mercoledì 25 maggio 2016

CAFFE' AVVERTIVA "O KEYNES O IL MONETARISMO DEFLAZIONISTA": ATTUALE SI' MA PERCHE'...SENZA "EUROPA"?






1. Mi sono imbattuto in questo scritto di Piero Roggi, uno storico dell'economia, che risulta interessante per la ricostruzione del pensiero di Federico Caffè. 
Senza volerne fare una critica stringente, alla riproduzione di alcuni brani salienti, aggiungerò alcune osservazioni preliminari:
a) la ricostruzione non entra nella questione europea. Se, da un lato, Caffè non poté assistere alla vicenda di Maastricht e dell'euro, nondimeno, noi abbiamo visto ampie tracce del suo pensiero sullo SME e sulla influenza della costruzione europea sulle politiche economiche italiane
Di queste forti prese di posizione, talmente forti che non pare ragionevole liquidarle come irrilevanti nella visione politico-economica di Caffè, non vi è riscontro nello scritto in questione; anche considerando che le stesse si coordinano con il ruolo di Caffè quale propositore di politica economica, raccordata esplicitamente al disegno della Costituzione del '48 e alla sua visione del ruolo dello Stato;

b) neppure risulta presa in esame la questione delle "funzioni e dei compiti" dello Stato, nell'ambito economico che, nell'impostazione di Caffè, ne caratterizzano la forma di governo democratica, e proprio in relazione al problema fondamentale dei conti con l'estero, cui pure dedica importanti riflessioni in ordine alla scelta fondamentale, proposta e risolta dal sistema della Costituzione economica: che è quella relativa a "ciò che dovrà essere prodotto nel Paese e ciò che dovrà essere ottenuto in cambio dall'estero", problema che egli tende a contrapporre all'atteggiamento degli "esaltatori acritici dello sviluppo degli scambi internazionali";

c) in conseguenza di questa "rimozione" della visione di Caffè relativa al "problema europeo" e - almeno in parte, quanto agli aspetti del "vincolo monetario"-, ai conti con l'estero e all'apertura indiscriminata dell'economia, gli interessanti spunti della ricostruzione che (in parte) vi riporto, esigono a mio parere un'integrazione tra diversi momenti storici e diverse sedi in cui Caffè stesso esprime un pensiero che, sul piano ricostruttivo, non può essere scisso isolando questo o quel momento espressivo. 
Questa visione da integrare, risulta ben espressa allorquando Caffè afferma che nel "seguire programmaticamente il ricatto dell'appello allo straniero"..."ci si propongono come modelli di efficienza paesi che scaricano le difficoltà cicliche sui lavoratori stranieri, o associano le virtù tecnocratiche alla più elevata maldistribuzione del reddito";

d) infine, la parte finale del brano estratto tratta, in qualche modo, del rapporto tra Marx e Keynes. Questo aspetto è risolto in un modo che potremmo definire "classico", nella riportata prospettiva di Caffè (che forse ha avuto anche altre intuizioni sull'argomento; certamente le ebbe Lelio Basso): rammentiamo peraltro che la questione è suscettibile di interessanti risvolti, ipotizzati da Bazaar e supportati da Arturo. Il tema, scientificamente affascinante, merita, un approfondimento...

2. Rimanendo aperto alle vostre osservazioni e alle vostre capacità "filologiche", per integrare e approfondire queste brevi osservazioni preliminari, segnalo che l'interesse della ricostruzione, nell'estratto prescelto, risulta anche in una sintesi approfondita della critica di Caffè a Einaudi (per quanto retrospettiva e fondata, come tutto lo scritto, essenzialmente su fonti risalenti agli anni '40 e '50, con limitate citazioni di scritti più recenti).
Tale ricostruzione critica risulta particolarmente attuale, dato che il (ricorrente, in termini storico-economici) desiderio di restaurazione (neo)liberista, dettato dall'€uropa (proprio ieri il FMI è tornato alla carica seguendo i canoni classici delle "riforme"), pone aspetti critici che, peraltro, appaiono proprio oggi ignorati, pur di fronte a una diffusa "commemorazione" di Caffè...da parte degli stessi che ne contraddicono le pur chiare indicazioni.

3. Alla luce di queste "meditazioni" introduttive, vi auguro buona lettura (riporto per esteso alcune note significative al testo, con modeste aggiunte, in corsivo, relative alla corrispondenza delle note rispetto all'analisi che vi rinvia):

"...Veniamo ora al nostro terzo punto; come applicò Caffè il criterio classificatorio alle sue narrazioni? 
Si potrebbe dire che la politica economica è come le Tavole della Legge. Non una regola religiosa, ovviamente, ma soltanto economica. Eppure, come il decalogo mosaico, mentre prescrive, implicitamente condanna...
Ecco perché la sistematica prescrittiva di Caffè è strutturalmente binaria: la politica giusta da una parte, la politica sbagliata dall‟altra. 
Ecco qui le politiche giuste: il welfare state; la politica del debito pubblico (da non in-tendersi come figlia del lassismo amministrativo, ma come l‟emolliente ideato da Keynes per stemperare l‟ira dei poveri); la politica salariale in salsa radicale (la riqualificazione mansionaria) e in salsa sintomatica (la moderazione salariale ricompensata, inserita come clausola dentro un patto sociale col governo, la nostra concertazione); infine la politica della bilancia commerciale: politiche tutte, appartenenti alla grande famiglia dell‟economia del benessere.

