venerdì 31 maggio 2013

SE VUOI DRIZZARE UNA COSA, IMPARA PRIMA A STORCERLA DI PIU'

Da "El Svissero", riceviamo e volentieri pubblichiamo, questo post: una chiave di lettura interessante e per molti versi illuminante. Purtroppo non sono riuscito a riprodurre in pieno le "mappe", ma il succo del discorso è pienamente comprensibile. E non è nulla di rassicurante.

Se vuoi drizzare una cosa, impara prima a storcerla di più


“Una delle gabbie mentali dell'uomo moderno è rappresentata dallo sforzo di trovare soluzioni nuove e creative a problemi fino a quel momento irrisolti. […]
        
Sin dall'antichità osserviamo il ricorso allo stratagemma di orientare il pensiero nella  direzione contraria a quella desiderata affinchè la mente possa aprire nuovi scenari nel senso opposto. Si tratta di costringersi a complicare il problema da risolvere o a  peggiorare la situazione che vorremmo migliorare, analizzando concretamente tutte le  possibilità in tale direzione. […]”

                                                        G. Nardone - Cavalcare la propria tigre” (2003)




Le mappe causali.

Le mappe e il mappare possono essere inserite nel contesto degli studi strategici della percezione e della cognizione. Tradizionalmente le mappe hanno enfatizzato il concetto di 'relazione spaziale'; sono il surrogato dello spazio e sono state informalmente descritte come uno schizzo per comunicare un senso del luogo, un certo senso del 'qui' in relazione ad un 'lì' (Weick, 1990). Una mappa di una città, di un centro commerciale, di un campus universitario, è priva di utilità fino a quando non si individua il 'voi siete qui'. Le mappe, infatti, mettono le persone dove si trovano, sia letteralmente che figurativamente. Il concetto di relazione spaziale è una qualità  della mente umana per comprendere qualsiasi cosa, il che è probabilmente la ragione per cui le metafore di mappe abbondano.

La relazione spaziale è una parte importante della vita organizzativa ma nonostante l'enfasi sullo spazio, quello che è interessante delle mappe strategiche è che sembra anche che esse catturino il tempo. Le mappe che rappresentano la causalità, descrivono logiche o sequenze, tutte catturano relazioni temporali: SE questo (nel 'adesso') ALLORA quello (nel 'futuro').

Non solo le mappe enfatizzano e catturano relazioni spaziali e temporali, ma anche l'attività di classificazione e attribuzione di 'cose' a 'classi'. “Nominare è sempre classificare, e mappare è essenzialmente lo stesso che nominare” (Bateson, 1979). Il contenuto delle mappe consiste essenzialmente in differenze. Una mappa è una sorta di sommatoria di differenze, organizzando le differenze nel territorio (Bateson, 1979).

Mappe e Territorio - la mappa non è il territorio (Korzybski, 1933)

Gli uomini vivono in due mondi, il mondo degli eventi e delle cose (il territorio) e il mondo delle parole sugli eventi e sulle cose (la mappa). O più semplicemente le persone creano una rappresentazione del mondo in cui vivono.
In primo luogo, i modelli che creiamo (le mappe) come esseri umani presentano rispetto al mondo della realtà (il territorio) tre principali differenze.
Alcune parti della nostra esperienza sono cancellate, ossia non vengono rappresentate nel nostro modello, ovvero quando creiamo una mappa del territorio cancelliamo alcune parti della nostra esperienza. Queste cancellazioni, come pure l'insieme dei processi di mappatura, avvengono per lo più senza la nostra consapevolezza cosciente.
Evidentemente quando non riusciamo a rappresentare un aspetto importante o vitale, i risultati possono essere rovinosi.
La seconda differenza tra la nostra mappa del  territorio e il territorio stesso ci è data dalle deformazioni. La deformazione è un processo di modellamento che ci permette di apportare dei mutamenti alla nostra esperienza dei dati dei sensi. Per esempio possiamo distorcere la nostra esperienza e progettare il futuro immaginando che si tratti del presente. Questo processo di modellamento può essere un vantaggio o un inconveniente: dipende dall'uso che se ne fa (Bandler, 1975).
Il terzo processo di mappatura è la generalizzazione. È un processo mediante il quale un elemento della nostra mappa del territorio giunge a rappresentare un'intera categoria di cui esso è soltanto un esemplare. Questo ci da la certezza che quando ci troviamo di fronte a una porta, a una qualsiasi porta come ogni altra, anche se non l'abbiamo mai vista prima ci basiamo sull'assunto che potremo aprirla con lo stesso procedimento già usato altre volte. Nella nostra mappa del mondo le generalizzazioni ci consentono di agire con più efficacia da un contesto all'altro. Ci consentono anche di continuare a ricodificare le nostre esperienze a livelli di modellamento più elevati: ciò che rende possibili i progressi del sapere e della tecnologia in ogni campo delle attività umane (Bandler e Grinder, 1975).

Applicato al contesto della cognizione manageriale, questa linea di ragionamento suggerirebbe che quei manager che fossero maggiormente consapevoli dei processi di generalizzazione e di deformazione e degli effetti che determinano, si troverebbero con mappe del territorio più accurate.
La dimensione del vocabolario manageriale diventa importante perchè le parole hanno differenti livelli di ricchezza e sfumatura di significato e pertanto possono contribuire alla migliore o peggiore approssimazione del territorio. (Weick, 1990).
Una volta prestato attenzione al fatto che la mappa non è il territorio che rappresenta, si deve ammettere che esistono alcune mappe migliori di altre.

Nel mondo dell'organizzazione, le differenze sono ovunque e le persone hanno bisogno di criteri guida per orientarsi nel mondo delle differenze. Inoltre, hanno bisogno di disegnare le proprie mappe allo scopo di mettere un certo ordine e dare così una forma, uno schema. In questo modo le persone, nell'organizzazione, ma in generale in ogni circostanza della vita sociale, agiscono come se le proprie mappe siano una sufficiente e credibile versione, approssimazione del territorio nel quale si trovano coscientemente ad agire. Per quanto attiene al mondo delle organizzazioni Karl Weick (1985) così sintetizza la cosa:
        
         The important feature of a cause mape (or any map) is that it leads people to anticipate some order 'out there'. It matters less what particular order is portrayed that than an order     of some kind is portrayed. The crucial dynamic is that the prospect of order lures the     manager into ill-formed situations that then accomodate to forceful actions and come to          resemble the orderly relations contained in the cause map. The map animates managers,          and the fact of animation, not the map itself, is what imposes order on the situation.
         Thus, trapping of rationality such as strategic plans are important largely as binding          mechanisms. They hold events togheter long enough and tight enough in people's heads so      that they do something in the belief that their action will be influential. The importance of      presumptions, expectaions, justifications, and commitments is that they span the breaks in          the loosely coupled system and encourage confident interactions that tighten settings. The conditions of order and tightness in organizations exist as much in the mind as they do in      the field of action.

