lunedì 11 luglio 2016

ANTIFASCISMO SU MARTE E LIBERISMO: L'IRRESISTIBILE TINA GUERRAFONDAIO


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1. Su segnalazione di Alberto (di cui riproduciamo più sotto un commento svolto su Goofynomics e connesso al tema, in un modo che dovrebbe risultare evidente), pubblichiamo per intero un post tratto dal blog di "Correttore di bozzi".
La ragione per cui lo facciamo, trattandosi di un eccezionale episodio di post "esogeno", non sta nella semplice citazione ragionata di una serie di post di orizzonte48, richiamati come antecedenti per la comprensione del tema, quanto nella esigenza di "non dispersione" e di completezza del discorso intrapreso in questa sede.
Il post in questione si integra in tale discorso e consente dunque un arricchimento della comprensione asseverata da fonti preziose: da conservare, appunto...

Materiale sui rapporti fra fascismo e liberismo


Data la lunghezza, pubblico qui le citazioni di supporto alla risposta a questo commento su Goofynomics.

Oltre a quanto segue si consiglia la lettura di (almeno) questi articoli sul blog di Luciano Barra Caracciolo:



Dal libro di Raffaello Uboldi, La presa del potere di Benito Mussolini (p. 137 e seguente):

Del resto non è che piaccia troppo questo romagnolo di dubbie origini e di dubbio credo, quello che vogliono i capitani d'industria è soprattutto tornare a lavorare e produrre adesso che lo spettro della rivoluzione è stato esorcizzato. Si vuole comunque capire —a pericolo cessato— dove il fascismo intende portare il paese, semmai arriverà al potere. Da qui le rassicurazioni, che non mancano, e non mancheranno, partendo dalla prospettiva di uno Stato «manchesteriano», cioè privatizzato, che Mussolini ha così delineato:

«Lo Stato ci dia una polizia, che salvi i galantuomoni dai furfanti, una giustizia bene organizzata, un esercito pronto per tutte le eventualità, una politica estera intonata alle necessità nazionali. Tutto il resto, e non escludo nemmeno la scuola secondaria, deve rientrare nell'attività privata dell'individuo».

Una affermazione di principio, un solenne articolo di fede cui ha fatto seguito la pubblicazione di un più preciso programma economico-finanziario fascista, redatto da due convinti liberisti, Massimo Rocca e Ottavio Corgini. Un programma che prevede l'abolizione dell'iniziativa parlamentare in materia di proposte di nuove spese, la riforma della burocrazia, la cessione ai privati delle aziende industriali di Stato, l'abolizione degli organi statali inutili, la razionalizzazione dei tributi e delle leggi che inceppano la produzione.

Programma che prevede l'enunciazione di una teoria del trickle-downante litteram:
E sul finire: «Nulla è più falso della pretesa di tassare i ricchi per risparmiare i poveri. In realtà tutti i produttori, del braccio e del pensiero, esecutori e dirigenti, sono legati alle sorti dell'economia nazionale, e la demagogia finanziaria che inceppa l'attività di questi, ricade fatalmente su quelli con i suoi danni presenti e senza alcun utile positivo».

Uboldi precisa: “Non sarà questa, non al cento per cento, la politica economica dello Stato fascista, che annacquerà il liberalismo delle origine nelle pastoie del corporativismo.” 
Certo, se hai dei propositi bellicosi, una politica economica che ti deprime l'economia e porta alla fame quelli che dovranno costituire il grosso del tuo esercito non è il massimo.

Poi spunta er padre della Patria che si esprime sulla Voce del Padrone:
Si capiscono tuttavia le reazioni del mondo economico. Valga per tutti il commento del «Corriere della Sera». Per la penna di Einaudi si legge che «il programma … di Corgini e Rocca è un esempio di ritorno alle sorgenti. Nel caso nostro le sorgenti sono quelle liberali dell'economia classica, adattate alle necessità dell'ora presente».

Ancora sul programma di Rocca e Corgini, questa volta tratto da Le politiche economiche e finanziarie del governo Mussolini negli anni ‘20 di Andrea Virga, ritroviamo la riduzione del perimetro dello Stato, il taglio delle tasse e il pareggio di bilancio:

