia neppure potrebbero intervenire, trattandosi di principi fondamentali riconducibili all'art.139 Cost.).
In un precedente post, si è sottolineato
:
"...ci permettiamo di rammentare alcuni passaggi ermeneutici, "sistematici", che consentono di meglio comprendere l'art.41 Cost., (e tutta la Costituzione economica di cui abbiamo parlato in questo post di Sofia dove è detto, come esempio di corretta interpretazione sistematica: "La tutela del risparmio in quanto tale, come valore economicamente e socialmente rilevante, sta a significare che non solo uno dei precisi compiti della “Repubblica” è di difendere come valore in sè la moneta, che è l’istituto giuridico (multiforme) in cui si traduce la liquidità, ma anche il reddito cioè il flusso di ricchezza che dà orgine alla stessa formazione del risparmio (il che è proprio un corollario dei principi degli artt. 1 e 4 Cost. ndr).
...Ciò anche per il fatto che non si tratta di un valore costituzionale isolato e da perseguire astrattamente (cioè mediante intepretazione estrapolante e asistematica ndr.), ma è la sintesi della costituzionalizzazione di una serie poteri concatenati...Le connessioni con altre norme costituzionali rilevanti sono facilmente deducibili (interpretazione sistematica, che è poi quella che usa la "stalinista" Corte costituzionale): ...MA ANZITUTTO, LA REPUBBLICA GARANTISCE CHE LA POSSIBILITA’ STESSA DEL RISPARMIO CI SIA, NON CHE IL RISPARMIO NAZIONALE DIVENGA ADDIRITTURA NEGATIVO COME IMPLICA IL FISCAL COMPACT").
...Tornando all'art.41 Cost., mi limiterò ad alcuni cenni (su questo poderoso problema che deve trovare, scientificamente, sempre soluzioni sistematiche e senza precomprensioni "estrapolatrici): non è vero che il nostro sistema disconosca e collettivizzi l'attività imprenditoriale e la figura dell'imprenditore
".

Quindi, una volta prevalente, in via politica (sovranazionale), la volontà di riaffermare il modello liberista, tramite un'applicazione progressiva ed inesorabile, imponendo ai parlamenti di rilegiferare il lavoro come merce, ciò implica inevitabilmente il transito verso un sistema diverso da quello costituzionale.

7. Questa situazione di rottura della legittimità costituzionale potrebbe, in astratto, verificarsi solo se si manifestasse un Potere costituente (cioè ascrivibile al popolo nella sua unità identificativa della sovranità), che assumesse esplicitamente questo modello in base all'univoco consenso dello stesso popolo sovrano. Diversamente si tratterebbe di un atto eversivo.
Non a caso Carli, nel definire l'appropriazione (extra-legem) della pretesa indipendenza della banca centrale dal governo-parlamento, parlò, a suo tempo, di atto "sedizioso".
Sono gli stessi epigoni attuali del liberismo internazionalista della finanza globalizzata a porre, dalla loro angolazione, il problema in questi termini.
Cioè gli stessi neo-liberisti, abbandonando ormai ogni velatura alla loro autoaffermazione autoritaria, pongono il problema strategicamente : cioè cercano una soluzione istituzionalizzata del nuovo assetto di potere, a vari livelli di enunciazione, esplicita negli studi "privati", camuffata tra altri concetti mimetici o "cosmetici", di valore normativo pari a "zero", nei trattati UE - e la affermano in termini di "o noi o loro".

8. Il punto, allora, è se i cittadini dei paesi democratico-costituzionali siano simmetricamente capaci di un comportamento strategico di estrema difesa di fronte a questa aggressività (mediatica e istituzionale sovranazionale). Una estrema difesa che esigerebbe una diffusa consapevolezza culturale dei presupposti storici e socio-economici della democrazia intesa nel suo senso sostanziale, e non meramente procedurarle-formale.
Solo compiendo questa operazione culturale, di portata molto pratica, i cittadini, titolari dei diritti che danno contenuto alla stessa democrazia, saranno in grado di rivendicare la propria angolazione, contestando sia il concetto di aggiustamento (deleverage, pro-creditori) sia l'inarrestabile invadenza dei portatori istituzionali-UEM di questa aggressione, perseguita ormai in forma di lotta totale.
E questo ci rammenta che la democrazia può definirsi "viva" in quanto si esprima nella continua vigilanza attiva che rinnovi il senso radicato di quei diritti e la consapevolezza delle lotte coraggiose e degli sforzi costanti ed alterni che hanno portato alla loro affermazione.
Una vigilanza democratica che esige il profondo convincimento che una società giusta e libera non può mai considerarsi un risultato acquisito e da dare per scontato, avvinti dalla pigrizia di illusori e confortevoli materialismi, pronti a svanire per la mano predatoria degli stessi che li hanno indotti come artificiali bisogni.
Anche tenendo ben presente che non sono stati certo gli stessi cittadini a dire, per primi, "o noi o loro".

sabato 23 novembre 2013

"CE LO CHIEDE L'€UROPA". UNA CRISI DI RIGETTO ORMAI "CORALE".

