domenica 31 maggio 2015

TOMORROWLAND: NULLA SALUS COI FALSI SOGNATORI (cos'è successo alla "Over Soul" dagli anni '60?)

https://paroledordine.files.wordpress.com/2014/01/castelli-in-aria-21.jpg 
http://orizzonte48.blogspot.it/2014/02/la-politica-economica-e-il-cambio-di.html

I. Contrariamente ad una critica liquidatoria e accigliata - che accusa il film di essere prevedibile ma lo è ancora più di esso nei giudizi che ha sfornato- il film Tomorrowland è una visione interessante.
Distopia o utopia, come futuro che ci attende,- perchè di questo infatti alla fine si parla-, s'è detto che il film rifletterebbe l'ottimismo volontaristico alla Disney, e, perciò, risulta più propriamente essere un tributo alla american tradition incarnata da Ralph Waldo Emerson.

II. Ecco alcune caratteristiche e strutture logiche del film che possono dare spunto a delle curiose e stimolanti riflessioni:
1-  il progresso tecnologico è visto come fattore esplicativo dell'evoluzione dell'assetto sociale umano, sopra ad ogni cosa: sebbene il film ammetta che questo fosse, in forma di punto di partenza narrativo, il "mood" degli anni '60 del secolo scorso (specialmente in USA), neppure per un attimo si interroga perchè proprio quella società avesse prodotto questa sorta di ottimistica visione relativa alla dominanza trainante della scienza; nè si chiede come mai questo singolare antefatto del pop, - applicato alla "fede" (semplificatoria) nelle conoscenze complesse al servizio di un continuo rapido progresso-, fosse stato accettato dall'opinione di massa come paradigma;
2- il film non scorge  (ma neppure la critica) l'intima contraddizione tra un progresso meccanicisticamente connesso alla disponibilità di tecnologie applicate alla produzione di massa (cosa che l'informatica, il digitale e il web hanno realizzato in una forma diversa da quella prevista nei mitici anni '60), e il disastro che si lega, come spiegazione della parte distopica, alla sovrappopolazione e al degrado ambientale (spiegazione in termini di effetti e non di cause, alquanto consueta);
3- di questa sovrappopolazione e di questo degrado ambientale non viene dunque fornita una spiegazione in continuità con gli eventi che l'umanità si è trovata a interpretare dagli anni '60 ad oggi. La spiegazione della degenerazione evolutiva viene enunciata in termini di "proiezione collettiva", generata dall'influenzamento subìto da parte di forze negative, insite nello stesso dominio della dimensione tecnologica, in quanto affidata alla direzione di un potere accentrato;
4- questo potere accentrato non ha però sede nel presente, e un antecedente nel (recente) passato, rispetto all'oggi da cui parte la narrazione; è un potere "trascendentale" (come l'etica di Emerson), un'anti "anima superiore" generata nello stesso futuro e quindi deviante dall'esterno l'umanità stessa;
5- l'implicito richiamo che il film opera attraverso di ciò alla necessità dei "sognatori che non si arrendono mai", è anch'esso quindi un richiamo ad Emerson; un rinvio alla sua "fiducia in sè stessi" (che tanto piacque a Nietzsche) per realizzare individualmente la c.d. "anima superiore" ("Over-Soul"), che si "può" manifestare in ciascun individuo ma che ha bisogno della "vigilanza" di una sorta di vettori umani (i "prescelti") di questa forza superiore.

III. Sulla scorta di questa ricostruzione della sua ideologia - o visione cognitiva- implicita, il film ci restituisce una sconcertante ma, abbiamo detto, non meno stimolante, ambivalenza: come prodotto USA, targato Walt Disney, ignora ogni riferimento all'assetto culturale, cioè alla sfera della ideologia e della sociologia del potere effettivamente dominante, facendo rifluire comunque sull'intera ed indistinta umanità la "colpa" della propria degenerazione.
Tuttavia, al tempo stesso, ammette che la "proiezione" collettiva che determina le aspettative convergenti degli uomini, cioè "l'aspettativa" condivisa che diviene profezia autoavverantesi, dipenda da un sub-liminale condizionamento percettivo.

IV. Solo che non si cura, nè forse avrebbe mai potuto curarsi, del fatto che questa proiezione collettiva è qualcosa che risiede nei media, in tutti i media, e che ha dunque radici in ogni tessera del mosaico che, nel tempo, (qualche recente decennio),  i media stessi hanno ricomposto nel format predeterminato non da una "trascendente" dominazione tirannica di uomini del futuro - che ritraggono tale potere proprio dal lineare e progressivo progresso tecnologico oggetto della fede degli anni '60- quanto dalle molto più presenti e passate oligarchie, che hanno ieri e oggi controllato il sistema mediatico.
Insomma, un Orwell deresponsabilizzato, dove il bis-linguaggio che priva l'umanità della sua capacità di immaginare alternative ad un presente distruttivo e che non può sfociare altro che nella "nascita della tragedia", viene affidato a un super-cattivo futuro e, specialmente, indeterminato nella sua genesi.

V. La domanda è: 
- ammesso che, tutto sommato, un'umanità fiduciosa in sé stessa non possa che volere il proprio "bene" (quantomeno in termini obiettivi di sopravvivenza evolutiva), dando forza alla "vigilanza" sulla stessa umanità della "Over-Soul",  e che su questa costruttiva "fiducia in sè stessi" esercitino un'influenza decisiva gli individui vitali e positivi che definisce "sognatori", siamo sicuri che questo processo di risanamento salvifico non debba passare per il "giusto processo" a carico della effettiva elite, molto presente e molto radicata, che invece predica l'aspettativa razionale e la "fiducia" dei mercati e degli operatori finanziari come motore di ogni possibile evento sociale ormai a livello globalizzato?

E non paia ingenua la domanda: oggi, più che mai, se ci attenessimo al vitalismo eccezionalistico, ma inevitabilmente altruistico, di Emerson, al potere ci sono proprio dei "falsi sognatori", cioè degli ipocriti odiatori dell'umanità, volti a negare l'appartenenza paritaria di tutti gli esseri umani alla "anima superiore".
Insomma, il futuro, con una fine del mondo molto "presente",  non è in mano agli uomini del...futuro, ma agli anti-sognatori, sedicenti sognatori per conto dell'elite oligarchica, dell'oggi.
Poveri USA così confusi da non riconoscere più le proprie più vitali e positive radici.
E povera l'umanità che perde se stessa per il sogno contraffatto di falsi profeti.

venerdì 29 maggio 2015

DOPO "LA RESA" (DELLA DEMOCRAZIA COSTITUZIONALE) I LITIGI "IN PIAZZETTA ELYSIUM"?


1. Questa immagine riporta le recenti parole di Monti pronunciate in un noto talk di stretta ortodossia ordoliberista (all'incirca, "a propria insaputa",- pp.1-6- ma ferreo nella coincidenza dei "rationalia" ordoliberisti su cui si fondano, senza arretramenti, le "insidiose" domande dell'intervistatrice).
Un'affermazione, quella di Monti, che in realtà sviluppa, in sintesi, il clou della consolidata ideologia che guida l'inarrestabile restaurazione dettata dall'€uropa.

Il terreno su cui s'inoltra, ormai, l'invariabilità delle politiche perseguite, a prescindere da qualunque esito elettorale (che risulti consentito e comunque presidiato dai media), conduce, come dovrebbe ormai essere evidente, a..."La Resa".  

2. Vale a dire, volenti o nolenti, si realizza la seguente situazione:
"Partiamo da un presupposto che potremmo definire di Kalecky-von Hayek. Il primo attribuisce al liberismo come dottrina economica (non a caso ammantata da pretesa scientificità oggettiva) un obiettivo essenzialmente politico: quello del controllo delle istituzioni di governo per definire l'indirizzo generale in modo da stabilizzare la potestà decisionale esclusiva della oligarchia capitalistico-finanziaria. Il secondo ritiene ideale una società (ri)gerarchizzata, in base alla "naturale" predominanza dei "proprietari-operatori economici", gli unici dotati di sufficiente "razionalità" per risultare utili alla società umana, essendo più facilmente ancorabili a "tradizioni", ritenute sane e funzionali alla efficiente allocazione delle risorse.

Questa ri-gerarchizzazione istituzionalizzata darebbe ovviamente luogo ad una nuova Costituzione: di fatto o di diritto (la distinzione, dato lo stato pietoso in cui versa la stessa sovranità costituzionale intesa come tutela dei diritti fondamentali "sociali", appare ormai oziosa). Ma almeno avrebbe il pregio della chiarezza: cioè sarebbe definito un quadro non ambiguo ed ipocrita di nuovi valori dotati di effettività e finalmente conformi alla (neo)legalità.