Il Fascismo Nazionale
...
Un altro documento di grande importanza è la relazione pel risanamento finanziario dello Stato, presentata da Massimo Rocca e Ottavio Corgini alla vigilia della Marcia su Roma[12] (Partito Nazionale Fascista, Per il risanamento della finanza pubblica, Roma, settembre 1922.). In primo luogo, esso lamenta il continuo peggioramento del disavanzo annuale dello Stato, per cui accusa le richieste di spesa del Parlamento, e al cui proposito raccomanda l’abolizione dell’iniziativa parlamentare, in favore del solo lavoro del Ministero delle Finanze. Oltre ai soliti appunti sulla necessità di riformare la burocrazia e snellire il sistema tributario, è rilevante il proposito di “equilibrare le tassazioni”, ovvero ridurre la pressione fiscale sulle classi capitaliste, in modo da colmare il deficit non già grazie alle imposte, ma grazie all’aumento della produzione e della ricchezza. Queste misure dovrebbero secondo i relatori eliminare il disavanzo fiscale, condizione questa indispensabile per limitare il ribasso della valuta e l’aumento del costo della vita.

Poi ci fu la battaglia per la moneta forte:
La "battaglia di quota novanta"
...
Un tale rafforzamento sgomentò lo stesso Volpi, il quale si interrogò circa l’opportunità di una simile rivalutazione, ma Mussolini insistette sul valore, ormai propagandistico, della "quota 90".
Gli effetti politici furono senz’altro positivi, soprattutto sul piano del consenso. Le conseguenze economiche, tuttavia, risultarono in una forte contrazione del credito e una pesante deflazione, con un aumento rapido e vertiginoso della disoccupazione da 241.889 (30 giugno 1927) a 341.782 (31 ottobre). Nonostante ciò, piuttosto che tornare a una svalutazione della lira fino a raggiungere un valore più favorevole, si preferì agire con tre provvedimenti principali: la riduzione dell’indennità caro-vita e dei salari, l’alleggerimento del carico fiscale e la riduzione degli affitti.

Infine, tratto da Mises on Fascism, Democracy, and Other Questions, il parere ben informato dei liberisti su quale sia la libertà a cui sono interessati e che il fascismo gli potrebbe garantire:

Giretti’s initial support of the Fascist movement is highly illuminating:

I am more than ever convinced that without economic liberty, liberalism is an abstraction devoid of any real content, when it is not a mere electoral hypocrisy and imposture. If Mussolini with his political dictatorship will give us a regime of greater economic freedom than that which we have had from the dominant parliamentary mafias in the last one hundred years, the sum of good which the country could derive from his government would surpass by far that of evil.

Thus, at this early point, Giretti, like the other liberisti, shared the interpretation of Fascism which one scholar has attributed to Luigi Albertini, editor of the influential Corriere della Sera, that it was “a movement at once anti-Bolshevik (in the name of the authority of the state) and economically liberal, capable, that is, of giving a new vigor” to the liberal idea in Italy.90
A major early Fascist figure who was also an economic liberal was Leandro Arpinati, leader of the squadristi of Bologna. Arpinati later broke with Mussolini over the latter’s increasingly interventionist policies.
” 

2. Questo poi il commento di Alberto Bagnai su un tema strettamente connesso e, purtroppo, oggi tornato di angosciante attualità (citerò poi altri commenti tratti dal dibattito generato da quel post, dibattito che invito a leggere integralmente):
"...Io non sto dicendo che le parti belligeranti nella seconda guerra mondiale si siano dichiarate rispettivamente liberista e antiliberista, per poi combattersi frontalmente come in un simpatico torneo medievale. Io sto dicendo una cosa un po' diversa, che nessuno mi sembra voglia capire (il che spiega, peraltro, perché si stia ripetendo):
[1] che il capitalismo presenta una sua intrinseca instabilità, che si esalta nel momento in cui le istanze "liberiste" (pro capitale) prendono il sopravvento schiacciando la distribuzione dei redditi da lavoro e aprendo la strada alla finanziarizzazione del sistema;

[2] che, a valle delle crisi che questo modello "liberista" cagiona, la risposta "liberista" è deflazionista;

[3] che a valle della spirale deflazionista, l'unico modo per far ripartire il sistema è una guerra, e che quindi, strutturalmente, la causa della guerra è un certo modo di gestire i rapporti sociali di produzione (modo che abbiamo deciso un po' sbrigativamente di identificare con il termine "liberista", sul quale ci sarebbe da discutere);

[4] che, a valle degli orrori della guerra, le forme umane senzienti mantengono una labile memoria del come ci si sia arrivati, e quindi producono Piani Beveridge e quant'altro, determinando "a ratifica" del conflitto una sua sostanziale rilettura funzionale in chiave "antiliberista" (perché l'esito del conflitto è COMUNQUE ANCHE che le politiche liberiste vengono temporaneamente accantonate pro bono pacis).

[5] che queste dinamiche si stanno riproducendo oggi nei loro tratti essenziali.

