domenica 15 febbraio 2015

ISIS. IRAK. LIBIA. POLITICHE UE DELLA DIFESA. UN PERCORSO DALL'INIZIO


I-  PRIMA PREMESSA GENERALE
Come prima premessa conoscitiva vi fornisco un riassunto delle parti più significative del post di Riccardo Seremedi

FORTEZZA EUROPA -1. QUANDO LA SPESA PUBBLICA NON E' BRUTTA E SI RISCOPRE IL MOLTIPLICATORE!!!...E LA CONSUETA AVANTGARDE ELLENICA:

"1. A livello comunitario, la prima dichiarazione d'intenti relativa alle politiche UE nel campo della difesa, si ha con la Comunicazione n° 764 del 05-12-2007, “Una strategia per un' industria della Difesa europea più forte e competitiva”  in cui la Commissione Europea enuclea gli aspetti principali legati all'industria delle armi: vengono elencate tutte le "mancanze" delle politiche nazionali, ree di non favorire un libero accesso a capitali e partnership esterne, creando “distorsioni e ridondanze” che non consentono al “mercato” di essere “efficiente” e di allocare le risorse disponibili nella maniera più soddisfacente.
 
2. A questa comunicazione sono seguite due Direttive, il cosiddetto DEFENCE PACKAGE: la Direttiva 2009/43 del 06-05-2009 (con i successivi emendamenti 2010/80; 2012/10 e 2012/47, relativi ad aggiornamenti all'elenco comune dei prodotti per la Difesa) per i trasferimenti intra-UE di prodotti per la Difesa e la Direttiva  2009/81 del 13-07-2009, per migliorare la gestione degli appalti, favorendo l'apertura e la competitività, riducendo il sostrato regolatorio (as usual).

3. ...Successivamente il lavoro preparatorio si è ulteriormente perfezionato con la Comunicazione n°542 del 24 luglio scorso “Verso un settore della Difesa e della Sicurezza più competitivo ed efficiente”, in cui la Commissione Europea introduce il concetto di EDIP (European Defence Industrial Policy).
La Comunicazione si avvale anche di una relazione accompagnatoria redatta dal Working Staff  della Commissione Europea, che illustra lo scenario continentale.
Tale documento esordisce magnificando l'industria della Difesa (è strano come questi studi CE non rechino quasi mai il termine “militare”) quale creatrice di sviluppo e lavoro, con un giro d'affari di 96 miliardi di euro nel 2012, fornendo migliaia di posti di lavoro altamente specializzati (circa 400.000 persone), con un effetto moltiplicatore tra 2.2 e 2.4 che genera altri 960.000 lavori indiretti.
Nel paragrafo 2.3 (pag. 8) si cominciano a intravedere i prodromi di future criticità occupazionali, alla faccia di tutti i paroloni su crescita e lavoro; il succo del discorso è che in Europa si spende troppo per il personale e troppo poco in equipaggiamenti sofisticati.
Quasi metà degli Stati membri dell'UE stanno spendendo più del 60% dei loro budget per il personale, con un investimento ottimistico dello 0,5% del PIL nella Difesa, dopo avere defalcato gli oneri sopracitati... 

A questo punto la parola d'ordine diventa “consolidamento” che  - a dispetto di alcune ristrutturazioni nazionali nel Regno Unito, Francia, Italia e Germania - deve portare a maggiori aggregazioni..
In quest'ottica, gli ostacoli da superare vengono individuati nelle residue sacche di sovranità nazionale che ancora esistono in ambito militare, considerando pregiudizievole la preferenza degli Stati per i produttori nazionali anziché verso gli altri fornitori europei e, soprattutto la proprietà statale che è strettamente legata alle restrizioni in materia di fusioni e acquisizioni, partecipazioni da parte di investitori stranieri e altre forme di  investimento estero (pag 22): si apprende che la maggior parte degli investimenti in nuovo equipaggiamento e in programmi militari di Ricerca e Sviluppo sono legati a importanti progetti promossi dagli Stati nei decenni precedenti.
Il motivo per cui i governi devono sostenere la parte dei costi di Ricerca e Sviluppo è che il lasso di tempo tra l'investimento iniziale e lo sviluppo vero e proprio può arrivare a 20 anni; di conseguenza, ci sono pochi incentivi per gli investimenti privati, dati i tempi e l'imprevedibilità di ritorni finanziari, e così la R&S nelle nuove tecnologie si basa – in larga misura – su investimenti pubblici.
Ma non ci viene raccontato che la spesa pubblica è improduttiva, che il mercato deve essere lasciato flessibile affinché “l'intelligenza del denaro” possa esplicarsi nel miglior modo possibile?
 