Cerchiamo di essere pragmatici. Come abbiamo già visto, la questione delle privatizzazioni è un autentico "turning point" nell'emersione dello scontro tra "interesse nazionale", evidente e tanto obiettivo da sollevare una vera opposizione svincolata dalla stessa appartenenza politico-ideologica, e aspirazioni alla deindustrializzazione-colonizzazione definitiva in salsa UEM.

Non è che le improvvide privatizzazioni siano più "gravi" del restante apparato di regole sovranazionali che penalizzano l'Italia in violazione dei principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale.
Basterebbe citare, alla luce dell'art.11 Cost., l'assunzione, già con Maastricht, di un sistema di vincoli fiscali, imperniati sulla genetica fissazione di un debt ceiling, in situazione di macroscopica disparità tra Italia e paesi europei più "importanti", che hanno consapevolmente voluto congegnare l'euro come un inevitabile sistema di competitività fra Stati, imponendo infatti il limite del 3% che, guardacaso, è l'onere degli interessi sul rispettivo debito sovrano che Francia e Germania, non hanno mai superato.
Aspetto decisivo del "vincolo" €uropeo che, come abbiamo più volte evidenziato, ritroviamo oggi alla base di quella distruzione del livello minimo di investimenti pubblici in infrastrutture adeguati nel tempo che si è ripercosso nella dissoluzione del territorio sotto il profilo ambientale e idrogeologico.

Ora le privatizzazioni hanno la "sfortuna", per i nostri decidenti proni ai diktat della Commissione, di dover essere deliberate proprio mentre il territorio mostra le conseguenze luttuose dello stato di abbandono, acuito dal fatto che la logica del consolidamento fiscale "perpetuo" rendeva conveniente, ad enti locali disastrati dai vari "patti di stabilità interna", incassare i contributi e anche l'ICI, l'IMU, Tarsu
e ogni altra diavoleria di pressione tributaria all'uopo escogitata per "far quadrare i conti", in una situazione di indebitamento privato che, con l'aggravarsi post 1999 della nostra posizione netta sull'estero, ci ha posto sempre più in una condizione insostenibile.
Che poi questo "timing" non sia casuale, preannunzia, in realtà, che tutti i nodi stanno venendo al pettine. Cioè non solo disastri ambientali si accoppiano alla intempestività antieconomica della privatizzazioni, ma questi fenomeni spogliano di ogni mascheramento la stessa connessione con il livello di disoccupazione dilagante e con la rinuncia sistemica, €uro-vincolata, ad ogni forma di politica industriale, (termine, a un certo punto, divenuto, una sorta di bestemmia, contraria alla logica della "competitività" propria dell'€uropa).

Da parte della "politica", con ritardo ormai clamoroso, e vuotezza di sbocchi tempestivi e assistiti da un minimo di capacità negoziale effettiva, si equivoca che la crescita debba, non si sa come e quando, ridivenire al centro dell'agenda europea.
Ma al massimo si parla del problema della governance finanziaria, cioè della creazione (adesso? A buoi usciti dalla stalla?) di eurobonds o di irrealizzabili "trasferimenti" all'interno dell'area euro, con una irrealistica chiamata ad associarsi rivolta ai titubanti francesi. Troppo poco, troppo tardi, troppo inefficace rispetto alla attitudine a riprodursi degli squilibri commerciali tra paesi dell'eurozona, ormai avviluppati da una crisi da domanda generata esclusivamente dalla stessa €uropa, attitudine che non viene neppure ancora ammessa nei suoi esatti termini e responsabilità.

Insomma, non sarà questa o quella voce individuale a decretare che il solo accettare che Olli Rehn possa ancora pontificare sulla realtà economica italiana sia ormai circondato da un unanime crisi da rigetto.
Sentite cosa scrive, in perfetta (ma autonoma) linea con quanto sostenuto qui e, certamente, altrove sul web, una voce "diplomatica" e istituzionale che non può certo essere definita antieuropea:
Enrico Letta sostiene che bisogna avere i conti in ordine e le carte in regola per potersi fare sentire in Europa. Cosa dobbiamo dimostrare ancora a Bruxelles? Che la cura imposta da regole miopi e ritagliate su situazioni economiche in periodi di crescita stanno producendo la deindustrializzazione del Paese e un tasso di disoccupazione mai visto? A Letta, come a molti leader europei, sembra sfuggire che la marea euroscettica ed anti euro sta montando in maniera vertiginosa e rischia di travolgere i fragili argini frapposti dai partiti tradizionali in vista delle prossime elezioni del Parlamento Europeo. L'Europa attuale non è in grado di sviluppare politiche di crescita e non ha gli strumenti per assicurare occupazione e lavoro.

