domenica 3 maggio 2015

1978 e 1992- III. IL "DOPO" E IL NOSTRO PRESENTE A UN BIVIO (finale)


http://aforismi.meglio.it/img/frasi/social/fb/kennedy-conformismo-liberta.jpg

1. Proviamo a parlare de "la questione generale".
Nel post di ieri Alberto Bagnai ha proposto una linea interpretativa che definisce e sviluppa le cause e i rimedi di tale questione. 
Alberto, peraltro, si rivolge a degli interlocutori considerati, alla luce degli sviluppi più recenti della politica italiana, più rilevanti e potenzialmente "idonei": diciamo riassuntivamente a quella parte della "dissidenza" interna al partito di maggioranza relativa (nonchè di governo) che ha iniziato a raccontare come e perchè le cose non possono andare bene. 
Riassuntivamente, dicevo; modalità che, sul piano contenutistico della "questione", cioè su quello della evoluzione della realtà socio-economica italiana, può ormai dirsi strutturale. 
In altri termini, la politica economico-fiscale seguita, certamente negli ultimi quattro anni, ma in sostanza da oltre un ventennio (Maastricht, per semplificare), costituisce un continuum coerente  (con delle accelerazioni che portano il sistema sotto stress, ma sempre sul tracciato della stessa rotta che includeva ab initio il propinare dosi crescenti di shock economy) che "ridisegna" in modo strutturale la società italiana.

2. Credo di poter dire che Alberto faccia necessariamente riferimento a questo intero disegno, quando, segnala, - con riferimento alla opportunità, perduta, di anticipare in occasione dell'approvazione del jobs act una rivendicazione "finale" sul dissolvimento della democrazia-, come il cogliere questa stessa opportunità "avrebbe almeno portato l'attenzione sul punto cruciale del disegno liberista del quale l'euro è testata d'angolo: il tentativo (finora riuscito) di estirpare il diritto al lavoro dalla costituzione, per riportarlo nel codice civile". 
Alberto conclude con questa pregnante esortazione:
"Ma almeno, e questo ve lo suggerisco toto corde nell'interesse vostro e del paese, trovate il modo di spiegare perché, come e quando avete capito che quello che difendevate non aveva senso, che la narrazione che avete propugnato era sbagliata. Documentando il vostro percorso (senza far nomi, per carità, altrimenti i colleghi si ingelosiscono!) eviterete di fare la figura dei voltagabbana, e soprattutto aiuterete quelli che a voi interessano tatticamente, cioè gli insider, a fare un percorso simile, o quanto meno a porsi delle domande. Come siete passati dal fateprestismo montiano alla percezione scientificamente fondata che il sistema è insostenibile? Lo volete spiegare ai vostri compagni? Non è che dobbiate fargli una lezioncina: ci sono mille e uno modi per farsi capire! Gli esperti siete voi..."


3. Questa esortazione contiene un passaggio fondamentale: l'enunciazione dell'interesse tattico a far compiere agli "insider" - cioè ai, si suppone, bene informati- un percorso simile: questo vuol significare il confluire in una sorta di "rivoluzione culturale" (espressamente richiamata da Alberto come rimedio indispensabile) dell'apporto positivo degli economisti (evidentemente in termini di diffusione aperta e completa di verità economiche manifeste, se non addirittura auto-esplicative: cioè appartenenti al minimo etico della oggettività scientifica).

Non è per muovere obiezioni a questa analisi che cerco di sviluppare qualche ulteriore osservazione: tutt'altro. Ed infatti, dobbiamo dare per scontate le dinamiche socio-culturali di settore che da sempre pongono in una situazione peculiare la scienza economica. 
Su questo aspetto rinvio a quanto in precedenza evidenziato dall'acuta analisi di una delle menti più brillanti mai apparse nel mondo dell'economia, Thorstein Veblen. 
Questi - come ci dice Galbraiith nella sua "Storia dell'economia" (pagg.194-195), compie, nel libro "The Higher Learning in America- a Memorandum on the Conduct of Universities by Business Men", un esame "mirabilmente corrosivo" del mondo accademico americano. 
"I colleges e le università americani...erano controllati molto rigidamente dagli interessi commerciali di società che facevano sentire i loro voleri attraverso i consigli di amministrazione. Le opinioni dei docenti venivano esaminate con grande attenzione alla ricerca di possibili eresie, le quali venivano definite come qualsiasi cosa si opponesse ai bisogni percepiti dalle grandi società industriali
Aggiunge Galbraith. "Benchè nel frattempo le cose siano molto cambiate, un'eco di quegli atteggiamenti un tempo dominanti si avverte nella convinzione tuttora persistente che l'orientamento ultimo della cultura accademica debba essere fornito da uomini d'affari - oggi dirigenti dei grandi gruppi societari- in quanto dotati di una formazione adeguata nell'amministrazione pratica..."