4. Conclusioni a cui giunge la Commissione Europea nella Comunicazione n°542: il mutamento strategico e geopolitico è rapidamente in evoluzione; gli equilibri si stanno spostando verso i nuovi centri di gravità e gli USA stanno ricalibrando il loro focus strategico verso l'Asia.
In questa situazione, l'Europa deve assumersi grandi responsabilità per la propria sicurezza interna ed esterna; l'obiettivo finale è pertanto quello di rafforzare la difesa europea per far fronte alle sfide del XXI secolo e, in ultima analisi, gli Stati membri dovranno fare le “necessarie riforme”.
Inevitabilmente, troviamo al par.3.5 (pag. 10): Gestione del cambiamento e garantire il futuro
L'industria della Difesa sta sperimentando profondi cambiamenti a cui gli Stati membri e le industrie devono adattarsi. La Commissione e gli Stati membri hanno una gamma di strumenti per promuovere nuove competenze e affrontare l'impatto della ristrutturazione. La Commissione incorraggerà gli Stati membri a far uso della flessibillità del lavoro per supportare le imprese che soffrono di temporanee crisi nella domanda e promuovere un anticipato approccio alla ristrutturazione. In questo contesto, gli Stati possono usare il supporto fornito dall'European Social Fund (ESF).
 
5. Lo studio della TNO, “Sviluppo di una base tecnologica e industriale della Difesa europea”- finanziato dalla Commissione Europea - fornisce molti utili spunti interpretativi per leggere in filigrana le sontuose “necessarie riforme” che ci attendono.
Nel paragrafo 3.3.4 (pagg. 47-48) si evidenzia il ruolo obsoleto della NATO che, dalla fine della Guerra Fredda e il crollo dell'Unione Sovietica, ha la necessità di ritagliarsi un nuovo spazio che ne giustifichi “la ragion d'essere”.
Si chiede, quindi, un “rinnovato consenso” per un ruolo attivo nel continuare a condurre “le tendenze militari che plasmano il mondo”, sottolineando come l'amministrazione Obama stia riconsiderando gli europei come “alleati chiave” nella sicurezza globale.
Tra le minacce, nemmeno a dirlo, viene citata la Russian belligerence che minerebbe la sicurezza dei nuovi membri della NATO - tutti gli ex-appartenenti al defunto Patto di Varsavia : Polonia, Bulgaria, Romania ecc. - e la paura di un Iran dotato di armi nucleari; come si vedrà in un'altra occasione, queste paure ingiustificate nascono dai crescenti timori di Washington riguardo aspetti geo-economici afferenti a questi Paesi che, unitamente alla Cina, stanno creando seri grattacapi al declinante modello unipolare americano.
 
Un esempio “edificante” della partnership pubblico/privato lo troviamo nel paragrafo 3.3.8 (pagg. 52—53), nel quale viene auspicato l'ingresso delle PRIVATE MILITARY COMPANY (PMC) nella organizzazione militare europea; vengono additati a fulgido esempio gli Stati Uniti che, a partire dagli anni '80, hanno esternalizzato diversi servizi a società come  Blackwater, Executive Outcomes, Sandline e Dynacort, con un fatturato stimato tra i 20-30 milioni di dollari nel 2005.
 
6. Nel paragrafo 3.5.4 (pagg. 76-77) lo studio olandese ci ragguaglia sulle strategie comunicative per ottenere “l'accettazione sociale alle operazioni militari” (nell'originale viene pervicacemente usato “defence”) ; sembra che l'ossessivo progetto occidentale di creare pericoli a ogni piè sospinto sia quello che garantisca i risultati migliori.
Vi si legge, infatti, che l'accettazione sociale  a operazioni di difesa potrebbe aumentare dall'accresciuta percezione di insicurezza o dalla retorica di una approvazione generale riguardo a successi in ambito militare; questi fattori porterebbero a un clima favorevole per un ulteriore rafforzamento del settore che consentirebbe budget più alti.
Viceversa se l'attuale giudizio critico dovesse aumentare, i politici potrebbero sentirsi sotto pressione e attenuare il loro impegno per le operazioni di difesa, riducendo così i bilanci e spostando l'attenzione alle operazioni umanitarie.
Assai inquietante è quello che si trova scritto poco più sotto, cito testualmente: “Se i cittadini sono scettici sulle operazioni di difesa, i bilanci sono destinati a contrarsi e il reclutamento di risorse umane diventerà più difficile. Comunque è chiaro che un nuovo attacco terroristico influenzerà fortemente l'approvazione dell'opinione pubblica per operazioni di sicurezza e difesa.
 