Spero che saremo d'accordo sul fatto che Roosevelt non ha fatto ripartire l'America perché era "cheinesiano antilibberista": l'ha fatta ripartire perché si è fatto tirar giù qualche naviglio in una isoletta che non saprei localizzare esattamente sulla carta geografica, dopo di che si è "dovuto" regolare di conseguenza.
Ci siamo, no?

Quindi, la risposta su chi e come scatenerà il prossimo conflitto antideflazionista mi pare sia piuttosto chiara: come nel caso precedente, gli Stati Uniti. Mi pare anche che ci stiano provando in ogni e qualsiasi modo e alla fine ci riusciranno. Lo scrivono sui loro giornali che c'è bisogno di una guerra per uscire dalla "secular stagnation". Lo avrà notato, no? Notarlo è il suo lavoro e sono sicuro che lei lo fa benissimo. Può sembrare paradossale, ma non lo è tanto: alla fine è il liberismo (capitalismo) che combatte se stesso per assicurare la propria sopravvivenza. E finora ha funzionato, con grande smarrimento di chi proponeva un modello alternativo".

3. Va soggiunto che, in uno scenario di potenze internazionali dotate di armi nucleari strategiche (ma anche "tattiche"), l'irresistibile deriva guerrafondaia può, logicamente e prevedibilmente, assumere caratteri ben diversi da quelli della seconda guerra mondiale (di cui condividiamo la definizione, originata da Karl Schmitt, di "guerra civile mondiale": per capire meglio questa acuta definizione, occorrerebbe uscire dalla visione europeo-centrica della stessa ultima guerra mondiale e verificare l'andamento del conflitto in altre, oggi più che mai, importanti aree del mondo).
Ma, anche questo, è un discorso già svolto in varie occasioni (che forse vale la pena di approfondire ulteriormente; per quanto questo sia un blog di analisi economica del diritto pubblico)... 
ADDENDUM: ci pare giusto, per completezza di fonti direttamente attestanti l'analisi riportata nel post, questa citazione compiuta da Bazaar nei commenti:
"...riproduco qui, per ordine, il passo di Ludwig von Mises recentemente riportato:

«Non si può negare che fascismo e movimenti simili, finalizzati ad imporre delle dittature, siano pieni delle migliori intenzioni e che il loro intervento abbia, per il momento, salvato la civiltà europea. Il merito che il fascismo ha così ottenuto per sé, continuerà a vivere in eterno nella storia. Ma se la sua politica ha portato la salvezza, per il momento, non è della specie che potrebbe promettere di continuare ad avere successo. Il fascismo è stato un ripiego d'emergenza. Vederlo come qualcosa di più sarebbe un errore fatale.»

Mises maestro di Hayek (e anche consulente sull'euro ante-litteram del fondatore di Paneuropa) ammette, di fatto, che il totalitarismo nasce come risposta del liberalismo classico alle rivendicazioni socialiste e democratiche

13 commenti:

  1. Ad abundantiam. E’ sempre così bello ricordare i discorsi di un padre della Patria: “…IL PROGRAMMA DEL FASCISMO È NETTAMENTE QUELLO LIBERALE DELLA TRADIZIONE CLASSICA. A Udine, domenica, il capo ripeteva: «Lo stato non rappresenta un partito, lo stato rappresenta la collettività nazionale, comprende tutti e si mette contro chiunque attenti alla sua imprescrittibile sovranità… Noi vogliamo spogliare lo stato di tutti i suoi attributi economici. Basta con lo stato ferroviere, con lo stato postino, con lo stato assicuratore. Basta con lo stato esercente a spese di tutti i contribuenti italiani ed aggravante le esauste finanze dello stato italiano. Resta la polizia che assicura i galantuomini dagli attentati dei ladri e dei delinquenti; resta il maestro educatore delle nuove generazioni; resta l’esercito che deve garantire la inviolabilità della patria e resta la politica estera». Ben detto: ripetere alle immemori generazioni imbevute DI MORTIFICANTI DOTTRINETTE SOCIALISTICHE E STATOLATRE gli insegnamenti di ADAMO SMITH, DI GIAMBATTISTA SAY, DI FRANCESCO FERRARA… è sempre un merito grandissimo. E’altrettanto importante creare le dottrine – e questo fecero i liberali classici – QUANTO IL TORNARE AD ATTUARLE; E QUESTO SAREBBE IL COMPITO CHE IL FASCISMO ITALIANO SI È PROPOSTO IN ITALIA NEL MOMENTO PRESENTE…le dottrine poco contano, ha detto Mussolini, DOPO AVERE PERÒ ACCOLTE QUELLE DEL LIBERALISMO CLASSICO. Ciò che importa è creare una nuova classe politica. Quella attuale, che Mussolini correttamente definisce giolittiana, perché nella sua maggioranza si è formata sotto l’influenza spirituale del vecchio capo piemontese, è stracca, sciupata, vinta. Essa negli ultimi tempi «ha condotto sempre una politica di abdicazione di fronte a quel fantoccio gonfio di vento che era il social-pussismo italiano». Giusto. Bisogna creare una nuova classe politica, forte, consapevole dei bisogni e delle energie del paese, risoluta a condurre l’Italia di Vittorio Veneto verso i suoi alti destini. Nella creazione di questa nuova classe politica l’on. Mussolini fa consistere il compito del fascismo...” [L. EINAUDI, Corriere della Sera, 27 settembre 1922, Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, 863-866].

