martedì 30 maggio 2017

LA MANOVRONA PER IL 2018: SOVRANITA' PERDUTA? POCO MALE, BASTA CHE NESSUNO SE NE ACCORGA...


http://www.ilperlaio.com/photo/9/si-pubblicano-libri-con-caratteri-sempre-piu-piccoli--immagino-la-fine-della-letteratura--a-poco-a-poco--senza-che-nessuno-se-ne-accorga--i-e8ef03f8-456a-4699-b121-a29f59d73c08.jpg

1. Lo sappiamo già, avendolo tante volte evidenziato: il nodo delle elezioni e della potenziale e conseguente formazione di un prossimo governo sta tutto nell'approvazione della legge di stabilità imposta dall'appartenenza all'eurozona
C'è chi mostra di averlo capito, e ne predispone un metodo di risoluzione, e c'è che fa finta di non capirlo; e crede così, forse con successo, di potersi tirare fuori dalle responsabilità del più probabile metodo risoluzione del nodo in questione che sta delineandosi.

Ma questo nodo, - e dovrebbero accorgersene tutti, se fossimo in una normale situazione legalitaria, caratterizzata dalla "sovranità democratica del lavoro" prevista dalla Costituzione -, attiene alla decisione fondamentale che spetta agli organi di vertice, cioè, anzitutto, al plesso parlamento-governo: cioè alla decisione (quella, appunto, sulla manovra di stabilità), che più di ogni altra caratterizza l'assetto degli interessi economici e sociali della comunità nazionale e, come tale, che più caratterizza l'indirizzo politico che dovrebbe essere raccordato con la volontà popolare che emerge(rà) dalle elezioni.

2. Invece, il nodo si avvia ad essere risolto in un modo che, come preannunciano molte premesse e dichiarazioni politiche, prescinderà, secondo €uro-prammatica, dall'espressione del voto: assecondando la nuova ridislocazione della sovranità, la decisione fondamentale di indirizzo politico legislativo, sarà una mera conseguenza automatica e tecnocratica, predeterminata dal vincolo €sterno. 
Le elezioni non potranno influire su tale caratteristica ormai strutturale del processo politico italiano, desovranizzato, e, entro questo quadro, l'apparente spazio di manovra spettante al governo, e che il parlamento, in qualunque composizione, sarà chiamato meramente a ratificare, riguarderà la eventuale flessibilità che sarà concessa, con potere sostanzialmente insindacabile, da parte delle istituzioni dell'eurozona

3. Molti dei lettori potranno trovare questa premessa come qualcosa di scontato: ma, ammettiamo pure che fa sempre una certa impressione sentirlo ripetere nei suoi termini esatti, visto che il sistema mediatico mainstream si astiene sistematicamente dal rilevarlo. 
Si pretende dunque che la questione sia, come si dice volgarmente, "passata in cavalleria" e accettata per "sfinimento": come abbiamo notato qui e come sostanzialmente enuncia anche Luciani quando sottolinea: "...la classica questione del deficit democratico delle istituzioni eurounitarie, che pel solo fatto d’essere risalente alcuni vorrebbero cancellata – diciamo così – per stanchezza”.

4. Ma veniamo al metodo che si affaccia all'orizzonte, in vista delle elezioni, per superare il fatidico "nodo" dell'approvazione della manovra di stabilità senza doverne pagare (possibilmente nessuna forza politica) il prezzo elettorale.
Partiamo dal dato della legge elettorale: si profila un ampio accordo parlamentare sull'approvazione di un proporzionale fortemente temperato (quasi) alla tedesca: cioè con uno sbarramento al 5% ma con l'assegnazione del 50% dei seggi in collegi uninominali con sistema maggioritario (cfr: Il Messaggero di oggi pag. 3).
Il vantaggio di questa soluzione sta proprio nella peculiare (e apparentemente paradossale) soluzione al problema della governabilità che offre tale sistema. 
La deriva di sgretolamento dei partiti di massa derivante dalla desovranizzazione legata alla devoluzione del potere di indirizzo politico-economico alle istituzioni internazionali (segnatamente a quelle dell'eurozona), quale ampiamente illustrata da Rodrik (sempre qui, p.6), rende difficile la raccolta del consenso della maggioranza, in Italia come altrove: i partiti non si occupano dell'assetto del  conflitto distributivo tra capitalismo, che impone le regole del "diritto internazionale privatizzato" e comunità sociale, essendo il concetto di "piena occupazione", com'è noto, subordinato alla stabilità monetaria e all'aggiustamento deflattivo sul lavoro.