Ecco, invece, le politiche da punire
Cominciamo dal “monetarismo deflazionistico”, voluto da Einaudi (1947): alla fine, sì solo alla fine, il sistema economico ritroverà naturalmente l‟equilibrio perduto. 
Ma a quale prezzo? Se la massa monetaria sarà decurtata; se i salari, flessibili solo in teoria, scemeranno; se la produttività del capitale rialzerà la testa; se, infine (senza inflazione), pure il saggio d'interesse fletterà; allora e non prima di allora, sottolinea Caffè, cioè con un ritardo insopportabile, gli investimenti saranno finalmente sospinti in alto e il sistema economico ritroverà il suo equilibrio naturale senza interventi esterni.  
E tutto in nome del rigore, un rigore che assomiglia molto a un rigor mortis.

Una politica economica del genere accumulerà certamente oro e riserve valutarie. Ma sarà l'avara politica del salvadanaio (la chiamerà così Caffè). 
Come dire che i pensieri dell' ‟avaro" Einaudi furono pesanti e lividi come il metallo che volle accumulare. 
La stessa politica di Einaudi, oltretutto, rivalutò inaspettatamente il cambio della lira sul dollaro: non lo fece per convenienza economica, ma per riaffermare il prestigio nazionale (28: Si è «preferita la via che ha portato alla sterile accumulazione delle riserve in dollari […] a sostegno di una quotazione di prestigio della nostra moneta» (F. CAFFÈ, Bilancio di una politica (II), 1949, in Federico Caffè. Un economista per gli uomini comuni, cit., p. 283).. 

Einaudi, poi, volle che la sua politica si imperniasse nella sovrana figura del consumatore, circondata da tanti produttori pensati come sudditi genuflessi,(29: «La sua descrizione del mercato è piuttosto remota dalla realtà contemporanea […]. Oggi, la logica di Einaudi di un mercato come “servo ubbidiente della domanda” risulta sovvertita» (F. CAFFÈ, Nota in-troduttiva, in L. EINAUDI, Lezioni di politica sociale, IV ed., Torino, Einaudi, 1972)...
...una politica tendenzialmente anarchica, finalmente liberata dai proverbiali “lacci e lacciuoli” tesi dai potentati di turno. Come dire che in questo modello economico il solo sovrano sarebbe il consumatore. Peccato che le cose non stiano esattamente così. 
In altra occasione Caffè concede a Einaudi l' ‟onore delle armi  con una dichiarazione che ricorda vagamente l‟elogio di Pasquale Villari rivolto alla filosofia “essenzialista” di Bacone, definita, per non infierire, come ottima palestra intellettuale.

Concentrerò ora la mia attenzione sulla politica sindacale che nientemeno riposa su un vizio morale: l'intemperanza
Ecco il sillogismo caffeiano: se i suoi frutti sono la disuguaglianza crescente fra i poveri, ovvero gli iscritti da una parte e i sottoccupati non tute-lati dall‟altra" (ma è esagerato chiedere – pare sfogarsi Caffè – che almeno l‟ingiustizia sia uguale per tutti i poveri"?), se questa stessa politica fa leva sulla tendenza del sindacato al prestigio e a far cassa (tutelando le categorie impiegatizie e trascurando quelle operaie); se mostra la sua riluttanza a smantellare la scala mobile, irrobustendo la disuguaglianza fra poveri; se la cecità gli impedisce di vedere la contromossa governativa in agguato, la trappola nascosta pronta a scattare (il monetarismo deflazionista); allora il vizio morale su cui riposa – l‟intemperanza salariale – mostrerà presto tutti i suoi effetti perversi: disoccupazione, sottoccupazione e, secondo le parole di Beveridge, odio sociale. 
(33: «Il male maggiore della disoccupazione non è la perdita di quella ricchezza materiale che potremmo avere in più in regime di piena occupazione. Vi sono due mali maggiori: il primo, che la disoccupazione fa sembrare agli uomini di essere inutili, indesiderabili, senza patria; il secondo, che la disoccupazione fa vivere gli uomini nel timore e che dal timore scaturisce l‟odio» (F. CAFFÈ, Beveridge, William H., 1948, in Fe-derico Caffè. Un economista per gli uomini comuni, cit., p. 422).

Ecco ora la politica sindacale intelligente. 
Essa non è monocorde, ma possiede almeno due chiavi musicali. La prima ha a che fare con la riqualificazione delle mansioni, con lo scopo di recuperare i sottoccupati non iscritti (il sindacato che trascura gli ultimi è come lo scrittore che trascura la punteggiatura: sarà difficile, poi, farsi capire dalla povera gente!); una politica, questa, che si fonda sulla teoria economica di Tinbergen (i differenziali salariali dipendono dalle tensioni nelle mansioni)

La seconda politica sindacale “intelligente” è invece quella della moderazione: non la politica dei redditi nuda e cruda, ma la politica di moderazione salariale ricompensata dal governo con un patto sociale che preveda la detassazione e gli incentivi in busta paga, fino al “reddito di cittadinanza” (35: Ndr, come vedremo dalla riportata nota Caffè non parla di reddito di cittadinanza ma di "sussidi", che, nel contesto, appaiono legati alla condizione di disoccupazione; in un mercato del lavoro non ancora riplasmato dall'adesione all'euro e, comunque, di gran lunga anteriore, siamo infatti nel 1957, all'introduzione dello Statuto dei lavoratori e dei meccanismi di integrazione salariale e di altri "stabilizzatori automatici" oggi vigenti: «Si renderebbe invece necessaria un'intesa per una stabilizzazione salariale. In definitiva un patto sociale […] per il quale le autorità governative garantirebbero ai lavoratori una riduzione annuale delle imposte dirette […] o il pagamento di sussidi […]. Di qui l‟esigenza di una politica salariale coordinata su base nazionale, (ndr; l'esatto opposto di ciò che oggi ci "prescrive" il FMI, sopra citato) che consentisse un realistico mercanteggiamento delle opportune rinunce e delle giustificate contro partite». (F. CAFFÈ, Istanze salariali e stabilità monetaria, 1957, in Federico Caffè. Un economista per gli uo-mini comuni, cit., p. 163).. 

