venerdì 14 febbraio 2014

LA DISOCCUPAZIONE "TECNOLOGICA" E LA NEGAZIONE DELLA DOMANDA NEL MONDO DELLA "INTELLIGENZA ARTIFICIALE" (le nuove frontiere supply side della politica italiana)



Della presunta spinta "hi-tech" verso la disoccupazione ne avevamo già parlato nel finale di questo post.
Questa versione ci viene ora riproposta in maggior dettaglio dallo stesso commentatore.
Le sue argomentazioni possono, grosso modo, così riassumersi:
1- l'innovazione tecnologica è così veloce e tumultuosa da mettere in pericolo ormai il 47% dei posti lavoro;
2- ciò si era già verificato alla fine dell'800, ma allora era risultato più agevole la sostituzione dell'occupazione perduta con nuovi "mestieri", aspetto che, in questo frangente non sarebbe riproponibile;
3- le "nuove tecnologie" incidono specialmente su certi settori dei servizi, acuendo le distanze tra i "più esperti" e i "colletti bianchi, i più esposti all'ascesa della intelligenza artificiale" (robot e Internet diffuso);
3- il problema delle definitiva espulsione di lavoratori dal mercato, con la rinunzia al cercare un nuovo posto, se lo pongono sia la Fed, in specie con l'attuale riflessione della Yellen, sia la Bank of England, che sarebbero propense all'utilizzo energico di politiche monetarie, finchè la ripresa non si trasmetta ai lavoratori non più in cerca di occupazione ma anche all'utilizzo di capacità produttive (inattive) e ai salari;
4- poichè la tecnologia non trasmette il suo aumento di produttività ai lavoratori, occorrono politiche che "sappiano indirizzare verso obiettivi condivisi", quali l'ambiente e l'economia del tempo libero, che diverrebbe "centrale nello sviluppo".

Questo insieme di assunti in realtà appare alquanto contraddittorio.
In realtà, il fenomeno della perdita di posti di lavoro non più ricreabili, nel nuovo presunto trend di ripresa economica, investirebbe, per la verità da decenni, anzitutto il settore manifatturiero, (prima ancora dei "servizi"), laddove cioè la robotica ha spiegato i suoi primari effetti.
Ma le ragioni di questa perdita di posti di lavoro, se correttamente connesse a delocalizzazione e deflazione salariale, come evidenziano Stiglitz e Krugman, e come in realtà sottointende la Yellen, (quindi, in definitiva alla liberalizzazione del mercato dei capitali), sono rinvenibili in fattori che incidono essenzialmente e gravemente sulla domanda, cioè a quell'output-gap che discende dall'idea che la diffusione della disoccupazione sia un "sano" elemento che rende elastico verso il basso, e quindi "virtuoso", il mercato del lavoro e che a ciò debba essere strettamente funzionale la limitazione dell'intervento-deficit pubblico.

Su questa idea rigidamente neo-classica, in ultima analisi, la versione dei fatti qui criticata, insiste come implicita necessità: dallo small business diffuso in dissoluzione, alla stessa scarsa (se non sprezzante) considerazione delle utilità (merit goods) che solo il settore pubblico può fornire, tutta la ideologia economica neo-classica congiura per una visione del mercato del lavoro e della domanda aggregata esclusivamente asservita al criterio della competitività realizzabile solo dai privati, accompagnata alla negazione di ogni valore dei beni e dell'interesse collettivi: che importa se gli USA, pieni di intelligenza artificiale, vanno in tilt ad ogni forte nevicata, per non parlare dei vari tornados?
Vogliono forse gli "zotici", per di più inadeguati professionalmente alle nuove frontiere della tecnologia, essere tenuti sempre al riparo dalla "durezza del vivere", anche nelle sue più, asseritamente naturali manifestazioni?