4. Questa fenomenologia non può che acuirsi in un ambiente (ri)globalizzato, e  più che mai liberoscambista-finanziarizzato, dove "uomini d'affari" provenienti dal mondo delle grandi banche universali, o in esse approdati da specifici percorsi accademici e/o governativi, sono sempre più indistiguibili dai vertici istituzionali degli organismi che governano i processi sovranazionali di decisione politico-economica (direi, politica tout-court).  
E questa anomalia (per i parametri della imparzialità dell'esercizio delle funzioni di governo, sancita dalla nostra Costituzione) non può che acuirsi, in tali condizioni, perchè si verifica un'eccezionale concentrazione di potere: essa caratterizza la nostra epoca anche più di altre, configurando una piramide gerarchica che disarticola-  in un modo che non ha precedenti, se non nel...medioevo-, il concetto (centrale, negli ordinamenti costituzionali democratici) di interesse generale (non di "bene comune": vi prego, non arrendetevi alla terminologia ingannevole proveniente da questa stessa matrice culturale!).

Tale è l'accentramento di potere istituzionale in questi soggetti che, il loro potere di influenzamento, che è poi un potere supremo di indirizzo e di creazione normativa vincolanti,  viene ormai esercitato a doppio e intrecciato titolo: come eminenti uomini d'affari (spesso divenuti tali in un percorso di induzione reciproca tra i due piani, istituzionale e privato-professionale) e,  aggiuntivamente, proprio in conseguenza di ciò, come legittimati preferenziali alla titolarità delle cariche di governo sovranazionale (e per la verità, anche nazionale, laddove lo "stato di eccezione" riemerga periodicamente nella vita dei sinigoli Stati nazionali assoggettati al vincolo sovranazionale).

5. Non elaborerò oltre (l'abbiamo già fatto ripetutamente): mi limito a segnalare che riscontrandosi nel nostro tempo una classe dirigente "suprema", investita di una simile "effettività" autoritativa, cioè una governance sovranazionalizzata e padrona di imporre quasi a suo piacimento "lo stato di eccezione" (quello che caratterizza la sovranità, sottratta ai processi democratici nazionali), è naturale fenomeno sociologico quello del consolidarsi di una cultura conformistica
Il fenomeno a cui assistiamo è che le riforme strutturali non investono solo il mercato del lavoro, cioè l'obiettivo principale ed essenziale del "sistema", ma sono opportunamente e sollecitamente dirette ad occuparsi di ogni gruppo e funzione professionale "strategici", cioè che possano recare problemi di incompatibilità con gli obiettivi perseguiti o che, durante il processo di affermazione del regime, si rivelino propensi a fare qualsiasi tipo di "resistenza":  e questo non da oggi (cioè non solo negli ultimi quattro anni, sia chiaro), perchè un regime pianificato da un'elaborazione pluridecennale ben conosce gli snodi della società che intende controllare e modificare.
Una "riforma" - orchestrata dall'appoggio mediatico totalitario che l'ordine sovranazionale dei mercati (euro-istituzionalizzato, in Europa), si è previamente assicurato nel realizzare la sua inarrestabile affermazione- può sempre divenire, tempestivamente e all'occorrenza, attuale: non è solo il "costo del lavoro" o la competitività, e cioè il mondo del lavoro direttamente coinvolto nella determinazione dei costi dell'offerta ad essere oggetto dell'attenzione programmatica del nuovo "ordo".
Anche gli insider, cioè coloro che avrebbero i mezzi per realizzare la natura del processo di concentrazione del potere in corso (che è poi il "l'ordine internazionale dei mercati"), alla stessa stregua di ogni altra categoria sociologica, sono stati (o possono ulteriormente essere) assoggettati alla "conformazione" che procede dal vertice agli strati intermedi della neo-gerarchia; e ciò in base ad un processo brutale, fatto di punizioni (di status) e di ristretti privilegi ben indirizzati, secondo la neo-tecnica legislativa che si irradia in ogni livello o settore sociale, senza tralasciare alcuno strumento di coercizione disponibile, anzitutto politico-normativo. 
Parliamo dell'accumularsi di riforme legislative ordinamentali-sezionali, che riguardano invariabilmente ogni categoria-chiave nell'affermazione del controllo di questa governance.