         In the present discussion, i have argued that maps are intimately bound up with action,          both the action that is ongoing when the map is first invoked, and the action that occurs          subsequent to the discovery of the map. It is the tight coupling between maps and action that    tightens the coupling between maps and the territory. Distorsions of the territory that find          their way into maps, find their way out again when maps are coupled with action […]
        
         What both need to keep in mind is that persistent efforts of each to understand the maps of      others is not a mere exercise of accuracy. It is a much larger exercise of appreciation.

Il cambiamento strategico secondo l'approccio olistico

Attraverso i secoli la Scienza è progredita da visioni statiche, come il cielo 'puntato' di stelle, verso visioni dinamiche, come i corpi celesti in movimento lungo traiettorie ellittiche (Bougon e Komocar, 1990). Molti ricercatori e pensatori come Lao Tzu (500 a.C.), Darwin (1872), Bohr (1934), Maruyama (1963), Allport (1967), Bateson (1967) hanno ognuno rispettivamente sostenuto che livelli, cicli, traiettorie sono alla base di fenomeni dinamici in fisica, ecologia, psicologia e fenomeni sociali.
Circa trentacinque anni fa Karl Weick ha suggerito un'evoluzione delle tradizionali e statiche teorie dell'organizzazione verso una teoria dinamica dell'organizzare, giungendo anche così a suggerire una teoria del cambiamento. La sua intuizione è stata che organizzazione e cambiamento erano e sono le due facce della stessa medaglia, dello stesso fenomeno sociale. Il suo ragionamento è stato che l'Organizzare era ed è un processo di co-evoluzione delle percezioni, cognizioni e azioni dei partecipanti/membri.
La vera portata del contributo di Weick è che, 'a margine' della discussione circa l'evoluzione delle organizzazioni, egli abbia articolato una teoria dell'organizzazione-e-cambiamento slegata dal concetto del contenuto e basata sulla struttura dei cicli nei sitemi sociali evolutivi.

Focus sulla struttura

Nella visione tradizionale della teoria organizzativa dei sistemi sociali, la struttura per indicare e rappresentare il sistema sociale, è la struttura gerarchica. Nelle parole di Bougon e Komocar (1990):
        
         “Since social organization and change are two sides of the same phenomena, a theory of          change must also be a theory of dynamic organization. Traditional organiztion theories,          however, are nondynamic and assume or promote hierarchal systems. Weber's (1921-25)          bureaucracy rest on a hierarchy of authority relations where influence flows one-way from one superior to several inferiors. Sarbin's (1954) role thoery rests on a hierarchy of          expectancy relations where influence flowa one-way from several role-setters to one role-         holder. March and Simon's (1958) decision-maker is controlled by a hierarchy of goals and   constraints which provide the premises of the decisions he or she makes on behalf of          organization.
         Hierarchal theories of organization imply that to change organization one must change the    ultimate source of influence. Change, in such theories, is limited to replacing one static situation by another static situation. These theories are frequently subconsciously assumed     by voters or owners when they replace top managers to promote a new course of action”

Le teorie organizzative basate sulla gerarchia sono popolari perchè 'voters' e 'owners' hanno familiarità col concetto di gerarchia. È compreso facilmente e quindi si accettano facilmente le 'conseguenze' ovvero che la soluzione ad un dato problema di cattivo funzionamento del sistema sociale (che è gerarchico) si traduce nella sostituzione del vertice.

Ecco allora il cambio-che-spiazza: stop a considerare, a rappresentare, a mappare le organizzazioni (e i sistemi sociali) esclusivamente come strutture basate sulla gerarchia MA mappiamole come strutturate da cicli e concatenazioni. I loops (cicli) creano una diversa classe di sistemi, i sistemi cibernetici (Bateson, 1966) i quali sono l'opposto 'topologico' dei sistemi a struttura gerarchica.
In questa sede non si intende stressare ulteriormente il concetto per comprendere che si tratta della sostituzione di uno schema percettivo, ovvero struttura 'cibernetica', al posto di sistemi a struttura 'gerarchica'. E lo si intende fare non in virtù di alcuna pretesa verità fattuale (del tipo la verità è così o così) ma semplicemente si propone la modifica della mappa, perchè, lo ricordiamo, è con la mappa che ci orientiamo nel mondo e ci sono mappe che hanno differenti gradi di precisione nel rappresentare il territorio.
Si tratta, quindi, di considerare la società come se fosse un sistema con struttura cibernetica, in sostituzione del precedente paradigma. L'obiettivo non è quello di stabilire se sia vera una mappa piuttosto che un'altra, quanto piuttosto fare quel che è necessario affinchè si determini il cambiamento auspicato. E il principio guida dei processi di cambiamento è da sempre lo stesso: una mappa è 'vera' finchè è utile, ovvero consente il raggiungimento di un certo livello di obiettivo (omeostasi e/o soddisfazione); e quando la mappa non conduce all'obiettivo una cosa sensata da fare è NON continuare ad usarla, perchè ormai 'non utile'. Qualsiasi altra mappa è una mappa migliore. Infatti, la verifica di congruenza ovvero la risposta alla domanda “Abbiamo ottenuto quello che ci aspettiamo di ottenere?” ci fornirà un criterio di valutazione.

Nei sistemi 'cibernetici', per la teoria cibernetica dei sistemi sociali, cambiare un'organizzazione significa cambiare uno o più cicli e cambiare cicli significa cambiare un'organizzazione (Weick, 1969)

Esempio di mappa causale sulla crisi dell'€urozona

giovedì 30 maggio 2013

GLI ANIMAL SPIRITS, LO "SPIAZZAMENTO" E IL MOLTIPLICATORE FISCALE: "CHI PUO' DIRLO?" "ESSI" DISSERO...

Non ve la prendete troppo con me perchè mi ripeto: la senilità ha due caratteristiche: la prima è che ci si ripete, la seconda è che ci si ripete...:-).
A mia scusante invoco però un livello di scoramento e di indignazione che si possono riassumere in ciò: "Basta!Abbiate pietà!"

