venerdì 16 dicembre 2016

LA MITOLOGIA DELLA PUREZZA ORIGINALE: LA RIVINCITA ANTILABURISTA TRA KALERGY, LIPPMANN E SPAAK- 2

http://image.slidesharecdn.com/paulhenrispaak-130407064704-phpapp01/95/paul-henri-spaak-8-638.jpg?cb=1365317267
(notare che nella medaglia commemorativa, sull'obverse side, nessuno ha proposto di inserire Spinelli)

Questa è la seconda parte del lavoro di Arturo sulla genesi dell'€uropa federalista. Un caso, se vogliamo unico, di coerenza e visibilità dei suoi scopi effettivi. Il "pieno impiego" e la "giustizia sociale" sono sempre, e senza alcuna esitazione, stati concepiti come obiettivi irrilevanti e sacrificabili a un futuro meraviglioso che non arriverà mai. Fino all'inevitabile catastrofe: come predissero i laburisti inglesi (quando esistevano ancora).

SECONDA PARTE
3. Ecco quindi, a guerra conclusa, puntualmente rispuntare Kalergi, pronto ad approfittare del nuovo propizio contesto per riprendere il filo interrotto: era negli Usa dal ’43 a cercare appoggi per il suo progetto di unificazione europea (Aldrich, OSS, CIA and European Unity: The American Committee on United Europe, 1948-60, Diplomacy and Statecraft, vol 8, n. 1, March 1997, pagg. 189 e ss.), ospitando “bei nomi”, quali Charles Rist, Jacques Rueff (futuro giudice europeo) e il nostro amico Röpke nella commissione monetaria della sua Paneuropa (Denord, Schwartz, L’Europe social cit., pag. 54). 
E infatti fonda quella che sarebbe diventata la principale organizzazione americana di “sostegno” al federalismo, ossia l’ACUE (American Committee on United Europe).

I sogni di gloria del povero Kalergi sarebbero, ahilui, durati poco: considerato dagli americani “a rather prickly and awkward character” (Aldrich, op. cit., pag. 190), e quindi non finanziato a vantaggio di altri gruppi federalisti, fu pure escluso, insieme ai suoi, dall’ACUE che, come ebbe a esprimersi uno dei suoi più autorevoli membri, Allen Dulles, doveva restare “wholly American” (in A. Cohen, "Constitutionalism Without Constitution: Transational Elites Between Political Mobilization and Legal Expertise in the Making of a Constitution for Europe" (1940s-1960s), Law & Social Inquiry, Vol. 32, Issue 1, Wiinter 2007, pag. 116).

3.1. Il principale beneficiario degli aiuti americani fu quindi il Movimento Europeo, fondato su iniziativa di Duncan Sandys, genero di Churchill, e Jozéf Retinger, futuro fondatore pure del Gruppo Bilderberg.

Se il Movimento poteva contare su nomi prestigiosi - questi i cinque presidenti onorari: Winston Churchill, Léon Blum, Adenauer, Paul-Henri Spaak e De Gasperi-, i fondi però scarseggiavano: 
Verrà qui sostenuto che il versamento discreto di più di tre milioni di dollari fra il 1949 e il 1960, per lo più da fonti del governo americano, fu centrale nello sforzo di sollecitare supporto di massa per il Piano Schuman, la Comunità Europea di Difesa e una Assemblea Europea con poteri sovrani. Questi contributi segreti non costituirono mai meno della metà del budget del Movimento e, dopo il 1952, probabilmente i due terzi. Contemporaneamente, si impegnò a minare la dura resistenza del governo laburista britannico alle idee federaliste” (Aldrich, op. cit., pag. 185).

I risultati in termini di coinvolgimento dell’opinione pubblica furono però assai modesti, anche dopo la nomina a presidente di “Mister Europe”, vale a dire Paul-Henri Spaak un’area di libero scambio con una moneta unica e libero movimento di lavoratori” (Ibid., pag. 198). 
Questo con buona pace dei teorici dello “sviamento”.

3.2. Spaak è però una figura talmente rappresentativa dei curricula dei “padri nobili” che merita dirne ancora due parole.
Nonostante l’etichetta di “socialista” “Spaak aveva abbandonato le convinzioni che potevano inquietare l’establishment, prima di diventarne una colonna. Nominato primo ministro nel 1938, era stato sostenitore di una politica di appeasement e conciliazione con le potenze fasciste. Dopo la guerra, si trasforma in apostolo della costruzione europea e delle difesa dell’Occidente. Un antibolscevismo ossessivo lo induce a indicare alla pubblica collera l’insieme dei comunisti occidentali, accusati di “indebolire gli Stati in cui vivono” e di agire come “una quinta colonna a confronto della quale la quinta colonna hitleriana non era che un’organizzazione di boy scout”. (Denord, Schwarz, op. ult. cit., pag. 25). 
Il coronamento della carriera atlantista di Spaak arriverà nel ’57, con la nomina a segretario della NATO, naturalmente dopo aver partecipato alle negoziazioni del Trattato di Roma.

4. Sulla questione dell’anticomunismo bisogna però fare un poco di chiarezza: da parte dei circoli europeisti neoliberali l’ostilità non era certo confinata al bolscevismo: il bersaglio era *ogni forma* di politica economica alternativa al neoliberismo stesso, in primis il laburismo inglese, considerate tutte quali “strade” verso il totalitarismo.

4.1. Ci si dimentica spesso in effetti che il bersaglio polemico concreto di The Road to Serfdom di Hayek è il laburismo britannico.

Sulla stessa linea il buon Spinelli, che nel suo Politica marxista e politica federalista (1942-43 ora in A. Spinelli, E. Rossi, Il Manifesto di Ventotene, RCS Quotidiani su licenza Mondadori, Milano, 2010, pp. 73 e ss.), così si esprimeva: 
L’ostinazione con cui i socialisti si attengono all’ideale collettivista, è l’espressione dell’inconscia dipendenza delle forze progressiste dall’idolo nazionale e militarista. Anche le forze che credono di combatterlo, in realtà lavorano per lui.” (pag. 106); 
e, poi, a pag. 112: “Passando dal campo degli interessi economici a quello delle tendenze politiche, scorgiamo che le tendenze socialiste democratiche sono molto sensibili ad impostazioni di carattere antimilitarista, internazionalista e popolare, e potranno quindi fornire molte forze all’opera federalista. Ma tendono anche a deviare da questa direttiva, se si presenta loro la possibilità, magari illusoria, di realizzazioni più immediate, socialiste o democratiche su ridotta (ed avvelenata) scala nazionale.” 