Di fronte alla drammatica situazione in cui versano migliaia di famiglie e di imprese le parole di Olli Rehn, un burocrate che ha fatto carriera nelle istituzioni europee, appaiono deliranti. L'Italia come altri paesi non puo' più accettare le regole europee che esprimono una politica sbagliata e stigmatizzata come nociva alla crescita dai principali partners commerciali dell'Europa come USA e Cina. Intanto Angela Merkel mette in guardia contro ogni tentativo di porre un freno al suo export, preoccupata di conservare la rendita di posizione di cui gode, in una situazione di competitività decrescente della sua industria.

Per l'Italia è tempo di lanciare un solido piano di politica industriale, con investimenti destinati alla sistemazione del territorio, alle infrastrutture, alla ricerca, all'innovazione, anche se questo dovesse comportare lo sforamento dei parametri brussellesi. Questa è la scelta che un governo degno di questo nome dovrebbe fare e non svendere i pochi gioielli di famiglia rimasti per soddisfare le esose richieste di una governance europea sempre meno credibile

Prese di posizione come questa, non più isolate, non sono di poco peso: indicano come il venire "i nodi al pettine", stia facendo tracimare una crisi di rigetto collettiva, per manifesta inadeguatezza del sistema euro, che, nei prossimi mesi dilagherà travolgendo gli argini dell'ipocrisia del "lo vuole l'Europa", fino al punto da rendere questo formula non solo inservibile come strumento di "illusione finanziaria" neo-liberista, ma addirittura da creare, nella crescente parte consapevole del Paese, a cominciare dai ceti c.d. "produttivi", una messa in mora dell'intera classe politica nel saper affermare decisamente il contrario: cioè lo vogliamo "noi" italiani, perchè ciò è veramente necessario a un'operazione di necessaria salvezza nazionale DALLA STESSA €UROPA.

Per le sue immediate connessioni con questa emergenza di immediata e totale revisione delle politiche seguite da un (triste) ventennio, ben oltre il casus belli delle privatizzazioni, vi riproduco un'intervista rilasciata all'Avvenire da Cesare Pozzi, indicativa in sè, del timing distrastroso cui stanno andando incontro le politiche del PUD€:

D: Ce lo chiede l’Europa, che vuole un abbattimento netto del debito. Non è d’accordo?
R: Di questo passo, il mantra di Bruxelles che impone delle misure ai singoli Stati e puntualmente le ottiene, sta diventando una condanna. Siamo entrati in una crisi globale e per merito dell’austerity abbiamo fatto peggio. Non è un momento particolarmente felice per la burocrazia del Vecchio continente e, comunque, la Commissione ha già chiesto tanto e noi abbiamo dato in abbondanza.

D: Cosa non la convince del dossier privatizzazioni?
R: È un tema da inquadrare molto bene: si possono vendere società controllate o partecipate dallo Stato, ma occorre farlo valutando caso per caso. Prima dobbiamo chiederci qual è il tipo di mission di queste aziende e cosa possono fare sul territorio. Si parla tanto della cessione di quote di Terna, ad esempio, e io penso che lo Stato in una fase così delicata per il mercato dell’energia, possa al contrario chiedere in questo campo di investire di più.

D: Teme la svendita dei gioielli di famiglia?
R: No, è sbagliato pensare solo alla generazione di cassa. Le questioni aperte sono tante e vanno dai contratti di concessione, alla rete dei fornitori fino al rapporto di queste società col territorio e con le loro comunità di riferimento. Il futuro di aziende come Eni, Enel o Ferrovie deve rientrare in un dibattito pubblico sul futuro industriale del Paese.

D: Non c’è nulla che merita di essere almeno in parte ceduto?
R: Forse si può mettere sul mercato una rete Rai, ma quanto vale e chi può comprarsela? Se arriva un soggetto straniero, è necessario capire le motivazioni strategiche che lo spingono a muoversi. Iniziamo a fare i conti sulle privatizzazioni del passato: dovremmo chiederci non solo quanto lo Stato ha incassato dalla vendita, ma anche quanto ha rinunciato in termini di dividendi e quanto è stato pagato all’estero. Telecom è un caso emblematico: era la più grande impresa europea e ora cosa è rimasto? L’industria delle telecomunicazioni sembra esser stata dimenticata da tutti. Il vero rischio è fare operazioni che indeboliscono il Paese generando non creazione, ma distruzione di valore.

D: È la rivincita di Keynes in tempi in cui il libero mercato gode ancora di buona fama, nonostante gli eccessi dimostrati dalla crisi...
R: Il mercato non può tutto: i cinesi forse si preoccupano di rispettarne le regole? Semmai è cruciale discutere sulle leve strategiche da preservare per lo sviluppo del Paese, riportando capitali freschi nelle attività imprenditoriali. Bisogna attirare nuovi fondi, non solo sul mercato azionario.