Attualmente la fissazione di questa effettività sui neo-valori è affidata alla costruzione €uropea, che, attraverso la sua elaborazione teorica, continuamente compiuta all'oscuro dei nostri procedimenti di legittimazione democratica, fornisce il quadro concettuale e para-razionale che partorisce le politiche europee.
L'enorme vantaggio (sempre paradossale: stiamo parlando di un'ipotesi di "resa" ragionata) di questa esplicitazione "costituzionalizzata" sarebbe quello di rispostare in sede nazionale la responsabilità sulla enunciazione e l'attuazione dei neo-valori. Che, chiariamo subito, "neo" non sono affatto, come pare sfuggire ai "nuovisti" dell'attuale classe politica che, impegnata oggi a governare, contrabbanda il superamento della democrazia sostanziale come equazione nuovo= "de sinistra", operando invece un'ipocrita restaurazione di tipo reazionario (rispetto ai valori in cui affermano di identificarsi ma che, tra l'altro, non paiono neppure conoscere ad un livello storico-economico minimamente decente).

Diciamo che, affidata alle persone titolari effettive degli interessi perseguiti, la restaurazione avrebbe il pregio della trasparenza, che è certamente termine abusato, e strumento ordoliberista, allorchè applicato astutamente alla liquidazione dell'interesse generale gestito da strutture pubbliche, ma che, una volta ceduta la titolarità del potere istituzionale di governo agli stakeholders effettivi, fa venir meno la stucchevole ipocrisia degli intermediari politici, - e mediatici-, che devono continuamente rinnovare la impossibile conciliazione tra le contraffazioni verbali vendute sul mercato elettorale e la sostanza della loro azione.

Insomma, la "resa" con la devoluzione formale e costituzionalizzata del potere istituzionale di governo alla oligarchia, avrebbe almeno questi pregi immediati (di cui potremmo poi immaginare le ulteriori ricadute):
a) ricondurre le comunità nazionali al ruolo di centro di riferimento, (inevitabilmente "attenzionato" ma in modo inequivoco), delle politiche e degli obiettivi che si vogliono perseguire (per quanto programmaticamente questi siano "degradanti" della stessa comunità), abbandonando la truffa del perseguimento simulato della "pace" per il tramite delle organizzazioni sovranazionali; ciò depotenzierebbe la stessa necessità strumentale, (tra l'altro sempre più insostenibile nei fatti), di enunciare la superiorità etica del "vincolo esterno", con una chiara riaffermazione dei rapporti di forza che esso sottointende;
b) reintrodurre come conseguenza di ciò - in particolare della investitura diretta delle oligarchie (non necessariamente elettorale o quantomeno "idraulica", data la forza persuasiva del tecnicismo pop) in base alla negoziazione della "resa"- la visibilità e la accountability delle politiche perseguite
Infatti, laddove queste si rivelassero frutto di visioni sballate - e in effetti sono tanto sballate!- esporrebbero con immediatezza i nuovi governanti, e senza intermediari dediti alla sopravvivenza personale e dei propri vantaggi (cioè la famosa"casta di 2° livello e relativi costi, correttamente assunti come compenso agli intermediari da parte dell'oligarchia stessa), al rischio della "non effettività", cioè dello scollamento tra investitura e conformazione dei "sudditi" alle regole da essi imposte;
c) come ulteriore conseguenza, praticamente inevitabile, oligarchie oggi incuranti del benessere minimo delle comunità dei governati, - venuta meno la necessità del metodo, tipico del controllo indiretto esercitato mediante una classe politica intermediaria, della shock economy e della "colpevolizzazione"-, dovrebbero rendere "in qualche modo" conto della efficacia rispetto agli obiettivi enunciati e della efficienza rispetto alle capacità di gestione di cui si sarebbero investiti. 
Le loro decisioni dovrebbero comunque garantire almeno la sopravvivenza (fisica) del sub-strato sociale, anche nello schema hayekiano più puro. In alternativa, almeno, dovrebbero fronteggiare l'onere di un notevole apparato poliziesco, per reprimere lo scontento da disperazione, nonchè gli enormi "costi di transazione" che si incontrano nel mantenere tale apparato e nell'assicurarsi la fedeltà dei "repressori" (che, altrimenti, assumerebbero il pericoloso peso dei pretoriani nelle lotte politiche dell'Impero Romano).

L'insieme di questi corollari, che ci illustrano una serie di trade-off e costi/benefici tra degenerazione del modello attuale e devoluzione immediata del potere agli esponenti della Grande Società, porrebbe poi un'ulteriore e fondamentale esigenza, piuttosto vantaggiosa per i governati: quella della selezione concreta della classe dirigente all'intero della oligarchia, al fine di designare i titolari delle cariche (in fondo, brevemente, rammentiano che in una società a maggioranza di schiavi come l'antica Atene, ciò portò a formule istituzionali tutt'ora additate come ideali...purchè si dimentichi la composizione del sub-strato sociale).

Per meglio comprendere quest'ultimo aspetto basti ricordare quanto detto sulla vera "casta", e sulla sua attuale composizione, per così dire, "sociologica", frutto com'è della burocratizzazione, evidenziata sia dalla teoria Schumpeteriana che dai neo-istituzionalisti (tutti pensatori comunque impegnati, in un modo o nell'altro, alla rilegittimazione dell'economia neo-classica), dei centri di potere economico dominanti.
In qualche modo si arriverebbe al dover fissare criteri di selezione al loro stesso interno: e poichè i conflitti di interesse, cioè l'alternanza dei vantaggi personali derivanti dal "piegare" politiche formalmente pubbliche e cioè nell'interesse generale,  emergono maggiormente quando non siano perseguiti collettivamente per via di intermediari (come insegna la parabola di B.), all'interno della vera casta oligarchica si attiverebbero inevitabili meccanismi di controllo reciproco.
E questi sarebbero risolvibili solo se i governanti fossero effettivamente collocati in posizione di "arbitro" e non di parte in causa: certo la partita la giocherebbero solo ESSI, ma si tratta pur sempre di una competizione tra interessi che non possono essere costantemente convergenti (persino i "cartelli" tra oligopoli perderebbero in gran parte la propria ragion d'essere e, talora, si ripristinerebbe una concorrenza mortale, proprio allorchè fosse data per scontata l'acquisizione della supremazia dell'elite oligarchica. La storia dell'Europa feudale ci fornisce un esempio eloquente, senza bisogno di particolari dimostrazioni).

Ed allora, (sempre ribadendo che siamo all'interno di un paradosso) è probabile che si arriverebbe, in assenza di interferenze con queste dinamiche, a una sorta di Repubblica di Platone: si dovrebbe (almeno) proclamare la facciata della Città ideale ed individuare i "Guardiani" (rammentiamo: "guide perfette ed impeccabili che - ed è questo il punto che sconvolse, secoli più tardi, i borghesi saliti al potere nell'ubriacatura liberista di matrice teorico-filosofica anglosassone- dovevano condurre una vita di ascetica rinuncia.
A tali guardiani, ma solo ad essi, badate bene!, era preclusa la proprietà individuale ed ogni forma di arricchimento, potendo possedere solo ciò che fosse strettamente necessario per soddisfare i bisogni essenziali.
Ne "La Repubblica"(417 a-b, Laterza, pag 138), Platone giustifica così tale assetto: "Quando però s'acquisteranno personalmente la terra, case e monete, invece di essere guardiani, saranno amministratori e agricoltori; e diventeranno padroni odiosi anzichè alleati degli altri cittadini".)
Insomma, gli spunti di divertimento, per il popolo reso mero "spettatore", non mancherebbero. Certo neppure la miseria e l'umiliazione, l'alta disoccupazione necessitata e la repressione poliziesca.
Tuttavia, come suggerisce l'ipotesi paradossale qui avanzata, anche questi inconvenienti potrebbero essere mitigati se si cercasse una trattativa preventiva e si arrivasse alla "resa" negoziando finchè si ha qualcosa da scambiare, cioè finchè, attraverso €urocrati e classi politiche di intermediari, ESSI non avessero esautorato ogni tutela e garanzia di benessere minimo.
E poi da un "punto zero" della democrazia si può sempre risalire e magari, finalmente, con la dovuta irrinunciabile consapevolezza di quanto sia incombente e ci riguardi Elysium."

3. La conferma empirico-politica di questa situazione, sempre più in fase attuativa conclamata - altrimenti l'affermazione di Monti sarebbe parsa gravissima a tutte le massime istituzioni di garanzia dello Stato costituzionale democratico!-, si manifesta già ora in vari aspetti prodromici.
Il problema che si pone alle oligarchie vincitrici, infatti, è quello, abbiamo visto:
a) della non perfetta coincidenza di interessi, all'interno della stessa classe industrial-finanziaria pro-€uropea (che è poi un pro-mercato del lavoro-merce e un pro-smantellamento di ogni effettiva funzione di intervento dello Stato a sostegno del livello di reddito e di occupazione dei lavoratori): esistono diversi gradi di internazionalizzazione della produzione, all'interno della "offerta" industriale italiana "sopravvissuta", e quindi diversi gradi di convenienza a privilegiare una ripresa dei consumi interni (cosa che, per quanto larvatamente, una parte consistente delle imprese di Confindustria non può negare essere legata al potere d'acquisto delle famiglie, quand'anche integrato dal credito al consumo e dalla sua auspicata...solvibilità);
 
b)  del fatto che, assunta in prima persona e senza intermediari (cioè senza più politici aventi un ruolo effettivo di bilanciamento con qualche pur esile interesse diverso da quello "supply side") la gestione oligarchica delle istituzioni, ne consegue il rapido dissolvimento di ogni ruolo residuale del sindacato
Ma poi, la gestione di governo si indirizza sul livello episodico delle singole unità produttive e sulla capacità dei relativi datori di imporre la c.d. contrattazione aziendale. Per il resto, esiste il "pilota automatico" del mercato del lavoro e della destrutturazione e deresponsabilizzazione di ogni politica economico-fiscale nazionale.
Ma se quest'ultima diviene il segno visibile del successo, la Confindustria stessa perde di "rappresentatività", in quanto non tutti possono affidarsi alla stessa identica spinta alla internazionalizzazione e qualcuno, anzi molti, hanno perdurante bisogno del mercato interno e di un legame stabile della produzione col territorio: ergo con la domanda interna.
 