La prima citazione ha una nota, la numero 11 (pag. 121), presso la quale leggiamo: 
L’esempio del socialismo inglese è caratteristico. L’Inghilterra, paese poco militarista, è stata sempre un campo poco fruttuoso per le idee marxiste, quantunque abbia eseguito molte singole collettivazioni. [sic] Ma l’ideale della statizzazione vi ha preso piede parallelamente al crescere delle esigenze militariste. Oggi che il conflitto le impone un collettivismo di guerra, i laburisti, pur invocando per l’indomani una federazione di popoli, dichiarano che intendono mantenere e sviluppare l’economia pianificata. 
Se faranno ciò, faranno senz’altro fallire la federazione, poiché la loro economia pianificata non potrà che essere inglese, autarchica, sezionale, nazionalista. Si potrà far aderire l’Inghilterra alla federazione pur nazionalizzando molte sue imprese. Non c’è contraddizione insuperabile. Ma non si potrà fare una federazione vitale ed una economia nazionale pianificata”.

Sia chiaro che qui per “economia nazionale pianificata” ci si riferisce non al bolscevismo, ma al piano Beveridge, a cui proprio in quegli anni Caffè tributava il proprio apprezzamento su Cronache Sociali e Giorgio La Pira, con la collaborazione dello stesso Caffè, avrebbe indicato come via per soddisfare l’“attesa della povera gente".
Più in generale, parliamo di uno dei modelli fondamentali di riferimento per i costituenti (punto 9).

Medesimo refrain presso un altro architetto neoliberale, Walter Lippman (punto 6), che così scriveva sulla Gazzetta di Losanna (9 settembre 1948): 
Non bisogna cullarsi nell’illusione: l’unione politica delle nazioni libere d’Europa è incompatibile con il socialismo di Stato di tipo britannico”. (Denord, Schwarz, op. ult. cit., pag. 20).

4.2. Non è che gli stessi laburisti fossero ignari della minaccia rappresentata dall’europeismo neoliberale. Eloquente a questo proposito risulta il manifesto del comitato esecutivo del Partito Laburista del maggio 1950 sulla questione dell’unità europea.

Il documento conserva spunti di grande attualità, e meriterebbe pertanto lettura integrale; qui ve ne traduco alcuni dei passaggi più significativi, che dimostrano, tra l’altro, l’assoluta malafede di un attacco al laburismo in nome dell’anticomunismo:
L’atteggiamento del Partito Laburista verso i problemi dell’unità europea, come verso ogni altro problema di politica interna o internazionale, è determinato dai principi del socialismo democratico e dagli interessi del popolo inglese come membro del Commonwealth e della comunità mondiale.

I principi del socialismo democratico
I socialisti credono che un’economica capitalista non controllata possa funzionare solo al costo di conflitti fra nazioni e classi che possono risultare fatali per la civiltà nell’epoca atomica. […] Giustizia sociale, pieno impiego e stabilità economica dovrebbero essere fra gli obiettivi di ogni governo democratico. Non possono essere mantenuti in un’economia deregolata [free market economy] senza deliberati interventi pubblici per correggere le tendenze dannose e stimolare quelle benefiche. Senza questi interventi, gli aggiustamenti avvengono a spese dei lavoratori e si crea una frattura sociale suscettibile di distruggere la democrazia.

Il disastro economico e la guerra hanno sempre punito l’incapacità di conseguire questi obiettivi. In questo momento tale incapacità risulta doppiamente pericolosa. Una gran parte del mondo è controllata da uomini che hanno rifiutato la libertà come principio del progresso umano. 
Essi affermano che la giustizia sociale, il pieno impiego e la stabilità economica possono essere conseguiti solo al prezzo di una rigida tirannia sui corpi e le menti degli individui. Ovunque la democrazia non sia riuscita a soddisfare questi bisogni, la dottrina comunista ha trovato terreno fertile. Questa dottrina è oggi un’arma fondamentale nella politica espansionista dello Stato Sovietico. Quindi l’imperialismo russo minaccia il mondo libero sia con le armi che con la penetrazione ideologica.
Il socialismo è quindi un elemento fondamentale nella lotta della democrazia contro il totalitarismo. Il Partito Laburista non potrebbe mai accettare nessun impegno che limiti la propria o l’altrui libertà di realizzare il socialismo democratico e di applicare i controlli economici necessari per conseguirlo.”

Aperta parentesi: in effetti combattere il comunismo a colpi di liberismo (cioè di disoccupazione) non sembra proprio un’idea geniale
Difficilmente può essere considerata casuale la relativa modestia, almeno in termini quantitativi, nell’avanzamento del processo di unificazione europeo a comunismo esistente, e la sua accelerazione galoppante a comunismo defunto. Chiusa parentesi.

Benché l’interdipendenza politica imponga la cooperazione, non ci si può aspettare che tale cooperazione produca ulteriori vantaggi all’Europa nel suo insieme. 
Le economie nazionali dell’Europa occidentale sono parallele e competitive più che complementari: gran parte della possibile specializzazione ha già avuto luogo. 
 […]
 Alcuni ritengono che la richiesta unità d’azione non possa essere ottenuto attraverso la cooperazione fra Stati sovrani, dev’essere imposta da un apparato sopranazionale con poteri esecutivi. Ritengono che i paesi europei debbano formare un’unione sia nella sfera politica che economica cedendo intere aree di intervento pubblico a un’autorità sopranazionale.
[…]
I popoli europei non vogliono un’autorità sopranazionale che imponga accordi. Hanno bisogno di un sistema di attuazione di accordi che sono stati raggiunti senza imposizioni.

Un’unione economica o politica?
Possono essere concepiti diversi tipi di unione. Di recente c’è stato grande entusiasmo per un’unione economica volta a rimuovere tutti gli ostacoli interni al commercio, come i dazi doganali, i controlli dei cambi e le quote. 
Molti sostenitori di questa politica ritengono che il libero gioco delle forze economiche all’interno del mercato continentale così creato produca una migliore distribuzione della forza lavoro e delle risorse. Il Partito Laburista rifiuta recisamente questa teoria. Le forze economiche di per sé possono operare solo al prezzo di instabilità economica e tensioni politiche che aprirebbero la strada dell’Europa al comunismo.