6. Diciamo che la cultura, intesa come espressione di pensiero (generale o specialistico) oggetto di comunicazione, è sovrastruttura, e che una diversa cultura può discendere solo dall'affermazione progressiva di una diversa struttura: non è che con questo voglia implicare che il nostro destino  sia bloccato in modo irrevocabile  in questa palude in cui affonda la democrazia.
Dico solo che una forza correttiva deve possedere una spinta tendenzialmente eguale e contraria a quella, patologica, che intende correggere.
Potrebbe l'azione (auspicabilmente, appassionata e coraggiosa) degli interlocutori "idonei" indicati da Alberto produrre questa spinta?
Difficile dirlo: se l'intero regime ordinamentale-legislativo, e di conseguenza culturale, è ormai il prodotto di ciò che si intende avversare, - avendo avuto il tempo di divenire "vincolo" irradiato in ogni settore della società-, l'innesco di una spinta contraria dovrebbe manifestarsi, anzitutto, mediante un potenziale di consenso di massa enorme, direi scardinante (tale da minacciare di sovvertire, secondo la teoria generale del diritto, la "effettività" del regime coincidente con la istituzionalizzazione dell'ordine internazionale dei mercati).
Se invece la si vuole vedere come una spinta "correttiva" che debba generarsi in modo mirato, in quanto opportunamente concentrata in un settore socio-professionale nevralgico, - tale cioè da irradiarsi immediatamente verso l'alto e da trascinare poi spontaneamente ciò che si colloca al di sotto di esso-, tale spinta dovrebbe essere accoppiata alla capacità dei suoi promotori di "esentare" i propri destinatari  dalle conseguenze sanzionatorie (in senso lato, agevolmente comprensibile nel contesto di cui stiamo parlando) predisposte dal regime (nel senso di categoria descrittiva di diritto pubblico). Cioè dovrebbe essere accoppiata alla capacità di prospettare, alla categoria "strategica", di aver acquisito un contro-potere normativo di reindirizzo-ridisciplina (egualmente correttiva) del segmento sociale e professionale considerato decisivo nell'espandere la spinta correttiva. O almeno di  prospettare la rapida caduta della "effettività" del potere di controllo sociale del regime avversato. 

7. Ed allora, siamo spacciati?
Probabilmente sì, perchè il ritardo nel reagire, in questa situazione, equivale al non aver reagito affatto, dato che la posta in gioco è il collasso definitivo dell'ordinamento democratico-costituzionale.
E tuttavia...
Le cose, forse, non sono messe così male, ma certo occorre saper ben sfruttare i punti deboli del sistema avversato. 
Mi riporto alla recensione di un interessante libro scritto da Giuseppe Berta, professore di storia alla Bocconi, per trovare la mappa di questo "percorso inverso" che appare assolutamente necessario. Notiamo la quasi coincidenza nell'individuare le due date cruciali della storia italiana rispetto ai nostri post sull'argomento, col solo piccolo dettaglio che nella nostra trattazione abbiamo fatto riferimento alla data di effettiva conclusione di Maastricht, cioè al 1992:
"L’Italia fu rappresentata nel cruciale negoziato di Maastricht da Guido Carli, Ministro del Tesoro del Governo Andreotti (che è in realtà il primario responsabile delle due scelte gemelle dell’adesione allo SME e all’Euro, deciso nel Trattato che crea l’Unione Europea) nel 1991. Queste sono le due date essenziali della storia italiana recente, quelle della devoluzione di sovranità entro uno schema Europeo già preordinato –nell’asse Francia-Germania- all’affermazione del modello sociale ed economico nordico (rappresentato in Italia come “vincolo esterno”): 1978 e 1991. Nella prima data l’Italia aderisce allo SME, malgrado le perplessità ed opposizioni, nella seconda aderisce alla UE, e di fatto, all’Euro (che nascerà di lì a pochi anni di serrata trattativa, come ricorda anche un protagonista come  Sarrazin). 
Carli conduce la trattativa nella convinzione, maturata da lungo tempo, che l’Italia non potrà “riformarsi” da se stessa, secondo le auspicate linee liberali, senza essere costretta a ciò da vincoli istituzionali indisponibili alle pressioni sociali. Per questa ragione è per lui assolutamente necessario creare “un vincolo giuridico internazionale” per ripristinare una “sana finanza pubblica”. Secondo la sua visione, ancora oggi fortemente condivisa, lo stato dei conti e la stessa nazione ha bisogno di assoggettarsi ad un’autorità sovranazionale, “per sottoporre a disciplina i comportamenti di partiti e società” (come scrive Berti). La società italiana gli appare, infatti, in quegli anni “frammentata, lacerata, disorganica”, con una vita politica bloccata e indifferente. 
Partendo da questa analisi, tutt’altro che priva di fondamento, Carli vede nel Trattato di Maastricht lo strumento per dare il necessario “scossone violento” che altrimenti solo un regime autoritario, come quello fascista, potrebbe dare (risposta dello stesso a chi lo invitava a maggiore azione nel suo ruolo di Ministro, p.100). Lucidamente Carli vede quindi ciò che è la funzione del Trattato; cioè “la drastica riduzione del potere dei governi nazionali” alla quale, in una delle più incredibili e illuminanti affermazioni riportate nell’utile libro di Berta, Carli fa corrispondere nella sua valutazione “un accrescimento del potere decisionale dei singoli cittadini". 
 