Stiglitz e la Yellen, più che guardare all'economia del tempo libero e agli standards normativi impositivi di forme di protezione ambientale (da riversare poi mediante traslazione sui prezzi), sanno perfettamente quale sia il valore da attribuire al ritardo di adeguamento delle infrastrutture pubbliche ed all'indebolimento delle "funzioni pubbliche" di presidio minimo del territorio, cose che nei capitalismi avanzati - invariabilmente neo-liberisti, se non tea-party- o sono intese come occasione di vantaggio del business privato, con costi crescenti per i cittadini-utenti, o semplicemente non sono più prese in considerazione come oggetto di politiche di spesa pubblica.

L'idea sottostante a questa visione (disoccupazione dovuta a nuova tecnologia), poi, è quella della inarrestabile predominanza del settore dei servizi (privati) sul manifatturiero (privato), come evoluzione inevitabile dei capitalismi maturi, che è in realtà non solo priva di razionale corrispondenza alla configurazione di un modello di economia sostenibile nel tempo, ma vale essenzialmente per paesi come quelli anglosassoni e, anzi, è rivista in termini di esplicita correzione da parte dei loro stessi governanti.

L'idea stessa si fonda sulla definitività della divisione mondiale del lavoro, di stampo prettamente liberoscambista, con la perpetuazione della illimitata mobilità del capitale finanziario e la concentrazione del manifatturiero laddove il costo del lavoro sia considerato più vantaggioso.

Inoltre, la (difficile e ritardata) creazione di nuovi mestieri in questo settore è un falso problema: in realtà, essendo intelligenza artificiale e funzioni commerciali Internet, collocate, più che mai nell'attuale evoluzione, nel settore dei servizi, la loro espansione presuppone la conservazione di una serie consistente e crescente di "vecchi mestieri", correlati a filiere produttive senza le quali questi stessi servizi sarebbero - e sono- soggetti ad un'enorme volatilità dei profitti realizzabili.

Molti dei "vecchi mestieri", semmai, possono essere adeguati agevolmente inglobando l'utilizzazione di nuovi strumenti tecnologici di non particolare difficoltà di apprendimento: cosa che richiede sia la funzione pubblica della formazione che quella privata di investimento sul personale, non esclusivamente legata al bench mark finanziario "globalizzato". Ma per provvedere a ciò, occorre una visione che si può riassumere in "intervento dello Stato a sostegno della domanda", credendosi nelle enunciazioni delle Costituzioni su tale priorità legale-istituzionale dell'intera comunità "sovran".

Per una più precisa delineazione del problema, ci affidiamo alle parole di Cesare Pozzi:


D. Si sostiene che l'attuale disoccupazione diffusa, nei paesi a capitalismo "maturo", è essenzialmente dovuta agli effetti dell'applicazione delle nuove tecnologie nei modelli di impresa evolutisi negli ultimi anni: è una valutazione realistica o fuorviante?
R. La domanda sottende uno dei principali "bachi" della teoria ortodossa.
L'economia di mercato che la maggior parte dell'Umanità ha in cuore - perché è liberale, quindi non vincola il destino terreno dell'uomo alla sua dotazione iniziale di diritti, e promette un benessere diffuso su una quota mai raggiunta della popolazione di ogni Comunità - si basa su una particolare declinazione del capitale che ne enfatizza la dimensione artificiale e perciò può essere detta "capitalistica". Su questa falsariga se l'applicazione di nuove tecnologie riduce la necessità di occupare in alcuni mercati, apre lo spazio per nuovi mercati e per l'aumento del tempo libero
.


Il problema della disoccupazione si crea a causa degli assetti istituzionali quando sono il risultato di teorie normative che discendono da teorie economiche non coerenti con i propri presupposti (se si spacciano per liberali) e quindi male regolano tutti gli aspetti critici che si vengono a creare, comunità per comunità, lungo il tempo storico.