Come vada la faccenda del deficit e della spesa pubblica tagliata, per effettuare sgravi fiscali o per dare luogo ad altre forme di spesa considerate più urgenti lo abbiamo già spiegato (tra l'altro) in questo post.
Lo so: quello lì svolto, può apparire un ragionamento complicato, ma in effetti è solo il riflesso della confusione che regna sovrana nei criteri di calcolo dell'impatto delle misure fiscali sia sui conti dello Stato, sia sul PIL.
Accertare il secondo dato  sarebbe logicamente prioritario, perchè, nota grosso modo la pressione fiscale sul PIL, applicando la relativa percentuale (che la recessione tende ad incrementare, dato che il gettito è obbligatoriamente mantenuto costante dai diktat UEM, mentre il PIL diminuisce), vengo a sapere di quanto cadono complessivamente le entrate, e quindi quanto deficit aggiuntivo - o minor saldo primario- determino con le misure fiscali di taglio alla spesa ovvero di imposizione aggiuntiva. 
Pare una cosa elementare, ma così non è, nel modus operandi dell'Economia.
Abbiamo visto, nel post citato all'inizio,  e anche in questo, che evidentemente, Ragioneria, e ministero dell'economia in generale, considerano il bilancio dello Stato come quello di un'azienda e usano criteri puramente contabili di dare/avere sui valori nominali in uscita o in entrata: ignorano cioè che le "entrate" non sono (ormai) vendite di beni o servizi ma tasse e che, non lo ripeteremo mai abbastanza, queste, come abbiamo appena visto, dipendono dal livello del PIL (cioè dalla base imponibile complessiva, come ben conferma Sapir), che a sua volta dipende, in senso più che direttamente proporzionale, anche dal livello della spesa pubblica.
Cioè si dimentica a piè pari che il PIL è "consumi+investimenti+spesa pubblica-tasse+esportazioni-importazioni".
Questi elementi che compongono il PIL sono interconnessi tra loro: negarlo significa appunto equiparare la spesa pubblica a un costo puro che non abbia alcuna influenza su consumi e investimenti privati.
Se invece si ammette la correlazione, cioè che la effettuazione di spesa pubblica, di ogni tipo, si trasforma in una certa misura, variabile certo ma comunque calcolabile, in ulteriori consumi e investimenti privati, si arriva a dover calcolare la spesa pubblica non solo come una componente positiva del PIL per il suo valore nominale- e già qui si tende a considerarlo marginalmente, chissà perchè- ma come un elemento che si trasferisce in un aggiuntivo incremento del PIL come consumi ed investimenti.
Ripetiamo: TUTTA LA SPESA PUBBLICA, PRODUCE QUESTO EFFETTO, SICCHE' NON SI COMPRENDE COME POSSA DISTINGUERSI QUELLA PRODUTTIVA DA QUELLA IMPRODUTTIVA. 
Potremmo discutere di quale sia nel medio-lungo periodo PIU' PRODUTTIVA IN QUANTO DIRETTA A INVESTIMENTI, cosa sulla quale esistono mucchi di studi, che distinguono il moltiplicatore tra public consumption e public investment e in relazione al periodo di impatto considerato. Ma si tratta di studi, pressocchè unanimi che confermano che il moltiplicatore comunque c'è per ogni tipo di spesa pubblica e che semmai, precisate le condizioni di effettuazione della spesa, sia oggetto di scelte politiche privilegiare quella in consumi (concetto che non coincide con quello di appalti, che è una modalità sempre presente, in teoria, nella spesa pubblica: persino la spesa in stipendi consegue alla effettuazione di selezioni competitive che dovrebbero assicurare una ottimizzazione di risultato) rispetto a quella in investimenti.
Di certo, di qualunque tipo sia, la effettuazione della spesa pubblica ha un moltiplicatore maggiore dello sgravio fiscale: può piacere eticamente o meno, ma tutti gli studi dimostrano questa verità empirica nei fatti.

Perchè sia ignorato il moltiplicatore e considerato in modo puramente "aziendale" il bilancio dello Stato ha molto a che fare con la teoria economica dominante imposta dall'Europa, e quindi coi criteri utilizzati dalla Commissione UE per verificare i "conti" dei vari Stati.
Sappiamo che la Commissione è stata ridicolizzata dal FMI per aver utilizzato un moltiplicatore di 0,5 rispetto all'austerity fiscale, che avrebbe avuto senso per paesi del terzo mondo. E alla base di ciò sta il fallimento, colpevole per il passato, e a questo punto dolosamente (giacchè "sanno") prolungato, delle politiche imposte dall'Europa.
La filosofia mainstream così seguita, in particolare sulla riduzione della spesa pubblica è quella che sapete: si basa sulla teoria del crowding-out e della "equivalenza ricardiana", cioè dello spiazzamento.
La sequenza è grosso modo questa: se taglio la spesa pubblica, creo aspettative razionali di calo della pressione tributaria e anche dell'inflazione, e quindi gli operatori razionali, godendo di maggiori disponibilità monetarie - sia dirette che per l'effetto-saldi reali determinato dalla minor inflazione prevista-, "anticipano" spese che altrimenti non avrebbero effettuato, in particolare gli investimenti.
La cosa, attualmente, viene concepita nella sua massima espansione e perciò, MA SOLO IN UNA CORNICE NEO-CLASSICA, si parla con entusiasmo (!) di "politiche per la crescita" (in realtà fin dall'inizio "loro" consideravano espansivo il mero effetto saldi-reali, dovuto al controllo dell'inflazione): il taglio della spesa pubblica è constestuale alla riduzione del peso fiscale. Quindi la risposta degli investitori dovrebbe essere immediata; e, ovviamente, anche quella dei consumatori; cosa che dovrebbe smuovere i primi, in previsione di una maggior produzione necessaria a fronteggiare questa automatica maggior domanda.
Le cose in pratica non vanno così: questo perchè si verifica anzitutto che la curva (IS) di trasformazione del risparmio in investimento è rigida, come tendenza generale, a maggor ragione in periodo recessivo da crollo della domanda con interessi bassissimi fissati dalla banca centrale e che inducono a qualcosa di simile alla c.d. "trappola della liquidità".
Mentre "loro" assumono induttivamente, cioè senza seri riscontri nell'andamento dei dati reali, il contrario: cioè che la curva IS sia altamente elastica (andate a raccontarlo agli operatori finanziari che scommettono sugli OTC e creano le bolle), sicchè, in concreto, la propensione all'investimento non dipende dalla mera aspettativa inflazionistica...legata per lo più al calo salariale, che, come stanno constatando senza volerlo riconoscere, deprime "alquanto" la domanda.
Ed invece, la propensione all'investimento dipende piuttosto da considerazioni legate prioritariamente alla domanda, questa sconosciuta, e non all'offerta (calo dei costi dovuto alla deflazione). E, certamente, anche alla esistenza di prospettive del mercato internazionale, che scontano i prezzi "relativi" determinati dal cambio valutario, di avanzamenti delle tecnologie disponibili, dalla stessa disponibiità immediata e a costi ragionevoli di manodopera formata e qualificata.
Magari derivanti, tutti questi fattori, proprio dalla pregressa effettuazione o non effettuazione di spesa pubblica: la quale, appunto, consente di sostenere i consumi e quindi la domanda, anche quella non in investimenti, e, a monte, di alimentare il sistema dell'istruzione e della ricerca, creando un ambiente favorevole alla innovazione e alle nuove tecnologie.
Oppure, una volta contratta per decenni la spesa corrente, al netto della spesa per interessi, (in termini reali, e non rapportati a un PIL "represso" da decenni di saldo primario e di difficoltà di export determinate da vincoli valutari) ciò conduce il paese in condizioni disastrose che rendono paralizzati gli "animal spirits" dei nostri residui capitalisti, ormai alla ricerca di liquidità a brevissimo e poi...speriamo in Dio.
Il che spiega la pressione confindustriale, per gli sgravi fiscali, in cui confluiscono gli interessi di banche (cioè dei creditori che vogliono anzitutto evitare le sofferenze) e di monopolisti, in conflitto di interesse con le esigenze delle aziende manifatturiere, del tutto opposte a quelle dei primi e che hanno bisogno di domanda, domanda e domanda. Interna e internazionale: e sappiamo come l'Europa provveda ogni giorno a togliergli ogni speranza in merito.

