mercoledì 17 agosto 2016

SPENCER, GRAMSCI E IL REGNO DEL TERRORE CONTRO L'OPPRESSIVA E INEFFICIENTE DEMOCRAZIA.

http://www.aiutodislessia.net/wordpress/wp-content/gallery/storia-la-rivoluzione-fancese-2-media/governi-in-francia-da-fine-1700.png


1. In questo e poi in quest'altro post (p.12), abbiamo esaminato, rispettivamente, il disappunto delle elites internazionaliste (dei mercati), per il risultato del referendum in UK, nonchè la prospettiva di disattivazione delle stesse consultazioni elettorali, in caso di esiti idraulicamente indesiderati, che si va concretizzando in ogni parte delle c.d. democrazie occidentali.
Peraltro, in €uropa, finché regge il sistema, "bancocentral-centrico", del pilota automatico dei trattati ordoliberisti, tale disattivazione, a scapito della facciata, è praticamente un risultato già acquisito e che si sta disperatamente difendendo, contro ogni evidenza della sua disastrosa applicazione.
Per capire il problema della crisi attuale, crescente (e forse finale), del sistema delle elezioni a suffragio (pressocché) universale, vorrei ripartire da questa già vista citazione di Herbert Spencer, "(il darwinista sociale per eccellenza, che teorizzò che i "milionari sono un prodotto della selezione naturale"):
"La funzione del liberalismo in passato fu quella di porre un limite ai poteri del re. La funzione del vero liberalismo in futuro sarà quella di porre un limite ai poteri del Parlamento".
Basti questo per comprendere come ogni pretesa libertaria di questa corrente di pensiero, che rivendica a sè, a partire dalla Glorious Revolution, l'affermazione dei Parlamenti, riveli con ciò tutta la strumentalità del sostenere gli stessi; nella fase di affermazione contro le monarchie, era perfettamente accettabile e si parlava di lotta alla "tirannia". Poi il parlamentarismo divenne un peso all'utilitarismo autolegittimante di una nuova oligarchia.
La citazione è tratta da un libro di Spencer che fu certamente di ispirazione per von Hayek, se non altro per il suo eloquente titolo "The Man Versus the State" (Caldwell, p.209)."

2. Il "buon" Spencer, peraltro, non fu del tutto originale in questa sua, a sua volta non isolata, come vedremo, "uscita": l'intero movimento avverso all'ancien régime, che notoriamente coincide con l'ascesa al potere della c.d. borghesia mercantile, professionale e capitalista (in senso "fisiocratico"), chiariva fin dai suoi albori, di acquisenda rilevanza politica, la premessa che porta all'affermazione istituzionale compiuta da Spencer.
L'ulteriore presupposto storico-economico, come dovrebbe essere chiaro ai lettori (effettivi) di questo blog, sta nella progressiva e ben nota evoluzione tecnologica (e giuridico-istituzionale) dei processi produttivi e nell'acquisizione della proprietà, intesa come accumulo di terra o "oro", da parte di un crescente numero di soggetti non appartenenti all'aristocrazia.
Alla vigilia della Rivoluzione francese, la coincidenza tra funzione dei parlamenti (composti anche e principalmente da quelli che venivano definiti, su rigorose basi censitarie, come "notabili"), e finalità conservativa del nuovo assetto proprietario era un dato istituzionale scontato: i parlamenti, insediati su basi circoscrizionali (cioè connaturalmente vicini ad un'impostazione federalista in senso territoriale, per quanto omogenei nella rappresentatività dei nuovi ceti produttivi), non erano organi elettivi.
Le famiglie che acquisivano uno status di ricchezza in "terra e oro" compravano i seggi dalla Corona, sempre più bisognosa di entrate che non incidessero sulle tasche dell'aristocrazia e sul precario equilibrio che, - in tempi di guerra permanente (a sua volta legata alle aspirazioni imperialiste, coloniali e mercantiliste del Regno di Francia)-, vigeva tra i grandi feudatari, coinvolti se non altro nei vertici delle gerarchie militari, e il Monarca assoluto (le cui decisioni erano sempre più la mera ratifica dell'azione mercantilista delle classi economicamente dominanti);  comprato il seggio, questo veniva trasmesso agli eredi. 

3. Compito dei parlamenti, in effetti, era la discussione della cause, - instauratesi sempre più tra borghesia in arricchimento e aristocrazia alla disperata ricerca di cavilli nel diritto feudale per riaffermare i propri "diritti divini", rispondenti alla struttura agraria arcaica, retta sulla legittimazione di una difesa militare del territorio infeudato, che si rivelava ormai una ratio normativa sempre più labilmente invocabile davanti  alla trasformazione socio-economica-, nonché registrare gli editti del re: cioè confermare che fossero fonte di legge. 
Ogni tanto, specialmente se la situazione del fisco della corona era in ristrettezze, per lo più per finanziare le guerre che accrescevano il potere economico della borghesia mercantile e, in modo spesso contraddittorio, di quella industriale (le forniture di guerra, erano motivo di veloce quanto spesso instabile arricchimento, specie se la guerra non portava ad acquisizione di terra e oro, cioè degli assets, equivalenti a moneta, che rendevano solvibili le casse del sovrano), i parlamenti creavano delle difficoltà a sanzionare editti e rescritti del monarca
Naturalmente in tema di regime della tassazione: tra aristocratici e ceti borghesi, qualcuno il conto (gold standard) doveva pagarlo. L'opposizione dei parlamenti, in questi casi, era una rivendicazione politica che, quasi sempre, indicava la volontà di far pagare al popolo più minuto, per naturale "competenza", il conto delle imprese militar-imperialiste: cioè far pagare a chi non ne traeva vantaggio, il comune interesse dei detentori della ricchezza; interesse politico per l'aristocrazia (cui appunto era riservata la gloria delle massime cariche militari, legittimanti così la conservazione dei privilegi feudali, in nome del puro sangue, più o meno, versato), ed economico per la borghesia.

4. Quest'ultima (con una tendenza che nella fase di Napoleone III raggiunse l'apice, come attesta il miglior romanzo francese dell'epoca), almeno nei suoi strati marriormente arricchitisi, non mirava a distruggere la nobiltà, quanto piuttosto "a convergere nella sue fila". 
Ed infatti, se la borghesia capitalista mirava al dinamismo sociale, lo faceva ben consapevole che il vero segno del successo è la cristallizzazione delle posizioni acquisite come Legge rispondente al diritto naturale: questo "diritto naturale", prima dell'irrompere delle teorie economiche, svincolate dalla pura dimensione della filosofia etica, aveva una naturale simpatia per la condizione istituzionale dell'aristocrazia, cioè per la legittimazione della trasmissione della ricchezza e per la tutela inderogabile del diritto acquisito per nascita.

Con le "scienze" economiche cambia la fonte della "Ragione", indiscutibile, che legittimava questa aspirazione, ma non il suo scopo finale, che rimase e rimane, inalterato, fino ad oggi: solo che, come abbiamo tante volte evidenziato, alla volontà divina, si sostituisce l'ordine dei mercati, fonte della razionalità che, come tale, non può essere discussa, esattamente con la stessa funzione servente dell'assetto cristallizzato, ridenominato "efficienza allocativa", che aveva a suo tempo svolto la teologia.
Spero di essermi (ri)spiegato bene, perché il punto è cruciale.