    Sull’irresistibile TINA guerrafondaio del liberismo, a quanto ho capito(ma il Presidente mi corregga se sbaglio) bisognerebbe distinguere tra lo scenario della seconda guerra mondiale e quello (purtroppo) pre-bellico attuale.
    Per ciò che riguarda il secondo conflitto mondiale, richiamando un passo di L. Basso citato nel post precedente(http://orizzonte48.blogspot.it/2016/07/ue-eurss-no-totalitarismo-neo-liberista.html), si potrebbe affermare che: “La lotta condotta dalle potenze occidentali contro il nazifascismo viene facilmente assimilata a una lotta condotta per il trionfo di principi democratici, e le potenze occidentali stesse assurgono ad archetipi della democrazia. siamo qui evidentemente sul piano che abbiamo chiamato delle apparenze superficiali, e non su quello dei reali rapporti di classe. Abbiamo già avuto occasione di parlare altre volte… della complessità dei motivi che s’intrecciano per dar vita alla coalizione antinazista della seconda guerra mondiale, E MESSO IN RILIEVO COME I REALI MOTIVI CHE SPINSERO ALLA GUERRA LE POTENZE ANGLOSASSONI FURONO MOTIVI DI CONCORRENZA IMPERIALISTICA. Mentre cioè il capitale monopolistica delle potenze fasciste, finanziariamente più debole, meno ricco di materie prime e di punti d’appoggio internazionali, SI CHIUDEVA NELL’AUTARCHIA PER RESISTERE ALLA CONCORRENZA E POI MIRAVA A CONQUISTARSI UN SEMPRE PIÙ GRANDE “SPAZIO VITALE” vietato alla concorrenza stessa, il capitalismo anglosassone forte della sua superiorità, voleva rompere ogni barriera e fare di tutto il mondo un grande mercato di sfruttamento…La sconfitta del nazifascismo segnò … una vittoria del capitale finanziario anglo-americano, nella sua corsa verso la dominazione mondiale”. (segue)