La mancata verifica dello "spiazzamento", dunque, in condizioni recessive, di ben nota difficoltà al raggiungimento della domanda estera dovuta al livello di cambio (l'euro-marco per l'Italia), di calo inesorabile del potere d'acquisto salariale diminuito in termini reali e ormai nominali, di disoccupazione diffusa, di progressivo depauperamento del livello della manodopera disponibile, di crescente taglio prolungato della spesa pubblica non solo in istruzione e ricerca, ma anche in spesa corrente e investimenti, è altamente scontata.

C'è poi una ulteriore condizione peculiare di tipo congiunturale.
Tutti gli italiani sanno che occorre raggiungere il pareggio di bilancio (avendolo bello piazzato in Costituzione) e che quindi, anche se dovessero esserci sgravi fiscali questi sarebbero modesti o simbolici, attendendosi invece, con ogni probabilità, dopo 30 anni di aumenti costanti della pressione fiscale in nome dell'Europa, che quello che verrebbe alleggerito da una parte verrà ripreso dall'altra, magari con tassazione a livello locale, lasciandosi pressocchè invariato un gettito che, sempre l'Europa, non consente veramente di attenuare, lanciando a tutt'oggi segnali contrarissimi a questa ipotesi.
Tutti gli italiani, inoltre, sanno che comunque agli sgravi fiscali, come si dice apertamente, corrisponderanno tagli della spesa pubblica, cioè minori consumi e investimenti pubblici (cioè minore domanda aggregata, minori servizi pubblici a tariffe crescenti, minori posti-letto in ospedali, minore occupazione, minori trattamenti pensionistici), com'è ad esempio certo che accadrà per pagare i debiti pregressi alle imprese in base all'appostio DL.
Per tutto questo insieme di fattori, essi non consumeranno e anzi risparmieranno, per fronteggiare i bisogni cui li espone il prolungamento inesorabile della contrazione dei loro redditi, cioè la recessione.

L'altra faccia della medaglia di tutti questi aspetti, che si continua bellamente a ignorare, se non altro non contestando l'assurdità delle imposizioni europee, è appunto il moltiplicatore fiscale, quello che tiene conto dell'impatto altamente negativo, per tutti questi fattori, del taglio della spesa pubblica, e molto modestamente positivo dei "fantomatici" sgravi fiscali, dati per scontati in una misura che non invertirà il comportamento difensivo di contrazione dei consumi.
E veniamo al dunque di tutte queste "repliche" di argomentazioni, che tirano le fila di un discorso che lo "sdegno" per la cecità delle decisioni che si continua a prendere, ci induce a ripetere senza requie.
All'Economia del moltiplicatore non sanno nulla. A quanto pare, anche se era già ampiamente desumibile da tutto quanto analizzato, cifre alla mano, nei post linkati più sopra.
Su "Il Messaggero" di oggi, nell'articolo "Premier prudente: "strada stretta", a pag.2, si legge quanto segue:
""Si parla tanto della possibilità di usare nel 2014 uno 0.6% del PIL, pari a 8 miliardi di euro, per crescita e occupazione giovanile. Ma non esiste alcun automatismo. Tutto deve essere ancora negoziato con Bruxelles...Però qualche idea per ottenere più margini (quelli nel 2013 non ci sono per via dell'onere aggiuntivo dovuto al pagamento di una parte dei crediti alle imprese e questo chiude i giochi rispetto al tetto del 3%, ndr.), comincia a prendere corpo. Tra queste c'è lo studio di un coefficiente che permetta di scontare, dal deficit (...?), l'impatto positivo sul PIL degli investimenti produttivi (e te pareva?) <<Ma è un metodologia tutta da studiare: chi può dire che 100 miliioni spesi in banda larga danno un tot per cento di crescita del PIL?>> Si interrogano all'Economia."

E infatti, ma come no!: chi può dirlo? Il FMI analizzando la "realtà" in un modo che non dovrebbe più essere ignorato? 
Meglio credere che la spesa pubblica sia un costo contabile e non sapere come si forma il PIL, e coltivare la "equivalenza ricardiana". Tutta "roba" che ha guidato verso un sicuro disastro le politiche economiche che vi si sono attenute.
Se dovessero scoprire la risposta, già fornita da una mole di lavori su cui c'è solo da scegliere, magari dovrebbero pure applicare il "coefficiente", in termini di minor PIL al taglio della spesa pubblica e, persino, alla imposizione di nuovi tributi. O magari scoprire che i tagli delle tasse hanno coefficienti inferiori al taglio della spesa, sempre e comunque.
Tanto quando i conti, com'è scontato da anni, non tornano, si ricorre a una nuova manovra "lovuolel'Europa" e la crisi economica è dovuta ai "mercati finanziari internazionali e alla Cina" e noi "stiamo facendo il possibile per risanare il Paese".