5. Questo meccanismo di evoluzione delle classi sociali dominanti, in termini pratici, ci rivela come l'assimilazione della borghesia capitalista all'aristocrazia, - prima meramente imitativa (cioè con l'idea della conservazione formale dell'aristocrazia, acquisendone lo status per via allocativa, cioè potendolo "comprare"), e poi direttamente fondata sulla "scientificità" sociale (divenuta poi asetticamente "matematica": Bazaar ne ha parlato tante volte) -,  è una costante del mondo in cui viviamo da circa 200 anni, che rivela come la rivoluzione borghese sia molto meno innovativa, nella sostanza istituzionale, di quanto non si tenda a credere (almeno avendo riguardo alla visione essenziale fornitaci dalla Storia insegnata nei licei e data per scontata nel discorso mediatico...et pour cause, come sappiamo).

Questa sostanza fenomenologica dell'evoluzione politico-istituzionale, in cui non cambia la regola sostanziale di legittimazione al dominio istituzionale della società, ma cambiano solo i sistemi di accesso, considerati "razionali", all'accumulo di terra e oro, era perfettamente chiaro ai protagonisti dell'affermazione del capitalismo.
Ce ne dà conferma lo stesso Spencer, che da buon anglosassone empirista, (abbiamo già visto questa qualità in Robbins, rispetto ai tormentati teorici mitteleuropei che tanta fortuna hanno avuto nella fase "buia" in cui il capitalismo dovette rendere conto di se stesso alla compresenza fastidiosa del socialismo nelle sue varie proiezioni), ci fornisce questo folgorante aforisma, a suo modo fenomenologico:
"Il diritto divino dei re significa il diritto divino di chiunque riesca ad acquisire il predominio sociale".


Divine right of kings means the divine right of anyone who can get uppermost.
Read more at: http://www.brainyquote.com/quotes/quotes/h/herbertspe165829.html
Divine right of kings means the divine right of anyone who can get uppermost.
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6. Questa proposizione assertiva era comunque di comune condivisione nei parlamenti borghesi dell'ancien régime, e peraltro in piena epoca "illuminista", tanto che nel 1776 (anno particolarmente significativo, in America ma anche in Francia, impegnata com'era, nella sua ormai quasi secolare, e come abbiamo visto costosissima, lotta per il predominio imperialista mondiale con l'Inghilterra), il parlamento di Parigi, elabora un'eloquente "Dichiarazione", generata dalla volontà di resistere all'idea del ministro delle finanze Turgot di provvedere a risanare le disastrate finanze della Corona, abolendo, da un lato, le c.d. corvée, cioè il lavoro obbligatorio, e prestato gratuitamente, dei contadini nell'esecuzione delle principali opere pubbliche, dall'altro finanziando il pagamento degli appalti di lavori che le avrebbero sostituite con una imposta fondiaria, incidente su tutti i proprietari, nobili e borghesi. 
Alla prospettiva di dover sopportare i costi delle politiche che consentivano loro di accumulare ricchezza, sfruttando il sottostante sistema di lavoro sostanzialmente schiavile (basti aggiungere, poi, che le "libere" classi operaie urbanizzate, a loro volta, entravano in agitazione solo di fronte alla costante pressione per la unidirezionale diminuzione dei magri salari: mai per un loro accrescimento).
La nota Dichiarazione recita:
"La prima regola della giustizia è di tutelare per ogni singolo individuo, ciò che gli appartiene. E' una regola fondamentale della legge naturale, dei diritti dell'uomo e del governo civile; una regola che consiste nel salvaguardare non soltanto i diritti della proprietà, ma anche i diritti appartenenti all'individuo e che gli derivano dai privilegi dovuti alla nascita e alla posizione sociale".
7. Questa, tutt'oggi, è la costante posizione di quella oligarchia che si sente di rappresentare ogni possibile "singolo individuo", avendo la tendenza a considerare irrilevante, anzi improponibile, l'appartenenza alla categoria, dei singoli meritevoli di "giustizia" e di "tutela", di chiunque non possa vantare un patrimonio di privilegi dovuti alla nascita e alla posizione sociale.
Lo abbiamo visto in Hayek (qui, p.5), come ciò comporti l'affermazione della eguaglianza formale, che oggi si vorrebbe riaffermare come unica categoria giuridica capace di fondare, nelle stesse costituzioni, i "diritti civili": l'ampiezza della sfera sociale di effettiva titolarità di tali diritti non deve essere un problema di cui le costituzioni si occupino. 
Chi divenga, - in base a leggi naturali e, quindi, razional-scientifiche, (e peraltro anche teologicamente fondabili, volendo essere dei buoni cristiani, al più mossi dalla spontanea adesione allo spirito caritatevole complementare all'efficienza allocativa del mercato) - proprietario-operatore economico, è il vero soggetto dotato di capacità giuridica: per gli altri non c'è spazio, perché non si sono efficientemente guadagnati alcun inammissibile privilegio. 
Parliamo essenzialmente di sanità e previdenza pubbliche, riconoscibili, come ormai afferma la nostra stessa Corte costituzionale, solo subordinatamente alla scarsità di risorse, cioè all'intangibilità dell'accumulo di terra-oro da parte dei poteri economici privati; quando questi reclamano la loro funzione di creditori dello Stato, la loro soddisfazione deve perciò, in omaggio agli impegni presi in sede €uropea, graduare e progressivamente diminuire queste elargizioni che sono sancite in Costituzione, ma pur sempre assoggettate ai limiti sanciti dai trattati internazionali che sono scritti da e "per" gli operatori economici-proprietari, titolari dei diritti civili veramente intangibili.
Così è, se vi pare, oggi, l'operatività dei principi fondamentali della nostra Costituzione.

8. Ovviamente Piketty, e lo precisiamo incidentalmente e a scanso di equivoci, non c'entra quasi nulla con la critica a tale sistema, ormai arrivato a disattivare le Costituzioni democratiche dell'eguaglianza sostanziale e dell'intervento redistributivo ex ante dello Stato: almeno fin quando la sua idea di redistribuzione per via fiscale, cioè di tassazione patrimoniale progressiva effettuata dai singoli Stati - (circa la praticabilità di ciò in modo coordinato a livello mondiale e su basi imponibili realmente individuabili, siamo al più fumoso ed eventuale "wishful thinking" che nasconde la decisa volontà di "intanto facciamolo nei singoli territori statali, poi si vedrà..se si riesce a realizzare la chimerica "trasparenza", mica la regolazione finanziaria sovrana, non sia mai.")-, non implichi la critica della libera circolazione dei capitali e alla reintroduzione del gold standard, attraverso le banche centrali indipendenti e la riadozione, camuffata da moneta unica "per la pace", del gold standard e del liberoscambismo globale.
La sua redistribuzione, tutta a carico delle classi sociali confinate dentro i limiti dei singoli Stati, incapaci, o diremmo "spencerianamente", inadatti a vivere nell'empireo sovranazionale dei mercati, è un inno al ripristino della capacità giuridica hayekiana, limitata a coloro che vedono nello Stato solo un'interferenza alla "libertà", per reclamare l'esenzione da ogni inefficiente vincolo solidaristico, tutto gravante sulle classi che, senza titolo "allocativo" efficiente, hanno accumulato qualcosa in modo diffuso e che, ora, in nome della solidarietà tra poveri e impoveriti, devono pagare il conto degli equilibri intangibili dell'ordine sovranazionale dei mercati e della sfida della competitività.