5. Cosa si fa dunque? 
Se ne prende atto, si strutturano partiti di potenziale governo, e opposizioni "principali", sostanzialmente, e ostinatamente, indifferenti (nel messaggio politico che concretamente trasmettono sullo scenario elettorale), su questi punti precostituiti dal sistema istituzionale sovranazionale, e si procede a creare una situazione in cui nessuno sia direttamente investito della responsabilità politica interna di questa scelta.
Questa scelta deve apparire come uno sfondo scenografico inevitabile, una predeterminazione meteorologica del quadro delle decisioni politiche "possibili", senza che costituisca più l'oggetto principale del dibattito politico e, ancor più, elettorale.

5.1. Il proporzionale alla tedesca risulta lo schema ideale per questo tacito accordo di deresponsabilizzazione delle forze politiche nazionali, che implica la contraffazione della realtà per cui nessun partito, tra quelli principali, ne assume il costo della scelta fondamentale in termini di perdita di consenso. I partiti sono destinati a ridursi, in funzione dello sbarramento:
a) a quelli che possono governare in varie e magari (parzialmente) inedite alleanze; 
b) a quelli che, comunque, possono stare all'opposizione senza porre in contestazione, e far emergere, la de-sovranizzazione; che è poi inutilità del voto dato a questo o quell'altro partito che emergerebbe dall'applicazione dello sbarramento al 5% (infatti, ribadiamo, questo o quell'altro, ai fini della decisione fondamentale di indirizzo politico nazionale, "pari son").

6. Verifichiamo nei fatti (dichiarazioni e "promesse" politiche), questa ipotesi ormai (molto) operativa.
Anzitutto: il Capo dello Stato, apprendiamo negli ultimi giorni dai principali media, pone come pregiudiziale, allo stesso "via libera" a qualsiasi scioglimento delle Camere, "la questione dei conti pubblici e degli impegni con l'UE, in nome dei quali il Quirinale teme lo scenario del voto in autunno" (FQ di oggi, pag.2).  
Più esplicito ancora Il Messaggero odierno a pag.5: 
"C'è uno scenario che preoccupa il Quirinale. Ed è quello che dalle urne non esca un chiaro vincitore e, dunque, occorrerà del tempo, in piena sessione di bilancio, per dar vita a un nuovo governo. Da qui la preferenza per il voto a scadenza naturale (nel 2018)...Oppure, in alternativa, l'idea di un "patto" che impegni chi siederà nel prossimo Parlamento a varare - come primo atto- la legge di stabilità entro il 31 dicembre, evitando l'esercizio provvisorio". 
E quindi, in questa ottica, di generale convenienza, per i partiti principali, di votare entro l'autunno con semi-proporzionale alla tedesca, prosegue l'articolo:
"il capogruppo del Pd, Ettore Rosato, in ogni caso mette a verbale: - Corriamo per vincere e dunque fare noi la manovra economica. Detto questo, se ci fosse una situazione di stallo, fin d'ora possiamo dire che....vuoti di potere in ogni caso non ce ne saranno; per l'ordinaria amministrazione resterebbe incarica Gentiloni..e come il Pd ha già fatto nel 2013 con Monti, quando votò il piano per il pagamento dei debiti della pubblica amministrazione, in assenza di un nuovo governo voteremo la legge di stabilità-".

7. Secondo punto. 
Per votare la legge di stabilità, più che il precedente del 2013 citato da Rosato, vale quello, molto più vicino, del voto, rapidissimo, del 6 dicembre 2016, con il "congelamento" delle dimissioni del governo successive all'esito del referendum condizionate, appunto, alla pronta approvazione della manovra per il 2017
In quell'occasione avevamo, tra l'altro, notato che "un governo che sia dimissionario, o dimissionario condizionato, svolge praticamente un identico ruolo "depotenziato" di fronte alle Camere ai fini dell'approvazione di bilancio e relativa "manovra"
Se ci aggiungiamo che, in questo caso, il governo dimissionario sarebbe in più scorrelato da qualsiasi precedente rapporto fiduciario con le "nuove" camere,  ne discenderebe che la legge di stabilità sarebbe, politicamente...figlia di tutti e di nessuno.