4. Da qui il potenziale conflitto tra due tendenze inconciliabili interne alla oligarchia, almeno per la parte di essa che ancora, forse per poco, si voglia identificare come legata al territorio nazionale: 
- o la definitiva collocazione nella "competizione sui mercati globali";
ovvero resistere alla deriva di smantellamento di tutto il testo dell'industria a controllo nazionale, ad opera degli IDE e delle acquisizioni da parte dei competitor globalizzati esteri;
col risultato che, all'interno della classe imprenditoriale italiana, c'è chi vorrebbe politiche per poter sopravvivere - anche se non le sa indicare per l'incapacità culturale più volte evidenziata- e chi, invece, ha mollato ogni identità legata alla "nazionalità" e al territorio.
 
5. Questo è lo schema generale del conflitto post-"resa" che consente di leggere questo criptico articolo, laddove si parla di questo:
"La Confindustria è letteralmente fuori di sé per Renzi che ormai abitualmente la snobba per fare comunella con il disertore Marchionne. Chissà che ieri a Milano- Expo non abbia timidamente cominciato a palesarsi un nuovo nemico, con Squinzi fin qui aulico zelatore, che — potenza del lessico — ha accennato a una “manina antimpresa” del governo...".
 
A leggere tutto l'articolo, paiono ripicche e personalismi persino un po' bizzarri: ma questo solo perchè si descrivono acriticamente frizioni tra personalità, e solo sul piano di apparenti geometrie e alleanze interne ad una classe (ormai solo formalmente) omogenea
Insomma, nella ennesima vulgata mediatica, si "narra" di qualcosa che, al lettore, può apparire come il comporsi delle simpatie e antipatie personali all'interno di una grande comitiva, di amici e meno amici, con il consueto formarsi di gruppi più ristretti che si aggregano per ragioni di affinità puramente psicologiche e caratteriali. 
E  questo accade quando, in una fase di assestamento per l'affermarsi di un nuovo ordin€ ("...internazionale dei mercati", ideologicamente Hayek allo stato puro) si fa cronaca senza saper più inquadrare il paradigma sociale ed economico che, pure, si va costantemente supportando: cioè si riportano i fatti della "comitiva" come se fossimo osservatori in "piazzetta", ma senza spiegare dove risieda la sostanza materiale degli interessi in conflitto.

giovedì 28 maggio 2015

LA (DISPERATA) MOSSA SPAGNOLA: IL REDDE RATIONEM SI ESTENDE A TUTTA L'UEM (con buona pace degli attacchi alla Corte costituzionale)

http://www.dueparole.eu/images/ragno.gif

1. Caposaldo, in questo commento, mi segnala la "mossa" spagnola, in apparenza clamorosa, che invita a rivedere il ruolo della BCE, affidandole la gestione degli squilibri commerciali per via monetaria ed ististuendo eurobonds "dedicati" allo scopo di finanziare le relative operazioni di erogazione di credito (federale?) agli Stati, nell'ambito di un non meglio precisato "bilancio UEM", dimensionato a tale scopo correttivo (sarebbe più un fondo creditizio, una sorta di "banca di soccorso pubblico" che non un bilancio per interventi fiscali veri e propri di finanziamento dell'azione funzionale dei vari Stati).

La questione è (drammaticamente) "interessante", perchè segnala più che un problema congiunturale, un aspetto strutturale
Dunque la Spagna proporrebbe di correggere da subito l'area valutaria sub-sub-(sub)ottimale e di rivedere il mandato BCE stile Fed, istituendo un (non ben delineato) fondo di intervento con eurobonds "mirati".
Quest'ultima una proposta non eccezionalmente nuova, i cui limiti sono alquanto evidenti: la novità sarebbe la ripartizione dell'intervento di concessione di linee di credito agli Stati, non effettuata pro-quota di partecipazione alla BCE e quindi in modo ben diverso dall'attuale inutile QE. Ovviamente, parrebbe di intendere, senza imposizione di condizionalità, che vanificherebbero, evidentemente, il raggiungimento della neo-mission di sostegno al dato occupazionale nel frattempo attribuibile alla BCE..

2. E' però, con tutta evidenza, una mossa disperata, che contrasta non solo i trattati ma l'orientamento preannunziato dalla Corte GUE sull'OMT, che rafforza l'idea della neutralità della moneta rispetto alle politiche fiscali.

Adeguare il mandato BCE a quello della Fed è anche un suggerimento bisbigliato dagli USA (tra l'altro, "interessato" in funzione TTIPS): ma non basta e non può bastare a risolvere i problemi dell'UE.
Bottarelli mette molta carne al fuoco, ma sempre su un piano implicitamente monetarista.

3. Nessun bilancio UEM di volume sufficiente a correggere gli squilibri commerciali sarebbe possibile senza il contributo maggioritario della Germania (anzi, dominante in modo quasi totalitario, secondo i calcoli di Sapir); ma il problema è un altro.
La correzione (finanziario-fiscale) degli squilibri commerciali ormai, una volta realizzato il mercato del lavoro-merce (in tutta l'UEM), non basta più a far riprendere la domanda nella stessa UEM: la situazione l'hanno dovuta chiarire, a loro spese, i giapponesi.
Laddove i redditi semplicemente non POSSONO riprendersi e il risparmio tende ad esaurirsi nel lungo periodo, unitamente al problema demografico che si accoppia alla deflazione salariale strutturata per un intero sistema orientato alla crescita export-led.

I rispettivi sistemi industriali si internazionalizzano nel senso di "si delocalizzano", sul piano occupazionale manifatturiero - l'unico dove può seriamente parlarsi di crescita salariale legata alla produttività, senza aggiramenti, ormai normali nel settore dei servizi: (v.Huber e tanti altri esempi); la domanda interna naturalmente ristagna, la deflazione acuisce il tutto e nessuno sa mettere in discussione il paradigma del mercato del lavoro (non più strutturalmente "fordiano", cioè capace di assorbire la produzione).

Finchè si crede nella legge di Say, corollario implicito del monetarismo, non è possibile correggere perchè in definitiva non lo si "può" più volere.

4. A un certo punto i grandi oligopoli internazionalizzati assumono una vita propria, indipendente dallo Stato, ma, al tempo stesso, sono così più forti (essendo venuti meno i partiti di massa che tale Stato caratterizzano in senso comunitario e non oligarchico), che possono imporre le politiche fiscali e industriali (supply side only) da loro desiderate.
Inutile ripetere che con liberalizzazione dei capitali e banche universali, è sempre più difficile per il singolo Stato imporre un cambio di rotta e, prima di tutto, politiche fiscali di reflazione a favore del lavoro e cioè della ripresa della domanda interna (che si destabilizza sia sul lato strutturale dell'offerta aggregata che su quello della reattivbità dei redditi PERSINO A POLITICHE ESPANSIVE). 
Tutto quello che rimane, com'è noto, è il modello della crescita dei consumi a "debito" inevitabilmente a rischio di divenire sub-prime (e di far scoppiare una bolla con annessa crisi finanziaria globalizzata).

5. Pensa poi se le politiche espansive debbano essere affidate,- per via monetaria!-, al paese più mercantilista e deflazionista in UEM!
A parte l'irrealizzabilità politica, a norme vigenti del trattato, abbiamo pure un vincolo insormontabile nel ridisegno sempre più irreversibile dei sistemi socio-economici. E questo, anzitutto, coinvolge gli stessi USA, come abbiamo stra-illustrato in questa sede.
Immagina tu quanto ciò possa essere efficace e realistico in un rapporto (sempre più sbilanciato politicamente, per definizione) tra SPAGNA-GERMANIA=>(PIGS), e quindi in uno scenario che ha spinto troppo oltre, ormai, la sua destrutturazione degli Stati costituzionali del welfare...

mercoledì 27 maggio 2015

CADUTI DAL CIELO, I FIGLI...DELLE STELLE?