Qui c’è il nodo ideologico, ed operativo, della costruzione della nuova Europa. Carli intende esattamente che l’indebolimento del potere dei Governi Nazionali (e dunque dei Partiti e dei Parlamenti democratici, ma anche delle organizzazioni sociali che influenzano la sfera pubblica nazionale) sia bilanciato da un maggiore potere dei cittadini a... Cosa? Cosa possono i “singoli” che restano tali, cioè che non si organizzano o associano, che non partecipano a processi politici?

Lo dice lui stesso, con impareggiabile chiarezza di pensiero e franchezza, il potere è nel diritto di investire i propri soldi nel debito pubblico o altrove. In altre parole la democrazia che resta è quella “dei mercati”
Con le sue parole: la “sintesi politica” è data dal “permanere del debito pubblico nei portafogli delle famiglie italiane, per una libera scelta, senza costrizioni, rappresenta la garanzia per la continuazione della democrazia” (p. 100, da G.Carli, Cinquant’anni di vita italiana, Laterza 1993, p. 386-7). 
Questo i-n-c-r-e-d-i-b-i-l-e rovesciamento di due secoli di pensiero politico democratico, di ogni prassi democratica, di ogni lotta condotta in Europa dalla rivoluzione francese ad oggi, questo vero e proprio pensiero eversivo, è la ragione per la quale il Ministro della Repubblica (che ha giurato sulla Costituzione Italiana), perfettamente cosciente di attuare una “rivoluzione del potere”, promuove nel negoziato. 
L’implementazione di una “federazione europea basata sul principio dello Stato minimo, tenuta unita da una politica monetaria, da una politica estera e da una Difesa unitaria”. Questa Federazione è l’unica, a suo parere, che può resistere agli “urti che provengono da un mondo esterno che cade in frantumi”.



E’ questa visione della globalizzazione (ma siamo nel 1991, dunque ai suoi esordi), e del processo di crollo dello schema d’ordine della guerra fredda (siamo negli anni in cui l’Urss di dissolve), che ispira il tentativo delle èlite finanziarie e politiche, di cui Carli è da sempre parte integrante, internazionali di ricondurre ad uno schema più semplice le forze sociali e politiche che agitano le arene nazionali

Dunque i paesi del sud (e l’Italia in particolare), come sottolinea opportunamente Berta, devono abbandonare il proprio modello storico di sviluppo (imperniato su una versione dell’azione economico-politica che aveva fatto il dopoguerra).