9. Spencer, a sua volta, (in pieno ottocento e nascente marginalismo neo-classico), afferma, in piena consonanza con la Dichiarazione del parlamento di Parigi del 1776 e, nella effettiva sostanza, con le aspirazioni fiscal-riformatrici di Pikketty:
"Nessuno può essere perfettamente libero finché tutti non siano liberi; nessuno può essere perfettamente "morale" finché non lo siano tutti; nessuno può essere perfettamente felice finchè tutti non siano felici".
Solidarismo democratico panteistico (come quello del figlio dell'amore eterno del primo Verdone)? 
No: se i milionari, come proclama Spencer, insuperato teologo del liberalismo, sono il prodotto dell'evoluzione naturale, e in ciò risiede la giustizia, non ci si pone certo il problema di quanti siano i "tutti": ci si riferisce ovvissimamente ai soli soggetti di pieno diritto (quelli che, secondo Pik(k)etty, avendo in mano il potere di dettare le regole dell'ordine supremo dei mercati internazionali, dovrebbero spontaneamente rinunciare a tale "predominio", ormai equivalente al diritto divino dei monarchi, per assoggettarsi allegramente alla "trasparenza" e pagare super tasse patrimoniali non si sa prelevate da chi, e sulla base di quali processi normativi di...autodistruzione spontanea, ovvero di tacchino, grasso, enorme e divenuto "monarca", che si mette in forno da solo).

10. Di fronte a questa lacunosa costruzione, dove nei secoli si sono assommati enunciati elittici (solo Hayek ha "the guts" di enunciare quali siano veramente i limiti, conservativi ed efficientemente allocativi, della capacità giuridica piena e della effettiva legittima titolarità dei "diritti civili"), e palesi ipocrisie, l'errore di calcolo può, nel lungo periodo, risultare destabilizzante e indurre a diffidare anche delle elezioni che, cosmeticamente, riflettano l'idea di eguaglianza formale controllata.
Di questo ci aveva detto bene Gramsci, qui citato da Arturo: 
"...in quel passo Gramsci discuteva le posizioni della critica fascista al suffragio universale nel regime liberale: secondo Mario da Silva il difetto era che "il numero sia in esso legge suprema", cosicché la "opinione di un qualasiasi imbecille che sappia scrivere (e anche di un analfabeta, in certi paesi) valga, agli effetti di determinare il corso politico dello Stato, esattamente quanto quella di chi allo Stato e alla Nazione dedichi le sue migliori forze" (come l'"eroico" Saviano, per esempio).

Al che Gramsci replicava: "Non è certo vero che il numero sia legge suprema, né che il peso dell'opinione di ogni elettore sia "esattamente" uguale
I numeri, anche in questo caso, sono un semplice valore strumentale, che danno una misura e un rapporto e niente di più. E che cosa si misura? 
Si misura proprio l'efficacia e la capacità di espansione e di persuasione delle opinioni di pochi, delle minoranze attive, delle élites, delle avanguardie ecc. ecc., cioè la loro razionalità o storicità o funzionalità concreta. Ciò vuol dire anche che non è vero che il peso delle opinioni dei singoli sia esattamente uguale"...
"La numerazione dei "voti" è la manifestazione terminale di un lungo processo in cui l'influsso massimo appartiene proprio a quelli che "dedicano allo Stato e alla Nazione le loro migliori forze" (quando lo sono). 
Se questi presunti ottimati, nonostante le forze materiali sterminate che possiedono, non hanno il consenso della maggioranze, saranno da giudicare inetti e non rappresentanti gli'interessi "nazionali", che non possono non essere prevalenti nell'indurre la volontà in un senso piuttosto che nell'altro. 
"Disgraziatamente" ognuno è portato a confondere il proprio particolare con l'intersse nazionale e quindi a trovare orribile ecc. che sia la "legge del numero" a decidere. 
Non si tratta quindi di chi "ha molto" che si sente ridotto al livello di uno qualsiasi, ma proprio di chi "ha molto" che vuole togliere a ogni qualsiasi anche quella frazione infinitesima di potere che questo possiede di decidere sul corso della vita dello Stato."

11. Insomma, quando gli "ottimati", ovvero i "notabili", facitori dell'opinione generale, falliscono nelle loro capacità persuasive, nonostante le "forze materiali sterminate" di cui dispongono, e si accorgono che i conti elettorali non tornano più, - perché anche il più elementare dei conti del singolo appartenente alla massa da manipolare risulta incompatibile con la loro capacità di manipolazione mediatica del consenso-, il regime, cioè l'ordine istituzionale corrente, diventa obsoleto e occorre "riformarlo". 
E se insorgano delle difficoltà nel riformarlo con l'adesione dei sudditi riottosi, e volgarmente attenti alla loro irrazionale ed inefficiente convenienza, allora ogni mezzo, senza alcuna esclusione, è lecito per instaurare la grande riforma
Spencer lo dice molto bene e naturalmente lo riveste dell'etichetta della libertà (e che diamine!):
"Le vecchie forme di governo giungono alfine ad essere così oppressive, che devono essere rovesciate, anche se ciò possa comportare il rischio di instaurare il regno del terrore". 
Di terrore, nelle sue varie proiezioni e manifestazioni, di questi tempi, ne vediamo profuso a piene mani; direi anzi che l'unico limite è quello di evitare l'assuefazione, spostandolo da un argomento nevralgico all'altro.
Ma, mi pare, siamo a buon punto: 'sta democrazia oppressiva deve ormai essere rovesciata
Si tratta in fondo solo dei "costi della politica", parassitismo, corruzione (percepita), caste inefficienti
Aspettatevi dunque il regno del terrore: è per il vostro bene. Mica vorrete essere oppressi e continuare a votare contro i vostri interessi che comunque non potete capire?

23 commenti:

  1. Risposte
    1. Si storpiano i nomi di chi si stima.

      O no?

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    2. Ma guarda tu, me so' sbajato: j'ho dato 'na kappa de troppo.
      La precisione è fondamentale, mannaggia: coreggo.

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  2. Ottimo post, che conferma quello che ormai è un mio convincimento sempre più solido. L'equazione che vede la democrazia discendere dal liberalismo è sempre più sballata, e la democrazia parlamentare è stata accolta dai liberali più come male necessario che come valore in sè.
    Del resto, i liberali non sono mai stati immuni alle sirene dell'autoritarismo. Basta rileggere, al riguardo, il discorso di Salandra alla Scala, nel 1924.

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    1. Salandra, che dopo aver forzato la mano al parlamento (in maggioranza contrario) per l'intervento nella prima guerra mondiale, ed aver contratto un disastroso debito con Gran Bretagna e Stati Uniti per finanziare una guerra da cui non ricevemmo nulla che non avremmo ricevuto anche rimanendo neutrali, fu tra i primi ad appoggiare il governo Mussolini nel 1922, tanto da essere eletto, nelle elezioni basate sulla legge Acerbo, nel "listone fascista".
      Dopo il delitto Matteotti chiese al re di destituire lo stesso Mussolini: com'è noto, il re rispose " «Io sono sordo e cieco. I miei occhi e le mie orecchie sono il Senato e la Camera»
      Ma Salandra, niente affatto disgustato, rimase presidente della giunta del bilancio fino al 1925. Fu poi nominato senatore del Regno d'Italia nel 1928, fino alla morte, nel 1931.