Come dire che la sapienza sindacale si riassume tutta nella moderazione, che il diritto spinto all' ‟eccesso diventa torto" e che l‟arancia troppo spremuta sprizza l'amaro in bocca". Le politiche suggerite da Caffè esprimono, insomma, l'assunto base della politica pigouviana del benessere: se gli iscritti al sindacato non ci rimettono e se i non iscritti sottoccupati ne traggono un qualche beneficio, allora il benessere totale della povera gente crescerà. 

...sugli sforzi compiuti da Caffè e dai suoi collaboratori per capovolgere la politica sindacale della CGIL. 
Essi sostennero tali sforzi richiamando il sindacato al Piano del Lavoro del 1949, piano d'impianto non marxista ma keynesiano, sollecitandolo a smantellare il mito marxiano di un capitalismo in procinto di crollare e invitandolo a un sindacalismo più intelligente, pronto a confrontarsi con un capitalismo lontano da quello primitivo e ormai capace a sopravvivere a se stesso. 
Il sindacato non ascoltò il loro messaggio (ndr: siamo nel 1980) e non tenne conto nemmeno dell'ironia di quello scrittore che disse: «La lezione di questi ultimi decenni è l'indistruttibilità del capitalismo. L'aveva intuito lo stesso Marx quando evocò l'infelice metafora del vampiro che succhia il sangue dei lavoratori. I vampiri, avrebbe dovuto saperlo il tedesco Marx, sono creature che non muoiono mai». 
Il sindacato, insomma, non ascoltò e lo sforzo di Caffè non dette risultati apprezzabili.
I martellanti inviti rivolti da Caffè e dai suoi collaboratori, dunque, non furono raccolti. Egli li riassunse in una famosa lezione tenuta presso la scuola di formazione CGIL di Ariccia. 
Non si trattò di una lezione tradizionale, ma una specie di sermone, o meglio di una Summa Teologica del suo criticismo sindacale. 
Una lezione spesso interrotta, contestata, incompresa.
(38: «Non è che voglio vendere nessun prodotto, voglio dirvi perché esiste un certo orientamento di pensiero […] – non è che sto facendo propaganda – sto spiegandovi […]. A me pare che il grosso messaggio del sistema keynesiano, che rimane valido, sia soprattutto questo invito a darci da fare, a non essere inerti, a renderci conto che il capitalismo comunque l‟abbiamo fra i piedi, ci piaccia o no, e che ogni illu-sione che stia per crollare è un‟illusione eterna […]. Questa è la conclusione piuttosto sconfortante con la quale io finisco (F. CAFFÈ, Keynes, i keynesiani e lo stato Capitalistico moderno, lezione inedita alla scuola sinda-cale della CGIL di Ariccia, 1980, in Federico Caffè. Un economista per gli uomini comuni, cit., pp. 762-770).

Insomma una lezione mal digerita da chi riluttava a rimpiazzare mentalmente il busto del vecchio Marx con quello di Keynes. E non si trattava semplicemente di rimpiazzare una statua, ma di sostituire tutto il paradiso comunista col più realistico purgatorio di un'economia bisognosa di continui ritocchi e perseveranti riforme. 
Ciò che il sindacato non accettò, in quell'occasione, fu il riformismo di Caffè. Il suo rammarico fu grande. 
Ma ne uscì senza deprimersi; anzi, contrattaccando. 
Pubblicò un saggio intorno ad un'ideale gerarchia di merito fra i vari operatori di politica economica. Non fu per narcisismo che lo pubblicò. 
Si trattò piuttosto di un tentativo per distinguere il grano dal loglio. Nella posizione più bassa della classifica sistemò il politico intuitivo e incompetente; poco più sopra lo storico della politica economica, una figura con lo sguardo rivolto esclusivamente al passato; in cima lo scienziato della politica economica, cioè chi come lui esaminava gli effetti di politiche future alternative per sceglierne poi la migliore.
Una classificazione, la sua, apparentemente inoffensiva, ma velenosamente rivolta contro il sindacalista intuitivo e incompetente: un cieco! Un cieco che guida altri ciechi e che meriterebbe d'esser operato di cataratta.

4. Sappiamo poi quale esito, nel corso di pochi decenni, abbiano avuto questa ostinazione sindacale e l'incomprensione dell'esortazione di Caffè, di fronte all'irrompere della liberalizzazione dei capitali e all'affermarsi, come paradigma unico, del monetarismo deflazionista imposto dallo SME, prima e poi dall'euro. Quest'ultimo tutt'ora considerato, dagli stessi sindacalisti, succeduti ai predecessori che attendevano "la fine del capitalismo", un argomento intangibile.
Evidentemente, ancora attendono, fiduciosi nella "caduta" e...nell'euro.
 