Ma, dato che non esiste il necessario consenso politico e sociale per questa trasformazione, viene in soccorso lo strumento dell’Euro (e dell’intera Unione Europea) per “ridurre e contenere gli spazi della democrazia, almeno di quella che si è sperimentata in Italia dal 1945 al 1993, in quanto non più compatibile con l’assetto di una nuova Europa” (come scrive giustamente Berti). 
Una formazione istituzionale il cui assetto deve “corrispondere alle trasformazioni poi rubricate sotto l’etichetta onnicomprensiva della globalizzazione” (p. 102). 
Questa chiarissima scelta liberista, che Berti qualifica come espressione della volontà di “subordinare le istanze politiche all’egemonia di un’economia desiderosa di autoregolamentarsi fin dove può” è appena temperata dal tentativo (che Carli dice di aver condotto senza successo) di far inserire nella convenzione l’obiettivo della lotta alla disoccupazione a fianco alla stabilità dei prezzi (come è nella missione della FED). Chiaramente aggiungere ai famosi Parametri di Maastricht anche un target di disoccupazione avrebbe mitigato la purezza ideologica “nordica” del disegno, ma non avrebbe cambiato la sostanza delle cose. Il cuore del progetto è di ridurre la partecipazione democratica."

8. Mi è piaciuto riportare per esteso questa recensione perchè è una soddisfazione in sè vedere come un altro pensatore, utilizzando premesse fattuali omogenee con quelle qui utilizzate, arrivi grosso modo alla stessa descrizione e analisi storico-economica. 
Ma di più, questa impostazione, ci induce a alcune altre osservazioni:
a) che è (ancora) possibile esprimere certe verità (elementari) a livello accademico, ma, non di meno, queste non possono immediatamente trasmettersi a tutta la platea di  coloro che, per predisposizione e mezzi culturali, sarebbero in grado di coglierne l'importanza (è accaduto con "Euro e(o) democrazia costituzionale", così com'è accaduto nel caso dei libri, di ancora maggiore successo di pubblico, di Alberto e di Vladimiro Giacchè). E questo a causa del conformismo irradiato di cui abbiamo sopra parlato (con il suo minaccioso substrato ordinamentale-sanzionatorio, se non altro preclusivo dei privilegi estemporanei di cui è disseminato), conformismo  che rende (piaccia o meno) difficile la simultanea coincidenza delle proprie soggettive esigenze di manifestazione pubblica del pensiero;
b)  che promuovere una correzione di paradigma culturale esige una preparazione organizzativa ben strutturata, che non può essere disgiunta da una coesione umana (prima ancora che politica), raggiunta attraverso la stabile aggregazione almeno di quelle voci che, oggi separatamente, collimano, nei vari settori della cultura e della politica, nel formulare la diagnosi e nel prefigurarsi un rimedio;
c) che questo è quanto ci mostra la Storia, circa la preparazione che precedette l'esperienza dei CNL e la predisposizione di una cultura democratica "pronta" e già consolidata, che consentì di produrre l'esperienza dell'Assemblea Costituente. Come abbiamo visto, è in questa esperienza che si ritrova tutta l'energia (non dispersiva) della parte autenticamente vittoriosa dell'Italia uscita dal conflitto mondiale;
d) la coesione umana e organizzativa a cui faccio riferimento implica un impegno di dialogo e di "riunione" progressiva che, se ben svolto, condurrebbe ad un effetto aggregativo in espansione, tale da divenire fenomeno "comunicativo" in sè, cioè, a sua volta, aggregativo dell'opinione pubblica. 
Ma per ottenere questo effetto, occorre in primo luogo l'abbandono, da parte di chi ritenesse di promuovere un tale sforzo, di ogni compromesso con la post-ideologia del libero mercato, in ogni sua pregressa manifestazione storica (recente e meno recente), avendo ben chiara questa vicenda storica e senza alcuna riserva mentale circa i limiti "opportuni" di un eventuale "ravvedimento".
In questo sono totalmente d'accordo con Alberto;
e) Infine, per ottenere questo effetto aggregativo, - sempre che esistano la volontà e l'urgenza di dargli vita-, occorre a maggior ragione superare anche gli steccati ideologici "pre-1992", (diciamo così per semplificare), cioè l'idea che esistano una sinistra e una destra che ancora possano razionalmente dirsi tali di fronte alla comune prospettiva di svuotamento dell'ordine democratico.
Su questo tema si può a lungo discutere, ma il solo fatto di continuare a farlo, implica il "non rendersi conto": cioè non aver compreso che i partiti di massa non possono più esistere nel tempo dell'ordine sovranazionale dei mercati mentre, viceversa, in una democrazia sostanziale "effettiva", un partito dichiaratamente liberista non potrebbe altro che raggiungere percentuali elettorali irrisorie.