L’improvvisa rimozione delle barriere interne al commercio condurrebbe a significativi squilibri, disoccupazione e perdita di produzione. Produrrebbe anche reazioni sociali molto pericolose. Interi rami e distretti industriali fallirebbero e sparirebbero. L’Europa non è abbastanza forte per sopportare una simile terapia shock, anche se fosse possibile dimostrare che alla fine potrebbe risultare benefica, il che è altamente discutibile.
[…]
I socialisti darebbero ovviamente il benvenuto a un’unione economica europea che fosse basata sulla pianificazione internazionale per il pieno impiego e la stabilità: ma la pianificazione internazionale può operare solo sulla base di quella nazionale e molti governi europei non hanno ancora dato prova della volontà o della capacità di pianificare le loro economie. […]

Il fatto è che un’unione economica richiederebbe un grado di uniformità nelle politiche interne dei paesi membri che al momento non esiste e che è improbabile esista nel futuro prossimo.  
[…]
Una completa unione economica dell’Europa occidentale dev’essere quindi esclusa, dal momento che richiederebbe un impossibile grado di uniformità nelle politiche interne degli Stati membri. 
Se essa fosse basata sul “laissez-faire” non solo impedirebbe di risolvere il problema della scarsità di dollari ma causerebbe anche pericolosissimi turbamenti sociali. Se una completa unione economica è impossibile, una completa unione politica è di conseguenza esclusa.”

4.2.1. Per apprezzare la linearità del ragionamento, si legga la contrapposta miope, o truffaldina (certo finanziata dalla CIA), posizione avanzata dai “socialisti” europeisti: 
In risposta agli argomenti dei laburisti inglesi, l’economista André Philip, delegato generale del Movimento Europeo incaricato della propaganda, denuncia il loro “isolazionismo nazionalista”, sostenendo che se la Gran Bretagna volesse veramente unirsi all’Europa, “si accontenterebbe di chiedere che fosse democratica”. 
Per lui come per certe frange del socialismo parlamentare, la causa socialista si trova posta in secondo piano […]: prima l’Europa, poi il socialismo. “Non siamo d’accordo su tutti i punti” spiega André Philip, “ma io, socialista, preferirei un’Europa liberale che nessuna Europa, e penso che i miei amici liberali preferirebbero un’Europa socialista a nessuna Europa”. Questa reciprocità i suoi “amici liberali” non gliela resero mai.” (Denord, Schwarz, op. ult. cit., pagg. 21-22).

4.2.2. Naturalmente più si esaltano i presunti pregi del fine, o si enfatizzano le minacce di un suo abbandono o anche solo di una sua riconsiderazione - per esempio sostenendo che l’unificazione europea sarebbe l’unico antidoto alla guerra - più il ragionamento si presta a rilanci verso il basso: “prima l’Europa, poi la democrazia (formale)”, tanto per dire. 
Il concetto di “deficit democratico” costituisce in effetti una eufemistica razionalizzazione di questo esito nefasto. 
Ma che cosa impedisce ulteriori rilanci? Qual è il limite? (Chiaramente il riferimento alla Costituzione ha, fra i molti, il pregio di fornire una risposta chiara e sicura a questa domanda).

4.2.bis. Un momento, però: l’accusa di assolutizzare i fini e separarli dai mezzi non è stata ripetutamente rivolta ai comunisti dai tanti maestri di prudenza e realismo liberali
In effetti, secondo Isaiah Berlin: “schiacciare gli individui in nome di una “vaga felicità futura che non può essere garantita, riguardo alla quale non sappiamo niente, che è semplicemente il prodotto di un qualche enorme costrutto metafisico” costituiva “prova sia di cecità, perché il futuro è incerto” sia “di malvagità perché calpesta i soli valori morali che conosciamo”. 
In effetti “uno dei più gravi peccati che l’essere umano possa commettere è tentare di trasferire la responsabilità morale dalle proprie spalle a quelle di un imprevedibile ordine futuro”; tale subordinazione dei problemi odierni alle attese future era “una fatale dottrina diretta contro la vita umana”.” (J. Cherniss, A Mind and Its Time: The Development of Isaiah Berlin’s Political Thought, Oxford U. P., Oxford, 2013, pag. 121).

D’altra parte, se anche bonus Homerus quandoque dormitat, figuriamoci se pure il saggio realismo liberale non si farà qualche pisolino ogni tanto…

4.2.ter. Quel che mi pare vada ancora osservato è che tale separazione di mezzi e fini, ossia l’accettazione di un presente inaccettabile in nome di un meraviglioso ma molto teorico futuro, è ciò che i sostenitori della “deviazione” non fanno altro che riproporci oggi, con minime variazioni: è vero, ci dicono, l’UE e l’euro così come sono non vanno, ma continuiamo a tollerarne i difetti finché non siano attuabili le (di nuovo) molto teoriche correzioni, che ci schiuderanno il futuro radioso che l’Europa ha sempre avuto in serbo per noi o almeno ci eviteranno la catastrofe apocalittica che ci colpirebbe qualora volessimo intraprendere altre strade.

Quanto sia politicamente sensato e plausibile questo modo di ragionare, abbiamo ormai decenni alle spalle per valutarlo; sia chiaro però che applicarlo al piano costituzionale significa abolire il concetto stesso di costituzione rigida, che vieta questo genere di “lungimiranti” manifestazioni del “primato della politica”.

4.2.ter.1. Torniamo ai laburisti inglesi.
 […]
“La conferenza di Roma dei sindacati europei […] ha incluso la seguente dichiarazione nel suo comunicato finale: “L’importanza dell’unità è così vitale che debbono essere corsi alcuni rischi; ma dev’essere riconosciuto che, a meno che certe politiche, in particolare il pieno impiego delle risorse e una distribuzione più equa dei redditi nazionali, vengano seguite fin dall’inizio, l’unità non verrà costruita su fondamenta solide e, nel lungo periodo, verrà minata da instabilità sociale e politica.”

Ciò è senz’altro vero.  
Non c’è nessun vantaggio a unire i popoli europei attraverso le frontiere nazionali se sono profondamente divisi entro ogni nazione dal conflitto di classe [class war]”.

Ecco, questa mi pare lungimiranza vera.

20 commenti:

  1. Eh...il nemico è in casa nostra. Quello che noi consideriamo lungimiranza per molti è roba da sfigati. Non vedo l'ora che esca il libro...ho comprato da Feltrinelli i primi due dopo aver letto quello di Giacchè. Bravissimi e buon lavoro.

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  2. http://m.huffpost.com/it/entry/13345962: Che spasso richiamarsi al "Discorso sul libero scambio" senza citarlo per far schierare Marx per il sì. Fortunatamente autori ed editori marxisti hanno sempre precisato che la conclusione del manifesto del Moro è "proletari di tutti i PAESI unitevi" e NON "proletari di tutto il mondo". Lo ricordò insistentemente anche Garroni prima di lasciarci. In effetti Scalfari c'ha provato nel migliore dei modi...ma jéannatamale!

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  3. Non c'è bisogno di ringraziare Arturo, il sottile e appassionato filologo, per i contributi speciali con “perle” illuminanti.