8. E qui entra in scena il terzo fatto.
Nel frattempo, evitata la prospettiva, almeno formale, di assumersi il peso della responsabilità politica (fittiziamente imputata al governo Gentiloni) della legge di stabilità, la maggior parte delle forze politiche (a onor del vero, eccettuata, allo stato, la Lega) avrebbero potuto fare campagna elettorale contando sulla comune ascrivibilità a "tutti" dell'assoggettamento ai diktat €uropei in materia di bilancio.
E ciò in quanto potranno invocare l'esigenza di un rispetto per la volontà del Capo dello Stato, in base ad un impegno che verrebbe offerto come mero strumento per arrivare alle agognate elezioni. 
E senza dover ammettere che, in concreto, queste stesse elezioni non deciderebbero alcun nuovo indirizzo politico, potrebbero con tutta calma dedicarsi all'accordo post elettorale, nel nuovo parlamento.

8.1. Infatti, i tempi di formazione del nuovo governo, divenuta cosmeticamente irrilevante, come mera formalità ascrivibile semmai al Capo dello Stato, la manovra economica, - per un punto di PIL di consolidamento fiscale!!!-, potrebbero ricalcare queste esperienze:
"Dalla seconda guerra mondiale, i governi hanno avuto un tempo medio di formazione di 72 giorni, da paragonare alle 4-6 settimane necessarie per formare una tipica coalizione in Germania. Il record olandese sono i quasi sette mesi necessari nel 1977, ma anche ciò impallidisce rispetto al suo vicino, il Belgio, che dopo le elezioni del 2010 ha impiegto 541 giorni per arrivare a un accordo di coalizione". 
316 giorni per formare un governo conservatore "di minoranza" in parlamento (dopo ben due elezioni rivelatesi inutili a chiarire una precisa maggioranza): un governo che si regge sull'astensione "collaborativa" (!) dei socialisti, che non hanno interesse a sottoporsi a una terzo voto politico in tre anni, dato che temono di uscirne letteralmente distrutti". 

9. Qui mi fermo. 
Alcuni, forse, (pochi probabilmente) potranno riflettere sulla connessione tra questo scenario, appena descritto, e questo post e il dibattito che ne è seguito nei commenti: magari, con una esemplificazione così concreta potranno comprendere meglio il senso urgente di certe "correzioni". 
Morale della favola: la sovranità è perduta (insisto almeno sul punto 1 e sul post da esso richiamato)?
Poco male, basta che nessuno se ne accorga...

domenica 28 maggio 2017

ALLA RICERCA DELLA SOVRANITA' PERDUTA: SALVIAMO (chirugicamente) LA COSTITUZIONE


http://pad.mymovies.it/filmclub/2006/01/051/locandina.jpg

1. Abbiamo visto nel precedente post come i trattati europei abbiano un contenuto peculiare, cioè dispongono apertamente sugli "affari interni" e quindi sui diretti rapporti politici e etico-sociali tra lo Stato italiano e i suoi cittadini e tra i cittadini stessi: ciò in quanto la crescente regolazione europea della materia fiscale, monetaria ed economica non solo influisce inevitabilmente su tali aspetti extra-economici (di per sè non considerabili separatamente e, infatti, come tali NON considerati dai Costituenti), ma anzi determina in via essenziale l'assetto etico-sociale e politico interno. 
Basti pensare a quanto i vincoli monetari e fiscali influiscano sulla principale, e fondante, direttiva costituzionale impartita nei confronti degli organi costituzionali di indirizzo politico, rendendola concretamente inattuabile: vale a dire, il perseguimento della piena occupazione (artt. 1, 4 e 35 Cost.), pur nell'equilibrio dei conti esteri nazionali, connesso a retribuzioni che consentano di condurre un'esistenza libera e dignitosa (art. 36 Cost.) e al "risparmio diffuso" (art.47 Cost.), entro un ordinamento statale fortemente solidale (artt. 2 e 3, comma 2, Cost.), che prevede una copertura pensionistica e previdenziale "adeguata" (art. 38 Cost.)  ed un sistema di assistenza pubblica sanitaria che garantisca a tutti (art. 32 Cost.) la tutela del diritto alla salute (senza alcun accenno, in Costituzione, alla condizione "entro i limiti delle risorse disponibili", introdotta, praeter Constitutionem e in base a valutazioni economico-monetarie extratestuali, mai sottoposte alla verifica della loro attendibilità scientifica). 