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  3. Sul fatto che le "rivoluzioni liberali" non sono state autentiche rivoluzioni sociali, ci supporta in modo fin troppo radicale Domenico Losurdo che, in polemica con le note e appassionate posizioni di Marx, nota che le "gloriose" rivoluzioni liberali non solo non portano maggiore emancipazione delle classi lavoratrici, ma le fan perdere ancor più delle libertà che avevano.

    Comunque, sono ormai certo che Marx e la tradizione "ortodossa" sono incomprensibili agli storici del pensiero filosofico: o comprendi il senso dell'empirismo anglosassone, oppure rimarrai un pensatore inano politicamente.

    Questo Marx lo aveva capito, i marxisti no.

    Husserl si rifà a Hume: la fenomenologia è una "rifondazione" dell'empirismo.

    Come si è già detto in questi anni, però, la società borghese capitalistica è informata dal liberalismo anglosassone, che, nonostante la sua filosofia morale possa offendere il democratico moderno, risulta senza dubbio più progressiva del "liberalismo storico" del pensiero morale del capitalismo cattolico che, di fatto, nella seconda metà dell'800 ritorna a circolare in particolare tra gli "austriaci".

    Il liberalismo del capitalismo "produttivo" anglosassone aveva prodotto le condizioni della coscienza dell'unità proletaria. In nuce si coltivava dialetticamente il socialismo.

    Nel liberalismo di Menger si ha addirittura in odio l'industrializzazione.

    Lo stesso neoliberismo - nella controrivoluzione marginalista - va a scardinare alcuni capisaldi della teoria economica classica, a partire dalla teoria del valore. Troppo "progressiva"...

    In questo senso trovo che Marx - a dispetto della radicalità di quanto sostenuto da Losurdo - avesse intuito correttamente.

    Gli hegelo-marxiani non comprendono il contributo più importante di Marx: l'aver applicato le categorie della filosofia idealistica della tradizione "continentale"... alle scienze sociali che si occupano direttamente della struttura, e di cui lo sgangherato empirismo inglese ne è naturale sovrastruttura.

    Ora che il neoliberismo ha provveduto a rimuovere le premesse strutturali stesse al socialismo, e i subalterni vengono governati con la shock doctrine e vengono biologicamente degradati per essere funzionali nel totalitarismo della nuova organizzazione sociale, possiamo tirar fuori dai denti una verità che i marxisti non hanno mai capito: introdurre l'apologia di comunismo, significa introdurre l'apologia di democrazia...

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    1. Vero: ma ormai non ci sono più le risorse culturali per capirlo. Per questo, in uno stato di alterazione collettiva, andremo alla tragedia finale (sperando che sia la volta in cui butti in farsa...)

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  4. Perché chi studia non si lascia prendere per il naso?
    “Un breve esame delle origini dei pensiero liberale e democratico … L’uno e l’altro nascono dall’individualismo del secolo XVIII, negazione dell’assolutismo medievale, che lo sviluppo capitalistico, col suo inesauribile bisogno di libertà e d’iniziativa, doveva necessariamente fugare. Ma questo individualismo si atteggia in forme diverse. In Inghilterra, ove la borghesia poté affermarsi solo traverso una dura esperienza storica, conquistando passo a passo i suoi diritti via via che maturavano le sue esigenze nuove, e difendendoli poi contro ogni ritorno offensivo della Corona, doveva affermarsi l’indirizzo empirico, che ebbe in Locke il suo maggior rappresentante, indirizzo che considerava l’individuo coi suoi concreti bisogni, la cui soddisfazione era lo scopo della sua attività. In Francia invece, ove il Terzo Stato s’era ripetutamente legato alle sorti della monarchia e dell’assolutismo e non aveva quindi lottato per crearsi il suo ambiente, s’era venuta formando una situazione affatto diversa: il perdurare cioè della monarchia medievale accanto alle forme capitalistiche che si venivano svolgendo, e che perciò, in un’epoca di relativo sviluppo, si trovavano ancora intralciate da innumeri vincoli e privilegi, vincoli feudali e corporativi, privilegi nobiliari ed ecclesiastici, determinava una contraddizione urtante fra i due mondi, che, agli occhi del pensiero filosofico nutrito di insegnamenti inglesi, doveva apparire come la contraddizione fra l’irrazionale e la ragione. Ed ecco pertanto prevalere le tendenze razionalistiche, che alla società storica sostituiscono il regno della ragione, al bisogno concreto il diritto astratto, e perciò bandiscono la lotta e la concorrenza per assidere tutta l’Umanità sulla base di una felice concordia, quale sola può discendere da una illuminata applicazione delle leggi della Natura.
    Questa differenza fra l’indirizzo empirico e l’indirizzo razionalista sono, fondamentalmente, le differenze fra l’indirizzo liberale e quello democratico, che, seppur reciprocamente si vennero contaminando nel corso del loro sviluppo teorico e pratico, non per questo debbono essere confusi, tanto meno da chi li esamini sotto un punto di vista logico. Infatti il liberalismo, data la sua base empirica, incita l’uomo a lottare per la soddisfazione dei suoi concreti bisogni e a conquistare le condizioni più favorevoli di sviluppo, cioè innalza la dignità dell’individuo spronandolo alla rivendicazione della libertà. Esso è in sostanza una posizione di lotta che risente l’influenza della rivoluzione protestante britannica, quantunque in questo tempo tenda a formarsi una base utilitaria, promessa del suo successivo negarsi in una forma di pseudo-liberalismo, che è la ricerca dell’equilibrio e la reciproca tolleranza intesi come fine. Questo pseudo-liberalismo, che, per voler essere superpartitico, S’È SPOGLIATO DI OGNI LIEVITO RIVOLUZIONARIO, e che, per voler procedere all’equa ripartizione della ragione e del torto fra le parti in contrasto, s’è negato all’azione, conserva tuttavia, pur nella sua adulterazione, i segni della sua nascita, perchè, in fin dei conti, questo equilibrio delle forze presuppone le forze stesse in contrasto, come pure l’esigenza del reciproco rispetto implica la necessità di far rispettare sè stessi, cioè in ultima analisi il culto della personalità e della dignità. (segue)