    Potrebbero essere di interesse parallelo gli sviluppi delle connessioni con Le Cercle – la complessa tessitura “operativa” internazionale fondato da Antoine Pinay e Jean Violet nel 1950 - nelle “vicende” internazionali, europee e nelle italiane negli anni nel dopouerra.

    Ma, probabilmente, si potrebbe scadere in temi poco affini allo spirito del blog.

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  4. Mi permetto di aggiungere qualche piccola fonte convergente:

    “… Il celebre “Metodo Jean Monnet”… privilegia infatti l'approccio economico ed elitario [www.currentconcerns.ch/index.php?id=1486]: L'ECONOMIA DEVE ESSERE ALLA BASE DEL PROCESSO DI INTEGRAZIONE EUROPEO E LE MANIFESTAZIONI DI MASSA PASSANO IN SUBORDINE RISPETTO A CONCILIABOLI ELITARI. Non a caso il suo movimento, l'Action Committee for a United States of Europe, si rivolge essenzialmente a POLITICI AFFERMATI, BANCHIERI ED INDUSTRIALI [http://www2.warwick.ac.uk/fac/soc/pais/people/aldrich/publications/oss_cia_united_europe_eec_eu.pdf].

    Il suo modus operandi ha fortuna ed il primo organismo europeo a nascere, antesignano della futura CEE e dell'attuale UE, è la Comunità europea del carbone e dell'acciaio di cui Jean Monnet diventa presidente nel 1952. L'apporto americano per la gestazione delle istituzioni europee è tale che Jean Monnet si sente in dovere di scrivere una lettera di ringraziamento a William J. Donovan, presidente dell'American Committee on United Europe: “Your continued support, now more crucial then ever, will help us greatly toward the full realisation of our plans”[http://www2.warwick.ac.uk, cit].

    Paul-Henri Spaak, già primo ministro belga, colleziona una lunga serie di cariche come: presidente dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, presidente dell'assemblea parlamentare della CECA e segretario della NATO dal 1957 al 1961. Figura anche tra i primi partecipanti al gruppo Bilderberg [www.danielestulin.com/wp-content/uploads/portraits_bilderberg.pdf]. Sul finire del 1949 e l'inizio del 1950, quando l'American Committee on United Europe si illude che l'Europa sia ad un passo dalla federazione qualora si riconducano all'ordine i recalcitranti inglesi [http://www2.warwick.ac.uk, cit], è proprio su Paul Spaak che gli americani puntano affinché sostituisca l'inglese Duncan Sandys, genero di Wiston Churcill, alla guida dell'United European Movement.

    Documenti declassificati mostrano come il movimento europeista (perennemente a corto di soldi), e le sue figure di spicco (Paul Spaak e Robert Schuman) FOSSERO FORAGGIATI DAL GOVERNO AMERICANO, ALLA STREGUA DI UN'OPERAZIONE CLANDESTINA [www.telegraph.co.uk/news/worldnews/europe/1356047/Euro-federalists-financed-by-US-spy-chiefs.html].

    Oltre al Dipartimento di Stato, figurano tra i finanziatori di Paul Spaak alcune delle maggiori famiglie del capitalismo americano, come i FORD ED I ROCKFELLER, IN UN INESTRICABILE CONNUBIO DI INTERESSI PUBBLICI E PRIVATI, TIPICO DEL CAPITALISMO ANGLO-AMERICANO NELLE SUE PIÙ ALTE SFERE [http://www2.warwick.ac.uk, cit]…

    Torniamo al 1948: abbiamo detto che gli inglesi mugugnano e vogliono divincolarsi dal processo di integrazione. Il senatore J. William Fullbright prende quindi carta e penna e scrive ad Allen Dulles, già capo delle OSS in Europa e futuro direttore della CIA, che è forse opportuno vincolare i fondi del piano Marshall a concreti passi in avanti verso il processo di unione politica [The United States and European Integration: The First Phase. Armin Rapport, 1981].

    Nel febbraio 1949 quando il Congresso discute la proroga degli aiuti per la ricostruzione, Fullbright insiste sull’argomento domandando che la federazione politica e l'unio’e economica siano due conditio sine qua non per il rilascio dei fondi. Gli sforzi di Fullbright sono coronati nel 1952 quando nasce la CECA di cui Jean Monnet è eletto presidente. Il “petit financier à la solde des Americains” come lo apostrofava De Gaulle, SI AFFRETTA A CHIEDERE UN PRESTITO AL CONGRESSO DEGLI STATI UNITI PER FINANZIARE LA NEONATA ISTITUZIONE: ovviamente la risposta da Capitol Hill non può che essere positiva ed è stanziata la considerevole cifra di 100$ mln [The United States and European Integration, cit.]”.
    [F. DEZZANI, Progetto Stati Uniti d’Europa, 2014, 12-20].

    Le radici €uropeiste sono molto nobili.

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    1. Grazie Francesco.
      Ci fornisci, con le adeguate fonti, alcuni elementi del quadro di fondamentale importanza.
      1) i "conciliaboli elitari" che bypassano le improbabili manifestazioni di massa (POLITICI AFFERMATI, BANCHIERI ED INDUSTRIALI: questi i veri titolari della governanc€ come mandatari o neo-feudatari "locali";

      2) la fonte e "interpretazione autentica" del giudizio, proveniente da De Gaulle, sull'ormai ipostatizzato Jean Monnet: “petit financier à la solde des Americains”. Alla faccia degli agit-prop e della loro...faccia di palta sul "complottismo" (accusa che sarebbe ben difficile da muovere a De Gaulle, se non altro perché sicuramente non "comunista").

      3) soprattutto, la nascita organica del sistema della "condizionalità", già col Piano Marshall, usata in chiave euro-federalista.

      E, per venire alle applicazioni attuali del principio, questo spiega perché il "trattamento Grecia", al di là di qualche pietistica e generica dichiarazione di facciata, sia stato trattato con quella gelida indifferenza, dei suoi effetti sociali e umanitari, da parte dell'Amministrazione Obama.

      Decisamente l'usare gli Schauble e i Djisselbloem come arieti della strategia di "COLONIALISMO BEHIND THE SCENE", incarnato dalla intransigenza tedesca (ben ricompensata), spiega anche perché sia così difficile por fine a un'esperienza fallimentare ormai solo fondata sull'inerzia e l'incapacità di adeguamento delle strategie USA...
      Ormai, come risulta evidente, contro il loro stesso interesse (speriamo in Trump...)

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    2. "Churchill, at once the most prominent advocate of European unity and the best known transatlantic evangelist, was the vital link between ACUE and the European Movement. He enjoyed unrivalled personal contacts with American and European leaders; his fascination with intelligence and subversion kept him in touch with practitioners on both sides of the Atlantic; and he shared the view of Allen Dulles and Donovan that the promotion of European unity through ACUE was the 'unofficial counterpart' to the Marshall Plan.36" (Aldrich, op. cit., pag. 195).