2. Questa caratteristica, come evidenzia Amato, rende "inadatta" una legge meramente "formale", come quella di (mera) autorizzazione parlamentare alla ratifica di tali trattati da parte del governo.
Di più, lo stesso congegno del diritto europeo dei trattati rivela come sia infondata, - in termini di Stato di diritto (in senso democratico)-, e comunque non espressamente pattuita, la presunta prevalenza delle norme dei trattati stessi su quelle costituzionali.

La conseguente utilizzazione degli strumenti di tutela (della sovranità costituzionale democratica) propri del diritto internazionale generale, tesi a far valere questi vistosi "vizi" dell'adesione ai trattati €uropei, ha incontrato e incontra, però, tali e tanti ostacoli, da rendere pregiudiziale un intervento di revisione costituzionale che rafforzi ed espliciti, - contro  prassi ed interpretazioni che si sono rivelati nei fatti "eversive" dell'ordine costituzionale fondato sul "Potere Costituente"-, quello che nella Costituzione è già scritto e che è, comunque, inequivocabilmente ricavabile dalla volontà espressa dell'Assemblea Costituente.

3. Ribadito che la revisione costituzionale proposta consegue solo a queste delimitate esigenze di tutela emergenziale della democrazia costituzionale, - e non pretende dunque di "adeguarla" e di perseguire finalità ad essa normativamente estranee e corrispondenti ad interessi diversi da quelli del popolo sovrano- indichiamo quali possano essere questi punti di intervento chirurgico che rafforzino la democrazia e la possibilità di autodeterminazione dei governi democraticamente eleggibili (cioè che agiscano entro i limiti invalicabili del circuito della sovranità fissato dalla Costituzione). 
Per ogni "punto", indichiamo la norma costituzionale da "rafforzare" e sintetizziamo la ratio dell'intervento in coerenza con l'aspetto specifico di violazione dell'assetto costituzionale cui si deve, allo stato, rimediare con urgenza:

- art.11 Cost.: precisazione della estraneità delle “limitazioni di sovranità” a materie NON strettamente rientranti nella "pace e nella giustizia fra le nazioni", escludendo ogni limitabilità, e ancor più, cedibilità (in sè radicalmente non contemplata dalla Costituzione), della sovranità connessa a trattati e organizzazioni internazionali di natura economica e, comunque, a trattati non compatibili coi principi fondamentali della Costituzione attinenti alla tutela del lavoro come fondamento della sovranità e della dignità della persona; 

- art.21 Cost.: precisando il privilegiato carattere aperto del mercato nazionale dei mezzi di informazione, in quanto finalizzato alla tutela della domanda di "informazione" e non della sua sola "offerta": questo carattere può essere effettivamente assicurato con una previsione pluralista e trasparente delle fonti di finanziamento e delle quote di mercato,  risolvendo, anche con una legge attuativa, il problema dell’intenso controllo mediatico che caratterizza l’affermazione, e l’autoconservazione “con ogni mezzo”, del paradigma euro-liberista e sovranazionalista;

- art.49 Cost.: chiarimento (e legislazione attuativa) circa l’ordinamento democratico dei partiti, effettivamente aperti e trasparenti nel loro ruolo di strumenti di partecipazione alla vita democratica del paese;

- art.70 Cost. (e altre disposizioni coordinate): previsione della rimessione diretta delle leggi, prima della promulgazione, al giudizio di legittimità della Corte costituzionale, su iniziativa del Presidente della Repubblica e, cumulativamente, di un quinto degli appartenenti ad una camera, per un giudizio “immediato” e preventivo da concludersi (come nella Costituzione francese) entro un breve termine prefissato in Costituzione.
Questa interpolazione dell'art.70 esige altresì un intervento di riscrittura della legge costituzionale prevista dall'art.137 Cost., al fine di renderla complessivamente compatibile con questo strumento, sempre più indispensabile, della rimessione diretta: probabilmente il "baco" più vistoso di cui soffre la nostra Costituzione (a differenza di quelle di tutti i più importanti paesi aderenti all'Unione europea, peraltro ben diversamente "condizionati" da un trattato che, sia pure in modi diversi nel tempo, piuttosto li avvantaggia sull'Italia, evidenziando ancor più la drammaticità di questa asimmetria di autotutela costituzionale);