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  2. Ma l’idea, a quanto pare, frullava già nella testa degli americani, come ci riferisce sempre Einaudi: “…Due passi di documenti solenni della guerra meritano di essere ricordati. Poco più di un anno fa, rispondendo alla nota del Papa, il signor Wilson scriveva: «IL POPOLO AMERICANO CREDE CHE LA PACE DOVREBBE FONDARSI NON SUI DIRITTI DEI GOVERNI, MA SUI DIRITTI DEI POPOLI, GRANDI O PICCOLI, DEBOLI O POTENTI, SUL LORO UGUALE DIRITTO ALLA LIBERTÀ, ALLA SICUREZZA ED ALLA AUTONOMIA E AD UNA PARTECIPAZIONE A CONDIZIONI EQUE ALLA CONCORRENZA ECONOMICA DEL MONDO, COMPRESO NATURALMENTE IL POPOLO TEDESCO SE ACCETTERÀ L’UGUAGLIANZA E NON CERCHERÀ IL PREDOMINIO… CREAZIONI DI LEGHE ECONOMICHE EGOISTICHE ED ESCLUSIVE SONO CONSIDERATE DA NOI INOPPORTUNE ED IN ULTIMA ANALISI PEGGIO CHE INUTILI, NON ESSENDO BASE ADATTA PER UNA PACE DI QUALSIASI SPECIE E MENO DI TUTTO PER UNA PACE DURATURA».A distanza di un anno, inaugurando il 18 settembre scorso il quarto prestito della libertà, il signor Wilson così esponeva alcuni caposaldi della futura pace:«NON VI POSSONO ESSERE LEGHE O ALLEANZE O ACCORDI O INTESE SPECIALI IN SENO ALLA GRANDE FAMIGLIA COSTITUITA DALLA LEGA DELLE NAZIONI. PIÙ SPECIFICAMENTE, NON VI POSSONO ESSERE SPECIALI EGOISTICHE COMBINAZIONI ECONOMICHE DENTRO QUESTA LEGA, E NEPPUR USO DI QUALSIASI FORMA DI BOICOTTAGGIO O DI ESCLUSIVITÀ ECONOMICA, ECCETTO CHE COME FACOLTÀ DI PENALITÀ DI CUI SIA ESCLUSIVAMENTE INVESTITA LA LEGA DELLE NAZIONI STESSE COME MEZZO DI DISCIPLINA E DI CONTROLLO». Quest’ultima volta, il Wilson… parlava sovratutto agli amici, a noi. Le masse, ha detto Wilson, sono malcontente del modo finora tenuto dai capi di Stato nell’esposizione dei fini della guerra. Esse non pensano tanto agli assetti territoriali ed alle divisioni di potenza fra i diversi Stati; ma vorrebbero che i capi si inspirassero sovratutto a larghe vedute di giustizia, di clemenza, di pace, di soddisfazione alle profonde aspirazioni, per cui solo sembra valga la pena di combattere una guerra in cui il mondo intiero è coinvolto. Esponendo i suoi caposaldi di pace, il Wilson ha cercato unicamente di dare soddisfazione a coloro che combattono nelle file; e spera che i capi degli Stati alleati parleranno così chiaramente come egli ha fatto e liberamente diranno se egli erri in qualche modo nella sua interpretazione dei fini impliciti della guerra. «L’unità di propositi e di consiglio sono altrettanto imperativamente necessari in questa guerra, quanto lo era l’unità di comando sui campi di battaglia; e con la perfetta unità dei propositi e del consiglio si otterrà la sicurezza della completa vittoria». L’invito a parlare rivolto ai governi inglese, francese ed italiano è chiaro. Esso era imperativamente richiesto, per quanto ha tratto al problema economico della pace, perché sussisteva e sussiste un equivoco fondamentale. L’unico documento ufficiale finora pubblicato dall’Intesa, è il verbale delle decisioni della conferenza economica di Parigi del 1916. Il succo di quelle decisioni era la creazione di un sistema di dazi doganali di favore per gli alleati, protettivi contro i neutri e di selezione contro gli attuali nemici. Applicando quei concetti fondamentali, la Commissione reale per i trattati di commercio, istituita in Italia con decreto del 23 gennaio 1913, proponeva nel 1917 l’abbandono dei trattati di commercio bilaterali, con la clausola della nazione più favorita; e l’adozione di un sistema di tariffe autonome, con dazi di favore per i paesi che fossero a noi più strettamente legati, con dazi massimi per gli altri paesi, oltreché con dazi di ritorsione e di lotta contro una terza serie di paesi, accusati di esercitare contro di noi il «dumping» e simiglianti maniere di commercio cosidetto sleale. Il contrasto non potrebbe essere più stridente. (segue)

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  3. Da un LATO LE NAZIONI DELL’INTESA SI AVVIANO AD UNA POLITICA DOGANALE ACCESAMENTE PROTEZIONISTICA, E SOVRATUTTO IMPERNIATA SULLA DIFFERENZA DI TRATTAMENTO FRA AMICI, NEUTRI E NEMICI, CON LA FORMAZIONE DI CAMPI CHIUSI E LOTTANTI FRA DI LORO. La guerra economica contro la Germania, dopo la guerra cruenta propriamente detta: ecco il programma economico dell’Intesa nel dopo guerra, almeno quale risultava dai documenti finora resi pubblici e dalle manifestazioni oratorie di alcuni dei più eminenti uomini di Stato dell’Intesa…LE PAROLE DEL WILSON NON VOGLIONO ANCORA DIRE CHE LA PACE DEBBA SEGNARE L’INIZIO DELL’ERA DEL LIBERO SCAMBIO UNIVERSALE.
    UNA RIVOLUZIONE SIFFATTA NON SI PUÒ COMPIERE DI UN TRATTO; NÉ FORSE SAREBBE CONVENIENTE DISTRUGGERE REPENTINAMENTE SOLUZIONI ACQUISITE E LEDERE INTERESSI POTENTI DI AMPIE CLASSI SOCIALI. Ma quelle parole bastano però per persuaderci che si deve compiere una revisione profonda dei propositi di isolamento e di boicottaggio, che dominarono nell’Intesa durante i primi due o tre anni della guerra. Dall’altro Wilson dice: Dopo la pace, nessuna esclusione, nessun boicottaggio contro gli attuali nemici; ma parità di trattamento, ED AMMISSIONE ALLA LIBERA COMPETIZIONE MONDIALE…” [L. EINAUDI, La parola di Wilson ed il problema della pace e della guerra economica, in La Libertà economica, 10 ottobre 1918].