18 commenti:

  1. Grazie, Federico Caffè è uno di quegli economisti che da troppo tempo sono stati lasciati nel dimenticatoio. Un Maestro i cui insegnamenti, dopo tantissimi anni, sono ancora estremamente validi.

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  2. Molto importante la lezione di Caffè, sopratutto sul marxismo.
    Una cosa su cui vorrei invece qualche delucidazione riguarda la moderazione salariale auspicata da Caffè. Forse in una fase espansiva dell'economia questa potrebbe essere una politica auspicata, ed è comprensibile il discorso di Caffè quando dice che i tutelati rimarrebbero più avvantaggiati rispetto ai non tutelati, ma in una fase di pluriennale €urostagnazione, con un calo generalizzato dei salari, con sindacati debolissimi e/o compromessi €uroentusiasti, con intere categorie "sindacalizzate" che si ritrovano con contratti collettivi non rinnovati da molti anni, mi chiedo se chiedere un'ulteriore moderazione salariale possa riportare alla ripresa e non invece ad un'ulteriore fase recessiva. Credo che, comunque, se un impiegato sindacacalizzato ha più reddito in tasca lo possa poi spendere, in un regime di moneta nazionale e di controllo delle importazioni, verso quei consumi che possono anche, in qualche modo, consentire di prosperare a tutte quelle realtà produttive nazionali dove vi sono anche operai non sindacalizzati. Per i disoccupati e i sottocupati dovrebbe in qualche modo intervenire uno stato capace di dare, oltre ad una riqualificazione professionale, loro lavoro e reddito a sufficienza per vivere una vita dignitosa. Perché se c'è la riqualificazione ma non c'è la possibilità di lavorare, questa riqualificazione non sarà servita a nulla (mi ricorda molti corsi di formazione finanziati dal fondo sociale europeo, che non servono a nulla, anzi, servono a formare manodopera che poi emigra in Germania o in altri paesi dove vi sono maggiori possibilità di lavoro).

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    1. Osservazioni condivisibili e che, infatti, Caffè svolse in varie sedi.

      La sua ipotesi di "moderazione" nelle richieste salariali della parte "sindacalizzata" della forza lavoro, infatti, si riferisce a situazioni prossime alla piena occupazione.

      Per quanto, poi, Caffè tenga conto di due fattori che influiscono sulla concreta ottenibilità di tale condizione:
      - uno è "la presa in considerazione, nelle rilevazioni ufficiali, degli occupati precari e marginali"; oggi particolarmente attuale, direi (cosa che, oltretutto è strettamente collegata al mantenimento di un'offerta complessiva, "aggregata" in termini keynesiani, non adeguata alla struttura della domanda aggregata, con problemi, appunto, strutturali di deficit dei conti con l'estero);
      - e qui entra in gioco il secondo problema: quello del subentrare del "vincolo della bilancia dei pagamenti", secondo Caffè, prima ancora che si raggiunga la (vera) piena occupazione (cosa che può anche accompagnarsi, appunto, a controproducenti spinte inflazionistiche determinate da pressioni settoriali sindacalizzate, non attente all'intera situazione dell'offerta).

      Sul punto ti rinvio, - in una rassegna del pensiero di Caffè e dei suoi referenti nei "keynesiani della prima generazione"-, al terzo degli articoli linkati da Flavio nella parte finale del suo commmento (qui sottostante).

      Da esso mi limito a riportare, nel commento successivo, un brano (che contiene indicazioni simili a quelle proposte da Kaldor in uno dei post sul pensiero di Caffè, in chiave costituzionale, linkato in questo stesso post).

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    2. "Degli ostacoli che le strozzature frappongono alle politiche di piena occupazione erano ben consapevoli quelli che Steve ha chiamato i «keynesiani della prima generazione» (8), fra i quali vanno compresi Michał Kalecki e gli altri autori del libro L’economia della piena occupazione, del 1944, tradotto in italiano nel 1979 con un’introduzione di Caffè (9). «Se non esistono riserve di capacità o queste sono insufficienti - scrive Kalecki in questo libro - il tentativo di assicurare la piena occupazione nel breve periodo può facilmente causare delle tendenze inflazionistiche in vasti settori dell’economia, poiché la struttura della capacità produttiva non è necessariamente adeguata alla struttura della domanda [...]. In un’economia nella quale l’attrezzatura produttiva è scarsa è quindi necessario un periodo di industrializzazione o ricostruzione […]. In tale periodo può essere necessario impiegare controlli non dissimili da quelli impiegati in tempo di guerra.» (10). Un’affermazione come questa basta da sola a mostrare tutta l’inconsistenza e la superficialità dell’identificazione, che tanto spesso si è voluta fare, fra keynesismo e politiche keynesiane, basate esclusivamente sul sostegno della domanda aggregata".