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Farebbe bene, oggi specialmente, rileggersi questo post:

L'ESTORSIONE 

Ove tra l'altro, si diceva:

"Allora, risulta che il rapporto debito/PIL della Grecia sia andato, considerando il solo periodo che va dal 2008 al 2014, dal 105 al 175%, quello della Spagna (il grande modello cui ispirarsi) dal 36,1 al 96%; quello dell'Irlanda dal 25 (sic!) al 123%; quello del Portogallo dal 68,3 al 129%.
In questo stesso periodo, l'Irlanda ha realizzato deficit pubblici con un picco annuale del 30,6% (!) nel 2011, registrando un 7,2 per il 2014, che è anche il miglior risultato di tale periodo (partito col pressocchè pareggio di bilancio, -0,1, del 2008). 
La Grecia potremmo tralasciarla (ancora non ci dicono che è un modello da imitare, a reti unificate). 
Ma la Spagna è andata dal deficit -1,9 del 2008, all'attuale  stima di -7,1 (praticamente come l'Irlanda) per il 2014, passando per un picco del 10,6 nel 2013.
Il Portogallo, è tanto virtuoso e da imitare che al 2014 registra una stima di -4,9, dopo il -6,4 nel 2013 e passando per un  picco di -9,8 nel 2011 (dal -3,1 del 2008).

Tutto questo, per realizzare "crescite", nei casi considerati, che hanno portato il PIL della Spagna da 1441 miliardi del 2008, agli attuali...1358 (ecco la crescita: nel 2013 era stato di 1322 miliardi); il PIL del Portogallo dai 232 del 2008, agli attuali stimati 219 del 2014, essendo in "crescita" sui 212  registrati nel 2013; l'Irlanda passa dai 258 miliardi del 2008, agli attuali 219, mentre nel 2013 registrava...212 miliardi. (per capirsi, la Grecia, in trionfante "fuori pericolo", parte dai 305 miliardi del 2008, ed arriva oggi a 248, stima 2014, che le attribuisce una splendida crescita 0, sui 248 dello stesso 2013).

Si potrebbe proseguire illustrando i dati della disoccupazione, in costante aumento in tutti tali paesi, nello stesso periodo: la consolazione starebbe nel fatto che si avrebbero leggeri cali dei relativi tassi tra il 2013 e il 2014. 
Ma ovviamente non si dice della quota salari su PIL, nel frattempo stabilizzatasi, dell'incremento del numero di ore lavorate per realizzare la produzione (comunque minore del 2008), a parità di salari reali (quando va bene), in questo stesso periodo, del crescente numero di semioccupati, precari e part-time, che sfalsano la significatività del dato occupazionale (cioè lo rendono un'apparenza statistica rispetto alla reale produttività realizzata ceteris paribus a partire dal 2008)."
Sicchè oggi solo chi si accontenta della grancassa mediatica e della costante sopravvalutazione delle "riforme strutturali" e del "facciamocome" può stupirsi di un terremoto politico (per quanto qualcuno nega che vi sia stato). 
Insomma, per chi è abituato a "informarsi" sui media italiani 'sta storia della Spagna è un po' come cadere dal pero, se si vuole cercare una spiegazione legata alla...realtà. O cadere dalle stelle, sognando, "nel blu dipinto di blu"..

lunedì 25 maggio 2015

MONETA PARALLELA IN GRECIA...CHE PASSIONE!


 http://i.ytimg.com/vi/CClYdQZ66QQ/maxresdefault.jpg

1. "La Grecia dovrebbe emettere una moneta parallela per il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, confermando che un accordo con i creditori pubblici è tutt'altro che vicino.


Un paio di funzionari, che hanno partecipato a un incontro insieme al ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, questa settimana, hanno riferito che questi avrebbe citato la possibilità che la Grecia emetta una moneta parallela, qualora non fosse raggiunto a breve un accordo, senza proporla effettivamente come soluzione.
Il riferimento è alle indiscrezioni dei mesi scorsi, quando si è diffusa la voce che il governo greco fosse pronto a pagare stipendi e pensioni con i cosiddetti IOU, certificati di credito, simili alle nostre cambiali "pagherò", che potrebbero essere offerte a dipendenti pubblici e pensionati al posto dei pagamenti cash, consentendo loro di portarli a scontare in banca o di girarli ad altri, ottenendo la somma indicata sui titolo. Si tratterebbe, però, di una monetizzazione vera e propria della spesa pubblica ellenica, perché le banche nei fatti finanzierebbero il governo, a corto di liquidità.
Gli IOU eviterebbero alla Grecia di dichiarare default e forse anche di uscire dall'euro, ma dovrebbero essere tollerati dalla BCE, il cui statuto vieta tale pratica."

2. Se emettere una moneta parallela diviene una soluzione per gli €-rigoristi più intransigenti, e ben interessati al mantenimento dell'euro, un qualche sospetto potrebbe insorgere
Ma come, i rigoristi germanici che considerano il divieto di emissione di moneta fuori dal potere di autorizzazione della BCE un presidio indispensabile per la loro stessa presenza nell'area euro (art.128 TFUE)?
La questione è semplice e ha a che vedere con gli effetti interni e verso l'estero, di questa moneta parallela: evidentemente idonea, nell'immediato (forse, se non contestata dalla BCE, ma si potrebbe avere un'elasticità "tattica" pur di salvare il sistema di potere dei paesi creditori...), a estinguere i debiti dello Stato verso i cittadini greci (salari e pensioni, pagamento di servizi e persino appalti di lavori pubblici), sarebbe poi simmetricamente idonea a effettuare pagamenti in senso inverso.
  
3. E' nella natura del "pagherò", che non è una vera moneta, riserva di valore (tanto più se emesso da uno Stato che non ha più il potere di garantirlo!), ma un credito a scadenza futura, che viene naturalmente "scontato" nella sua circolazione e si rapporta, con ciò, in valore (decrescente) al valore che nel frattempo assuma la vera e propria moneta "avente corso legale".
In particolare, la moneta parallela servirebbe, come prima funzione avallata dallo Stato, a estinguere i debiti tributari dei cittadini verso lo Stato greco. Quindi si tratterebbe di un'emissione che, entro un breve periodo di maturazione di tali crediti (dipende dal momento di scadenza del periodo di imposta dei vari tributi), porterebbe ad un innalzamento dell'indebitamento - attenzione CONTEGGIATO IN EURO- dello stesso Stato: un innalzamento direttamente proporzionale alla differenza di valore tra il valore nominale del "pagherò" e il valore (costante e persino accresciuto) dell'euro in cui deve essere espresso il bilancio dello Stato greco.
Cioè a un maggior deficit, determinato da un'estinzione fittizia di entrate non più prelevate in euro: euro che rimarrebbero gli unici idonei a estinguere il debito verso i vari creditori esteri.
Mentre invece, va ribadito, allo Stato greco, si chiede di realizzare un crescente avanzo primario - SEMPRE IN EURO- per poter pagare, in euro, i creditori della trojka.

4. Ma non basta: quella liquidità (una cambiale circolante) servirà ai greci che la ricevono, nell'immediato, anche per acquistare i beni indispensabili alla sopravvivenza e saldare i debiti a titolo privato comunque accumulati. Ad es; rate dei mutui e delle automobili.
Alle banche che li ricevessero (per tali titoli di soluzione dei debiti, essenzialmente con imprese estere) toccherebbe convertirli in euro: ammesso che li accetterebbero pro-solvendo, cioè come pagamenti a titolo definitivo (cosa che presupporebbe uno Stato greco solvibile IN EURO, condizione che, per definizione, non sussisterebbe più, e proprio perchè lo Stato ha emesso tali cambiali che sono la prova provata della mancanza di liquidità, cioè dell'insolvenza).
E le banche dovrebbero al più presto convertirli in euro, sia perchè i loro bilanci devono essere espressi in euro, - se non altro perchè attualmente il sistema bancario greco sopravvive attraverso il sistema di elargizione di emergenza ELA della BCE, ovviamente in EURO -, sia perchè una parte consistente di quegli stessi debiti deve essere pagata al sistema bancario-finanziario estero (creditore di quello greco, per via della operazione importativa sottostante) che ha venduto, in euro, i beni a pagamento rateizzato.

5. E ancora non basterebbe: la liquidità così immessa servirebbe altresì per pagare generi alimentari, farmaci (indispensabili), beni di consumo durevoli di ogni tipo (persino i pezzi di ricambio di frigoriferi e condizionatori, per non parlare del materiale per le sale operatorie- che i greci non potessero più permettersi e che dovessero almeno manutenere), determinando una ulteriore aggiunta di debito commerciale estero.  
E questo dato che la Grecia, questo insieme di beni di consumo già non li produceva prima e ora, meno che mai, è in grado di produrli sul proprio territorio, squassato dalla feroce austerità e disoccupazione, devastanti il proprio precedente (e già esile) sistema industriale.