II- SECONDA PREMESSA GENERALE

L’intervento Usa in Irak non fermerà l’Isis. L’analisi di Camporini
Come secondo antecedente significativo, vi ripropongo un ampio estratto dell'articolo "Irak: chi arma l'ISIS e perché gli Usa non interverranno." postato da Maria Grazia Bruzzone, ed apparso su "La Stampa" on line.
Questo articolo è interessante per il quadro che ci fornisce sulle fonti di informazione "alternative" in ordine alla  genesi, al finanziamento ed alle strategie di azione attribuibili all'ISIS. 
All'estratto abbiamo aggiunto (infra: in corsivo) un commento logico-deduttivo (abbastanza "elementare": cioè implicito negli "indizi" forniti dalle fonti) che non solo completa l'excursus rispetto alla questione "irakena", ma che, si badi bene, vale in termini, quasi del tutto trasponibili, anche per la LIBIA:
 
 “Susan Rice ammette che gli Usa danno armi ad Al Qaeda in Siriaarrivava a titolare ad effetto Infowars il 7 giugno con video di YouTube incorporato in cui il consigliere n. 1 del presidente parla alla CNN. Dice di avere il “cuore spezzato” per le distruzioni in atto in Siria. “ E’ per questo che gli Stati Uniti hanno accresciuto il sostegno alle opposizioni moderate fornendo armi letali e non letali dove possiamo appoggiare sia l’opposizione civile sia quella militare”.  Gruppi moderati spesso sotto finanziati, frammentati e caotici, sembrano servire a poco rispetto alle unità islamiste più radicali e organizzate, scriveva l’agenzia Reuters già un anno fa. E oggi?  Nonostante le dichiarazioni di Rice l’amministrazione Usa è rimasta vaga, rifiutando di dare dettagli. 
A chi finiscono le armi? L’autore del post ricorda di aver scritto già ad aprile che gli Stati Uniti fornivano armi ad al-Nusra ( fazione jihadista vicino ad al Qaeda) e altri gruppi terroristi in Siria  attraverso gruppi moderati. “Se quelli che ci sostengono (Usa, Arabia Saudita, e Qatar) ci dicono di mandare le armi a un altro gruppo le mandiamo. Un mese fa ci dissero di mandare molte armi a Yabroud, (una città siriana) e lo abbiamo fatto”, ha raccontato Jamal Marouf, che guida il Syrian Revolutionary Front (SRF) creato dalla CIA e intelligence di Arabia e Qatar.   
  
Ora viene citato Barak Barfi, ricercatore della New America Foundation, a sua volta certo che al Nusra, uno dei gruppi jihadisti più feroci, riceve armi indirettamente dal SRF . “Si sa che il primo ministro turco Erdogan  appoggia l’ al-Nusra  Front e altri gruppi terroristi", ha scritto del resto lo scorso aprile il giornalista Premio Pulitzer Seymour Hersh, parlando degli appoggi da parte dei paesi vicini della Siria, specie la Turchia, alle milizie terroriste.  
  
E al-Nusra Front un mese fa ha dichiarato che avrebbe obbedito all’ordine del leader di al-Quaeda Al-Zawahiri  di fermare gli attacchi ai rivali dell’ISIS , raccontava a inizio maggio Asharq Al-Awsat , primo giornale panarabo, stampato in 4 continenti. Al-Nusra  è  una branca di al-Qaeda in Siria mentre l’ISIS è considerato l’ala irachena, viene specificato.  
  