      La fonte, riportata nella nota 36, è una lettera riservata di Churchill a Donovan del 4 giugno 1949. Più chiaro di così...

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    3. Il che spiega pure la ragione, cognita causa, delle ben precise parole di Basso riportate da Francesco nei commenti al post precedente (se non erro).

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    4. Basso, sempre in quel famoso discorso del 1949, cita il sottosegretario di stato per lo scambio tra piano Marshall e UnionE politica. Dapprima espressa come desiderata di un grande imprenditore alla CIA l'idea è ormai fatta "propria" dall'esecutivo.

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  5. Certo che mi duole un pò il cuore deludere gli ammiratori di Altiero Spinelli, di Ernesto Rossi e del loro Manifesto di Ventotene, così tanto osannato in questi periodi di magra! Possiamo dire che il progetto per un'€uropa unita (con annessa mon€ta) non nasce sulla ridente isoletta tirrenica, ma nei meandri del Congresso degli Stati Uniti e nelle segrete società inglesi.

    Con riguardo ai francesi “… Con la transizione alla Quinta Repubblica e l'abbandono dell'estenuante contro-insurrezione in Algeria, Charles De Gaulle considera la neonata comunità europea come un moltiplicatore della potenza francese ed uno strumento per superare la bipolarità russo-americana. Sviluppata la force di frappe e stabilita l'uscita della Francia dalla NATO nel marzo del 1966, De Gaulle si reca in visita ufficiale in Unione Sovietica nel giugno di quello stesso anno: durante un discorso televisivo rinnova quindi la sua idea di un'Europa dall'Atlantico agli Urali, comprendendo quindi anche la Russia nella famiglia europea [www.charles-de-gaulle.org/pages/l-hommes/dossiers-thematiques/de-gaulle-et-le-monde/de-gaulle-et-lrsquourss/reperes/chronologie-du-general-de-gaulle-et-l-union-sovietique.php].

    È senza dubbio in chiave anti-americana che De Gaulle nel 1967 rigetta per la seconda volta la domanda d'ingresso della Gran Bretagna nella CEE [www.news.bbc.co.uk/onthisday/hi/dates/stories/november/27/newsid_4187000/4187714.stm], da lui considerata un cavallo di Troia degli Stati Uniti per annacquare il processo d'integrazione ed impedire un'unità politica (a guida francese ça va sans dire).

    Il primo presidente de la République è conscio tuttavia di avere AGGUERRITI NEMICI in casa: primi fra tutti JEAN MONNET ED IL SUO ACTION COMMITTEE FOR THE UNITED STATES OF EUROPE. I due sono infatti agli antipodi per quanto concerne il processo di integrazione europea: de gaulle è il paladino di un'europa delle nazioni e dell'equilibrio tra le potenze, MENTRE MONNET È L'ARTEFICE DEGLI ORGANISMI SOVRANAZIONALI CHE SI PROPONGONO PASSO DOPO PASSO DI SVUOTARE GLI STATI DI OGNI SOVRANITÀ ... Si odiano cordialmente ed il fatto che l'associazione di Monnet riceva risorse dagli americani, induce De Gaulle a considerarla ALLA STREGUA DI UN'AGENZIA SOVVERSIVA [http://books.google.it/books/about/Atlantis_lost.htlm?id=mE_KHAP2SpwC&redir_esc=y].
    [F. DEZZANI, Progetto Stati Uniti d’Europa, 2014, 34]

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    1. Dezzani è un giovane in gamba.

      By the way: « Essi affermano che la giustizia sociale, il pieno impiego e la stabilità economica possono essere conseguiti solo al prezzo di una rigida tirannia sui corpi e le menti degli individui. Ovunque la democrazia non sia riuscita a soddisfare questi bisogni, la dottrina comunista ha trovato terreno fertile. Questa dottrina è oggi un’arma fondamentale nella politica espansionista dello Stato Sovietico. Quindi l’imperialismo russo minaccia il mondo libero sia con le armi che con la penetrazione ideologica. »

      Ok: per capire questo esempio archetipico di propaganda atlantista, è necessario comprendere la relazione tra, appunto, « associazionismo segreto » made in UK - tipo Fabian Society - laburismo inglese, imperialismo e conflitto tra classi.

      Il problema di incastrare gli UK nel lager europeo non stava certamente nella City ma, neanche, diciamocelo, nel laburismo inglese che, come dimostra il fondamentale scontro tra Bernstein e la Luxemburg, non è altro che un "socialismo contaminato" che doveva disinnescare la propulsione di un processo di rivoluzione sociale.

      La posizione della Thatcher prima, e della Regina nel Brexit dopo, potrebbe essere assolutamente indicativa. Ci sono strutture ed interessi materiali che hanno una visione dell'ordine politico apparentemente diversa da quella puramente "economicistica".

      Un Impero non può fondarsi su quattro cialtroni bancarottieri con relativo codazzo slinguazzante di fedelissimi "intellettuali".

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    2. Caro Bazaar, hai ragione da vendere:

      “… C’è infatti una contrapposizione netta fra i principi a cui si ispira il laburismo e quelli a cui si ispira il socialismo, e questo contrasto non può essere mai perduto di vista se si vogliono comprendere determinati aspetti della psicologia e della politica laburista. L’ideale che i laburisti hanno posto a fondamento della loro azione è infatti l’ideale tipicamente settecentesco dello “Stato di benessere” (Welfare state), precisamente quello stesso che gli illuministi del Settecento ponevano a fondamento del dispotismo illuminato, di cui era modello Federico II di Prussia, e che si chiamava anche allora “Stato di benessere” (Wohlfahrstaat), l’ideale cioè di uno Stato governato nell’interesse del popolo e il cui fine è quello di assicurare a tutti lavoro e benessere sociale. Anche il pieno impiego, come mezzo al benessere generale, è un’idea che i filosofi del Settecento hanno per loro conto sviluppato.

      Ma non è anche un ideale dei socialisti, mi si dirà, uno Stato in cui vi sia lavoro e benessere per tutti? Certamente lo Stato socialista raggiunge anche questi obiettivi, ma essi non costituiscono il suo scopo principale, bensì una conseguenza del suo scopo principale. Sarebbe un grave errore quello di concepire lo Stato socialista come uno Stato governato “nell’interesse del popolo” o anche “nell’interesse dei lavoratori”, perché LA SUA CARATTERISTICA È QUELLA DI ESSERE UNO STATO CHE È GOVERNATO “DAI” LAVORATORI, UNO STATO CIOÈ CHE, AVENDO SOPPRESSO LA DIVISIONE IN CLASSI E QUINDI IL DOMINIO DI UNA CLASSE SULL’ALTRA, HA FATTO DELLA COLLETTIVITÀ LA PADRONA DEI PROPRI DESTINI, e ha realizzato per questa collettività una piena solidarietà di interessi.