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  5. Non altrettanto può dirsi invece della dottrina democratica, sbocciata dal terreno razionalistico. Basta studiare il pensiero dell’epoca rivoluzionaria, per scorgervi ovunque la tendenza ad ordinare la società su basi razionali, cioè su leggi astratte ed eterne. Si vede dappertutto LO SFORZO DI SEMPLIFICARE LA COMPLESSA VITA SOCIALE, SFRONDANDOLA DI QUEL CHE PAREVA ACCIDENTALE ED ERA POI IL RISULTATO DI TANTI SECOLI DI STORIA, E POI DI SISTEMATIZZARE I PRINCIPI COSÌ SEMPLIFICATI, PER FARNE UN TUTTO ORGANICO… È la natura che ha fissato le inderogabili leggi della convivenza umana: ora che la ragione le ha scoperte, non rimane che applicarle. Questa fiducia ingenua nell’onnipotenza della ragione noi troviamo nelle lettere di Voltaire che manifesta a D’Alembert la sua esultanza per l’inizio dell’“epoca della ragione”, o nella sicura convinzione dell’illuminista tedesco Joh. Chr. Edelmann, che alle prime parole dell’Evangelo di Giovanni: “Il Verbo era Dio”, sostituisce le altre: “La Ragione era Dio…
    È evidente come a una concezione così semplicistica dovesse riuscire incomprensibile L’INTRICATISSIMO INTRECCIO DEI FATTI SOCIALI E LA COMPLESSITÀ DEL DIVENIRE STORICO. Per Voltaire tutto ciò che non appariva nella nitida chiarezza dei suoi principi, era ambiguità, sciocchezza, pregiudizio. Ma tutti i pregiudizi dovevano venir deposti dinanzi al trionfo della ragione; … sostituirvi i principi semplici e chiari della natura: ecco il compito della ragione illuminata. L’antistoricismo di questa concezione urta talmente la nostra sensibilità storica, che noi stentiamo a credere abbia potuto essere il pensiero trionfante di un’epoca a noi così vicina. EPPURE È COSÌ, E NEMMENO POSSIAMO NOVERARE ECCEZIONI A QUESTO RAZIONALISMO COSÌ ASTRATTO, CHE SAREMMO TENTATI DI CREDERLO PIUTTOSTO LO SMARRIMENTO DELLA RAGIONE…È QUESTO INFATTI IL DIFETTO CAPITALE DELLA FILOSOFIA PRERIVOLUZIONARIA. L’immenso lavoro di quest’epoca poggia tutto su queste basi: liberare la società e la vita da ogni impaccio artificiale e ridurle alle loro espressioni più semplici e naturali, scevre da ogni sovrastruttura e da ogni accidentalità ingombranti: CON CIÒ SI NEGAVA OGNI VALORE ALLE CREAZIONI STORICHE E SI FACEVA DELLA VITA UNA ASTRAZIONE POGGIANTE SU PRINCIPI COSÌ SEMPLICI CHE ERA POSSIBILE PROCEDERE DA ESSI PER VIA DI DEDUZIONI MERAMENTE LOGICHE, QUASI FOSSERO TEOREMI MATEMATICI. E di conseguenza, poiché si trattava di applicare dei principi già bell’e formati, governando secondo le leggi naturali, à quoi bon consentire agli individui di governarsi a loro agio? Forse che nelle scienze esatte è lecito a ciascuno di applicare i principi a suo, arbitrio? “Euclide è un despota”, esclama il fisiocratico Mercier de la Rivière, e credendo possedere una scienza esatta come quella di Euclide, vuol far servire il dispotismo all’esecuzione dei suoi piani, recandosi all’uopo presso Caterina di Russia. A conclusioni analoghe arrivano pressoché tutti i suoi contemporanei: IL PROBLEMA CH’ESSI INTRAVEDONO È UN PROBLEMA DI LEGISLAZIONE; CORREGGERE I VECCHI ORDINAMENTI CHE ERANO OPERA DI ASTUTI BRICCONI, ED APPLICARE INVECE LE LEGGI SCOVERTE DALLA RAGIONE. La legge deve servire precisamente a questo: ad estirpare i pregiudizi e l’ignoranza, frutto del passato, e a far convergere l’interesse di ciascuno coll’interesse di tutti. Questo è l’ideale di Helvetius, che affida all’educazione il miglioramento dell’individuo, alla legislazione quello della società, e sogna una monarchia illuminata che sappia conseguire questo scopo, riformando opportunamente le leggi. (segue)

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  6. “I vizi d’un popolo sono sempre nascosti al fondo della sua legislazione... È dalla riforma delle leggi che bisogna cominciare la riforma dei costumi”. L’ideale dell’epoca è Federico II, il sovrano veramente illuminato, così illuminato da teorizzare lui stesso sui doveri del principe, ch’egli mette al disopra dei suoi diritti, perchè il sovrano è il primo servitore del popolo di cui deve promuovere il bene (Anti-Machiavelli). In questo identificare l’utile di ciascuno con quello di tutti, senza alcuna differenza fra i singoli, e di conseguenza nel concepire il sovrano come rappresentante di tutta la collettività, affidando ad esso il miglioramento delle condizioni sociali, è già in nocciolo tutta la teoria democratica, che si riallaccia all’eudemonismo etico-giuridico, cioè alla ricerca della felicità come fine dello Stato.
    Perchè infatti in questo Stato ove esiste una massa indifferenziata di cittadini tutti eguali, non può esistere né divergenza di interessi né contrasto; il bene di ciascuno si identifica col bene di tutti ed a tutti provvede egualmente e paternamente il sovrano, intento appunto alla ricerca del bonheur commun. Ora è evidente che una siffatta teoria dovesse portare alla conclusione che il diritto e la libertà non si conquistano, ma esistono per legge naturale e lo Stato deve tutelarli, e pertanto smorzasse l’iniziativa individuale, il senso della lotta e il culto della dignità, soffocando la personalità sotto la cappa pesante dello Stato intervenzionista. IN NOME DELL’EGUAGLIANZA VIEN DISTRUTTA LA LIBERTÀ…
    Le differenze qui segnalate da un punto di vista teorico, si rivelano anche ad un sia pur rapido esame storico. Il Bill of Rights inglese (1689) è tutto permeato del carattere empirico del liberalismo britannico: nessuna proclamazione astratta, nessuna affermazione programmatica, ma l’elencazione precisa dei divieti che la borghesia vittoriosa ha imposto alla Corona: affermazione cioè di una parte nella diuturna contesa. Questi diritti borghesi, trasferiti poi nelle Colonie americane, ove, mancando la feudalità, la borghesia doveva necessariamente considerarsi sub specie aeternitatis, vi cominciarono ad assumere quel carattere assoluto ch’ebbero poi in Francia. La Dichiarazione d’Indipendenza del 1776, a differenza della proclamazione del 1774, parla di diritti inalienabili, quali la vita, la libertà e il perseguimento della felicità: principio questo ch’ebbe ulteriore sviluppo nelle Dichiarazioni delle singole Colonie. Quella della Virginia contiene press’a poco le stesse enunciazioni di quella francese dell’89, la quale, come ognun sa, proclama essere “la liberté, la propriété, la sûreté et la résistance à l’oppression” diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo. Cionondimeno il suo contenuto risente ancora dell’influenza inglese e non si lascia peranco soverchiare dal democraticismo, che trionferà invece completamente nella Dichiarazione del ‘93. Questa incomincia coll’assegnare all’associazione umana lo scopo del “bonheur commun” (art.1). (segue)