Ma chi c’è dietro l’ISIS che dice di guidare la ribellione dei sunniti contro le ingiustizie commesse dagli sciiti del dopo Saddam? Chi lo sostiene, chi lo arma, chi lo finanzia?  Se lo chiede l’autore di un altro articolo dello stesso giornale, che si dice sorpreso di aver visto il suo capo Abu Bakr Al-Baghdadi addirittura sulla copertina di TIME alla fine dell’anno scorso.  
  
Baghdadi - secondo un blog francese  assai “cospirazionista” ma informato - comanderebbe la milizia per conto dei Saudiani (sunniti-wahabiti), sarebbe legato direttamente a un principe della famiglia reale fratello di un ministro, ma il gruppo sarebbe co-finanziato da americani, saudiani e anche francesi. Irakeno, Baghdadi nel 2013 se ne è partito a combattere in Siria, radicandosi nel nordest a Raqqa.  Salvo dirigersi recentemente verso l’Irak , arrivando al distretto di Ninive, a  Mosul e a Baliji, sede della maggiore raffineria irakena, oggi circondata dalle sue truppe.  
  
Gli alleati segreti dell’ISIS. Senza nemmeno trovare troppa resistenza, racconta qui Global Research: a Mosul l’esercito irakeno – addestrato per 10 anni dagli americani (costo $20 miliardi)-  non solo non è stato capace di fermare   2-3000 militi ISIS, ma i soldati hanno disertato in massa lasciando sul campo uniformi e armi per i guerriglieri, dove già militavano ex ufficiali e commilitoni dell’esercito di Saddam, sunniti come loro. E come gran parte della popolazione della regione, che infatti pare abbia applaudito la rotta dell’esercito di Al Maliki. (“Gli alleati segreti dell’ISIS”, titola un  post del Daily Beast, raccontando cose simili).  
  
Una campagna non da poco, quella di Mosul, pensata e preparata con cura e per tempo.  L’ISIS del resto è un vero esercito ben organizzato e pagato, scrive un post di Land Destroyer/Infowars .
 

E mostra la foto di un lunghissimo convoglio di guerrieri con i loro vessilli neri a bordo di veicoli Toyota tutti uguali e nuovi, a quanto sembra. “Gli stessi usati dai miliziani che la Nato ammette di armare”, osserva l’autore. Che non crede alla “sorpresa” che i media americani raccontano. 

Davvero la CIA non sapeva niente dell’avanzata di giugno? Vogliono far credere che l’intelligence sia stata colta di sorpresa, malgrado la sua presenza in Irak, e  che l’ISIS sia un gruppo che si autofinanzia con furti alle banche e donazioni via twitter (sui giornali è uscito anche questo). 

Ndr: quand'anche ORA abbia un grado di controllo militare del territorio da finanziarsi ANCHE con sequestri, estorsioni a danno delle imprese che detengono gil impianti petroliferi, concussioni sulle relative concessioni  ('aa corruzione), è evidente che non si giunge ex abrupto a un tale grado di forza coercitiva e di organizzazione strategica. Tutto ciò implica una "dotazione" iniziale obiettivamente cospicua, finanziaria e di fornitura di armi e specifico addestramento militare, oltre che di concepimento di strategie che potessero tenere conto del placet di chi aveva il controllo politico-militare effettivo sulle aree interessate.

La CIA ha da tre anni un programma di droni che sorveglia il confine fra Siria e Turchia. Poteva almeno leggere i giornali: il Lebanon Daily Start in marzo riferiva che il gruppo si era dislocato dalla Siria del nord verso est lungo il confine con l’Irak.  
L'autore cita Seymour Hersh che già nel 2007 ( articolo The Redirection) documentava "l'intenzione di Stati Uniti, Arabia Saudita e Israele, di creare e dispiegare una rete regionale di estremisti settari che avrebbero dovuto confrontarsi con Iran,Siria e Hezbollah in Libano". 
"L'armata ISIS è la manifestazione finale di questo disegno", scrive. Accreditando la tesi complottista avanzata dall'autorevole giornalista.
  