    La seconda guerra mondiale degli Alleati, quindi, avrebbe fatto fronte ad una esigenza fondamentale: internazionalizzare le politiche liberiste, farle uscire dai confini nazionali e da quella “autarchia” (protezionistica) di cui parlava Basso, e ciò al fine di agevolare l’espansione imperialista (in effetti, gli Stati Uniti entrarono in guerra dopo l’attacco subito a Pearl Harbour, che stranamente li vide impreparati proprio come in occasione dell’attentato alle torri gemelle. Pura casualità…). I nuovi assetti nati dopo il conflitto avrebbero fatto comodo all’Impero a stelle e striscie che, difatti, si assicurava enormi sbocchi commerciali (in Europa, però – piccolo particolare - il tutto ci è stato venduto come il magnifico “sogno €uropeo”).

    La situazione attuale rispecchierebbbe invece quanto evidenziato anche dal prof. Bagnai, ovvero: realizzata l’internazionalizzazione delle politiche liberiste, si prende atto dei suoi effetti destabilizzanti e deflazionistici (in realtà tali effetti si erano già constatati nella Germania pre-nazista con le politiche di austerità messe in atto dal cancelliere Brüning). Come conseguenza, ci si rende conto che “l'unico modo per far ripartire il sistema è una guerra”.
    Un bel quadretto bellico, non c'è che dire

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  4. Un ringraziamento va a Francesco per aver segnalato il "Ciclo totalitario" di Basso, di cui consiglio la lettura integrale.

    Passi tratti da "L'uomo nuovo nella società socialista" (Lelio Basso, «Quarto Stato», 1-15 nov. 1949, n. 20/21, pp. 3-32), la cui lettura integrale potrebbe certamente essere pane per i denti del nostro Bazaar, qualora volesse sistematizzare ulteriormente alcune delle riflessioni esposte in molti suoi commenti e anche in alcuni dei suoi post precedenti (il testo è in effetti lunghetto, ma per quanto mi riguarda vale il tempo richiesto):

    « L’essenza del conflitto ideologico che divide il mondo è racchiusa in queste due contrastanti visioni del mondo. Da un lato la visione del mondo capitalista che tende a ricacciare l’uomo verso la barbarie del suo egoismo, facendo centro della vita sociale l’individuo a cui sarebbero riservate nel mondo occidentale illimitate possibilità; che nel cinematografo, nel romanzo, nei giornali a fumetti, nei condensati di stupidità che sono i “Reader’s Digest” e simili, fa balenare queste possibilità come se fossero realmente in atto per tutti, mostra cioè le apparenze esterne di questo mondo per far dimenticare il grigiore vero di una vita uniforme e vuota; che nello sforzo di disgregare ogni rapporto di solidarietà sociale, ogni vincolo umano che rompa la catena dell’egoismo, non si limita più a combattere la coscienza di classe dei ceti oppressi, ma ormai anche la coscienza nazionale, sostituendovi un generico e retorico “cosmopolitismo”, mirando così a svuotare l’uomo di ogni suo contenuto umano, a farne un automa mosso soltanto dalla molla dell’egoismo, con apparenti possibilità illimitate, ma in realtà diretto esclusivamente verso gli obiettivi che gli sono assegnati dalla sola forza reale di questo mondo capitalistico, che è la potenza dei monopoli. Una massa sterminata di individui, chiusi e ostili gli uni agli altri, senza sostanziali legami fra di loro e perciò spogli di ogni connotato personale, fatti eguali gli uni agli altri proprio grazie a questa soppressione di ogni personalità, quindi incapaci di capire e tanto meno di dominare le leggi e le forze sociali da cui è retta la società presente; una massa sterminata di automi manovrata dall’invisibile e inaccessibile potenza del capitalismo monopolistico, cui è riservato invece ogni reale potere: questo è l’ideale della “democrazia” e della “libertà” occidentali, tutt’al più, come si è visto, con il correttivo della consolazione religiosa o della disperazione della “evasione” del mondo. [segue]

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    1. In realtà, Winston, le riflessioni poggiano sempre su una matrice di strumenti concettuali e cognitivi di cui i fondamenti sono bassiani.

      Basso, in questi spazi di discussione, non è punto d'arrivo: è punto di partenza.

      Certi autori sono andati a leggermeli proprio perché influenzatori del suo pensiero che, anch'io, considero tra i più lucidi, profondi e concreti del '900.