      Se, anziché con la politica dell’offerta, il miglioramento dei conti con l’estero viene perseguito per mezzo della deflazione, il freno che ne deriva alla formazione di capacità produttiva tenderà ad aggravare ulteriormente la situazione. «E’ un affare molto serio - ha scritto un altro keynesiano della prima generazione, Richard Kahn - se l’attività produttiva deve essere ridotta perché la produzione a pieno regime comporta un livello di importazioni che il paese non può permettersi. Ed è un affare particolarmente serio se la riduzione in esame prende largamente la forma di una riduzione degli investimenti, inclusi gli investimenti volti alla formazione della capacità produttiva capace di farci esportare più beni a prezzi più concorrenziali e di diminuire la nostra dipendenza dalle importazioni.» (11). Se proprio occorre ridurre gli investimenti, afferma ancora Kahn, tale riduzione deve essere «altamente discriminatoria»: bisogna, cioè, tentare di «stimolare gli investimenti nelle industrie esportatrici e in quelle capaci di sostituire le importazioni, particolarmente nei settori in cui è l’attrezzatura produttiva a rappresentare la strozzatura, e di scoraggiarli in tutti gli altri settori. Le restrizioni monetarie possono, tuttavia, essere caricate di un contenuto discriminatorio solo con difficoltà ed entro limiti piuttosto ristretti. Vi sono qui, per eccellenza, forti ragioni per ricorrere a metodi alternativi di scoraggiare gli investimenti, e particolarmente a quei metodi che operano attraverso controlli diretti» (12).

      Dal fatto che la sostituzione delle importazioni e il potenziamento della capacità di esportazione sono obiettivi di medio o lungo termine, mentre la deflazione va evitata fin dall’inizio (anche per non pregiudicare il raggiungimento degli obiettivi suddetti) può discendere la necessità di imporre controlli amministrativi sulle importazioni di particolari merci, e dunque sulla loro distribuzione all’interno del paese"

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    3. Da qui l'interrogativo, spesso posto da Caffè (e richiamato nelle osservazioni preliminari di questo post):
      «E’ consentito discutere di protezionismo economico?».

      "Se mi sono dilungato sulle idee dei «keynesiani della prima generazione» è per ricordare le radici di una posizione cui Caffè restò fedele per tutta la vita. «Nel mio giudizio - egli affermava nel 1977 - gran parte dei mali economici del presente è da attribuire al mancato impiego di ragionevoli, circoscritti e selettivi controlli diretti; il che porta ad affidare soltanto ai “prezzi di mercato” una funzione di razionamento, resa spesso iniqua da una distribuzione del reddito e della ricchezza accentuatamente sperequata»".

      Un problema che, come sa chi segue questo blog, è relativo al corretto e non "negativamente unidimensionale" modo di considerare il complesso delle misure "protezionistiche", e di cui tratta Chang, in termini pressocché coincidenti, ne "The Bad Samaritans".

      Le persone intelligenti convergono: e sanno che la destrutturazione indiscriminata derivante dalle mere politiche fiscali e del lavoro deflazioniste, non è mai una soluzione conveniente (salvo che, appunto, ci si disinteressi del bene della comunità che ne viene così "sgovernata", mirando a un ordine internazionale dei mercati, senza confini).
      Come l'euro, che ne è la più massiccia espressione contemporanea.

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    4. Su piena occupazione vincolo estero è anche utile riportare: "...modo di trattare il vincolo dei conti con l’estero... Se la difficoltà sorge dall’insufficienza della capacità produttiva disponibile - che si traduce in un innalzamento della propensione a importare quando venga superato un certo livello di attività produttiva - è a tale insufficienza che va posto rimedio attraverso un’appropriata politica dell’offerta (e non a limitare la piena occupazione, ndr). Un compito, questo, che risulta fortemente facilitato dal fatto che l’insufficienza della capacità produttiva non si manifesta simultaneamente in tutta l’economia, ma assume la forma di strozzature produttive, aggredibili con interventi settoriali. Complementare, e non alternativo, al compito suddetto è quello di accrescere la capacità di esportazione.". Questo fa' da preambolo al tuo secondo commento delle 20:45.

      Ciò su cui il discorso di Caffè propende, quindi, è la struttura economica nazionale. Mi spiego: ragione da economista, non da sindacalista o da membro di un partito. E' ben conscio che, come non si può sempre fare politiche dal lato dell'offerta, così non si possono fare politiche solo dal lato dei lavoratori. Cioè è appunto favorevole alla concertazione, ma in senso ambivalente: togliendo le strozzature produttive dal lato delle aziende, ponendo tutti i lavoratori sullo stesso piano dall'altro spingendo sul lato delle concessioni e dei sussidi.

      Non la deflazione, che deprime consumi ed investimenti fondamentali per aumentare la produttività, bensì interventi mirati a rimuovere i cosiddetti colli di bottiglia produttivi.
      Infatti: "L’accorto dosaggio tra le misure intese ad accrescere le esportazioni, mantenendole competitive, e quelle rivolte a favorire l’incremento delle produzioni sostitutive delle importazioni - leggiamo nell’articolo appena ricordato – andrebbe cercato su un piano di mutua comprensione e di reciproco rispetto. Colpire ogni voce di dissenso con l’addebito di tendenza all’autarchia è mera espressione di arroganza intellettuale ben poco lodevole. E’ auspicabile che a un inesistente monopolio della verità si sostituisca il proposito di tener conto delle ragioni degli altri. E ve ne sono in abbondanza". Dal lato dei lavoratori, come detto da 48, si chiedeva una moderazione salariale in linea con ilraggiungimento di una soglia vicina alla piena occupazione, scambiata però con interventi di politica fiscale per mitigare il "prezzo da pagare".
      Ecco spiegato l' "intelligente pragmatismo"...