D. Se esiste una correlazione stimabile, rispetto all'intero mercato del lavoro, tra la diminuzione degli occupati e l'applicazione delle innovazioni tecnologiche, questo effetto non dovrebbe rallentare in un
periodo in cui una vasta e prolungata recessione, dovuta a cause iniziali essenzialmente finanziarie e poi a politiche fiscali restrittive, determina naturalmente una caduta degli investimenti produttivi (lamentata in tutte le aree, dall'UE al Giappone)?
Il fatto che non ci sia questo rallentamento è il segnale che alla nostra crisi strutturale si sta rispondendo in questa fase generando la maggior pressione possibile sul lavoro in modo da consolidare l'idea che sia tornato una merce. Quando la situazione di rassegnazione si sarà affermata si cercherà di arrivare a un assetto di occupazione diffusa a basso reddito. E' significativo in questo senso l'enfasi che si è posta sui dati italiani relativi alla distribuzione del reddito (che sono tra i meno diseguali nel Mondo occidentale) rispetto al silenzio sul fatto che 85 persone possiedono quanto la metà più povera dell'umanità (che mi sembra in linea con quanto dico).

Sull'economia del "tempo libero" richiamiamo, dalle sue premesse quanto detto da Cesare in un'altra occasione su questo stesso blog:
"Per comprendere le distorsioni e gli effetti perversi che si generano effettivamente nella realtà si deve invece analizzare la produttività a partire da una funzione di produzione rappresentativa dei processi produttivi. In questo senso la strada più utile è quella che considera la suddivisione in fondi e flussi proposta da N. Georgescu Roegen.

L’indivisibilità e l’ozio dei fattori di fondo, lavoro e capitale, sono i due elementi su cui intervenire per aumentare l’efficienza di un processo produttivo e quindi per formulare un primo giudizio sulla sua produttività. In secondo luogo, poiché sono queste le caratteristiche dei fattori produttivi che consentono di analizzare il funzionamento dei processi produttivi, è a partire da tale analisi che si possono avere gli elementi per effettuare un confronto tra diversi processi produttivi in modo da elaborare una teoria della produttività.

In termini reali, la possibilità di effettuare questa prima valutazione in maniera precisa sul singolo lavoratore si scontra con la varianza nelle loro caratteristiche (in altri termini, nessuno è in grado di sapere quanto e con quanta resa è in grado di lavorare una persona); concretamente, con il passare del tempo l’orario di lavoro tende a ridursi generando inefficienza strutturale, in parte compensata dall’aumento della popolazione che, consentendo in linea teorica di lavorare su più turni, può far aumentare meno il non utilizzo dei fattori fondo capitale. Il risultato che ne esce in un inquadramento neoclassico è il mantenimento tendenziale della stessa paga oraria per unità di lavoro, con la conseguente riduzione del salario pro-capite, mentre nella realtà la riduzione del tempo individuale di lavoro ha generato un esito sorprendentemente utile, cioè un meccanismo di autorinforzo che, nelle economie di mercato, si è tradotto nella proliferazione di mercati assolutamente voluttuari del tempo libero.

Tali mercati sono però, indirettamente (perché richiedono un processo di accumulazione precedente e contestuale sui mercati “indispensabili”), estremamente deboli in due sensi:
- nel primo perché dipendono prioritariamente dalla scelta politica di accettare un certo livello di inefficienza del fattore fondo lavoro nei mercati dei beni primari e successivi;
- nel secondo perché la comunità che li genera è esposta alla falsa innovazione di processo di cui sopra (e nella difficoltà di comprendere il circolo vizioso in cui si entra accettando questa strada gioca un ruolo decisivo una non corretta rappresentazione del problema della produttività in quanto fornisce una falsa giustificazione scientifica alla pressione sul costo del lavoro)
.


Ora capite come, data l'impostazione ideologica dominante, sia estremamente problematico che un nuovo governo italiano, dichiaratamente formato su una visione economica che recepisce acriticamente questa costruzione del mercato del lavoro, del ruolo dello Stato e della spesa pubblica, non solo non prometta nulla di buono sul piano occupazionale - minacciando ogni residua considerazione del lavoro in termini diversi da quelli di "merce"- ma rischia di aggravare in modo decisivo una situazione di compromissione del territorio e di irrazionale (anzi: antieconomico) impiego dei beni pubblici a profitto dei privati, di cui l'Italia non ha certo bisogno.