Ma una democrazia sostanziale consente una partecipazione generale ed informata alla vita economica e sociale del paese (art.3, comma 2, Cost.) che non ha nulla a che vedere con l'attuale penetrazione totalitaria dell'ideologia dello Stato minimo e delle "risorse limitate", consentita dalla grande schermatura della pace e della costruzione europea.
Quindi, la scelta, quale che sia la matrice ideologica stancamente trascinata dai singoli individui (privata di ogni concreto significato, se non quello di attirare, inerzialmente, consenso elettorale di breve termine) è tra l'uno e l'altro paradigma, l'una e l'altra  "forma di governo" materiale (con ben diverse ricadute istituzionali, come constatiamo proprio in questi tempi di accelerazione).
La denuncia ineludibile di questa dicotomia, che è in realtà la conseguenza della divaricazione insanabile tra Costituzione vigente e vincolo esterno, è ciò che dovrebbe accomunare ogni settore della cultura e della società che ancora ritiene che l'Italia abbia un senso come comunità nazionale impegnata a ritrovare le ragioni della sua sovranità.
Cioè del perseguimento da parte delle istituzioni dell'effettivo benessere e dei diritti fondamentali dei cittadini.
Quanti sono oggi gli insider e i cittadini, e i politici, che potrebbero capire ciò? 
Molti, forse. Magari "abbastanza". 
Ma potrebbero non aggregarsi mai; almeno in tempo per salvarsi e salvarci.

7 commenti:

  1. sul concetto di "insider vs outsider" e sulla quantificazione dell'abbastanza ci avevo speso, tre anni fa, del gran tempo e ne erano usciti alcuni numeri che, nella loro trasparente approssimazione, davano comunque l'idea di un ordine di grandezza. Le ragioni che allora io collegai al calcolo erano meno "alte" di quelle che nel suo articolo fanno da spartiacque, poiché io ragionavo solo in termini di numero di voti e collegavo il voto alle due variabili di fondo, ovvero a) chi vota prevalentemente per convinzione e b) chi vota prevalentemente per convenienza. Il suo discorso si rivolge ai votanti per convinzione che io quantificavo in un 50% scarso dell'elettorato, la sua efficacia passa, come noto, dalla macchina dei media. La mia risposta, oggi come nel 2012, alla domanda che lei pone era che solo col 51% dei voti un outsider potrebbe provare a fare qualcosa. Ero stato facile profeta che il m5s col 27% non avrebbe cmq combinato granché, ma con il Porcellum sarebbe bastato il 30% per far prendere a Grillo il premio di maggioranza alla Camera, mentre con l'Italicum ci vorrà il 40%. É vero che un'opposizione dura sul jobs act sarebbe stata piú coerente e comprensibile, ma l'italicum, dal punto di vista tecnico, sembra essere - per quanto si vede oggi - il punto di non ritorno. Dopo ci saranno solo insider all'orizzonte.
    Il link al post completo era http://wp.me/p14q22-6s

    RispondiElimina
  2. anche se farebbe sempre bene ricordare che il "ravvedimento" sarebbe opportunistico.

    perchè chi è ben informato sa benissimo che certa gente non poteva non sapere.

    Detto questo bisogna sapersi alleare anche coi nemici per poter sconfiggere nemici peggiori.

    Ma queste cose non si dimenticano. non si lavano via con delle belle parole tremendamente tardive dette in tv quando un megalomane si è impadronito del tuo partito e ti ha marginalizzato.

    Io non dimentico.

    RispondiElimina
  3. "... occorre a maggior ragione superare anche gli steccati ideologici "pre-1992", (diciamo così per semplificare), cioè l'idea che esistano una sinistra e una destra che ancora possano razionalmente dirsi tali di fronte alla comune prospettiva di svuotamento dell'ordine democratico.
    Su questo tema si può a lungo discutere, ma il solo fatto di continuare a farlo, implica il "non rendersi conto": cioè non aver compreso che i partiti di massa non possono più esistere nel tempo dell'ordine sovranazionale dei mercati..."