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  3. "... una politica salariale completamente decentrata – e questo ce lo hai insegnato tu – si è realizzata anche dal Giappone e questo non dipende esclusivamente dalla debolezza del movimento sindacale, ma anche dal fatto che le imprese si fanno carico delle condizioni dei lavoratori. Ora non so in che modo questo modello «mitico», che noi ci portiamo sempre dietro senza conoscerlo a sufficienza, possa essere senz’altro riprodotto in altri Paesi.

    Quindi è chiaro che i due livelli di contrattazione, a livello presso la fabbrica e al livello che tenga conto delle esigenze macroeconomiche dell’economia, devono poter coesistere, ma devono poter coesistere senza conflitto e questo avviene attraverso, credo, un maggiore scambio di informazioni, una maggiore trasparenza, una maggiore possibilità di conoscere quali sono i problemi reali che vengono affrontati e soprattutto il controllo della verifica che quotidianamente l’operaio da una parte, la massaia dall’altra, possono fare.

    Non si possono stabilire criteri di moderazione e contemporaneamente avere aumenti continui di prezzi di tariffe di alcuni generi di prima necessità. Bisogna mettersi in mente che la politica dei redditi è una politica di deliberata tregua all’aumento dei prezzi, per guadagnar tempo, quindi tutta la difficoltà che noi incontriamo nel nostro Paese dipende dal fatto che alcuni strumenti di politica economica non li riteniamo rispettabili: i controlli, i controlli sui prezzi, i razionamenti delle forme che tecnicamente noi chiamiamo controlli diretti, vengono considerati o indesiderabili o inapplicabili. Personalmente, io sono portato a non condividere nessuna di queste due posizioni, né che siano indesiderabili, perché quanto più voi rinunciate a queste forme di controllo, tanto più dovete stringere quella corda della politica creditizia, che poi è l’unica a funzionare – quale sia la situazione delle finanze lo sappiamo tutti, quindi è inutile insistere sull’ovvio.

    Non la ritengo non praticabile perché il popolo italiano non è capace di assoggettarsi ad alcuna disciplina, perché questa mi pare francamente un’argomentazione di carattere razzista; io quindi insisto: non sono un creatore di formule, ma ritengo quindi che una politica dei redditi sia inseparabile da una politica dei prezzi, oltre ad essere una politica che non si applichi soltanto ai redditi salariali ma cerchi di potersi applicare anche alla generalità dei redditi.... sarei anche persuaso che i lavoratori sono ben disposti pure ad accettare non soltanto la tutela del salario reale ma anche una lieve riduzione del salario reale se avessero una garanzia corrispondente di un miglioramento delle condizioni occupazionali, che sono quelle dei loro figli, dei loro nipoti, dei loro parenti. E vedessero che questo avviene effettivamente....". Credo intenda questo, l'avevamo già segnalato questo articolo se non erro... Segnalo anche questo e questo già più volte discusso.. spero possa essere utile per capire la questione.

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    1. <a href="http://www.bbc.com/news/world-33362387>Paese che vai, problemi che trovi.</a> Modello "mitico" o meno.

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    2. Grazie! Articolo davvero interessante:
      "Ken Joseph from the Japan Helpline agrees. He says their experience over the last 40 years shows that elderly people who are in financial trouble may see suicide as a way out of their problems. The insurance system in Japan is very lax when it comes to paying out for suicide, he says.
      So when all else fails - some people feel - you can just kill yourself and the insurance will pay out.
      There is sometimes an intolerable pressure on the elderly that the most loving thing they can do is take their lives and thereby provide for their family."
      Ed inoltre:
      "The fastest growing suicide demographic is young men. It is now the single biggest killer of men in Japan aged 20-44.
      And the evidence suggests these young people are killing themselves because they have lost hope and are incapable of seeking help.
      The numbers first began to rise after the Asian financial crisis in 1998. They climbed again after the 2008 worldwide financial crisis.
      Experts think those rises are directly linked to the increase in "precarious employment", the practice of employing young people on short-term contracts.
      Japan was once known as the land of lifetime employment.
      But while many older people still enjoy job security and generous benefits, nearly 40% of young people in Japan are unable to find stable jobs.". Tutto il mondo è paese. Grazie ancora.

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  4. Che ne pensarebbe Caffè dell'Europa di oggi? Che sia sempre stato favorevole alla politica del "piede in casa" si sa; ci sono però anche articoli molto più precisi sull'Europa di ieri. Uno in particolare (comparso per la prima volta su "Il Manifesto", 8 luglio, 1981 e ripubblicato in La solitudine del riformista, Bollati Boringhieri, Torino, 1990, pagg. 197-99), per quanto ne so irreperibile in rete, ve lo trascrivo qui. Pesiamo la gravità delle rispettive situazioni e traiamo le nostre conclusioni. Buona lettura