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  7. “Tra i diritti dell’uomo, scrive il Solari, più non figura la resistenza all’oppressione, non potendosi concepire che lo Stato, emanazione della volontà dei singoli, espressione della ragione universale, potesse essere strumento di oppressione o potesse avere altri scopi che non fossero la felicità e la libertà dei cittadini. Occupa invece il primo posto tra i diritti dell’uomo l’eguaglianza di cui non si fa cenno nella Dichiarazione dell’89, poi vengono la libertà, la sicurezza e da ultimo la proprietà. Coll’elevare l’uguaglianza a diritto naturale dell’uomo, i rivoluzionari del ‘93 ponevano un problema che non poteva risolversi nel secolo XVIII se non coi mezzi suggeriti dal Rousseau, col sacrificio cioè della libertà, colla sottomissione incondizionata dell’individuo e del suo diritto allo Stato. In tal senso vanno intesi i concetti di legge e di libertà nella Dichiarazione del ‘93. La legge infatti non solo vieta ciò che è nocivo alla società, ma ordina ciò che a questa è giusto e utile (art. 4)”. E fra i fini dello Stato sono compresi quelli di “attuare e conservare l’eguaglianza, garantire i diritto al lavoro, alla vita, all’assistenza” che la Dichiarazione del ‘93 riconosce ad ogni cittadino.
    La Dichiarazione del ‘93 rispecchiava dunque veramente le idee del Rousseau, che la Convenzione dovea tradurre in atto, nelle forme dell’assolutismo. Assolutismo che non negava i principi della Rivoluzione, dei quali era anzi uno sviluppo: il punto di partenza era stato, come s’è visto, l’individuo. In quest’epoca infatti si pongono saldamente le basi della costruzione giuridica individualistica: il puro individuo e lo Stato sono i soli termini su cui essa si fonda. TUTTO CIÒ CHE LA SOCIETÀ AVEA CREATO FRA L’UNO E L’ALTRO È SPIETATAMENTE DISTRUTTO; TUTTO CIÒ CHE TENDE A DAR CONCRETEZZA ALLA NOZIONE ASTRATTA DELL’INDIVIDUO E QUINDI A NEGARE L’EGUAGLIANZA, È DECISAMENTE RIFIUTATO. MAI COME IN QUEST’EPOCA SI VIDE UN COSÌ DECISO INSORGERE DI TENDENZE INDIVIDUALISTICHE: LA LEGGE NON RICONOSCE ORMAI NULL’ALTRO CHE LA VANA OMBRA DEL CITTADINO.
    Distrutto così il vecchio mondo, la democrazia apparve il regime più adatto ad assicurare le sorti della trionfante borghesia, che, avendo conquistato il potere ed essendo diventata classe dominante, doveva cercare il suo assetto statico. Assorbito in sè stessa il potere sovrano e annullato di fatto il termine antagonistico, l’antagonismo e la lotta, scomparivano necessariamente. LA DEMOCRAZIA DIVENTAVA DUNQUE UNO STRUMENTO DI CONSERVAZIONE, E A CIÒ SI PRESTAVA TUTTO L’APPARATO IDEOLOGICO CHE AVEVA GENERATO QUESTA FORMA POLITICA, IN QUANTO ESSO SI PRESENTAVA COME RAZIONALE ED ETERNO, CIOÈ NEGATORE DELLA STORIA E CONSEGUENTEMENTE DELLE TRASFORMAZIONI SOCIALI. E IL PATERNALISMO CH’ESSO RACCHIUDEVA (LA RICERCA DEL BONHEUR COMMUN COME FINE DELLO STATO), E CHE DIFATTI ANDÒ SEMPRE PIÙ SVILUPPANDOSI NEI REGIMI DEMOCRATICI, ERA L’ARMA MIGLIORE PER L’ADDOMESTICAMENTO DELLE MASSE… (segue)

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  8. Per più di un secolo la democrazia ha, bene o male, assolto a questo suo compito di conservazione…purtuttavia molto di ciò che ad essa comunemente si attribuisce, è merito invece del liberalismo, e del socialismo che da essa vanno nettamente distinti, PERCHÈ IL PRIMO PUÒ CONSIDERARSI LA TESI ED IL SECONDO LA SINTESI DI UN PROCESSO DIALETTICO DI CUI LA DEMOCRAZIA È L’ANTITESI. Sta di fatto che oggi la democrazia, questa democrazia, è in crisi cogli istituti ch’essa ha prodotto. È in crisi il cittadino, travagliato dal dissidio insanabile, acutamente notato da Marx, fra la sua doppia personalità di cittadino e di membro della società borghese: per vivere, esso deve negarsi come cittadino tout court… È IN CRISI IL PARLAMENTARISMO, CONSACRANTE LA SOVRANITÀ DI UN MITICO CITTADINO-ELETTORE, CHE PIÙ NON RIESCE AD ABBRACCIARE LA COMPLESSA VITA SOCIALE, OGN’OR PIÙ RICCA DI DIFFERENZE E CONTRASTI ED OGN’OR PIÙ RILUTTANTE A LASCIARSI INQUADRARE NELLE FORME DI UN EGALITARISMO QUANTO MAI ASTRATTO. Ma questa crisi non data da oggi, e ai tardi denunziatori di essa non abbiamo che da ricordare la robusta critica di Marx. Egli, opponendo alla vuota proclamazione della Libertà, la dimostrazione che IL PROLETARIO È LIBERO SOLO NELLA PROPRIA CLASSE LOTTANTE PER LA PROPRIA EMANCIPAZIONE, HA DISTRUTTO LE BASI DEL MODERNO ORDINAMENTO GIURIDICO. NEMMENO LO STATO SI SOTTRAE A QUESTA CRITICA POSSENTE: SE LA STORIA È UNA LOTTA DI CLASSI SENZA ENTITÀ TRASCENDENTI, ANCHE LO STATO DEVE APPARIRE UN MOMENTO DIALETTICO DI QUESTA LOTTA
    Là ove economisti e giuristi, studiando l’anatomia e la fisiologia, se così m’è lecito esprimermi, della società, avevano consacrato degli istituti e fissati dei principi e delle leggi che per essi erano di valore eterno. MARX, STUDIANDO DA STORICO LA SOCIETÀ NEL SUO SVILUPPO, VEDE IL NASCIMENTO E ANTICIPA IL TRAMONTO DI QUEGLI ISTITUTI E DI QUELLE LEGGI, NE DENUNCIA INSOMMA LA REALE CADUCITÀ. LÀ OVE ECONOMISTI E GIURISTI AVEVAN VISTO DEI DIFETTI, DEGLI INCONVENIENTI CHE ALLONTANAVANO LA SOCIETÀ DALL’ORDINE NATURALE, MA CHE ESSA AVREBBE ELIMINATO COLL’ACCOSTARVISI E MAGARI COL RAGGIUNGERLO (ECCO CIÒ CHE I DEMOCRATICI INTENDONO PER EVOLUZIONE), MARX VEDE L’ANTITESI DEL PROCESSO DIALETTICO DELLA SOCIETÀ, VEDE DEI MALI CHE PREPARANO LA SUA MORTE…La storia sinora gli ha dato ragione. La società democratica, auspicata come il trionfo della concordia universale, non fu mai di questa Terra; il fantastico cittadino dovette cederla dinanzi al membro della società borghese. Il riconoscimento del diritto di coalizione e di sciopero segnava infatti una sconfitta del cittadino e una sconfitta dei principi generali del diritto individualista borghese. E così vennero i Sindacati, com’eran già venuti i Partiti. Orazio Walpole ha descritto la meraviglia e lo sdegno delle classi dominanti quando si ebbero le prime riunioni di società costituzionali che si arrogavano il diritto di discutere gli argomenti spettanti alla Camera. Era quella la prima origine dei partiti, il cui successivo estendersi, come conseguenza inevitabile della società capitalistica, fu la negazione aperta dell’individualismo atomistico ed egalitario. Il quale ogni giorno piega sotto l’incalzare del progresso sociale. Gli istituti che si vengono escogitando, quale ad esempio il riconoscimento dei Sindacati e il loro inquadramento nello Stato borghese, non possono impedire che la lotta si faccia più serrata. (segue)