    Se non ho capito male la questione viene posta, altrove, in termini assai diversi da questi (secondo me perfettamente corretti). Viene posta come insussistenza tout-court della differenziazione destra-sinistra. Viene inquinata di aggettivi virgolettati dalla sinistra "radicale" che ha smarrito ogni strada razionale ed è persa in un limbo sconosciuto ed inconoscibile (chiedo venia per la durezza del giudizio: ne rispondo razionalmente di persona. Ho detto razionalmente: qualunque atto di fede anche solo in bozza verrà stroncato).

    P.Calamandrei - La costituzione e le leggi per attuarla (in: Calamandrei, Scritti e discorsi politici, II, Firenze, La Nuova Italia Editrice, 1966, pp. 467-577):

    “Dal compromesso politico tra forze contrastanti, che già da allora si preparavano a prendere nelle future lotte parlamentari le loro rivincite contro le arrendevolezze a cui si erano lasciate andare in sede costituente, ebbe origine la distinzione giuridica che doveva dar luogo negli anni successivi a tante discussioni dottrinali e giudiziarie, tra norme precettive di attuazione immediata, norme precettive di attuazione differita e norme meramente programmatiche”

    Quando ormai era chiaro che la costituzione scritta era un canovaccio per la costituzione materiale. Ora incomincia a dare fastidio anche l'idea che qualcuno, magari per sbaglio, possa ficcare il naso in quelle pagine ingiallite.
    Dato il contenuto a me pare una buona sinistra (e se anche JPMorgan è d'accordo non credo di essere poi tanto distante dalla realtà).

    E siccome gli errori incominciano a fioccare ... (il topino naturalizzato lucchese è arrivato!)

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Calamandrei era un moderato che credeva fermamente nella democrazia costituzionale. Infatti non sognava rivincite riguardo ai punti in cui, spesso solo inizialmente, non era stato d'accordo.
      Qui invece stiamo assistendo alla rivincita, manu tractatus, dell'intero ordine socio-economico rigettato in Costituzione.
      Come può essere una questione di destra o sinistra, se non attribuendo alla più "europeista" tra le due (in effetti, attualmente sono in gara), una vocazione all'autodistruzione (inconsapevole) dei propri stessi spazi di manovra politica?

      Elimina
    2. Mi rendo conto di essere stato piuttosto criptico. Posso riparare.

      D'accordo sul'essenza: non è questione destra o sinistra. Perché, in effetti, lo scontro è tra alto e basso della società

      Questa situazione è assai pericolosa (e anche parecchio miope).
      Una interpretazione possibile la fornisce lo studio degli stati di equilibrio meccanico. Che può, notoriamente, essere : indifferente, stabile, instabile.
      Il tentativo, ormai palese, è di ottenere uno dei primi due. Infatti a cosa altro potrebbe mai servire la rimozione delle fonti di variabilità? Sto parlando dell'aver predisposto l'euro (fissità di cambio), il fiscal compact (fissità del rapporto tra spese ed entrate), la disoccupazione (fissità del tasso di disoccupazione strutturale). Potrei continuare con gli esempi. Tutto ciò permette (o per meglio dire: impone) il pilota automatico. All'interno della similitudine la fissazione dei parametri equivale,di fatto, allo stato di minima o costante energia potenziale connessa con questi due stati di equilibrio.
      C'è solo un piccolo particolare che non è stato, a quanto pare, preso in considerazione. Che niente è per sempre. E che l'equilibrio meccanico prevede una terza opzione: l'instabilità. Questa viene ottenuta in maniera difficilmente controllabile nell'equilibrio alto/basso
      configurazione B di figura , con l'energia potenziale che si trasforma in energia cinetica ...

      Personalmente preferisco l'interazione destra/sinistra. E siccome c'è una certa tendenza a tirarla via dalle opzioni disponibili, cerco di rimetterla bene in vista.
      L'interazione destra/sinistra permette (o per meglio dire: impone) stati di equilibrio dinamico. Le variabili sono tutte disponibili (non proprio: chi si trova in condizioni più vantaggiose cerca sempre di ingessarne qualcuna a sua esclusivo vantaggio) per stabilire uno stato di equilibrio conseguente ai valori assunti di volta in volta. Poiché le trasformazioni sono permesse (le variabili connesse all'energia corrispondente non assumono valori perennemente minimi o costanti nel tempo o nello spazio), non si può usare il pilota automatico come si può notare facilmente dalla figura

      Concludendo.
      Dare per scontato che l'interazione destra/sinistra sia morta significa mettersi in una condizione troppo povera nella quale purtroppo siamo sprofondati. Darlo per scontato significa anche che, volenti o nolenti, ne saremo tratti a forza dalla Storia con il collasso di un certamente transitorio stato di equilibrio instabile.
      Non è ragionevole la situazione mentale che non esiste un dopo (aka: l'euro è irreversibile et al.) e faccio del mio meglio per evitare questo stato anche a tutti quelli cui posso arrivare con i miei argomenti.