mercoledì 29 maggio 2013

TREMONTI AL "NETTO" DI MONTI: L'INUTILITA' CONTABILE DEL "PIU' €UROPA" E LA CURVA DI PHILIPS IMPLICITA

La notizia è "rimbalzata" su tutti i giornali e le televisioni. Perciò, a titolo esemplificativo, vi riporto un articolo sul "taglio" che gli è stato dato:
"L'austerity fa male all'economia, ma anche ai conti pubblici e all'occupazione. Il rigore imposto ai paesi dell'Unione europea, è la causa della recessione e anche della contrazione nelle entrate fiscali. È un atto di accusa contro gli eccessi del rigore quello lanciato ieri dalla Corte dei conti alla presentazione del Rapporto 2013 sul coordinamento della finanza pubblica presentato ieri al Senato. Sempre a Palazzo Madama la Fiaip, la federazione degli agenti immobiliari ha calcolato che per colpa della stretta sul credito e dell'Imu si sono persi 500 mila posti di lavoro in quattro anni.
«L'intensità delle politiche di rigore adottate dalla generalità dei paesi europei è stata una rilevante concausa dell'avvitamento verso la recessione», si legge nel rapporto della Corte dei conti. I giudici contabili hanno quantificato la perdita di Pil negli anni acuti della crisi. Oltre 230 miliardi di euro nell'arco della legislatura 2009-2013.
Sul fronte dei conti pubblici le manovre si sono fatte sentire, ma solo perché hanno «consentito importanti risparmi di spesa, il cui livello è risultato nel 2012 inferiore di oltre 40 miliardi alle stime iniziali». Peccato che i sacrifici siano praticamente annullati; innanzitutto perché la spesa rispetto al Pil è rimasta invariata poi perché è stato mancato il pareggio di bilancio. Spiega la Corte: «Il cedimento del prodotto non ha permesso alcuna riduzione dell'incidenza delle spese sul Pil passata, nel triennio, dal 47,8 al 51,2 per cento». Poi, «l'adozione di una linea di severa austerità (oggi oggetto di critiche e ripensamenti)» non ha «impedito che gli obiettivi programmatici assunti all'inizio della legislatura fossero mancati». Alla fine della scorsa legislatura, è stato mancato il pareggio di bilancio con un indebitamento netto di quasi 50 miliardi più alto rispetto delle previsioni.
Anche la Corte dei conti registra il calo delle entrate fiscali dovuto al crollo del Pil. In cinque anni, dal 2009 al 2013, la perdita permanente di prodotto si è tradotta in una caduta del gettito fiscale anche superiore alle attese: quasi 90 miliardi in meno.
Allo stesso tempo la pressione fiscale è aumentata rispetto al 2009 di oltre un punto in termini di Pil. «La perdita permanente di prodotto - ha osservato il presidente della Corte Luigi Giampaolino nella prefazione al Rapporto - si è tradotta in una caduta del gettito fiscale ma non in una riduzione della pressione fiscale». Ora l'auspicio dei giudici contabili è che si punti sulla crescita. Ma non in deficit Servono «stimoli per crescere di più, non deroghe per spendere di più».
Alla presentazione del rapporto il ministro dell'Economia ha dato qualche indicazione sulle misure allo studio del governo.
Ad una domanda sull'Iva, il ministro ha risposto: «Dobbiamo concentrarci sugli investimenti». Segno che, nel borsino delle policy governative, le misure sull'Iva stanno perdendo quota a vantaggio degli incentivi all'occupazione e la riduzione del costo del lavoro.
Anche l'Imu ha un peso sull'occupazione. Insieme alla stretta sul credito, secondo la Fiaip, è costata mezzo milione di posti di lavoro al settore. E un crollo delle compravendite del 25,7%
. "

A questo punto possiamo notare alcune cose:
a) non si parla del moltiplicatore fiscale;
b) quindi si insiste nel ritenere che la recessione, quella che parte dal trimestre finale del 2011, non quella del 2008-2009, che si era già esaurita nella modesta crescita del 2010, veda l'austerità "soltanto" come una concausa, quando invece ne è la causa essenziale, agevolmente accertabile e calcolabile;
c) ergo, si ritiene che la disoccupazione sia a sua volta un effetto mal calcolato di un generico "eccessivo rigore", che più o meno sarebbe dovuto alle troppe tasse, come evidenzia l'immediato accostamento con la quetione IMU;
d) forti del fatto che, oltre al moltiplicatore, si trascura (come sempre, "apparentemente") la curva di Philips, quale meccanismo economico che non poteva altrettanto essere ignorato, si insiste che occorra puntare alla crescita ma non in deficit, escludendosi deroghe per "spendere di più", e piuttosto collocandosi gli stimoli alla crescita,, necessariamente e inesorabilmente, sul fronte degli sgravi fiscali.
Ma in realtà della fatidica" curva" si tiene conto più che mai, dato che la relazione negativa tra disoccupazione e crescita salariale è verificabile tanto meglio quanto più si elimina la rigidità del mercato del lavoro (sul lato della domanda).
Di quanto questa impostazione sia un gatto che si mangia la coda abbiamo parlato fino a sfinirci, proprio utilizzando nell'analisi il calcolo del moltiplicatore e indicando come la disoccupazione si colleghi alla deflazione salariale come principale obiettivo delle politiche che si sono seguite.
Abbiamo anche evidenziato che, con la teoria della crescita mediante sgravi fiscali "senza deficit", cioè coperti da corrispondenti riduzioni della spesa, si  proseguirà ad avere recessione (o, nella migliore delle ipotesi, stagnazione del PIL, ma di certo dopo il 2014), dato che la domanda mondiale ristagna proprio a causa della impostazione europea, così ostinatamente proseguita, e non si hanno serie prospettive di crescere con quello che è l'obiettivo dettato dalla Germania: le esportazioni, cioè la domanda estera.
Perchè il resto del mondo neutralizza la tattica tedesca, estesa a tutto il continente, con politiche espansive che incidono anche sui cambi valutari rispetto all'euro e non sta certo ad aspettare, mentre l'area UEM è simultaneamente impegnata nella stessa folle rincorsa al ribasso del costo del lavoro con contrazione della domanda e delle reciproche importazioni.

L'unica concessione è che la riduzione del costo del lavoro "ora" parrebbe che vogliano realizzarla ora con qualche forma di (de)fiscalizzazione: ma senza sostegno della spesa, cioè alla domanda, è una prosecuzione della recessione e quindi del livello di disoccupazione che tenderà a comprimere lo stesso livello salariale.
Alla fine, si ritiene di "tenere duro" sulla linea fin qui seguita, dando in pasto all'opinione pubblica, per prendere tempo, l'idea salvifica di modeste (necessariamente, quando si arriverà al dunque) attenuazioni del carico fiscale complessivo, in pareggio di bilancio (nel senso di Haveelmo, visto qui).
Insomma, aspettatevi la prosecuzione con "altri mezzi", leggermente più lenti, della guerra mediante rosolamento, da fuoco vivo a fuoco lento, di un'Italia sfinita dall'euro, ma sempre colpevolizzata dall'Europa che continua a invocare le riforme strutturali: per Olli Rehn l'efficienza della pubblica amministrazione si persegue tagliandone la spesa relativa e comunque, "la riforma Fornero non basta"! Cosa prontamente accettata dai nostri stessi governanti.