L’ ISIS  non è più da tempo una mera organizzazione terroristica. E’ una forza militare convenzionale che occupa un territorio e pretende di governarne una parte. 
La campagna di Mosul è stata bel pianificata e ha richiesto anni per metterne a punto le condizioni. Le operazioni hanno permesso di tagliar fuori i media dalla città, limitare le attività delle Forze di Sicurezza irachene, e guadagnarsi libertà di movimento all’interno.   Un lavoro sul terreno per arrivare il 10 giugno alla presa di Mosul e del territorio, all’apprezzamento del suo attacco, all’aspirazione a governare uno stato tra Irak e Siria (non va dimenticato che l’ISIS controlla già l’area nel nord della Siria intorno a Deir el Dzor, ndr).  
Così un report del 10 giugno dell’Institute for the Study of War, (istituto di ricerca indipendente, no partisan e no profit, specializzato in Medio Oriente).  
A citarlo è un post di Counterpunch online, mensile ormai storico di orientamento “radicale”, che non esita di criticare dem o rep. Il report – commenta il post - suggerisce che l’ISIS non è affatto quell’amalgama di fanatici rabbiosi che si vuol far credere, ma un esercito altamente motivato e disciplinato con chiari e definiti obiettivi politici e territoriali.  
Come andrà a finire? Interessante la convergenza fra analisi assai diverse.  
“Vi sono indicazioni crescenti che la crisi innescata dall’offensiva ISIS possa portare alla completa frattura dell’Iraq secondo linee settarie, cambiando la mappa politica del Medio Oriente”,  
scrive Global Research
E Claudio Gallo sulla stampa.it:  
Paradossalmente, il crollo dell’Iraq ha riportato in voga le cartine apparse sul web all’indomani dell’Operazione Iraqi Freedom lanciata da George W. Bush nel 2003. Mostravano un paese diviso in tre stati: uno curdo al nord, uno sunnita al centro e uno sciita a sud. Più o meno la mappa attuale” . 

..."Il piano fu proposto per la prima volta da Leslie Gelb, ex presidente del Council of Foreign Relations ( il  suo articolo sul NY Times risale in realtà al 2003 ndr), e dal senatore Joe Biden (nel 2006). 
Secondo il New York Times il cosiddetto piano della ‘ partizione soft’ prevede di dividere l’ Irak in tre regioni semi-autonome. Ci sarebbe un Kurdistan arrendevole, un morbido Shiastan, e un altrettando soft Sunnistan, tutti sotto un grande, debole ombrello Irak".   
"Ed è per questo motivo che gli Stati Uniti probabilmente non dispiegheranno truppe da combattimento per confrontarsi coi miliziani sunniti a Mosul. E’ perché gli obiettivi strategici dell ’ amministrazione Obama e quelli dei terroristi sono quasi identici. Cosa che non dovrebbe sorprendere nessuno”, conclude Counterpunch.
 
 III-  PREMESSE APPLICATIVE (fatti concreti compatibili con le premesse generali)
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"Il problema non è “se” ma “quando”. Quando soldati di una Coalizione in fieri entreranno in azione in Libia. E tra quei soldati ci saranno anche militari italiani. A chiederlo è l’amministrazione Obama, sostenuta da quei Paesi europei, Gran Bretagna e Francia in testa, già impegnati, in cielo e in terra, nella guerra siro-irachena contro l’Isis. In Libia, per evitare che il Paese nordafricano diventi l’avamposto nel Mediterraneo dello Stato islamico. In Libia, per difendere i corposi interessi economici che l’Italia ha nell’area. 

Interessi petroliferi, anzitutto. Fonti bene informate, nel campo della diplomazia e in quello militare, spiegano all’Huffington Post che ciò che è in discussione è sotto quale egida internazionale questa missione prenderà corpo: Onu, come nel Sud Libano, o Nato. “Una cosa è certa – taglia corto una fonte militare parlando con l’Hp - l’Italia non può assistere inerme alla somalizzazione della Libia. In gioco c’è la nostra sicurezza e gli interessi nazionali…”.

2) Terrorismo: a Copenaghen spari a convegno su Islam, un morto. "Volevano rifare Charlie Hebdo"

"Prima la Francia, ora la Danimarca. Prima Parigi, ora Copenaghen. La costante: il cuore dell'Europa. Dopo la strage del 7 gennaio scorso al settimanale Charlie Hebdo, il terrorismo di matrice islamica attacca di nuovo la libertà di parola e questa volta colpisce i partecipanti a un convegno su arte, blasfemia e libertà di espressione, riuniti in un caffè della capitale danese, il Krudttøenden. Un uomo morto e tre poliziotti feriti il drammatico bilancio. All'incontro erano presenti l'ambasciatore di Francia in Danimarca e il vignettista svedese Lars Vilks, bersaglio principale dell'assalto odierno per via delle sue caricature anti-Islam.