6. Che poi, quest'ultimo, è esattamente il problema (crediti commerciali esteri di medio e breve periodo) che ha portato alla crisi greca e che, nel calcolo degli economisti greci, come costantemente evidenzia Sapir, è decisivo circa la titubanza nell'arrivare all'euro-exit: nel senso che, poi, non si disporrebbe nè delle riserve di valuta pregiata per non deprimere distruttivamente il cambio della eventuale neo-dracma, nè di un sistema industriale per poter prontamente riprendere la produzione dei beni che non convenisse più importare a causa dell'aggiustamento-svalutazione del cambio.
La pseudo-valuta creata con la moneta parallela, anticiperebbe solo questo effetto, di insolvenza aggiuntiva rispetto ai paesi creditori e si trasformerebbe in un ulteriore debito pubblico (per accumulo di uscite-spesa pubblica non compensate da entrate prelevabili in euro, in quanto anticipatamente sostituite dai pagherò, corrisposti come stipendi, pensioni e pagamenti di eventuali residui fornitori dello Stato).

7. Il quadro dovrebbe essere chiaro: in questa situazione, la moneta parallela sarebbe null'altro che un aggravamento della situazione debitoria verso l'estero sia dello Stato che del sistema bancario greco, e dunque dell'insieme dei cittadini greci, che si troverebbero a detenere uno strumento di pagamento che "scotta", in quanto per definizione costretti a usarlo in super-offerta per convertirlo in euro (essi stessi o il sistema bancario greco: in pratica non cambia molto, tranne un leggero lag temporale di conversione rispetto alle transazioni).

8. La super-offerta significa che il prezzo di questa moneta parallela sarebbe immediatamente depresso nel "cambio" rispetto all'euro, che rimarrebbe la vera valuta di pagamento di ultima istanza (di pagamento di debiti pregressi o ulteriori espressi in euro): ci sarebbe la corsa a liberarsene e questo scatenerebbe un'inflazione galoppante.
Ma solo sul versante della capacità di pagamento (con moneta parallela a rapida svalutazione) dei greci e sul livello dei prezzi interni: il debito essenziale legalmente fissato in euro, essendo verso "l'esterno", si rivaluterebbe simmetricamente, creando condizioni ancora più dure di possibile rientro, a vantaggio di creditori che si sono mostrati intransigenti e spietati.
Per questo Schauble caldeggia la moneta parallela...

sabato 23 maggio 2015

L'OCSE E L'ILLUSIONE FINANZIARIA AL SERVIZIO DELL'IMMINENTE NEO-WELFARE BANCARIO (l'ingiustizia sociale, no?)


http://media.polisblog.it/4/40f/tasi-620x350.jpg




i paesi sviluppati con maggiori disparita?? di reddito 
"I paesi sviluppati con maggiori disparita?? di reddito
Uno studio dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico dimostra come la disparità di reddito ostacoli la crescita economica e rovini il tessuto sociale.

Nel rapporto OCSE si vede come la differenza tra ricchi e poveri cresca sia in tempi di prosperità sia in periodi di crisi, e come i grandi gruppi si spartiscano i profitti maggiori lasciando poco o niente alle famiglie.

L’Italia si trova nella parte bassa della classifica, ma non tra i 10 stati peggiori, che sono, nell’ordine: Cile, Messico, Turchia, Stati Uniti, Israele, Regno Unito, Grecia, Estonia, Portogallo e Giappone."

2. E qui incominciano gli "avvertimenti" dell'Ocse.
Straovvia l'assenza di qualunque riferimento all'assetto del mercato del lavoro e alle politiche di contenimento del deficit pubblico, imposte a colpi di condizionalità e di trattati di liberoscambio.
Per il Cile e per il Messico, come pure per gli Stati Uniti, abbiamo abbondantemente illustrato. 
Per il Portogallo rinviamo al "solito" grande Riccardo Seremedi e per il Giappone al dettagliato studio di Sofia (rammentiamo la "strana" assonanza tra il rapporto di lavoro "Arbaito" e il modello Walmart...).
Ma abbiamo anche visto come funziona nel Regno Unito sull'inerzia del para-welfare post Thatcher (in salsa iperfinanziaria blairiana). 
Sulla Grecia non c'è bisogno di spiegazioni: l'OCSE, denuncia qualcosa che pare implicare la "consueta" responsabilità delle politiche nazionali, senza alcun segno di pentimento e senso della realtà (a differenza del FMI, che, a sua volta, non ne trae le conseguenze). 
Insomma, la "condizionalità" per l'OCSE è un oscuro fenomeno estemporaneo, come un cambiamento climatico innescato da forze incontrollabili su cui è inutile spendere parole e additare meccanismi causali.

3. Infatti, arrivando sul pianeta giusto adesso, con un volo "last minute", e cercando "sotto il lampione", l'OCSE "constata e invita", come se nulla fosse: in pratica senza memoria alcuna di decenni delle sue prediche precedenti, sulle riforme strutturali, a cui certo non dedica alcun riferimento nè una rinuncia al considerarle la "soluzione":
"In cambio, la disparità influisce negativamente sul PIL: si vede, infatti, come nei 34 stati membri dell’OCSE l’aumento delle disuguaglianze tra gli stipendi dal 1985 al 2005 abbia causato un rallentamento della crescita complessiva, con una media di 4.7 punti percentuali in meno tra il 1990 e il 2010.
I ricercatori hanno messo i cosiddetti “paesi sviluppati” in una tabella in base alla differenza di reddito nella popolazione. L’OCSE sostiene che il rapporto non riguardi solo l’economia, ma anche la politica e il sociale.
L’Organizzazione ha invitato i leader mondiali ad adottare politiche contro la polarizzazione tra ricchi e poveri, contro le differenze di genere e la concentrazione dei grandi patrimoni.
“Introiti più bassi non permettono alle persone di realizzare il loro capitale umano, con ripercussioni negative sull’intera economia”, si legge nel rapporto dell’OCSE."


4. Perciò non si cresce e l'output-gap è spaventosamente evidente; ma per l'OCSE ciò non ha nulla a che fare, parrebbe, nè con le politiche fiscali nè col mercato del lavoro costantemente "consigliati" dall'OCSE medesimo; mentre l'invito a correggere le ingiustizie, si appunta contro i "grandi patrimoni", oltre a un fantastico invito al diritto cosmetico "contro le differenze di genere": di cui proprio non può scorgere la connessione coi tagli al welfare e la denatalità, finendo per caldeggiare "l'esercito industriale di riserva" aggiuntivo delle "in-quanto-donne"; e fingendo di ignorare che, col mercato del lavoro idolatrato dall'OCSE, l'allineamento di genere può solo andare nel senso dell'abbassamento retributivo per tutte/tutti, dato che predica "a tutte le genti", pur sempre, la massima flessibilità del lavoro in base alla sue irrinunciabili classifiche, ad indicatori ben calibrati.



5. Alla fine della giostra, una volta ritradotto, il senso dell'invito è "tassate i grandi patrimoni": che poi sarebbe a dire, di individuarli, - in una società globalizzata a crescente indebitamento privato!-, in termini di basi imponibili a valori di mercato nazionali; cioè mediante tasse prelevabili solo sui patrimoni radicati nei territori e non debitamente occultati dalla liberalizzazione dei capitali e dallo shadow banking off-shore. 
Ragion per cui, un vero ricco, spesso non figura come intestatario di nulla (o quasi, se non è uno sprovveduto), per le autorità fiscali di singoli Stati, "invitate", senza alternative serie e veritiere, a punire i pesci medi, e medio-piccoli; cioè coloro che, nelle neo-statistiche della ricchezza territoriale al ribasso, figureranno come parassiti che affamano il resto della società (pur costituendo in pratica una parte maggioritaria della società...già impoverita).

6. Una tassazione patrimoniale che così pressantemente suggerita, farà accelerare oltretutto lo scoppio delle bolle immobiliari (e, ovviamente, non solo) innescate dal denaro facile riversato nel settore finanziario dalle "banche indipendenti".
Ma si tratta di prendere il malloppo, utilizzando gli Stati (obbedienti all'ordine internazionale dei mercati) e il moralismo dell'ingiustizia sociale (senza indicarne le cause), finchè si è in tempo: cioè, prima che si dissolvano i valori di mercato, comunque destinati al periodico sboom (in tutti i paesi ex avanzati, e assoggettati alle politiche supply-side della competitività, predicate dall'OCSE, dove i salari sostengono i consumi solo perchè "garantiscono" livelli di indebitamento insostenibili nel tempo, per ogni genere di beni: di consumo e patrimoniali veri e propri).
7. Tutto pare quindi tendere ad un obiettivo: trasformare il gettito fiscale relativo alla intensificata caccia ai ricchi...sprovveduti, - individuando soglie opportune di patrimoni "indecenti" (come già avviene sempre più per le "pensioni d'oro")-, in soldini da versare in welfare bancario di soccorso alle banche mutuanti nonchè detentrici dei derivati sui mutui, nell'intreccio "Repo" dalle due parti dell'Atlantico. 
Questi crediti (aggiuntivi alla marea delle sofferenze, dovuta alla mai menzionata crisi da domanda innescata dal mercato del lavoro predicato dall'OCSE), in realtà, sono già a rischio bolla, comunque, anche senza inviti dell'OCSE, ma per la sola inerzia della finanziarizzazione, di scoppiare entro poco tempo.
Insomma, quando il rischio sub-prime (di ogni genere) si fa duro, l'OCSE si rammenta della ingiustizia sociale e torna alla carica per il grande festino del patrimonio delle famiglie.
Tanto per ricordare:

8. TRE UOMINI IN BARCA (Renzi, Mentana e....Barca)? O TRE UOMINI E UNA PECORA (PATRIMONIALE)?

"Mettendo in gioco l'illusione finanziaria, vorrà dire che le "entrate straordinarie" ce le becchiamo comunque, ma in una forma che verrà fatta apparire come una cosa positiva
Vale a dire: la patrimoniale (una tantum, cioè straordinaria) dovrebbe essere di 400 miliardi, perchè questo è il livello della colpa che avete accumulato vivendo al di sopra delle vostre possibilità e, naturalmente, provocando la disoccupazione giovanile (che è naturalmente colpa di chi, responsabile di un'assurda distribuzione della ricchezza e del reddito, si è comprato casa o ha maturato una pensione o ha comunque risparmiato, provocando il problema, centralissimo, del debito pubblico): ma siccome loro sono buoni, internazionalisti e "di sinistra", e ci tengono all'occupazione giovanile ma anche alla "ricrescita" (il punto non è mai chiarito nei suoi meccanismi causali, ma si tratta di aritmetica ordoliberista, cioè pop di facciata ed "esoterica" nelle sue radici), la faranno per un pò meno oppure in comode rate pagabili in 3-5 anni.
...Interviene a questo punto una correlazione tra risparmio=riserva di liquidità da spendere e livello della domanda aggregata; un fenomeno che tende ad accentuarsi quando la politica fiscale crea univoche e costanti attese di pressione fiscale comunque crescente, facendosi valere, non tanto nella mentalità corrente, quanto nella teoria economica innestata di forza sul corpo sociale, una delle principali "equivalenze ricardiane": cioè si considera che il debito pubblico equivalga, in modo totale o consistente - come in definitiva assume la riduzione predicata dal fiscal compact- alla capitalizzazione di futuri incrementi di imposizione fiscale adottati per ripagarlo (cosa che presuppone come assioma incontestabile la banca centrale indipendente "pura", attualmente sancita dai trattati europei). 

...E il fenomeno in esame ci riporta un effetto diretto della tassazione patrimoniale, del tutto trascurato
Cioè quello della "propensione marginale al consumo" connessa al risparmio stesso, quale ci ha segnalato StefanoC., nella misura individuata da Bankitalia, in modo, peraltro alquanto prudente, se non sottostimato: e questo in relazione alle eccezionali condizioni congiunturali, legate proprio alla suddetta  equivalenza ricardiana, che il bench mark USA considerato da Bankitalia non sconta nella stessa misura. Se non altro perchè, come tutti ben sanno, quella realtà non ha affatto una banca centrale indipendente "pura".
Ma anche superando queste non trascurabili obiezioni, che ci indicherebbero una propensione marginale al consumo del nostro risparmio, specialmente monetario-finanziario, ben più alta, l'effetto di una patrimoniale una tantum, - specie in una situazione di auspicata ma improbabile "ricrescita fenice" e di sicura recessione appena vissuta con crescita attuale intorno allo zero (ma solo nell'ultimo e provvisorio trimestre 2013)-, risulterebbe comunque devastante.  Sfefano stesso evidenzia la cosa in questi termini:
"Ho trovato qui sull' "effetto ricchezza": http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/temidi/td04/td510_04/td510/sintesi_510.pdf
Per quanto concerne la sola ricchezza finanziaria, la propensione marginale al consumo è simile nei due paesi [USA e ITA], pari a circa 9 centesimi per ogni euro di ricchezza finanziaria. ...
Per quanto concerne la ricchezza reale (essenzialmente abitazioni e altri immobili), la propensione marginale al consumo delle famiglie italiane è pari a circa 2,5 centesimi per ogni euro di ricchezza reale."
Dunque una patrimoniale che innescasse una perdita anche solo del 10% del valore reale degli immobili (via credit crunch o tassa ricorrente) produrrebbe una calo di 12 miliardi in meno in termini di consumi. (5000mld*10%*2.5%=12.5miliardi)."





giovedì 21 maggio 2015

RESA TOTALE...O LA FINZIONE NON PUO' PIU' CONTINUARE? (NON POTEVO RESISTERE-2)


8 settembre 1943_armistizio

1. Dato che mi serve per il libro e che mia capacità di "resistenza" a stare lontano da qui (per ora) è bassissima, provo a commentare sinteticamente un interessante articolo di Enrico De Mita, illustre professore di diritto tributario, quale segnalatomi da Lorenzo Carnimeo in questo commento (con prima risposta).
Vi preannunzio che l'articolo, al di là delle precisazioni a commento che seguiranno, conferma che il "redde rationem" italiano rispetto all'€uro-costruzione passa inevitabilmente per quella potente cartina di tornasole che è la Corte costituzionale; questo perchè non solo anche il prof. De Mita coglie la polarizzazione "da ultima spiaggia" tra le due sentenze n.10 (quella sulla Robin tax che non consente la restituzione "retroattiva", conseguente alla declaratoria di illegittimità costituzionale del tributo) e n.75 del 2015 (quella "famosa" oggi sull'adeguamento pensionistico), ma inevitabilmente anche il suo ragionamento si imbatte, (per quanto cautamente, circa la soluzione), nella conseguenza del conflitto insanabile tra Costituzione e trattati.

2. Qua, nel post sul 1° maggio, avevamo anticipato i corni del dilemma, come pure la strada su cui la Corte, anche "tornando indietro" sui suoi passi, si troverà comunque, in un senso o nell'altro, a segnare il destino della Costituzione come fonte di diritti fondamentali che caratterizzano la sovranità nazionale:
"...invito i più attenti lettori di questo blog a riflettere su un "trovate le differenze" tra la sentenza in questione (n.70/2015) e quella sulla Robin Tax, n.10 dell'11 febbraio 2015
Mi limito a suggerire una direzione di indagine:   - è più "equo" accorgersi degli effetti di restituzione retroattiva delle sentenze della Corte in vigenza dell'art.81 Cost.- cioè del pareggio di bilancio- per impedire una successiva redistribuzione punitiva derivante dalle esigenze di costante copertura appunto in pareggio di bilancio (caso della sentenza n.10), ovvero "ignorare" che, vigendo l'art.81 Cost. attuale, e il fiscal compact, qualcuno dovrà comunque pagare quella apparente restituzione e, dunque, l'intero sistema economico subire (per via fiscale) una equivalente contrazione (esattamente compensativa di quella dichiarata incostituzionale) di consumi, investimenti e occupazione?"

3. Evidentemente, messa in questi termini, il nodo che la Corte deve inevitabilmente sciogliere è un altro, dovendosi logicamente e giuridicamente ritenere inaccettabile una continua riduzione dei diritti costituzionali, ancorati a norme inderogabili (in teoria, fino ad oggi), a mere pretese a tutela eventuale (se non "casuale"); vale a dire, a posizioni soggettive organicamente affievolite dall'adesione all'Unione monetaria europea, in quanto aventi una tutela effettiva che sia soggetta;
a) nel suo complesso alla prevalenza del pareggio di bilancio stabilito dal "nuovo" art.81 Cost. (che equivale a dire alla prevalenza del c.d. fiscal compact), secondo un automatismo che svuota praticamente di contenuto tutelabile (cioè reintegrabile) l'intera gamma dei diritti costituzionali;
b) in alternativa, ad una discrezionalità della Corte, non prevista dalla Costituzione (intesa in senso sistematico), nel riscontrare i presupposti di questa prevalenza: una discrezionalità giuridicamente "imprevidibile", perchè operante su una molto opinabile gerachia fra i diritti costituzionali non più interpretati, appunto, sistematicamente, ma isolatamente considerati, e  perciò ben difficilmente motivabile con coerenza. 
Altrettanto sistematica, infatti, dovrebbe essere la considerazione, da parte della Corte, dell'effetto complessivo, e reiterato costantemente nel tempo, delle manovre finanziarie che includono le singole norme devolute al suo sindacato: queste manovre, infatti, rientrano complessivamente nel tipo di correzione del sistema e del ciclo economico che, imposta dai vincoli europei, tende univocamente a stabilizzare un elevato livello di disoccupazione strutturale, - pari al 10,5%- in funzione dell'inflazione considerata nell'UEM come di equilibrio "di pieno impiego" ; un obiettivo strutturale che rende ingiustificabili le stesse manovre alla luce del principio lavoristico a cui è informata l'intera Costituzione. 