    "“Se sono esatte le notizie riferite dalla stampa circa le “sollecitazioni” con le quali la Comunità economica europea avrebbe accompagnato l’accettazione del provvedimento italiano di un deposito provvisorio infruttifero, nella misura del 30%, su determinate importazioni o acquisti divaluta estera per specificati scopi, ci si trova di fronte a un comportamento che attesta con chiarezza come la cooperazione comunitaria si sia trasformata in esplicito rapporto di vassallaggio. Una espressione di indignazione morale di fronte a questo stato di cose lascerà del tutto indifferenti le autorità politiche del nostro paese, alle quali è verosimilmente da riferire l’origine prima di quelle “sollecitazioni”. Ma è bene che i giovani i quali seguono queste note e le considerano quasi una continuazione del colloquio nell’aula universitaria siano consapevoli che condizionamenti del genere venivano, in un passato alquanto remoto, imposti ad alcuni paesi (come l’Egitto, la Turchia, la Cina) in momenti in cui non erano in grado di far fronte agli impegni del loro indebitamento verso l’estero. Questi condizionamenti venivano designati come regime delle “capitolazioni” e la parola rende abbastanza bene l’idea.
    Ma, prescinendo dagli aspetti etico-politici, sono quelli di carattere strettamente tecnico che vanno contestati punto per punto. In primo luogo (sono cose che giova ripetere) i trattati comunitari prevedono, in caso di comprovate difficoltà della bilancia dei pagamenti, “clausole di slavaguardia” che possono condurre anche alla temporanea reintroduzione di quote o contingenti alle importazioni. I paesi membri, vale a dire nel caso che ne ricorresse la necessità, potrebbero imporre misure restrittive più severe di quelle che si concretano con l’adozione di sovraddazi, o l’imposizione di un deposito infruttifero. Può essere discutibile se sia stato opportuno, a suo tempo, accettare provvedimenti restrittivi più blandi, ma non previsti dalle disposizioni comunitarie. In tesi generale, sembra preferibile attenersi alle carte statutarie, anziché tollerare prassi difformi (alle quali, in altre circostanze, hanno fatto ricorso anche paesi diversi dal nostro). Ma l’importante è di tenere presente che i paesi membri hanno “diritto” di far appello alle clausole di salvaguardia e che le autorità comunitarie avrebbero soltanto titolo a verificare se ricorroano o meno gli estremi che ne giustificano l’applicazione.
    Detto questo, non si intende constestare alle autorità comunitarie di valutare i fattori di difficoltà della bilancia dei pagamenti italiana e di esprimere le loro raccomandazioni. Stupisce, tuttavia, che queste raccomandazioni siano la replica puntuale di interventi molto controversi nel dibattito economico che si svolge nel nostro paese (dalla “soluzione” del problema della scala mobile, al contenimento del disavanzo pubblico, dal “divorzio” tra il Tesoro e l’Istituto di emissione, alla predisposizione della copertura a fronte di nuove spese pubbliche, alla realizzione di un accordo tra le parti sociali). Ancora una volta lasciando da parte i risvolti politici di simili raccomandazioni, vi è una tale sensazione di stantio, di ripetitivo, di carenza di originalità da lasciare perplessi sulle capacità di ispirazione di organi che hanno l’arduo compito di tracciare il disegno dell’armonizzazione delle politiche comunitarie."

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  5. "Tra l’altro, il dibattito, all’interno del nostro paese, su questi e analoghi problemi, è molto più vivace e intellettualmente stimolante: è chiaro che, alla fatica si seguirne gli sviluppi, gli organi comunitari preferiscano utilizzare le indicazioni di autorevoli “veline”.
    A voler essere seri, non si dovrebbe ignorare che il dissidio sulle “relazioni industriali” nasconde quello di una desiderata frammentazione dell’unità sindacale; che non meno grave del contenimento del disavanzo è l’incapacità di spesa dell’apparato amministrativo italiano al quale sono da ricondurre gravi carenze sul piano delle infratrutture sociali e di possibili incrementi di produttività del sistema; che il tanto chiacchierato divorzio fra Tesoro e Istituto di emissione (ma come è insuperabile la tendenza italiana al conformismo!) è sicuramente destinato, il che è abituale in tutti i divorzi, ad accrescere l’onere già pesante di interessi sul debito pubblico; che la copertura ad hoc di spese addizionali è destianata a essere fatalmente aggirata, in quanto costituisce un assurdo logico, amministrativo e finanziario: la negazione stessa di ogni impostazione moderna della politica economica.
    In fondo, sarebbe molto più originale se, in luogo delle loro sollecitazioni melense, le autorità comunitarie proponessero all’Italia una articolata “soluzione finale”: che i terremotati, che i giovani disoccupati, che le imprese in crisi, oggetto di trasferimenti (che andrebbero definiti di sopravvivenza, anziché assistenziali) siano lasciati al loro destino, indipendentemente da ogni considerazione politica e sociale. Dire in sostanza la stessa cosa, in termini apparentemente paludati, realizza una non commmendevole fusione di banalità e ipocrisia.”

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    1. Le raccomandazioni "replica" di "interventi molto controversi nel dibattito economico che si svolge nel nostro paese" (lo vedemmo anche, su tua segnalazione, nella ricostruzione della crisi di governo del 1963), sono invariabilmente scaturenti da "le autorità politiche del nostro paese, alle quali è verosimilmente da riferire l’origine prima di quelle “sollecitazioni”.

      Il più efficace "vassallaggio politico" (condito da rinuncia a far valere quel che prevedono in realtà i trattati) è quello di chi è fondamentalmente anti-italiano: perché considera un merito, (la sobrietà, la credibilità) non identificarsi nell'interesse economico-sociale del paese, tirandosene fuori in nome di una convenienza oligarchica mai sopita, fin dalle origini del "ventennio".

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    2. Sì, anche a me era subito venuto in mente l'episodio del '63.

      Non ho messo il titolo dell'articolo: "Pressioni indecenti della Cee". Certo, da allora l'arietta a Il Manifesto è un po' cambiata.

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  6. Lo so che non centra, ma centra... visto che una delle colpe è che "esistiamo=consumiamo=inquiniamo"... sembra che non sia proprio così...