Questo documento della Camera dei deputati, dell'agosto del 2011, del Servizio bilancio dello Stato, (di cui per "divertimento" consigliamo l'integrale lettura) mostra come vengano fatti i calcoli delle "tendenze", in modo puramente contabile, e come si ignori il moltiplicatore. E si vede pure, allo stesso tempo, come non siano enunziate le teorie neo-classiche che giustificano i calcoli stessi, che implicano la mira nascosta (a monte e nelle menti degli economisti che variamente programmano e avallano queste impostazioni di politica economica) di agire sulla base della curva di Philips, cioè di privilegiare (senza riuscirvi) la stabilità finanziaria e di deflazionare il lavoro provocando disoccupazione (riuscendovi). Avendo l'unico obiettivo della "competitività"...del costo del lavoro, al fine di mantenere il giogo dell'euro senza metterlo mai in discussione circa la sua sostenibilità.
Ovviamente, questa impostazione non pare cosciente in alcun dibattito tutt'ora seguito in materia, come conferma l'opinamento della Corte dei Conti: per realizzarla basta un'unica incontestabile proposizione: "adeguarsi al diktat €uropeo". E infatti quella fu proprio la manovra che conseguì alla famosa lettera BCE. La linea su cui Draghi insisterà e insiste irremovibile fin da allora.
La situazione, paradossalmente, è che se ci si fosse attenuti alla mera manovra di Tremonti, il risultato sui conti pubblici sarebbe stato grosso modo il medesimo: certo secondo "quelle" stime, ma indubbiamente, in retrospettiva, tale da rendere grosso modo pari a zero il vantaggio fiscale delle manovre successive. Insomma se il governo Monti non fosse esistito avremmo avuto una minore recessione e conti pubblici più o meno con gli stessi indicatori.
Non vogliamo difendere Tremonti.
Ciò è fuori questione, dato che anche in quella fase si è lo stesso (e come sempre) trascurato il moltiplicatore fiscale e non si è mai menzionato il vincolo di cambio...e dire che poteva ben farlo e "resistere", allora, di fronte alla immnente prospettiva di perdere la sua posizione di potere! 
Si può però evidenziare che la situazione, condizionata dagli "spread", col subentrare del governo Monti, ha obiettivamente portato alla accelerazione non certo di una politica di risanamento dei conti pubblici, sui quali le manovre aggiuntive di Monti stesso hanno dato risultati praticamente indifferenti, se non peggiorativi (si veda l'indebitamento netto; ma, ripeto, bisogna sempre utilizzare il moltiplicatore anche rispetto alle manovre tremontiane).
Le manovre montiane, comparate con i saldi contabili derivanti da quanto fu fatto nell'estate 2011, risultano così, in modo eloquente, esclusivamente volte alla deflazione salariale mediante incremento della disoccupazione (anche chiamando il tutto "riforme strutturali", flessibilità e via dicendo, ma il discorso quello rimane). In ogni caso anche se l'impatto di quella manovra 2011 sul PIL viene calcolato senza alcun moltiplicatore, trascurandosi perciò l'effetto della caduta della base imponibile e quindi del gettito, la caduta della domanda aggregata sarebbe stata minore.
A "occhio", di circa la metà nel 2012-2013, mentre il deficit sarebbe conseguentemente risultato lo stesso, con la differenza di qualche decimale. In concreto, si sarebbe avuta una recessione di circa 0,6-0,7 punti nel 2012, di circa 1,6 punti del 2013 e intorno alla stessa misura anche nel 2014. Ovviamente salve le ulteriori misure correttive che, forse, avrebbero potuto essere imposte di fronte al fallimento degli obiettivi di deficit: ma in misura minore e in un clima di "raffreddamento" dell'austerity nel frattempo comunque subentrato. E analogamente il saldo primario:

Correzione dei saldi tendenziali e programmatici operata con il decreto-legge n. 98 del 6 luglio 2011
La manovra posta in essere con il D.L. n. 98/2011[1] contiene misure finalizzate a conseguire gli obiettivi di finanza pubblica indicati nel Documento di economia e finanza e nel Patto di stabilità presentati dal Governo nell’aprile 2011, oggetto della raccomandazione del 7 giugno 2011 della Commissione europea[2].
I suddetti obiettivi consistono nel raggiungimento di valori dei saldi programmatici di finanza pubblica per il 2013 e 2014 pari, rispettivamente, a 1,5 e 0,2 per cento del PIL in termini di indebitamento netto delle Pubbliche amministrazioni. Parallelamente l’avanzo primario è atteso passare dallo 0,9 per cento del PIL nel 2011 al 3,9 per cento nel 2013 e al 5,2 per cento nel 2014.
La tavola 3, confrontando il dato tendenziale di indebitamento netto rilevato a legislazione ante-manovra con quello programmatico, evidenzia la misura della correzione dei saldi. In particolare, il raggiungimento dei saldi programmatici richiedeva, secondo il DEF, una manovra correttiva (in termini di minori spese al netto interessi e di maggiori entrate) pari all’1,2 per cento nel 2013 e al 2,3 per cento nel 2014, mentre non si consideravano necessarie correzioni per gli anni 2011 e 2012 per i quali il valore del deficit tendenziale e programmatico risultavano coincidenti (3,9 e 2,7 per cento del PIL).

Tavola 3 - Saldi tendenziali e programmatici nel DEF-Programma di stabilità, aprile 2011
(% PIL)

2011
2012
2013
2014
Indebitamento netto tendenziale l.v.
3,9
2,7
2,7
2,6
Indebitamento netto programmatico
3,9
2,7
1,5
0,2
Manovra netta


1,2
2,3*
PIL
1.593.314
1.642.432
1.696.995
1.755.013
*Il dato del 2014 contiene la correzione dell’anno precedente

Dato un PIL (in termini nominali) che raggiunge nei due anni, rispettivamente, 1.697 e 1.755 miliardi[3], la correzione indicata dai documenti programmatici comportava una manovra di circa 20 miliardi nel 2013 e 40 miliardi nel 2014.