14 commenti:

  1. E già, la neolingua e la neostoria. Il bello è che avevano già scritto tutto, bastava riguardare Karl Polanyi, Nicholas Georgescu-Roegen e il suo ispiratore Frederick Soddy (conditi con un po' di Guenther Anders, per tacer di tanti altri). Purtroppo la storia (anche quella del pensiero) non insegna mai nulla e non a pochi, e ora si fa tanta fatica a confutare e contrastare idee che, già nel corso del tempo, si sono dimostrate folli o fallaci.

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    1. Questo della fatica del "confutare", in effetti, è un fenomeno che ha dell'incredibile.
      Al di là di quello "vero", paradossale e sarcastico, l'impressione è che l'intera cultura economica sia frutto di un "generatore automatico", che vive di un meccanismo di autorinforzo tra accademia e espertologia mediatica

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  2. QUISLER & HARD TIMES

    Major Quisling," said the London Times last week, "has added a new word to the English language. . . . Aurally it contrives to suggest something at once slippery and tortuous. Visually it has the supreme merit of beginning with a Q, which (with one august exception) has long seemed to the British mind to be a crooked, uncertain and slightly disreputable letter, suggestive of the questionable, the querulous, the quavering of quaking quagmires and quivering quicksands, of quibbles and quarrels, of queasiness, quackery, qualms and Quilp (*) ..”.

    "Il maggiore Quisling", The Times ha scritto la scorsa settimana (“Quislings everywhere”, 15/04/1940), "ha aggiunto una nuova parola alla lingua inglese .... Foneticamente suggerisce subito qualcosa di viscido e tortuoso. Graficamente ha il supremo merito di iniziare con una Q, che (con qualche rara eccezione) da tempo nella “british mind” sembrava essere una lettera sbilenca e corrotta, incerta e malfamata, discutibile, una querula, la traballante instabilità del pantano e l’insidia delle sabbie mobili, dei cavilli e litigi, della nausea, della ciarlataneria, delle remore e di Quilp ... “
    (Time Magazine “Quislers”, 29/04/1940 – con libera e liberata interpretazione).

    Una strepitosa sequenza originale di sostantivi, tutti con la Q, che si coniugano magistralmente con l’inglese globalizzato nel quale predominano altri vocaboli: OTC derivatives, hedge found, shadow bank system, too big to fail, spread, spending review, financial stability mechanism, european redenction fund ... giù, giù, scivolando “tortuosamente” fino all’ossimorica flexicurity somministrata amabilmente, suadentemente, incessantemente ai “ciusi” Undermenschen dai n(m)ostri novelli mr Q, i proclamati neo-liberalizzatori.
    C’è da scivolare nelle sabbie mobili della memoria per ritrovare il significato di quell’ultima Q, quella intraducibile di Quilp: ma è’ lui, Daniel Quilp, l’orrido nano perfido strozzino dell’antiquario di C Dickens e, lume del “tunnel”, appaiono HARD TIMES negli orizzonti delle moderne Coketown tarantine.
    Romanzetti che vanno nuovamente “somministrati” nella scuola primaria e a quei 3 milioni di primati analfabeti che oltre la lettera mr Q conoscono solo la X del rottamatore della democrazia .
    Tempi duri e duri i tempi ma “sempre allegri bisogna stare ‘chè diventan tristi se noi piangiam”.

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    1. E mi diceva Fiorenzo Fraioli che i ragazzi delle scuole non sono minimamente interessati a capire come stanno le cose (che riguardano molto da vicino il loro destino) perchè non ne colgono il vantaggio pratico

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    2. A proposito della tua risposta, mi accorgo che dimenticavo Adorno e Horkheimer nella hall of fame di cui sopra:

      "Il sistema a cui l’illuminismo tende è la forma di conoscenza che viene meglio a capo dei fatti, che aiuta più validamente il soggetto a sottomettere la antura. I suoi principi cono quelli dell’autoconservazione. La minorità si rivela come l’incapacità a conservarsi [...] Ma insieme la ragione rappresenta l’istanza del sistema calcolante, che organizza il mondo ai fini dell’autoconservazione e non conosce altra funzione che non sia quella della preparazione dell’oggetto da mero contenuto sensibile a materiale di sfruttamento"

      "Attraverso la subordinazione di tutta la vita alle esigenze della sua conservazione, la minoranza che comanda garantisce, con la propria sicurezza, anche la sopravvivenza del tutto "
      ( Dialettica dell'illuminismo)

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    3. Da cui la splendida idea di simmetria per cui non si può negare un sussidio agli indigenti, se non altro per porre al riparo la minoranza "evoluta" dagli atti di violenza inconsulti che gli indigenti potrebbero compiere in loro danno.