      Insomma, tutta colpa di Quarantotto....

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  5. Dall’altro lato la visione di una società solidale, in cui non v’è altra realtà all’infuori di quella degli uomini associati, ciascuno dei quali è membro della collettività e concorre con tutti gli altri a forzare la volontà collettiva che, poggiando su interessi solidali, non è lacerata da interne contraddizioni. La libertà di questi uomini, così associati non consiste quindi nell’isolarsi, nel rinchiudersi, nel perseguire una propria sfera di attività preclusa ad ogni altro ma al contrario nella loro partecipazione cosciente all’elaborazione degli scopi comuni e all’apprestamento dei mezzi comuni in vista di questi scopi. La grande superiorità di questa società solidale è che i risultati dell’attività collettiva non nascono da un conflitto di molte volontà divergenti o contrastanti, ma dall’armonia di sforzi concordi sono perciò risultati prevedibili, che possono essere tempestivamente studiati e preparati e non si abbattono mai inopinatamente sull’umanità con la apparenza di forze cieche o come manifestazioni di leggi eterne. La pianificazione cosciente degli scopi collettivi, cioè una comune volontà armata di previsione, è quindi la reale espressione dell’umana libertà in questa società solidale che è la società socialista.
    […] Qui tocchiamo veramente il fondo del contrasto fra le due società. Come abbiamo già più volte rilevato nel corso della nostra esposizione, il mondo occidentale ci offre oggi lo spettacolo di una società in cui l’immensa maggioranza degli uomini non ha alcuna reale libertà perché non ha alcuna reale ingerenza nella vita politica, né alcuna possibilità di partecipare coscientemente alla creazione del proprio avvenire, e la cui sorte dipende, in definitiva da forze sociali che sfuggono al suo controllo, ma ha invece l’illusione di questa libertà perché a ciascuno è riservata, nella sfera delle cose contingenti, una piccola zona di attività abbandonata al suo arbitrio, uomini cioè ridotti in condizione di effettiva servitù, in gran parte senza neppure saperlo, vittime di una coscienza mistificata; la società socialista per contro, essendo fondata su una solidarietà di interessi, realizza insieme il massimo sviluppo della personalità di ciascuno e il massimo contributo di ciascuno alla collettività, il massimo di libertà personale, cioè di partecipazione alla volontà e alla vita collettiva, e il massimo di pianificazione, cioè di conoscenza delle leggi sociali e di previsione del futuro.
    […] La rivoluzione borghese, ci dice Marx nel Manifesto, ha il grande merito storico di avere liberato delle forze immense che giacevano nascoste nel grembo della natura; la rivoluzione socialista ha quello infinitamente più grande di liberare delle forze immense che erano fino ad oggi prigioniere nel seno stesso dell’umanità. »

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    1. Lelio, (ormai misconosciuto ad un livello che dovrebbe preoccupare, e non da oggi), rimane il miglior pensatore italiano del dopoguerra e, probabilmente, di tutto il '900.

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    2. Certo, la sua generazione si intreccia con Gramsci, Caffè e Ruini. Se vogliamo. Tutti "allegramente" coperti dall'oblio..militante

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    3. E le ragioni principali credo siano due:
      a) il suo messaggio non era e non è tuttora in alcun modo strumentalizzabile ad usum élites;
      b) non si esprimeva principalmente nella"lingua imperii".

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  6. Per Correttore di Bozzi riporto qui, per ordine, il passo di Ludwig von Mises recentemente riportato:

    «Non si può negare che fascismo e movimenti simili, finalizzati ad imporre delle dittature, siano pieni delle migliori intenzioni e che il loro intervento abbia, per il momento, salvato la civiltà europea. Il merito che il fascismo ha così ottenuto per sé, continuerà a vivere in eterno nella storia. Ma se la sua politica ha portato la salvezza, per il momento, non è della specie che potrebbe promettere di continuare ad avere successo. Il fascismo è stato un ripiego d'emergenza. Vederlo come qualcosa di più sarebbe un errore fatale.»

    Mises maestro di Hayek (e anche cosulente sull'euro ante-litteram del fondatore di Paneuropa) ammette, di fatto, che il totalitarismo nasce come risposta del liberalismo classico alle rivendicazioni socialiste e democratiche.