La manovra complessiva, nel testo del decreto legge n. 98/2011 come modificato dalla legge di conversione n. 111/2011, determina un effetto di riduzione dell’indebitamento netto pari a 2,1 miliardi nel 2011, 5,6 miliardi nel 2012, 24,4 miliardi nel 2013 e 47,9 miliardi nel 2014. In termini di incidenza sul PIL, nell’ultimo anno la correzione risulta pari al 2,7 per cento rispetto al 2,3 per cento indicato nel DEF-Programma di stabilità.
Tavola 4– Effetti della manovra sull’indebitamento netto
                                                                                                                                        (milioni di euro - % PIL)

2011
2012
2013
2014
Effetto complessivo manovra
2.108
5.578
24.406
47.973
% PIL
0,1
0,34
1,4
2,7

Conseguentemente, rispetto ai valori indicati nei documenti programmatici, si determina una più rapida riduzione del deficit, che giunge ad annullarsi a fine periodo. La manovra, inoltre, ha determinato un effetto di miglioramento dei saldi anche nel 2011 e nel 2012.
Tavola 5– Indebitamento netto tendenziale
(% PIL)

2011
2012
2013
2014
Saldo tendenziale pre - DL 98/2011
-3,9
-2,7
-2,7
-2,6
Manovra netta
0,1
0,3
1,4
2,7
Saldo tendenziale post - DL 98/2011
-3,8
-2,4
-1,3
+0,1


lunedì 27 maggio 2013

LA PRECOMPRENSIONE DEI BANCHIERI CENTRALI, L'INFLAZIONE E IL MODELLO COSTITUZIONALE

Per chi, a suo tempo se lo fosse perso, in questo post abbiamo spiegato cosa sia la "precomprensione", più o meno definibile nei seguenti termini:
"...uno dei problemi più indagati dalla teoria generale del diritto. Sul quale si sono cimentati non solo i più illustri filosofi del diritto italiano (Betti, Calcaterra, Bobbio), ma che è stato decisivamente indagato dai pensatori tedeschi. Con conclusioni interessantissime, che partono da Aristotele, Cicerone, Ulpiano, e Leibniz (per citarne alcuni) e sono culminate nel concetto di "precomprensione", intesa come "anticipazione del senso" dell'interpretazione anteriore, cioè "pregiudiziale" alla stessa lettura del dato normativo.
Va da sè (per i più appassionati di linguistica e di psicanalisi) che il fenomeno di tale "anticipazione pregiudiziale del senso" lo si è anche indagato alla luce di...Freud e Lacan. Ma ovviamente vi risparmio questo interessantissimo versante. 
Il concetto di "precomprensione" lo dobbiamo, in particolare a Gadamer, per alcune forme a Wittengstein, e a Viehweg. Come ci illustra questo interessantissimo studio  non a caso intitolato "Ermeneutica e pluralismo":
"L’interpretazione in quanto tale non è mai un fine ultimo. Si interpreta al fine di comprendere. Ma a sua volta il comprendere, a differenza del conoscere puro e semplice, ha un carattere pratico, cosicché esso porta in sé le ragioni per cui si vuole comprendere. Anzi queste ragioni precedono il comprendere e contribuiscono a determinare e ad orientare la precomprensione.
L’interpretazione come attività acquista un senso proprio perché avviene all’interno di una preliminare comprensione, che è il vero e proprio luogo del «senso». Ogni attività ha un significato solo all’interno di una totalità di senso. Di conseguenza la comprensione precede e condiziona l’interpretazione che a sua volta la sviluppa, la corregge e la libera dai fraintendimenti."

Ora Krugman, in questo articolo riportato dal Sole24 ore, ci fornisce un caso di precomprensione non dissimile da quello che aveva dato spunto al nostro post: in quel caso si trattava della famosa mission della BCE e di come, senza alcun dubbio, una sua corretta lettura testuale e sistematica portasse a includervi la piena occupazione. Per enunciato di espresso rinvio al (tristemente) famoso art.3, par.3, del Trattato sull'Unione da parte degli artt.127 TFUE e 2 Statuto BCE, (protocollo 4 ai Trattati), che appunto definiscono la "mission" in questione.
Ma transeat, la questione è superata dagli eventi, dato che, come abbiamo altrettanto visto (par.11), c'è un concetto di "piena occupazione", proprio della teoria macroeconomica neo-classica, che è stato adottato senza alcuna remora e che prevale, in base alla forza bruta del diritto internazionale, quello dove il forte ha sempre ragione (cioè la Germania), ragion per cui  la piena occupazione è quella che fa comodo alla "stabilità finanziaria" e alla aspettative inflazionistiche degli operatori razionali. Punto.