Il presidente francese François Hollande ha espresso la solidarietà della Francia alla Danimarca e ha annunciato l'imminente partenza per Copenaghen del ministro dell'Interno Bernard Cazeneuve. Commissione Ue e Alto rappresentante Federica Mogherini diramano una nota: "L'Europa non sarà intimidita"  (LaRepubblica.it)"

IV- CONSEGUENZA IMPLICITA NELLE PREMESSE.

Libia: l'Isis avanza. Gentiloni: "Pronti a combattere" - (See more at: http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/libia-caos-isis-conquista-sirte-paolo-gentiloni-Italia-pronta-azione-egida-onu-854d3967-9c5b-4518-8535-d362d1d57931.html)
I jihadisti conquistano terreno. 
Il titolare della Farnesina: non possiamo accettare una minaccia terroristica attiva a poche ore di navigazione dall'Italia. Analisti: c'è il pericolo che nei barconi dei migranti possano confondersi dei terroristi 
La Libia è uno "Stato fallito", nelle parole di Gentiloni, dal quale continuano a salpare barconi di disperati verso le coste italiane. Con l'eventualità - spiegano gli analisti - che tra i migranti possano insidiarsi dei combattenti dell'Isis.
 (RAINEWS, 14 febbraio 2015)

  

4 commenti:

  1. Osserva giustamente, il "mainstream" Sole24 ore, che "[...]una volta messi gli anfibi sul terreno bisogna restarci, e forse anche a lungo, per stabilizzare la Libia. I rischi di perdite tra i soldati in scontri e attentati sono alti. E sicuramente questi rischi erano inferiori mesi fa, quando da più parti si invocava un intervento internazionale in Libia. La missione militare comporta un costo umano, politico ed economico che i Paesi schierati contro Gheddafi nel 2011 non vollero accettare lasciando che il Paese sprofondasse nell'anarchia e nel caos dove adesso si è infilato il Califfato. Ma proprio di questo oggi si parla: saldare un conto aperto lasciato in sospeso da altri. Armiamoci e partite, quindi, sapendo bene però dove si va e a quale prezzo."

    http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2015-02-15/truppe-italiane-libia-tutti-rischi-dell-opzione-militare-191959.shtml?uuid=ABbNKIvC

    Il tutto, poi, mentre continuiamo ad essere dominati dalla spending review: da un lato, con la legge n. 244 del 2012 abbiamo ulteriormente ridotto il nostro strumento militare e le nuove acquisizioni sono sempre più limitate rispetto ai mezzi che vengono dismessi. Inoltre, di fronte alla popolazione colpita dalla recessione, non credo sarà facile giustificare un'operazione di questo tipo. Dove si andrà a "tagliare" per reperire le necessarie risorse?
    E ancora: non dobbiamo dimenticare che l'Europa ci ha lasciati sostanzialmente soli a gestire il drammatico fenomeno migratorio che arriva dalla Libia.

    Salendo di un gradino, mi pare che la posizione americana (ma in generale dell'ordoliberismo occidentale), si risolva nel celebre titolo di un film di Alberto Sordi: Finché c'è guerra, c'è speranza. Eppure nello schema che presumibilmente è stato adottato, vedo qualcosa che non quadra. Provo a spiegarmi.
    Durante la II guerra mondiale, i soldati americani che combattevano in terra straniera erano sorretti non tanto dalla "paura", quanto da una spinta ideale in chiave anti-nazifascista. Oggi, per difendere gli interessi occidentali, si fa leva principalmente sulla "paura" del terrorismo. Però, come dire, manca la "mission", il manifesto alla base della dottrina. E questo non lo vedo come un fattore positivo.

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    1. Allora la spinta ideale era comunque farlocca, gli americani sarebbero stati amiconi di Hitler, come lo sono stati di Franco ed altri simpatici personaggi, se questi avesse giocato meglio le sue carte. Oggi per la spinta ideale si provvede con la pecunia, la tecnologia permette di utilizzare pochi uomini ben equipaggiati, un bel medioevo "moderno".

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  2. io mi chiederei come mai il verbo del isis si diffonde e perché non vi è un dialogo con l'islam? è come se gli scismatici del isis hanno un idioma condiviso da molte tribù.

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