Una discrezionalità di questo tipo non riguarderebbe la, sempre possibile, incerta previsione sulla esatta interpretazione delle norme costituzionali nel caso concreto, cioè la naturale possibilità di scelta interpretativa in funzione delle vicende socio-economiche in evoluzione nel tempo, ma la fase successiva alla declaratoria di illegittimità costituzionale; quella conseguenziale "necessitata",- secondo l'art.136 Cost. e secondo il principio di rigidità dellaCostituzione (art.138) e persino di non revisionabilità della stessa (art.139)-, di reintegra del diritto affermato e dunque "tecnico-finanziaria a valle". 
Parliamo quindi delle conseguenze ripristinatorie che la Costituzione prevede come effetto necessario della tutela costituzionale già accordata (art.136 Cost.; ciò ovviamente concerne, spero sia chiaro, l'applicabilità delle norme dichiarate illegittime nei rapporti pendenti, certamente non esauriti, e controversi di fronte ai giudici "ordinari" che hanno rimesso la questione alla Corte). 
E' chiaro che la stessa Corte, di fronte al sistematico riproporsi di questa esigenza tecnico-finanziaria, si troverebbe nell'alternativa, molto pratica:
i) o, (per evitare il protrarsi di questa prolungata incertezza sulla effettività dei principi costituzionali), di rinunciare progressivamente a interpretare le norme costituzionali in senso incompatibile con la radice €uropea di questa linea di politica economico-fiscale, accettando de facto la novazione del principio fondamentale unificante della Costituzione: il che significa una novazione da quello lavoristico e quello della conservazione "ad ogni costo" della moneta unica, così come ratificato nel fiscal compact-pareggio di bilancio. Con ciò, però, rinuncerebbe al ruolo che la stessa Costituzione le ha assegnato, divenendo un giudice del tutto soggetto alla superiorità incondizionata dell'intero diritto europeo;
ii) ovvero, di prendere una posizione che ribadisca il filtro dell'art.11 e dell'art.139 Cost. - da lei stessa affermato in più pronunce-  confermando il paradigma della Repubblica fondata sul lavoro (artt. 1, 3 e 4 della Costituzione); ma questo solo affrontando il "cuore del problema":

"...cioè il legame tra:
- livello del bilancio fiscale, ridotto col "consolidamento" (quantomeno nelle intenzioni dichiarate, poichè i risultati, a causa dello strutturarsi di un elevato livello di disoccupazione, sono in pratica opposti o incongruenti, come prova l'aumento del rapporto debito su PIL e il costante mancato verificarsi della riduzione del deficit annuale programmato nelle stesse manovre finanziarie);
- vincolo a monte del consolidamento, cioè il pareggio di bilancio (in tutte le sue forme, comunque riduttive dell'indebitamento annuo);
- e disoccupazione-livello delle retribuzioni (e quindi anche del successivo trattamento pensionistico);
 ...
"dovendo" chiarire, a se stessa e alla comunità sociale intera, coinvolta nella tutela costituzionale, il perchè si sia adottato il paradigma del pareggio di bilancio, e comunque (da decenni, in un crescendo, niente affatto casuale ed estraneo al meccanismo prevedibile della moneta unica) della riduzione/compressione del deficit pubblico; cioè una politica fiscale che non promuove certo la crescita, l'occupazione e la tutela reale del reddito da lavoro".

4. Questo l'articolo del professor De Mita, tratto dal Sole 24 ore (in corsivo il testo, inframezzato dal commento):
"Per inquadrare correttamente nella giurisprudenza costituzionale la sentenza della Corte 70/2015 sul blocco della rivalutazione delle pensioni occorre partire da alcune considerazioni di carattere generale sulle quali ha richiamato l’attenzione Sabino Cassese nel suo originale libro «Dentro la Corte». Le questioni della Corte sono filtrate attraverso il diritto; non si affronta direttamente il problema politico. La Corte è davvero un organo giudiziario che riconduce i conflitti politici o costituzionali ai criteri di razionalità logica, alla coerenza. Molti casi hanno implicazioni politiche o costituiscono decisioni politiche sia pure a seguito di analisi tecnico-giuridica e sulla base di elementi di razionalità riconducibili alla ragionevolezza. La Corte “motiva ma non spiega”.
Ecco perché le sentenze della Corte difficilmente sono capite dall’esterno. E tuttavia il peso della Corte dipende dalla forza con la quale i poteri dello Stato la sorreggono. Tutte le sentenze della Corte sono fondate sul precedente. La sentenza 70/2015 è frutto di una concatenazione di precedenti, di riferimenti a decisioni già prese sicchè non è agevole comprendere il decisum che viene formulato alla fine della decisione. Lo sforzo delle sentenze, la motivazione, è la dimostrazione della coerenza decisione con il precedente.
Le sentenze vengono istruite sulla base di una collaborazione degli assistenti dei giudici che sono giudici e professionalmente tendono a non vedere la questione costituzioni e politiche.
I riferimenti al diritto comune sono fatti con l’adeguamento al “diritto vivente”, alla giurisprudenza dei giudici ordinari, il che può essere un limite alla impostazione in termini costituzionalmente rilevanti della questione. Complessivamente si può dire che c’è una certa autoreferenzialità, che rende la Corte prigioniera di se stessa."
Qui si manifesta una questione generalissima di civiltà giuridica: non è a rigore corretto definire autoreferenziale un organo giurisdizionale che sia naturalmente coerente coi propri precedenti, trattandosi oltretutto di giurisdizione di legittimità costituzionale; la Costituzione, nata per durare nel tempo secondo il suo ruolo di direttrice fondamentale della vita socio-economica, esige un continuo e omogeneo svolgimento della certezza e del significato delle sue previsioni. 
Se si guarda all'esperienza delle Corti giurisdizionali di tutto il mondo, specie quelle anglosassoni di common law che applicano lo "stare decisis" (cioè la vincolatività, creatrice di diritto, del precedente giurisprudenziale), e di quelle costituzionali in particolare, non ce ne sarà una che non sia, e correttamente, "autoreferenziale": lo è la stessa Corte di giustizia dell'Unione Europea, proprio perchè la prevalente esigenza di certezza del diritto, per quanto si tenga conto di una storicità adeguatrice, non dà alternative al funzionamento fisiologico di ogni organo giurisdizionale.
La verità è un'altra: la questione nasce perchè esiste una norma come il pareggio di bilancio che è estranea alla sostanza ordinatrice delle norme della Costituzione del 1948, cioè agli interessi fondamentali che questa intendeva realizzare e tutelare: tale norma, in realtà, è il portato di un modello socio-economico diverso e incompatibile con quello del 1948. 
I giuristi e la Corte dovrebbero quanto prima, se non altro per poter dire senza reticenze la verità, rendersene conto.
L'art.81 Cost attuale, di per sè stesso, è norma di sistema, cioè di ridisegno della funzione dello Stato, e come tale è destinato, per sempre (almeno finchè permarrà nella Costituzione) a influire su ogni singola norma della originaria Costituzione. 
Più di ogni altra, assegna un nuovo ruolo al mercato del lavoro, e quindi alla tutela del lavoro, alla moneta ed al risparmio, e quindi a tutte quelle proiezioni di risparmio e moneta che la Costituzione voleva legate a "accesso all'abitazione" in generale alla "proprietà" per "tutti" (artt.42 2 47 Cost.), allo stesso risparmio "diffuso" (art.47 Cost.), in generale alla intrapresa nell'attività agricola (art.47) e industriale-artigianale di piccola dimensione (art.46 Cost): cioè ai fondamenti di quella democrazia del lavoro, in ogni sua forma, che era voluta dai Costituenti.

5. "Le critiche alla sentenza 70/2015 sono di carattere esterno e riguardano il rapporto con gli altri poteri dello Stato. La motivazione è semplicistica: la Corte non può fare cose riconducibili al potere politico. E’ una tesi che prova troppo. Allora bisogna chiedersi (come disse il presidente Ambrosini nel 1992) che cosa ci stia a fare la Corte se non può stabilire i limiti che incontra il parlamento nella sua discrezionalità politica, che pure è un altro punto fermo della giurisprudenza costituzionale: il parlamento può fare tutto ciò che non viola la Costituzione. La sentenza 70/2015 non può essere capita dall’esterno se la critica è così radicale. La ragione è che la Corte non ha saputo spiegare in termini semplici e chiari che non esisteva il vincolo di bilancio.
Nella sentenza 10/2015 il riferimento al principio di bilancio fu un modo come un altro per giustificare la deroga alla retroattività della decisione presa. La sentenza 70/2015 appare un po’ frettolosa, anche se, a parer mio, giuridicamente corretta".