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  9. Le stesse riforme democratiche, che parrebbero dover avvicinare questo ideale alla sua attuazione, si convertono subito in strumenti di lotta. Così il suffragio universale, completando l’emancipazione politica del lavoratore, rivela l’insanabile contrasto fra questa emancipazione e quella reale, il contrasto cioè che inficia dalle fondamenta la costituzione borghese, e alimenta lo spirito rivoluzionario. Così la proporzionale e le Commissioni permanenti, che furono salutate come la quintessenza della ragione democratica, trasferiscono il centro della vita politica dal Parlamento al Paese, cioè distruggono il totalitarismo indifferenziato e danno una definitiva sanzione alla lotta e al contrasto. La democrazia si nega nel suo volersi realizzare; il parlamentarismo muore Questa è la vera crisi della democrazia…” [L. BASSO, La crisi della democrazia, in La Rivoluzione liberale, 20 settembre 1925, n. 33, 133-134].
    Siamo incastrati in una forma di democrazia borghese (sedativa e funzionale alla classe dominante) e che, per come analizzata da Basso, per tale ragione non poteva che avere al suo interno i prodromi della sua dissoluzione. In una democrazia formalistica e borghese, il voto (anche come suffragio universale) in fondo non è che un orpello cosmetico: se la massa oppressa vota, ma abbandona la lotta di classe (vero strumento di emancipazione), il voto fondamentalmente non ha alcun senso. Lo si elimini pure. Non credo, allo stadio attuale, che il cittadino avrebbe granché da obiettare. Come dice Bazaar, le élites hanno studiato Marx, non c’è che dire. Questa democrazia formalistica è, come bene afferma Basso, solo l’antitesi del liberalismo, ma giammai la sintesi di un percorso dialettico; in ogni caso non quella sintesi (=democrazia sostanziale) delineata per la prima volta dalla grandiosa Costituzione repubblicana (per questo opportunamente disinnescata sin dalla nascita). Nessuna libertà, dunque, di cui denunciare l’eventuale violazione, dal momento che le libertà finora concesse sono vuote riduzioni nominalistiche ed illusorie. Perché? (segue)

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  10. “…Marx aveva infatti visto assai bene come la libertà avesse le sue radici nell’umana coscienza e non negli astratti principi, fosse interiore e non esterna all’uomo. EGLI DICE CHE NON HA IL DIRITTO DI DIFENDERE LA LIBERTÀ CHI NON LA SENTE COME UN BISOGNO DELL’ANIMO, senza di cui la sua esistenza non sarebbe compiuta, COME UN INSOPPRIMIBILE ESIGENZA SPIRITUALE. Ma questa premessa idealistica, che pure è la chiave di volta per intendere tutto il pensiero di Marx, non può essere accolta dai positivisti che si richiamano all’89. Essi ricercano le fonti della libertà nei principi, da cui deducono con un procedimento meramente cerebrale le libertà individuali e le libertà sociali, e cioè fra le prime la libertà personale, l’inviolabilità del domicilio, ecc., fra le seconde la libertà di riunione e quella d’associazione. È evidente che un tale punto di vista è antitetico a quello del Marx: QUANDO SI È AFFERMATA LA LIBERTÀ COME ESIGENZA SPIRITUALE, NON SI PUÒ POI CREARE TANTE LIBERTÀ SE NON A PATTO DI SEZIONARE E UCCIDERE LO SPIRITO, O, CHE È LO STESSO, LA LIBERTÀ MEDESIMA. Questo aveva chiaramente visto Marx, quando scriveva: “NON AMIAMO IN GENERALE ‘LA LIBERTÀ’ CHE VUOL VALERE SOLO AL PLURALE”. EGLI AMMETTEVA CHE SI POTESSE PARLARE DI LIBERTÀ DI STAMPA O DI LIBERTÀ DI RIUNIONE, TUTT’AL PIÙ COME DI SEMPLICI FORME TRAVERSO CUI LA LIBERTÀ UMANA SI REALIZZA, MA AFFERMAVA SOPRATTUTTO LA COSCIENZA DELLA LIBERTÀ COME L’ESSENZA STESSA DELL’UOMO…libertà vuol dire coscienza della libertà, vuol dire amore della libertà (la libertà bisogna averla amata per poterla difendere, diceva Marx), e quel che manca in Italia è appunto questo amore alla libertà. AMORE ALLA LIBERTÀ CHE NON PUÒ NASCERE SE NON DA UNA SALDA EDUCAZIONE SPIRITUALE, DA UN SENSO DELLA DIGNITÀ UMANA CHE SOLO LA PIÙ INTRANSIGENTE LOTTA DI CLASSE PUÒ DARE AL PROLETARIATO. Per questo occorre abituarlo al vivo senso del contrasto, all’esasperazione delle antinomie, alla drammaticità della vita….” [L. BASSO, Le fonti della libertà, in La rivoluzione liberale, 17 maggio 1925, n. 20, 81-82]

    E poi dicono, caro Bazaar, che i marxisti sono materialisti...

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    1. "Forse che nelle scienze esatte è lecito a ciascuno di applicare i principi a suo, arbitrio?"

      Eccolo il fenomenologo...

      "libertà vuol dire coscienza della libertà"

      Non c'è peggior schiavo di chi si crede libero...

      La coscienza come fondamento "apriorico" di qualsiasi agire: individuale e politico.

      Ne discutevamo giustappunto nel post precedente.

      Basso ovviamente è un campione non rappresentativo del suo tempo: la profondità - e la "concretezza"!, caro il nostro Bobbio - delle sue riflessioni sono un unicum: era un "ragazzino" quando scriveva queste cose! e mezzo secolo prima della Arendt aveva inquadrato già correttamente il problema del "totalitarismo" (di cui coniò il termine), ricercando la sua caratteristica fondamentale nell'uguaglianza formale razionalistico-liberale. Da cui l'esigenza della "degradazione biologica".

      Problema su cui la "liberale" Arendt ha contribuito a generar confusione: l'Uomo - inteso come Idea, Identità archetipica, essenza - esiste, eccome.

      Tutti gli individui sono uguali nella sostanza, non sicuramente nella "forma"! Facendo ridere dei polletti come Pareto.

      Questa inversione ontologica dei valori è il cancro coscienziale dell'umanità.

      E l'uguaglianza sostanziale politica si ottiene proprio favorendo che ogni individuo possa svilupparsi in tutte le sue potenzialità e nelle sue diversità così come Madre natura ha "energeticamente" concesso.

      Non è vero che esistono solo le persone nella loro individualità: esistono le persone nella loro individualità E l'umanità, l'Uomo, che non è la somma delle singole individualità. Né nel presente, né nella Storia.

      E' anche vero, però, che la coscienza è energia...

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    2. Poi, caro Francesco, fai batter la lingua dove il dente duole: "materialismo e marxismo" è una nota tragica.

      Ci pensavo proprio leggendo il post di Quarantotto.

      Se Preve dice una sacrosanta verità che Marx è un'idealista, nonostante la sua famosa critica, rimanendo effettivamente pecora nera nel gregge del ridicolo marxismo del secondo dopo guerra, non possiamo dire che non sia "parte" del gregge.