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  7. Visto che ci hanno martellati fino allo sfinimento per metterci in guardia contro i terribili pericoli del nazionalismo, può valer la pena allargare un po’ la citazione del discorso di Udine riportata nell’articolo di Einaudi citato sopra da Francesco. Ecco qui (E. e D. Susmel (a cura di), Opera omnia di Benito Mussolini, La Fenice, Firenze, 1951-1963, vol. XVIII, pag. 419): “D’altra parte bisogna evitare che la rivoluzione fascista metta tutto in gioco. Qualche punto fermo bisogna lasciarlo, perché non sia dia la impressione al popolo che tutto crolla, che tutto deve ricominciare, perché allora alla ondata di entusiasmo del primo tempo succederebbero le ondate di panico del secondo e forse ondate successive, che potrebbero travolgere la prima. Ormai le cose sono molto chiare. Demolire tutta la superstruttura socialistoide-democratica.
    Avremo uno Stato che farà questo semplice discorso: “Lo stato non rappresenta un partito, lo Stato rappresenta la collettività nazionale, comprende tutti, supera tutti, protegge tutti e si mette contro chiunque attenti alla sua imprescrittibile sovranità” (Fragorosi, prolungati applausi).
    Questo è lo Stato che deve uscire dall’Italia di Vittorio Veneto. Uno Stato che non dà localmente ragione al più forte; uno Stato non come quello liberale, che in cinquant’anni non ha saputo attrezzarsi una tipografia per fare un suo giornale quando vi sia lo sciopero generale dei tipografi; uno Stato che è in balia della onnipotenza, della fu onnipotenza socialista; uno Stato che crede che i problemi siano risolvibili soltanto dal punto di vista politico, perché le mitragliatrici non bastano se non c’è lo spirito che le faccia cantare. Tutto l’armamentario dello Stato crolla come un vecchio scenario di teatro da operette, quando non ci sia la più intima coscienza di adempiere ad un dovere, anzi ad una missione. Ecco perché noi vogliamo spogliare lo Stato da tutti i suoi attributi economici. Basta con lo Stato ferroviere, con lo Stato postino, con lo Stato assicuratore. Basta con lo Stato esercente a spese di tutti i contribuenti italiani ed aggravante le esauste finanze dello Stato italiano resta la polizia, che assicura i galantuomini dagli attendati dei ladri e dei delinquenti; resta il maestro educatore delle nuove generazioni; resta l’esercito, che deve garantire la inviolabilità della Patria e resta la politica estera. (Applausi).
    Non si dica che così svuotato lo Stato rimane piccolo. No! Rimane grandissima cosa, perché gli resta tutto il dominio degli spiriti, mentre abdica a tutto il dominio della materia. (Ovazione prolungata).”


    Questo è il nazionalismo: la sostituzione del popolo reale, con i suoi mediocri e volgari bisogni concreti, con l’idea del popolo, decorabile con tutti i più improbabili e altisonanti orpelli, che ha bisogno invece di propaganda e repressione. Ed Einaudi, nemico implacabile del nazionalismo e della “sovranità assoluta degli Stati”, applaudiva: il che chiarisce qual era la vera posta in gioco.

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  8. Coglieva quindi nel segno Mortati (Istituzioni di diritto pubblico, vol I, Cedam, Padova, 1975, pag. 87) quando giudicava il fascismo in questi termini: “La centralizzazione dell’ordinamento statale ebbe a raggiungere il suo acme ed i contatti con il popolo, ai quali era rivolta soprattutto l’opera del partito fascista e della propaganda politica (considerata come funzione propria dello stato), vennero ricercati solo allo scopo di assicurare la sua passiva obbedienza al regime. La regolamentazione giuridica dei rapporti di lavoro e la definizione in via giudiziaria delle vertenze in ordine ad essi, nonché il collegamento che si tentò di attuare fra le forze sociali della produzione e del lavoro con gli organi rappresentativi dello stato, in cui si concretò quello che venne chiamato il « regime corporativo », non riuscirono a lievitare alcuna sostanziale trasformazione perché gli istituti che li realizzarono rimasero costruzione artificiosa ed imposta dall’alto, messa al servizio della conservazione del preesistente assetto economico-sociale. Quest’ultima considerazione conduce ad escludere chel l’ordinamento fascista abbia innovato a quello monarchico-liberale poiché (a parte ogni valutazione dei procedimenti formali seguiti pel suo insediamento e pei successivi svolgimenti, che non sono sufficienti ad invalidare gli elementi univoci emergenti dalla considerazione realistica dell’esperienza costituzionale in esame) esso si presenta piuttosto nella figura di strumento delle classi dominanti rivolto alla repressione dei fermenti di vita nuova, che erano stati potentemente alimentati dalla crisi bellica.

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    1. Il che spiega perché Mortati non sia più studiato nelle università. Non bastasse l'oblio su Basso...

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