      È naturale pertanto che una collettività diventata padrona dei propri destini, e vivente in una società solidale, si proponga di raggiungere, sul terreno pratico, un sempre più alto tenore di vita, un sempre maggior benessere; ma, lo ripeto, QUESTO BENESSERE NON È L’OBIETTIVO FONDAMENTALE DEL MOVIMENTO SOCIALISTA, bensì soltanto una conseguenza della raggiunta emancipazione del proletariato, dell’abolizione dello sfruttamento di classe. Per il movimento socialista quindi fine essenziale resta l’emancipazione dei lavoratori, e alla base del movimento socialista vi è sempre l’insegnamento della Prima Internazionale che “l’emancipazione del proletariato deve essere opera del proletariato stesso”. un movimento operaio che non si proponga come fine essenziale, UNA MATURITÀ DI COSCIENZA, UNA CAPACITÀ DI AUTO-EMANCIPAZIONE E DI AUTOGOVERNO, che non ponga a base della sua azione politica l’obiettivo di fare del proletariato la classe dominante per poter fondare una società socialista, non è un movimento socialista…”[L. BASSO, Laburismo e socialismo, in Quarto Stato, febbraio 1950, n. 2, 3-7].

      L’autogoverno “… che richiede la soppressione della divisione in classi…”.

      E l’intervistatore, che non è sulla stessa linea d’onda, chiede a Lelio: “… Socializzare i mezzi di produzione, come s’è fatto da varie parti, non basta?...”

      Nella risposta c’è tutto Lelio Basso: “… Non basta. La socializzazione è un mezzo. IL FINE È LA LIBERAZIONE DELL’UOMO. Insomma si avrà tanto più socialismo, se così posso dire, quanto più si sarà fatto dell’uomo il gestore cosciente della sua vita e il corresponsabile della vita collettiva. . O È LA TRASFORMAZIONE DELL’UOMO, DEI RAPPORTI UMANI, O NON È NIENTE” [L. BASSO, La mia utopia, Panorama, 16 marzo 1972, n. 308, 68-76].

      Con quale coraggio si continui oggi a parlare di sinistra è inspiegabile.

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    3. "I primi deputati laburisti erano ESCLUSIVAMENTE OPERARI, e il loro socialismo si limitava a una vaga aspirazione verso la nazionalizzazione dei servizî pubblici e di parte dei mezzi di produzione, ma senza spirito rivoluzionario.
      Con l'aumentata influenza dell'I.L.P. e di certi ELEMENTI BORGHESI DOTTRINARI le idee rivoluzionarie vi ebbero maggiore diffusione.

      ...Il partito comunista britannico, fondato nel 1920, aveva da tempo cercato di penetrare nel laburismo e nelle Trade Unions, conquistandovi le posizioni dominanti. Al congresso laburista dell'ottobre 1924 l'affiliazione di detto partito a quello laburista fu respinta, come pure la proposta che un comunista potesse essere ammesso al partito laburista, e al congresso di Liverpool del 1925 furono respinte a forte maggioranza altre proposte del genere.

      ...Nel 1928 fu pubblicato un nuovo programma del partito, Labour and the Nation, il quale - conseguenza dell'esperienza del potere - era molto più moderato del primo; le riforme elettorali chieste erano assai anodine, non si parlava più dell'abolizione della Camera alta né di dare carattere politico alla burocrazia, perchè i ministri laburisti, consci della loro inesperienza, avevano lasciato mano libera al Civil Service il quale si era mostrato ben disposto verso di loro. Maxton, capo dell'I.L.P., divenuto ala sinistra del Labour Party, disapprovò questo programma perché accordava a un futuro ministero laburista la facoltà di agire come governo del re. Anche come aspirazione finale i laburisti britannici miravano solo all'abolizione del capitalismo e all'eguaglianza nel campo dell'istruzione, ma non ad alterare la posizione del singolo lavoratore nella produzione né a dare all'operaio manuale il controllo dell'azienda; allo stesso tempo conservavano gran parte della tradizione religiosa dei vecchi puritani, malgrado le scuole domenicali atee organizzate dai gruppi estremisti.
      http://www.treccani.it/enciclopedia/partito-laburista_(Enciclopedia-Italiana)/

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    4. Basso, indubbiamente, aveva in mente la diversa storia e natura dei rapporti tra socialisti e comunisti in Italia.
      Ma se andate a riscontrarne la storia proprio all'interno dei vari (e già questo) partiti socialisti nel secondo dopoguerra, vi accorgete che la sua, PARTITICAMENTE, è una posizione isolata e costantemente controcorrente.

      Il socialismo "non rivoluzionario", (la discriminante della classe dirigente di esclusiva estrazione "operaia" è, a mio parere, fuorviante perché è ineliminabile un problema di elaborazione culturale, ove non si appartenesse al partito comunista sovieticocentrico), ha naturalmente in sé, a prescindere dal luogo e dalle sue forme partitiche, un nemico: quello della "riuscita" delle politiche da esso predicate e, quindi, l'assimilazione alla medio-piccola borghesia di parte della sua base sociale.

      Insomma, il keynesismo è il miglior avversario del marxismo "reale" (o di qualsiasi sua prassi): perché, checché ne pensi l'amico Cesaratto, il keynesismo funziona mentre la prassi marxista è inerzialmente legata a presupposti economici (e a idee sulla natura umana) errati.

      Con questo non voglio dire che Basso, con la sua intransigenza, non avesse ragione: conosceva i suoi polli. Ma consentitemi di dire che "la trasformazione dell'uomo" può essere uno spauracchio dialettico, entro certi sani limiti, e un obiettivo spirituale per l'individuo: non un programma politico idealizzabile.

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    5. Come osserva giustamente Quarantotto, vi è stata una notevole varietà di posizioni: un conto è Marx, un altro sono i marxismi, un plurale ormai largamente accettato in storiografia, un altro ancora i comunismi (plurali anch'essi).

      Per esempio in un pensatore che non ha fatto altro che rivedere continuamente, fino agli ultimi anni della sua vita, il proprio sistema, non vedo una particolare propensione all'inerzia intellettuale.