      Ascoltavo Vattimo presentare il libro di Fusaro proponendo queste fesserie.

      Se noti, l'idealismo di Basso emerge con la sua consueta tensione morale dopo pagine di "materialismo dialettico".

      Noi, che abbiamo dalla nostra parte anche Keynes e post-keynesiani, proponendo l'analisi economica istituzionalista dei fenomeni storici, arriviamo a considerare il materialismo dialettico ancora ad un metalivello ancora troppo astratto per il concreto tempo dell'arbitrio individuale e politico.

      Con Keynes e Kalecki, risolti i problemi "positivi" lasciati in gran parte aperti da Marx, arriviamo al medesimo grado di materialismo proprio dell'empirismo senza tutte quelle conseguenze di ordine morale e spirituale che trovano la sua massima rappresentanza nel positivismo scientista: il relativismo assoluto e il suo complementare nichilismo anti-umano.

      (No, caro Nietzsche, manco tu ce l'hai fatta, dato che il tuo esistenzialismo è una forma estrema di psicologismo: sempre nel positivismo piccolo-borghese sei rimasto...)


      Ora, checcazzo c'entri l'ateismo di Marx con il materialismo storico - e non un generico materialismo - me lo devono spiegare tutti 'sti benedetti marxisti dei salotti buoni.

      E non mi si risponda che si contrapponeva alla fenomenologia dello Spirito hegeliana come essenza della filosofia della Storia.

      A leggere i fenomenologi, non c'è Spirito senza Essere e viceversa.

      E la Storia - come ci ricorda Arturo - si presenta in concrete manifestazioni ontiche. Che, guarda un po', oltre ad essere qualificabili, sono quantificabili.

      Evviva la fenomenologia, evviva l'empirismo... evviva l'econometria! :-)


      (Che poi, la dialettica qualità-quantità, l'ha spiegata tanto bene Engels!)

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    3. La tua analisi e' perfetta, Bazaar. L'ateismo di Marx infatti non c'entra nulla con il materialismo storico. Se dopo quasi due secoli ancora i marxisti dei salotti non vogliono leggere veramente Marx, non puo' piu' parlarsi di semplice ignoranza. Non c'e' giustificazione, ma solo falsa coscienza, la stessa che tiene in piedi il sistema schizofrenico neoliberista e che permette la sospensione illecita e diuturna della Costituzione. Viviamo in un sistema letteralmente illegale, anche se la gente non lo crede. Il discorso di Marx (idealista hegeliano) e' cristallino cosi' come il valore morale del suo socialismo che Basso, non a caso, avvertiva che giammai poteva essere fondato sul razionalismo kantiano (ne' tantomeno sulla morale dell'imperativo categorico, astratto ed astorico). Se non si capisce (o non si vuol capire) che e' la societa' a reggere lo Stato e non viceversa, si continuera' nella solita pantomima dell'uguaglianza formale (almeno ancora per poco). Che vuoi che ti dica, Bazaar, di fronte a tanta pervicace, ottusa idiozia credo ci sia poco da fare. La massa e' ormai assuefatta ed io, quando sento parlare di liberta' e di democrazia come si puo' fare al bar dello sport, non ti nascondo che a volte rischio di diventare un po' intollerante

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    4. Quanto a Vattimo, fa a modo suo il paio con il nuovo realismo rigorosamente adattivo del torinese Ferraris (e la morale e' quella provvisoria di Cartesio). Chissa' cosa direbbe oggi Gramsci che da quelle parti si prendeva cura degli operai in fabbrica ascoltando, le loro miserie per la liberazione delle quali ha combattuto tutta la vita

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  11. Grazie per il (drammaticamente) bellissimo post. Più che tenere gli occhi ben aperti, e cercare di farli aprire alle persone con cui entro in contatto (percorso mai banale, anzi, da pendere con estrema delicatezza e particolarmente impervio, in quest'epoca di anestesia di massa) non so che fare. Ringrazio per l'esistenza di 'luoghi' come questo e Goofynomics che rendono la sensibilizzazione meno utopistica. Anzi, aumenta il numero di coloro che, specie a distanza di tempo, mi ringraziano per aver semplicemente condiviso un link, ringraziamenti che ovviamente non merito e che giro volentieri ai titolari effettivi, che siete Lei e il Prof. Bagnai, ma anche agli utenti che spesso aggiungono contributi preziosi nei commenti.

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  12. grazie per il post, soprattutto nella parte in cui pone in luce come l'assetto politico - istituzionale riflette i rapporti sociali dominanti. adesso la domanda e' quando le classi dominanti nel nostro paese inizieranno a capie che l'europa non fa il loro interesse contro il proletariato, ma quello di un capitalismo internazionale diffuso ben piu' forte di loro stessi e dei temuti marxisti? o non sara' che l'attacco alle democrazie nazionali (vilmente avallato da interpretazioni 'evolutive' delle carte costituzionali da parte di corti tutte poco propensi a prendere sul serio le loro funzioni e la loro 'legge') si stia ripetendo anche a livello sopranazionale con la introduzione dei nuovi tribunali arbitrali made in world bank? parliamo molto e giustamente di ttip ma un esperimento in fieri e' gia' nella carta europea della energia, un trattato multilaterale di tutela degli investimenti in cui la ue e' parte insieme ai suoi stati membri e paesi terzi, trattato in cui tutte le parti si compromettono a sottoporre controversie in tema per esempio di aiuti di syato o mancate liberalizzazioni alla giurisdizione esclusiva di arbitrati icsid. occorrera l'agressione del capitalismo atlantico a far ragionare quello europeo? o e' che quello italiano e' in definitiva irrimediabilmente d scemo? visto gli esiti delle due guerre mondiali temo di sapere la risposta, ma avremo fortuna lo stesso: come ha dimosyrato la brexit di fronte al principio fattiale di sovranita le astratte costruzioni di vincoli irriompibili o supposte pei pe primazie di trattati ratificati per legge ordinaria e' destinata a sgonfiatrsi sui sui propri incodistenti postulati. chi vivra vedra :)

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    1. Ma la Corte GUE è già in sè un tribunale arbitrale che applica diritto internazionale privatizzato in modo unilateralmente contrario agli Stati....

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    2. certo presidente ma infatti l'aspetto piu' ironico della questione e' che nonostante la propria natura, funzioni ed origine... la cgue si crede un giudice interno, incaricato di interpretare e far applicare un ordinamento talmente integrato con quello degli stati membri da essere inscindibile da esso. persino l'adesione alla convenzione europea imposta al futuro imperativo dall'art 6 tue e' stata impedita per ben due volte da pareri consultivi della propria corte per la cristallina ragione di non vedersi imporre una sorta di giudizio di appello sulla propria giurisprudenza in tema di rispetto dei diritti umani. ora con il discorso sugli investimenti si trovano nella medesima posizione, ma stavolta non parlano... ne' vengono interpellati a farlo. si credevano padroni e si scoprono cadetti

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    3. Concordo: con la precisazione che la CGUE "si crede" giudice interno perché ESSI (semplificando: l'ordine internazionale dei mercati), lo fanno a credere pure a loro, oltre che a tutti gli altri. I poveri (si fa per dire) giudici €uropei sono solo parte della massa critica dei semicolti che credono fideisticamente (ma confusamente, come s'è visto in precedenti post) nel monetarismo e nel neo-liberismo salvifico

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