Invece qui si tratta di precomprensione nella lettura del ciclo economico mondiale. L'effetto che descrive Krugman è quasi comico:
"I sadomonetaristi di Basilea
Questo mese il Wall Street Journal ha richiamato l'attenzione su un discorso di Jaime Caruana, il direttore generale della Banca dei regolamenti internazionali, che metteva in guardia dai pericoli del denaro facile ed esortava ad alzare subito i tassi per evitare… non si sa bene cosa.
E le sue opinioni pesano, secondo il Wall Street Journal: «Caruana non è un falco scornato che è stato messo in minoranza nel consiglio direttivo di un organismo economico e cerca disperatamente di mettere le cose in chiaro», ha scritto Geoffrey Smith sull'edizione online. «Caruana è il portavoce di un consesso globale di banchieri centrali, quasi tutti costretti a far fronte alle pressioni fortissime dei rispettivi Governi nazionali perché tengano i piedi la baracca mentre loro cercano di riparare l'economia. Le sue opinioni contano anche per un'altra ragione: la Bri è una delle poche istituzioni finanziarie internazionali (secondo qualcuno l'unica) che ha visto arrivare la crisi finanziaria e ha lanciato avvertimenti chiari per tempo».
Davvero la Bri è stata così preveggente? Vediamo un po': quello che ricordo io - e che il Wall Street Journal apparentemente non ricorda - è che da anni la Bri mette in guardia dai pericoli dei tassi di interesse bassi. Peccato che un paio di anni fa raccontasse una storia completamente diversa sul perché dovevamo alzare i tassi: il grande pericolo allora era l'inflazione imminente. Un articolo di Bloomberg del 27 giugno 2011 diceva: «Le pressioni inflazionistiche a livello globale stanno aumentando rapidamente, per via dell'impennata dei prezzi delle materie prime e dei limiti di capacità produttiva che frenano la ripresa globale», ha detto la Bri, l'organismo che svolge il ruolo di Banca centrale delle Banche centrali. L'accresciuto rischio di inflazione impone un aumento dei tassi di riferimento».
In realtà l'inflazione viaggia al di sotto del target praticamente ovunque.
Verrebbe spontaneo aspettarsi, a questo punto, che la Bri faccia marcia indietro e riveda le sue raccomandazioni di politica economica e i criteri che usa per estrapolarle. Sì, figuriamoci.
I tassi alti sono sempre la soluzione: quello che cambia è soltanto il problema che dovrebbero risolvere."
Vedete come dunque il "comprendere" porta necessariamente in sè le ragioni per cui si vuole comprendere. Questo fissa la precomprensione in modo tale che  l'interpretazione, qualsiasi operazione di interpretazione (che è poi la normale modalità cognitiva umana), diviene "valida" se ci liberiamo di queste ragioni, cioè degli INTERESSI PERSONALI, che ci conducono sì a voler interpretare le cose -un testo, i dati economici, le correlazioni che se ne possono indurre-, ma ne alterano i risultati, preorientandoli.
Quindi, senza questa depurazione dell'elemento "personale", non si può assumere come attendibile un'interpretazione. O meglio, la si deve prendere per quello che è: UN PUNTO DI VISTA DI UN PORTATORE DI INTERESSE.
La domanda allora è: ma perchè dobbiamo assumere sempre e comunque quell'interesse come oro colato? Perchè alla fine dei giochi è questo che accade.
Anche qui la risposta è abbastanza semplice: se si prende come prevalente, prioritaria, addirittura insindacabile, una interpretazione interessata, vuol dire che quell'interesse è quello che ci governa. E ci governa proprio perchè ha la forza di imporsi, cioè di caratterizzare l'indirizzo generale impresso alla società dalla classe dirigente.
I governi, infatti, poi, propongono ai parlamenti leggi che sono conformi a quella interpretazione e i parlamenti le approvano. Vi hanno spiegato qualcosa? Vi hanno fatto votare in qualche elezione, per caso, perchè le leggi fossero, in ultima analisi, dettate dai banchieri centrali riuniti in consesso e preoccupati di determinati interessi?
Noooo. Eppure è così.
Ovviamente non vengono direttamente votate leggi che determinano i tassi di interesse. Vengono votate leggi che approvano-ratificano-ordinano l'esecuzione di trattati, come quello di Maastricht, i quali dicono che le banche centrali non prendono istruzioni dai governi e non possono sollecitarle (ma ovviamente dipende sempre dalla legge del più forte, e quindi la Germania tende un "pochettino" a impartire istruzioni alla BCE) e che stabiliscono i tassi di interesse per garantire in assoluto sempre e comunque la "stabilità dei prezzi".
Dopodicchè, uno Stato sa che la politica monetaria avrà quell'unico e unilaterale indirizzo, e provvederà a fare politiche deflattive, mediante ulteriori leggi conformi a tale obiettivo e...come va a finire lo sapete, diciamo che si riflette sui salari reali e sul livello d occupazione, fino a innescarsi output gap strutturale e politiche pro-cicliche recessive.

E' evidente che questo tipo di precomprensione ci assoggetta agli interessi della banche, perchè di questi sono portatori i banchieri centrali una volta che li si rende assolutamente indipendenti dal governo ma dipendenti dalle banche-  che pure dovrebbero controllare- le quali invece sono direttamente o indirettamente proprietarie del capitale delle banche centrali "indipendenti".
Insomma, si attiva un processo, che è ormai solo europeo (par.5), perchè solo in UEM la indipendenza raggiunge la sua forma più pura di assoluta impenetrabilità a qualsiasi interesse dei cittadini, tipo la "piena occupazione" (che poi sarebbe la domanda,in essenza), provvedendosi a formulare la "mission" in termini che sembrano fatti su misura per gli interessi bancari, privilegiando la stabilità dei prezzi, e relegando a un concetto furbesco comprimibile a piacimento gli altri possibili obiettivi della politica monetaria.
I creditori, cioè le banche, hanno infatti interesse a che l'inflazione sia bassa per tutelare il capitale prestato agli Stati (e già sappiamo che questa è una scelta politica degli Stati) nonchè ai privati, lucrando, preferibilmente, interessi reali positivi, cioè superiori all'inflazione.
Se poi ci mettiamo che i banchieri, nei prestiti all'interno dell'area UEM, sono anche garantiti dal "rischio di cambio", abbiamo chiuso il cerchio e spiegato perchè esiste l'euro. L'euro, realizzato da un gruppo di banchieri chiusisi in una stanza (ma pensa un pò); e anche perchè poi esistono le banche centrali indipendenti, la deflazione salariale, l'alta disoccupazione come effetto super-prevedibile di tutto ciò, e in una parola una crisi strutturale di domanda. Che nessun governo vuole affrontare: perchè dovesse dare fastidio agli interessi di chi ci governa veramente.
Dopo arriva l'inflazione!
Lo sapevate quanto incide l'inflazione in termini di crescita sul PIL secondo gli studi del FMI? Fino al 4% nulla; sopra il 4% di 0,1 punti di PIL per ogni punto di inflazione. Quindi un'inflazione al 10% fa perdere 0,6 punti di PIL: ma...ceteris paribus. Cioè, invece di decidere di "crescere con l'austerity", negando il trade-off tra inflazione e disoccupazione e provocando recessione, si possono assumere, a sostegno della domanda reale, provvedimenti adeguati, come meccanismi di indicizzazione dei salari e delle tariffe, praticate da aziende pubbliche di erogazione dei servizi essenziali. Mica possibili se sono aziende privatizzate "lo vuole l'europa", e governate dalla logica finanziaria degli azionisti di controllo, che non garantisce alcuna maggior efficienza, tra l'altro.
Che poi alla fine, tutte queste misure di contenimento "non salariale" dell'inflazione e dei suoi effetti, non dipendono tanto dalla grazia divina e dal caso. Quanto piuttosto dalla volontà di assolvere o meno compiti che sono costituzionalmente affidabili allo Stato, su utilità erogabili anche in produzione diretta, secondo l'art.43 Cost.; nonchè dall'indirizzo politico di uno Stato che ammetta la autonomia negoziale collettiva come effettiva realizzazione del dettato costituzionale (artt.4, 36 e 39 Cost.).
Quindi alla fine, si tratta solo di scegliere tra modelli di società che vogliamo: o quello della Costituzione, fissato in norme di valore supremo e la cui interpretazione (un tempo) non soffra delle "rimozioni" della logica che oggi paiono oscurarla, o quello proposto dalla interessata "precomprensione" dei banchieri centrali.