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  3. Il tema che più mi sta ronzando nelle orecchie è proprio quello riferibile all'identità antipopperiana lavoro=merce.

    Il socialismo pare nascere proprio dalla coscienza che l'uomo è misura delle cose, cioè da migliaia di anni di storia... da qualcosa che semplicemente chiamerei cultura.

    L'edonismo radicale implicito nel dogma liberalliberistalibertario fa, invece, emergere un'idea "barbarica", animalesca, in cui vale l'identità felicità=piacere: cosa direbbe Freaud? non è forse l'antitesi della crescita umana stessa? Non è forse l'antitesi stessa di ciò che definiamo "cultura"? Questa è anticultura.

    Lascerei poi ai filosofi disquisire della, a parer mio, non banale differenza tra anticultura e (crassa) ignoranza.

    La violenza e l'inganno neolinguistico del termine risorse umane dovrebbe far riflettere sulla scelta globalmente accettata: un Uomo che si possa definire tale non dovrebbe permettere che esista un reparto che si chiami HR. I cittadini sono diventati delle batterie biologiche come in Matrix? Da quando i cittadini sono considerati al pari di cespiti e non sono più ritenute persone?

    Non ho mai sentito nessuno esprimere questa banale perplessità. Ma forse mi sfugge qualcosa.

    (Il processo logico del liberalismo barbarico sembra essere: libero da ==> profitto ==> godimento ==> felicità: davanti ad ogni passaggio logico è possibile preporre l'umanissimo aggettivo illimitato)

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    1. La peculiarità del nostro tempo è l'innalzamento (effetto di manipolazione) a livelli di massa della cultura che definirei "antiumanista". Persino i "dannegiati" difendono il profitto-godimento illimitato dei pochi...semplicemente perchè credono di poterglisi associare, prima o poi...vivendo intanto di briciole

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  4. OT (ma non troppo), tristemente ot

    Ieri, San Valentino, girovagando per le librerie di Roma alla ricerca di un libro da regalare a mia moglie, la scelta è caduta su questo divertente saggio di psicologia, dichiaratamente non sessista, di Danny Samuelson.

    Incuriosito, dal tono dei riconoscimenti dell'autore al proprio maestro Paul Watzlawick, ho cercato in rete notizie sul fondamentale testo Istruzioni per rendersi infelici e ho trovato questa recensione, dalla quale è estratta la PEERLA sotto riportata.