      Non credo nemmeno che chi scriveva, a proposito delle c.d. crisi di sovraproduzione: "Non è che si producano troppi mezzi di sussistenza in rapporto alla popolazione esistente. Al contrario. Se ne producono troppo pochi per poter soddisfare in modo decente ed umano la massa della popolazione. Non è che si producano troppi mezzi di produzione per poter occupare la parte della popolazione idonea al lavoro. Al contrario.", che chi riteneva che la contraddizione fondamentale del capitalismo consistesse nel suo arrestarsi "quando non la soddisfazione dei bisogni, ma la produzione e la realizzazione del profitto, gli impongono di arrestarsi" (Il capitale, vol. III, pagg. 329-30) sarebbe mai stato contrario alla soddisfazione di quei bisogni attraverso l'intervento pubblico "Keynes-Beveridge", qualora ne avesse constata l'efficacia (e verso i presupposti analitici di tali politiche si stava in effetti orientando), in nome di un rivoluzionarismo fine a se stesso.

      Per convincersene, mi pare basti analizzare il Marx politico: come dice Draper, che alla questione ha dedicato più di due decenni di studio meticolosissimo, Marx "was the first figure in the socialist movement who, in a personal sense, came through the bourgeois-democratic movement: through it to its farthest bounds, and then out by its farthest end. In this sense, he was the first to fuse the struggle for consistent political democracy with the struggle for a socialist transformation." (Karl Marx’s Theory of Revolution, Monthly Review Press, New York, 1977, pag. 59).
      Draper sostiene, in modo secondo me piuttosto convincente (basti pensare alla sua analisi filologica del significato che aveva per Marx, ma non per quasi tutto il marxismo, l’espressione “dittatura del proletariato”), che da questo punto di vista poche figure del marxismo sono state fedeli a Marx: tra le maggiori in pratica solo Rosa Luxemburg (e figuriamoci...:-)).

      Ovvero, una volta accettata la democrazia sostanziale come fine e mezzo, credo ci sia posto per tutti. :-)

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    6. La posizione di Cesaratto tendenzialmente non la condivido, non ovviamente per motivi economicistici, ma per l'atteggiamento verso le scienze sociali.

      Le scienze sociali nascono o dall'umanesimo o dall'antiumanesimo. (E su questo punto punto si potrebbe convergere: certo, il giudizio di valore Schmitt su cosa si intende per "umanesimo" potrebbe essere differente)

      Bene: detto questo, però, per motivi meramente filologici, ci tengo a sottolineare che trovo poco condivisibile la contrapposizione tra "marxismo" (per cui bisognerebbe ben intendersi di quale interpretazione pratica del socialismo marxiano stiamo parlando: il leninismo?), e keynesismo (nel suo senso economicistico di "economia politica" oppure della politica di Keynes nella Storia?).

      Da un punto di vista storico - innanzitutto - il leninismo (con cui si può interpretare "marxismo reale") è una *eccezione* storica al socialismo che si rifà a Marx.

      Un bassiano (e non solo) se ne discosta perché si trova nella contraddizione di accettare di avere un assetto sociale "calato dall'alto", con il rischio se non la certezza di "tirannia burocratica".

      Ve bene: ma nella Storia abbiamo un'evidenza che contrasta sulla nostra percezione e sul nostro senso morale: è difficile sostenere che il keynesimo *politico* ebbe successo. La politica della "persuasione" umanistica, carismatica e intellettualmente prestigiosa di Keynes non potè fermare la guerra mondiale.

      Il Leninismo - invece - può essere considerato l'unico grande esempio storico in cui è stato respinto il dominio del capitalismo finanziario.

      Se avessero "vinto" i "bianchi", infarciti di "liberalismo" al servizio delle potenze estere, i trent'anni d'oro di keynesismo - inteso come "economia keynesiana" - probabilmente non ci sarebbero stati. (La stessa oppressione stalinista nasceva in gran parte dalla necessità di soffocare la guerra civile fomentata da interessi stranieri e dal problema sistematico dei sabotaggi delle "quinte colonne")

      Inoltre, i tentativi di portare benessere sociale E emancipazione degli oppressi, vanno collocati geostoricamente. Un'influenza che può essere considerata problematica tra le varie anime del laburismo, è quella "fabiana": ricordiamoci che Bernstein comincia a straparlare di riformismo non rivoluzionario con pietoso paternalismo, solo dopo che incontra i fabiani.

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    7. In queste riflessioni mi piacerebbe che intervenisse Arturo che un'analisi filogica degli scritti più importanti di Marx l'ha potuta fare: il Capitale di Marx - inteso come opera summa e cantiere aperto di elaborazione intellettuale, si colloca ad un livello di astrazione che - per quanto direttamente collegato all'economia politica - non può essere considerato un testo di economia tout court. Che senso ha trarne conclusioni di carattere economicistico comparativo con gli economisti "puri" del Novecento?

      Possiamo dire poi che "la prassi marxista è inerzialmente legata a presupposti economici errari" parlando di Kalecki?

      Possiamo dire "errate" le "idee sulla natura umana" di un fenomenale umanista e antropologo come Engels che, comunque, si rifà all'amico Marx?

      Francamente, ciò che ho letto negli scritti di questi due autori, non hanno - a mio parere - eguali per profondità, intelligenza e tensione morale.

      Un altro conto è ovviamente l'esperienza partitica dei partiti che si rifacevano all'URSS.

      « "la trasformazione dell'uomo" può essere uno spauracchio dialettico, entro certi sani limiti, e un obiettivo spirituale per l'individuo: non un programma politico idealizzabile. »

      Qui - vabbè, io son di parte - non mi sento di concordare.

      Premettendo che il pensiero marxiano lavora a livelli di astrazione tali da armonizzare empirismo e idealismo, è naturale che la prassi politica presupponga teoreticamente un'aspirazione ideale che si concigli con un principio di carattere escatologico come l'emancipazione universale.

      Ed il problema - che mi assilla da diverso tempo - è: può il misterioso vincolo della intersoggettività permettere una dicotomia tra "metanoia" e "rivoluzione"?

      Ecco: la chiave - a mio parere - sta nell'esistenzialismo.

      La crescita spirituale non può definitivamente compiersi se non grazie all'alterità umana, a quella fondante spinta intenzionale che è l'amore (cfr. Scheler), motore dello coscienza umana.

      È questo il legame tra esistenzialismo ed essenzialismo politico: il "cosmismo" che trova le sue radici in Socrate e passa per Fedorov.

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    8. (Segnalo un "concigli" al posto di "concili" :-).
      Ovviamente per "prassi marxista" alludevo al non marxiano.
      La soprastante risposta di Arturo chiarisce e previene gran parte delle tue obiezioni.
      Sulla collocazione, o meglio contestualizzazione, geostorica non ci piove: diamola per scontata. Un approccio fenomenologico senza tempo, cioè senza consapevolezza dell'essenza definibile in funzione di fondamentali elementi e circostanze storicamente connotate, sarebbe la negazione di se stesso.