Questa parte è molto interessante: la sentenza della Robin Tax (la 10 del 1975), sarebbe il frutto di un "modo come un altro" per giustificare la deroga alla retroattività; eppure, a leggere la stessa sentenza, l'enunciato della Corte non appare essere in questi termini. 
La sensazione, molto forte, quindi, è che la Corte abbia inteso porre un principio "da qui in poi":  proprio quello della "fine" della retroattività delle restituzioni in presenza dei vincoli di bilancio derivanti dall'appartenenza all'eurozona. 
In realtà il problema si poneva in identici termini, solo quantitativamente "minori", in relazione alla misura del 3% del deficit, consentendo alla Corte di evitare affermazioni troppo decise e affidandosi alla maggior elasticità fiscale (non molto maggiore, in concreto, data la fissità del vincolo ed il modo in cui è stato intesa dalle istituzioni europee in applicazione consolidata dell'art.126 TFUE), in precedenza lasciata dall'Europa.
Solo che, data la natura espressamente non solidaristica dei trattati (artt. 123-125 Cost.), quella maggior elasticità è "morta" insieme con il manifestarsi inevitabile degli squilibri commerciali tra paesi appartenenti alla moneta unica: la conseguenza, di cui la Corte non pare ancora essersi resa conto, è che la svalutazione del lavoro mediante deflazione salariale si è resa indispensabile come strumento unico di correzione degli squilibri commerciali, e di recupero della competitività delle esportazioni.
In questi termini, appare evidente che, da un lato, il pareggio di bilancio serve solo a "salvare l'euro", dall'altro che esso è diretto a reindirizzare lo Stato verso politiche deflattive del lavoro, tradendo tutti gli articoli più importanti inseriti nei diritti fondamentali della Costituzione. Cioè, in testa, il diritto al lavoro (artt. 1 e 4 Cost.), nonchè alla stessa retribuzione adeguata ad una vita libera e dignitosa (artt.35 e 36 Cost.), corollari inscindibilmente collegati allo stesso diritto al lavoro (che è una pretesa inderogabile, - accordata ad ogni cittadino dalla Costituzione-, a politiche di pieno impiego da parte di governo e parlamento).

6. "Sta nascendo in Italia un orientamento che non solo critica la Corte ma rischia di produrre come osserva Cassese, un arretramento di due secoli nella configurazione dei rapporti della Corte con gli altri poteri. Le Corti costituzionali esistono in quasi tutti i paesi democratici a cominciare dalla Corte federale degli U.S.A. I limiti alla competenza delle Corti possono essere indagati dalla comparazione degli orientamenti delle diverse Corti e la Corte italiana non è certo ultima nell’apprestare una giurisprudenza soddisfacente. Ma si sostiene che la Corte e tutti gli altri giudici in specie il TAR sono un grosso impedimento alla responsabilità politica. Si critica “il peso sempre maggiore che le decisioni delle varie branche della giurisdizione hanno sull’attività di governo".
E non si manca di rilevare che c’è un potere giudiziario anche in America.
E in soccorso di tale disinvolta teoria viene aggiunto il corollario “il modo in cui è stato esercitata l’azione penale in modo persecutorio”. Il che la dice lunga sui limiti auspicati delle diverse giurisdizioni."
Anche qui occorre intendersi: i giudici che sindacano l'attività normativa (leggi o regolamenti) sono vincolati a farlo da norme costituzionali. Per governo e parlamento incontrare la censura giurisdizionale, prevista dalla Costituzione, alle scelte normative effettuate, non è "deresponsabilizzazione", ma esattamente parte della responsabilità che è insita nella loro legittimazione democratica: cioè si tratta della necessaria continuità dello "Stato di diritto", ormai plurisecolare conquista della civiltà occidentale. Stato di diritto è quello per cui ogni atto, di ogni pubblica autorità, è regolato da norme preventivamente note e non violabili neppure nell'esercizio della pubblica funzione normativa; la sua conseguenza inscindibile è che ci debba essere "un giudice a Berlino" che ne accerti la violazione anche nei confronti dei detentori delle massime funzioni di governo (cioè quelle normative).
Direi dunque che è piuttosto vero l'opposto: sono gli automatismi, come il pareggio di bilancio, non ben compresi dai cittadini e neanche dagli organi dello Stato, a deresponsabilizzare la "politica", consentendole di richiamarsi a un principio superiore, esterno al processo democratico costituzionale e fondativo della sovranità, per imputare la responsabilità di ogni scelta fondamentale a tale sorta di "pilota automatico" (per usare le parole di Draghi) sovranazionale.

7. "Tornando alla sentenza 70/2015 essa è sostanzialmente corretta. Forse si poteva guadagnare tempo aspettando che la Corte fosse al completo o ricorrere a qualche manipolazione con una sentenza additiva. Ma l’isolamento della Corte e l’aspirazione alla vanificazione della sua giurisprudenza, in nome del primato della politica, sono tentazioni pericolose.
Come ha osservato giustamente Gustavo Zagrebelskj l’equilibrio di bilancio non deve diventare un automatico lasciapassare al libero arbitrio della politica. Il legislatore deve sempre tener presente “l’eguaglianza nella giustizia”. Il riferimento ai conti conformi della richiesta dell’Europa non deve diventare una super norma costituzionale. Ma non c’è dubbio che il rispetto degli accordi nella Comunità pone problemi che se oggi non possono essere risolti non con accorgimenti sbrigativi, va affrontato dagli stati con normative che ancora non esistono
Ma all’esterno è stato rivendicato “il primato della politica”. Sembra di sentire Togliatti quando non capiva come ci potesse essere un altro organo dello Stato che fosse al di sopra del parlamento. Ora la Corte non è al di sopra del parlamento, ma giudica della costituzionalità delle leggi. I rapporti tra poteri non possono essere configurati se non come correttezza della propria competenza. E il parlamento ha tutti gli strumenti nella legge costituzionale per dimostrare la costituzionalità delle leggi di spesa. Semmai la Corte può chiedere al parlamento e al governo chiarimenti sulle questioni dubbie. Qui diventa rilevante il ruolo dell’Avvocatura di Stato che difendendo la legge ha l’onere di illustrare come essa non violi il principio dell’equilibrio di bilancio".

Alla luce di quanto abbiamo cercato di illustrare finora, la vanificazione delle sentenze della Corte in nome del primato della politica è in realtà una fenomenologia che non è riconoscibile nel caso concreto.
La realtà è che si vuol negare il primato della Costituzione e denominare "primato della politica" l'applicazione del pilota automatico dell'euro, senza voler dire che esso determina l'applicazione di un modello socio-economico diverso da quello costituzionale.
In tal modo, se si affermasse la prevalenza del pareggio di bilancio nei termini incondizionati sopradetti, e persino se solo la Corte si vedesse costretta a esercitare quella imprevedibile discrezionalità relativa alla fase delle restituzioni, si sarebbe al fine modificato l'art.139 Cost., ("La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale"): ma si sarebbe, per ciò solo, aperta la via alla abrogazione per incompatibilità di tutte le possibili previsioni costituzionali in nome del vincolo esterno.
Insomma, le norme che affrontano il problema del possibile rispetto degli "accordi nella Comunità" esistono già e sono  necessariamente quelle della Costituzione: gli artt. 11 e 139 Cost. 
Se non altro perchè la stessa adesione alla Comunità o Unione europea su di essi si fonda e sul loro rispetto va commisurata, arrivandosi altrimenti al dissolvimento, dichiarato, della stessa originaria legittimità costituzionale della scelta negoziale compiuta aderendo al trattato, che presuppone necessariamente un aderente che sia uno Stato "sovrano": e rinunciare ad esserlo, gli sottrae la stessa qualità di parte del trattato, facendo venire meno, unilateralmente, quella legittimazione indefettibile che le altre parti contraenti, invece, mantengono e fanno valere; come dimostrano le prese di posizione che paesi come la Germania, o la Francia, o il Regno Unito, costantemente assumono sull'applicazione delle norme dei trattati. 

8. Non bisogna infatti dimenticare che, come avvertimmo fin dai primissimi post, secondo Mortati:
la "forma repubblicana, considerata nel sistema della costituzione, non è solo una soprastruttura formale, ma invece elemento coessenziale al regime (democratico ndr) che, per essere basato su una "democrazia del lavoro", non tollera nessuna forma di privilegio nè attribuzioni di funzioni non collegate a meriti individuali, quali sono quelle che provengono da trasmissione ereditaria del potere...". 
Lo stesso massimo costituzionalista italiano, con riguardo ai rapporti tra ordinamento (allora) comunitario e Costituzione aveva affermato - in linea con sostanziali affermazioni della Corte costituzionale nello stesso senso - , in specie sui c.d. "controlimiti" interni alla "prevalenza" del diritto europeo:
"Passando all'esame dei limiti (di questa prevalenza ndr)...è da ritenere che essi debbano ritrovarsi in tutti i principi fondamentali, sia organizzativi che materiali, o scritti o impliciti, della costituzione: sicchè la sottrazione dell'esercizio di alcune competenze costituzionalmente spettanti al parlamento, al governo, alla giurisdizione,...deve essere tale da non indurre alterazioni del nostro stato come stato di diritto democratico e sociale (il che renderebbe fortemente dubbia la stessa ratificabilità del trattato di Maastricht e poi di Lisbona, ndr).  
Non è possibile distinguere, fra le disposizioni costituzionali, quelle che riguardino i diritti e i doveri dei cittadini e le altre attinenti all'organizzazione, poichè vi è tutta una serie di diritti rispetto a cui le norme organizzative si presentano come strumentali alla loro tutela (rappresentatività delle assembleee legiferanti; precostituzione del giudice, organizzazione della giurisdizione tale da assicurare la pienezza del diritto di difesa ecc.). Pertanto il trasferimento di competenze dagli organi interni a quelli comunitari in tanto deve ritenersi ammissibile in quanto appaia sussistente, non già un'identità di struttura tra gli uni e gli altri, ma il loro sostanziale informarsi ad analoghi criteri in modo che risultino soddisfatte le esigenze caratterizzanti il nostro tipo di stato".