    È giunta l’ora di farla finita con la favola millenaria secondo cui felicità, beatitudine e serenità sono mete desiderabili della vita. Troppo a lungo ci è stato fatto credere, e noi ingenuamente abbiamo creduto, che la ricerca della felicità conduca infine alla felicità.
    Per di più, il concetto di felicità non è neppure definibile. Così, per esempio, gli ascoltatori della settima puntata di “Abendstudio”, della Radio dell’Assia, nel settembre 1972 furono testimoni di una discussione senza dubbio sorprendente sul tema “Che cos’è la felicità?”, durante la quale quattro rappresentanti di diverse discipline e visioni del mondo non riuscirono ad accordarsi sul significato di questo concetto apparentemente così scontato, e questo nonostante gli sforzi dell’oltremodo ragionevole (e paziente) moderatore.
    Ciò non dovrebbe sorprenderci. “Riguardo all’essenza della felicità, ci sono sempre state opinioni diverse,” si legge in un saggio del filosofo Robert Spaemann sulla vita felice “Terenzio Varrone contava 289 interpretazioni, e così anche Agostino. Tutti gli uomini vogliono essere felici, dice Aristotele.” E Spaemann ricorda poi la saggezza di una storiella ebraica in cui il figlio annuncia al padre la propria intenzione di sposare la signorina Katz. “Il padre obietta che la signorina Katz non ha la dote e il figlio ribatte dicendo che solo con lei potrà essere felice. Al che il padre chiede: ‘Essere felice, e cosa ne ricavi?
    Già soltanto la letteratura universale avrebbe dovuto da lungo tempo renderci diffidenti. Disgrazia, tragedia, catastrofe, crimine, colpa, follia, pericolo: ecco la materia delle grandi creazioni. L’Inferno di Dante è di gran lunga più geniale del suo Paradiso; lo stesso vale per il Paradiso perduto di Milton, in confronto al quale il Paradiso riconquistato è del tutto insipido; la caduta, nella Leggenda di ognuno di Hugo von Hofmannstahl, è appassionante, mentre l’intervento finale degli angioletti salvatori fa una penosa impressione; il Faust I commuove fino alle lacrime, il Faust II fa sbadigliare.
    Parliamoci chiaro: cosa e dove saremmo senza la nostra infelicità? Essa ci è, nel vero senso della parola, dolorosamente necessaria.
    Nel regno animale, ai nostri cugini a sangue caldo le cose non vanno certamente meglio. Si osservino anche soltanto i mostruosi effetti di quella vita nello zoo che pur protegge tali magnifiche creature dalla fame, dal pericolo e dalla malattia (carie compresa), facendone gli equivalenti animali dei nostri nevrotici e psicopatici.
    Al nostro mondo, che rischia di essere sommerso da una marea di istruzioni per essere felici, non si può rifiutare più a lungo un salvagente. La comprensione di tali meccanismi e processi non può continuare a essere il dominio gelosamente sorvegliato della psichiatria e della psicologia.
    (segue)

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  5. (segue)
    Al nostro mondo, che rischia di essere sommerso da una marea di istruzioni per essere felici, non si può rifiutare più a lungo un salvagente. La comprensione di tali meccanismi e processi non può continuare a essere il dominio gelosamente sorvegliato della psichiatria e della psicologia.
    Il numero di coloro che, con competenza e consapevolezza, si costruiscono la propria infelicità può sembrare relativamente grande. Infinitamente più elevato è però il numero di quelli che, anche in questo campo, hanno bisogno di consiglio e aiuto. A loro sono dedicate, come introduzione e guida, le seguenti pagine.
    A questa altruistica intenzione non manca però un significato politico. Al pari di un direttore di zoo lo stato sociale si è assunto il compito di assistere il cittadino dalla culla alla bara, rendendo la sua vita sicura e traboccante di felicità. Questo però è possibile solo attraverso una sistematica educazione dei cittadini all’inettitudine sociale, con la conseguenza che nel mondo occidentale crescono a dismisura le spese pubbliche per i servizi sociali e l’assistenza sanitaria. Come ha rilevato Thayer , negli Stati Uniti tali spese sono aumentate tra il 1968 e il 1970 del 34%, da 11 a 14 miliardi di dollari. Secondo recenti statistiche, nella Repubblica Federale Tedesca le sole spese quotidiane per l’assistenza sanitaria ammontano a 450 milioni di marchi, il triplo di ciò che veniva speso nel 1950; ci sono in questo paese 10 milioni di ammalati, e il consumatore tedesco medio prende durante la sua vita 36.000 pastiglie. I dati italiani sono analoghi: nel 1980 gli istituti di cura pubblici hanno ospitato più di nove milioni di degenti; dal 1970 al 1980 il consumo di medicine vendute in farmacia è aumentato di quattro volte e di otto volte quello di beni e servizi per la salute.
    Pensiamo a cosa succederebbe se questa tendenza alla crescita si arrestasse o addirittura diminuisse: enormi ministeri e altre colossali organizzazioni crollerebbero, interi settori dell’industria andrebbero in fallimento e milioni di persone resterebbero senza lavoro.
    Allo scopo di evitare una tale catastrofe, questo libro vuole offrire un piccolo, responsabile e consapevole contributo. Lo stato sociale ha un così pressante bisogno dell’indigenza e dell’infelicità della popolazione, che questo compito non può essere affidato ai dilettanteschi e isolati tentativi dei pur bene intenzionati cittadini. Anche qui, come in tutti gli altri aspetti della vita moderna, c’è la necessità di una direzione statale. Tutti possono essere infelici, ma è il rendersi infelici che va imparato, e a ciò non basta certamente qualche sventura personale.