      Elimina
  4. Buonasera Quarantotto e, doverosamente, grazie per il Suo blog che, per il mio benessere, riempie di contenuti e di approfondimenti gli eventi che accadono.
    Non li saprei leggere con chiarezza senza i Suoi interventi (grazie, naturalmente, anche ai vari autori che pubblicano sul blog).
    Venendo al tema del Suo post, la rivisitazione dei fatti che hanno dato origine all'attuale grande inganno è impressionante, per la loro significatività e per la lucidità con la quale certe decisioni vennero prese.
    Nella quotidianità degli impegni e nello svolgersi delle tappe della vita non ho mai messo in fila gli snodi essenziali: accade ora grazie a competenti e valorosi studiosi che ho "incontrato" ricercando - ormai tre anni fa - le cause della situazione in cui il nostro paese versava.
    Trovando "Sbilanciando" e, subito dopo, Goofynomics, ho poi trovato Lei e altri competenti osservatori e interpreti.
    Sul tema della "rivoluzione culturale", enfatizzato dal Prof. Bagnai e da Lei ripreso, non credo però che si possa prescindere dalla premessa della "rivoluzione umana": ovvero non è pensabile che chi, pur avendone il compito e la competenza per farlo, abbia taciuto, abbia negato, abbia falsamente rappresentato, ecc., per evidenti ragioni di appartenenza partitica, di convenienza di carriera, di interesse e di prestigio personali, ora possa “convertirsi” e divenire leale alleato nella ricerca di una restaurazione della italianità violata.
    Le rivoluzioni serie hanno una loro fase di epurazione e, senza giungere ad eccessi giacobini, è assolutamente necessario emarginare chi cerchi una redenzione rinnegando il proprio colpevole passato (o meglio, il suo attuale presente).
    Quindi non vorrei più sentire né dei Fassina, né dei D’Attorre né di tutta la marmaglia mainstream che ci ha condotto alle magnifiche sorti a cui siamo approdati perché le qualità umane sono, a mio giudizio, più importanti del contributo (solo e forse in termini di voti e di consensi futuri) ad una linea “politicante” che risulterebbe certamente compromissoria e accomodata su obiettivi mediati.
    Non servono transfughi che, ne sono certo, verrebbero a dire che “l’avevano sempre sostenuto”: almeno dal punto di vista della chiarezza delle idee e della loro coerenza, si deve fare piazza pulita dei codardi, perché così si chiamano quelli che si piegano alle convenienze.
    Servono idee nette, decise, senza compromessi e, per farle prevalere, servono persone che le incarnino pienamente: dai codardi non si trarrebbe niente di positivo e si annacquerebbe la riscossa.
    A proposito come ci si può iscrivere a Riscossa Italiana? Ho scritto, ho compilato i form, ho telefonato ma non ci sono ancora segnali di risposta.
    Grazie ancora e a presto.
    Antonio F.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Comprendo quello che ritieni essere un problema di coerenza. Tuttavia, chi sia veramente "codardo", - in un panorama che non ha ancora espresso alcune voce politica coscientemente contraria al "vincolo esterno" ed ai suoi effetti (sulla democrazia oltre che sul benessere-sviluppo)-, lo capiremo presto.
      La situazione, come puoi vedere dal post di oggi, sta degenerando ad una tale velocità che, in un senso o nell'altro, tutti i soggetti politici dovranno prendere posizione: sul problema centrale della (indotta) "scarsità di risorse", e quindi sulla sovranità nazionale. Senza cui qualunque proposta di "rimedio" è puro inganno elettorale.

      Sull'iscrizione a RI, scrivi alla infomail e ti verrà risposto se il form col relativo pagamento della quota di iscrizione risultano andati a buon fine...

      Elimina