      Detto questo, l'uomo non va trasformato ma "liberato": liberato dal bisogno materiale perché esso è una condizione innaturale, se non in circostanze eccezionali (sempre escludendo quelle dovute alla degenerazione dei sistemi sociali nella fase storica dell'umanità).
      La chiave è semmai l'antropologia: una scienza sociale che è la tela e la cornice in cui intendere l'umanesimo. Sempre che la si elabori con metodo fenomenologico.

      Ma non sofistichiamo troppo il discorso: la trasformazione di se stessi, in essenza, coincide con la liberazione dai limiti percettivi propri della precomprensione.
      E non basta una vita a portarla a compimento.
      Oggi, abbiamo di fronte il più vasto sistema di condizionamento pre-comprensivo della Storia umana: Orwell, dal suo punto di vista intuitivo-visionario, che è poi "arte", ci dice che la priorità è la liberazione. Oggi.

      Poi ogni essere umano seguirà la sua inclinazione, cioè la sua vocazione cognitiva, ma depurata e capace di giovare gli altri esseri umani con l'esempio, cioè tracciando una "storia" del suo percorso cognitivo che possa servire da punto di riferimento; non con la prassi politica.
      Ma questa è un'altra vicenda; purtroppo, ben al di là di essere realizzata.

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    9. E pensa che mi ricordo anche il momento in cui l'ho scritto. Non ci sto con la testa.

      Sono in fase esistenziale: vedo ciglia dappertutto.


      (Ogni tanto mi chiedo se i miei commenti siano un tentativo di contribuire alle analisi o un flusso di coscienza)

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  6. Tento di apportare qualche elemento utile all’interessante discussione.

    “… Non meritano d'essere discusse in particolare le accuse che si fanno al comunismo DA PUNTI DI VISTA RELIGIOSI, FILOSOFICI E IDEOLOGICI in genere.

    C'è bisogno di una profonda comprensione per capire che anche le idee, le opinioni e i concetti, insomma, ANCHE LA COSCIENZA DEGLI UOMINI, CAMBIA COL CAMBIARE DELLE LORO CONDIZIONI DI VITA, DELLE LORO RELAZIONI SOCIALI, DELLA LORO ESISTENZA SOCIALE?

    Cos'altro dimostra la storia delle idee, se non che la produzione intellettuale si trasforma assieme a quella materiale?” [C. MARX, Il Manifesto del partito comunista, https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1848/manifesto/mpc-2c.htm].

    Altrove:

    “… Infine, dalla concezione della storia che abbiamo svolto otteniamo ancora i seguenti risultati:…

    4) che tanto per la produzione in massa di questa coscienza comunista quanto per il successo della cosa stessa È NECESSARIA UNA TRASFORMAZIONE IN MASSA DEGLI UOMINI, CHE PUÒ AVVENIRE SOLTANTO IN UN MOVIMENTO PRATICO, IN UNA RIVOLUZIONE; che quindi la rivoluzione non è necessaria soltanto perché la classe dominante non può essere abbattuta in nessun’altra maniera, ma anche perché la classe che l’abbatte può riuscire solo in una rivoluzione a levarsi di dosso tutto il vecchio sudiciume e a diventare capace di FONDARE SU BASI NUOVE LA SOCIETÀ” [C. MARX, Ideologia tedesca, https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1846/ideologia/capitolo_III.html].

    E Basso, partendo da tali premesse, afferma: “… Il primo tratto essenziale che caratterizza l’uomo socialista in confronto dell’uomo borghese è precisamente il suo senso di “socialità”, la sua coscienza di membro di una collettività e non un individuo isolato. La concezione borghese dell’uomo è la concezione appunto di un individuo isolato, egoistico, che ha soltanto in sé stesso le proprie ragioni di vita: …l’ideale di Robinson sull’isola deserta esprimono in forma diversa la stessa concezione dell’uomo borghese, per il quale la società non è altro che una somma di individui, tutti astrattamente eguali, e ciascuno in lotta contro gli altri per la propria affermazione… Ogni uomo diventa perciò un limite e un ostacolo per gli altri uomini… Nella società socialista, grazie ai nuovi rapporti di produzione che vi si stabiliscono, l’uomo ha conoscenza di sé essenzialmente come “uomo sociale”, come centro quindi e nodo di rapporti sociali con infiniti altri uomini: egli sa che la sua esistenza e lo sviluppo della sua personalità sono condizionati precisamente dalla sua presenza in mezzo al corpo sociale, sa che gli altri uomini non sono limiti ma condizioni del suo libero sviluppo, sa che la massima affermazione della sua personalità non si consegue rinchiudendosi egoisticamente … ma al contrario sviluppando la sua partecipazione alla vita sociale, intensificando i suoi rapporti con gli altri uomini, accrescendo il ritmo degli scambi umani che arricchiscono lui stesso e gli altri. (segue)

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  7. Ne deriva evidentemente una coscienza della solidarietà mai fino ad ora raggiunta. Se l’uomo borghese, attraverso le tappe dello slancio prima e della dissoluzione dopo del mondo capitalistico, ha provato tutte le ansie della incomprensione, della solitudine, dell’angoscia e della disperazione, e cerca sollievo nell’evasione dal mondo di ogni giorno, l’uomo socialista è venuto invece gradatamente sviluppando il senso del suo destino comune con gli altri uomini che la struttura della società in cui vive non gli oppone come nemici, ma al contrarlo gli accomuna nello sforzo quotidiano…

    Conformemente alle previsioni del Manifesto, “alla vecchia società borghese con le sue classi e i suoi antagonismi fra le classi subentra un’associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti …” [L. BASSO, La rivoluzione d’ottobre e l’uomo nuovo, Avanti, 6 novembre 1949].

    In questo senso va letta, a mio avviso, la citazione bassiana da me riportata e contenuta in “La mia utopia”. La TRASFORMAZIONE DEI RAPPORTI SOCIALI comporta anche quella umana e la conseguente liberazione dell'uomo stesso in senso marxiano (Basso insiste continuamente su tali concetti in molti altri suoi scritti). Non credo, quindi, che una tale riflessione abbia a che fare con concetti “intimistici” i quali, come tali, non potrebbero di certo costituire - e sono d'accordo - un programma politico.

    Sulla rivoluzione, Basso era il primo ad affermare che il PCI era rimasto “indietro”. Era evidente, per lui, che in un sistema capitalistico sviluppato la rivoluzione non poteva coincidere con l’assalto al Palazzo d’Inverno come ai tempi di Lenin

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