    Ovvero, detto in poche parole: "vogliamo solo aiutarvi a rendevi infelici più velocemente, dato che non vi dimostrate molto efficienti, per riattivare in voi il senso del tragico e - che non guasta mai -mantenere in piedi la macchina della sanità statale".

    Non vi ricorda la durezza del vivere?

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    1. Mi hai tolto le parole di bocca. Ma è probabile che Waltzlawick fosse une delle "buone letture" del nostro. SI vede che sono (furono) personcine di cultura...
      Tra l'altro, inutile dire che gli "zotici" vengono classificati tutti senza esitazioni fra i malati immaginari, trascurando che non è certo curando l'ipocondria che si ottiene l'innalzamento della vita media. Magari "vivere" non sarà in sè la felicità, ma di certo non lo è morire prima del tempo da malati indigenti....per far contenti gli ordoliberisti e le loro esigenze filosofico-paralogiche

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  6. Scusa, ma mi diverte troppo. Repubblica fa una rivelazione sconvolgente: http://tinyurl.com/onosnjv ma bisogna leggere bene "C'è voluta più di una settimana e qualcuno disposto ad immergersi in oltre cento pagine di gergo giudiziario tedesco, ma il risultato sembra inequivocabile."
    "Qualcuno" lo aveva detto subito, ma bisogna capirli. Se non sbaglio tutti gli studi di neurofisiologia mostrano che l'elaborazione mentale necessaria per mentire è molto superiore a quella necessaria per dire la verità.
    A maggior ragione il tempo necessario per passare in rivista le menzogne possibili, salvo poi arrendersi all'innegabile, deve essere decisamente alto. E comunque affermano ancora che non ci sono limiti di tempo, mentre il comunicato stampa parla di 18 marzo "prossimo" (che farebbe 2014, e non 2016).

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    1. Ti ringrazio per la segnalazione (difficilmente mi sarebbe capitato di leggere l'articolo).
      Vedremo cosa accadrà il 18 marzo (se consideriamo l''ANSA attendibile nell'aver riportato tale rinvio di udienza).
      MA il punto più inquietante è il finale, dove viene posto come interrogativo retorico, nondimeno emblemtatico e suggestivo, l'esempio di una pronunica della corte cost. del Lux, in base ad una Costituzione del 1868: da lì a dare in pasto all'opinione pubblica che ogni corte cost impedirebbe assurdamente il "sogno europeo" in base a costituzioni giudicate per la loro data di promulgazione, il passo pare breve...

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    2. E se per questo il rinvio al 18 marzo è confermato dal Sole24h: se poi la CGUE farà come gli pare, coi tempi, i tedeschi potrebbero perdere la faccia e non decidere nemmeno in tale data.
      Ma se così non sarà, la perderanno a Repubblica, con conseguenti grandi difficoltà non solo per loro, ma anche per un ipotetico ma probabile governo italiano che si troverebbe esposto agli spread non certo tra 3-4 anni. Come continuano a ignorare, dipenderà dalla scommessa sull'attivo CAB e su un trend di stabile miglioramento della nostra posizione netta sull'estero.
      Che poi è realizzabile solo continuando ad ammazzare la domanda interna, con buona pace dello 0,0800 di crescita del PIL appena registrato e che porta gli stessi soggetti a cantare vittoria....senza scontare gli effetti della spending review imminente e del taglio delle pensioni.
      Ma credo che i tedeschi farnno ancora qualcosa; per far uscire noi, mica per uscire loro...

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