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    1. Purtroppo c'entra.
      Come quasi tutta la scienza cutting edge mediatizzata, malthusiana e finanziata dal mondialismo. E credo che, per tornare a Caffè, egli non potesse immaginare che sarebbero arrivati a tanto: in effetti, è quasi inimaginabile, se non si assume come punto di partenza quel che ci è rivelato della pianificazione mondialista e del suo uso strategico della cultura: come poteva ciò essere etraneo alla scienza, una volta che la si era imposta come nuovo criterio para-religioso (mediatico-pop) di formazione dell'indirizzo politico sovranazionale?

      E' un caso che la "scienza", come lo stesso Internet, crei una nuova ufficialità che a sua volta finisce per creare una serie infinita di "stati di eccezione"?

      In sintesi, quando si invoca la scienza, ormai, è solo per giustificare stati di eccezione ridislocativi della sovranità a livello sovranazionale: ergo, sotto ogni emergenza ambientale c'è la puzza del malthusianesimo mondialista e della ristrutturazione "ultima" dei rapporti sociali...

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    2. infatti quale miglior modo per smuovere la coscienza dei popoli, che peccano in quanto esistono poichè attraverso ciò consumano contribuendo a nocive emissioni di Co2 . Infatti il wwf dice questo ma dimentica di dire (errore o menzogna?) che:
      "Le variazioni globali di CO2 atmosferica manifestano un ritardo di 11 – 12 mesi rispetto ai cambiamenti della temperatura della superficie del mare, di 9.5-10 mesi rispetto alla temperatura dell’aria in superficie e di 9 mesi rispetto alla temperatura della bassa troposfera.
      La variazione della temperatura oceanica (che a sua volta deriva da fenomeni a ciclicità pluriennale quali l’ENSO) spiega una parte sostanziale dei cambiamenti osservati nei livelli atmosferici di CO2 dal gennaio 1980.
      La variazione nei livelli di CO2 di origine antropica ha apparentemente poco influsso sui cambiamenti osservati nei livelli di CO2 atmosferica e le variazioni di CO2 atmosferica non paiono presentare traccia delle variazioni nelle emissioni umane...". Che dire...
      Per spingerci all'ibrido (che non inquina, a parte le batterie al litio, e la produzione dell'energia elettrica) qualcosa devono inventarsi visto che siamo così restii a cambiare auto ogni anno... Scherzi a parte. Confondere cause ed effetti sembra essere molto di moda. E' il male di cui ci parla Caffè: "... non ha mai smesso di sfidare il conformismo imperante. Né di ammonire che una cosa sono le difficoltà economiche del paese, altra cosa la loro indebita drammatizzazione come strumento di pressione sul movimento sindacale e sui partiti della sinistra, e come pretestuosa giustificazione di politiche deflazionistiche". La similitudine c'entra eccome.

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  7. “Perplessità non minori, del resto, sorgono di fronte ai più recenti orientamenti di forze politiche progressiste, in senso decisamente favorevole verso ciò che è divenuto abituale designare come “economia aperta” con tutto quello che l’espressione implica in termini di preconcetta limitazione del settore pubblico dell’economia. Il fatto che alcune forze politiche progressiste siano pervenute a questi orientamenti piuttosto in ritardo, come è stato rilevato da qualche osservatore delle vicende economiche, conferisce indubbiamente all’operazione una certa apparenza di trasformismo economico…” (F. Caffè, Presentazione, in: Federico Caffè, Teorie e problemi di politica sociale, Bari, Laterza, 1970, ripubblicato in: Giuseppe Amari e Nicoletta Rocchi (a cura di), Federico Caffè. Un economista per gli uomini comuni, Roma, Ediesse, 2007, 332).
    Aveva già inquadrato la sinistra.

    Citato da una relazione di Ciampi su “La ricerca storica sulla funzione della banca centrale” https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/interventi-governatore/integov1990/CIAMPI_ROMA_90.pdf) alla nota 10 “Ponendo le basi di questa tradizione negativa e critica nei confronti dell’intervento economico pubblico l’influenza del Ferrara ha fatto perdere di vista l’esistenza, anche nella sfera dell’attività privata, di stridenti divergenze tra condotta ideale e comportamento concreto, nonché la possibilità di costruttivi sforzi rivolti a perfezionare, nei mezzi e nei risultati, l’azione economica pubblica. Così nella politica economica del nostro paese, carenze antiche si sono perpetuate, accentuando contrasti e squilibri ed è oggi possibile rendersi conto con chiarezza delle conseguenze pregiudizievoli derivanti dalla mancanza di un’eredità intellettuale che, pur senza indulgere all’utopia, fosse tuttavia ispirata (come lo è quella legata ai nomi di Webb e di Pigou) al convincimento che lo spirito pubblico, guidato dalla conoscenza, può essere l’artefice del miglioramento sociale (F. Caffè, La politica economica nel sistema di analisi al livello oggettivo, Milano, 1964).




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    1. E alla fine il progressismo si misurò solo sui diritti cosmetici a costo zero. La teoria del crowding out, id est "pareggio di bilancio" (altamente etico e anticorrutivo) divenne la nuova religione dello smantellamento delle funzioni statali nell'economia. E l'economia andava bene, ma proprio bene, perché "il problema non è l'euro"; per forza, il suo funzionamento "spiazza". Ah, se spiazza!

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