- art.80 Cost.: previsione dell’obbligatorio “parere preventivo” di costituzionalità della Corte sui testi dei trattati internazionali economici da sottoporre a ratifica e previsione, aggiuntiva, di referendum popolari confermativi di tali disegni di leggi di ratifica (che dunque sarebbe votabile dal parlamento solo all'interno di un procedimento complesso che preveda il coinvolgimento co-decisivo della diretta volontà popolare);

- [ovviamente] art.81 Cost.: sua riformulazione introducendo il concetto di pieno impiego, out-put gap e risparmio diffuso (art.47 Cost) come parametri dell’indebitamento annuale;

- artt. 83-86 (87) Cost.: introduzione del “presidenzialismo” (elettivo a suffragio popolare) “alla francese”, che consenta di precisare le effettive responsabilità politiche del capo dello Stato rispetto alla Nazione e di delimitare l’insorgenza di prassi costituzionali (sempre più innovative) che rendano impalpabile la distinzione tra neutralità “garantistica” del potere presidenziale e interferenza sui processi politici ed elettorali.
Se le indicazioni del Presidente della Repubblica, infatti, divengono "impegni vincolanti per i partiti" e risolvono apertamente ogni snodo critico delle vicende politico-istituzionali nel senso di privilegiare l'osservanza del "vincolo europeo" e il mito neo-liberista della "governabilità", v. pp.2.1.4. e ss., senza alcun filtro critico operabile in base al divergente senso delle previsioni costituzionali fondamentali, divengono scelte di puro indirizzo politico e non più di "indirizzo costituzionale", neutrale e di garanzia, rendendo necessario un regime di emersione della sua responsabilità politica;

- art.139 Cost.: introduzione esplicita, nella previsione relativa alle norme non assoggettabili a revisione, dei principi fondamentali della Costituzione attinenti al fondamento lavoristico, alla persona umana e ai connessi diritti sociali dei cittadini (nella inscindibilità di questi principi dagli strumenti della Costituzione economica, inscindibilità proclamata dai Costituenti e costitutiva dell'effettività degli stessi diritti fondamentali).
In coerenza con le modifiche suggerite, è anche da rivedere la legge costituzionale sull’organizzazione e il funzionamento della Corte costituzionale, prevedendo un calibrato riassetto dei poteri di nomina, in funzione della maggior "neutralità" possibile degli organi titolari di tali poteri, nonché un limite di età alla permanenza in carica (fissabile in 79 anni, come ipotesi tendenziale in relazione al periodo permanenza nelle funzioni, previsto dall'art.135 Cost., coordinato al limite di età attualmente previsto per i magistrati eleggibili alla Corte).

4. Mi astengo dall'arricchire con ulteriori links i riferimenti alle norme costituzionali appena elencati: in effetti ciascuna di queste norme è stata oggetto di uno o, più spesso, vari post esplicativi che costituiscono la premessa delle soluzioni qui proposte.
Inoltre, il presente post è un'ulteriore estensione, aggiornata agli esiti del referendum e alle vicende che (non) ne sono conseguite, di uno studio analogo, di un paio di anni fa.
Bastano, ai fini di una conseguenziale comprensione quelli, pur numerosi, posti nelle parti iniziali del post (sperando che siano, almeno in parte, letti o riletti).

venerdì 26 maggio 2017

BREVE GUIDA AL RECUPERO DELLA SOVRANITA' E DEL SENSO DEL VOTO DEMOCRATICO

http://antimassoneria.altervista.org/wp-content/uploads/2016/06/toussenel.jpg
http://antimassoneria.altervista.org/cronache-di-democrazia-europea-lunione-esperta-in-atrocita/

1. La questione che mi accingo a proporvi è di quelle complicate (se non altro perché esige la conoscenza e la padronanza sistematica di un'ampia gamma di principi normativi ed economici).
Dare una risoluzione "tecnica", esaustiva e soddisfacente, a tale questione richiederebbe un (pesante) volume, non solo interdisciplinare, ma anche volto a chiarire una molteplicità di punti in modo che non vi siano lacune dimostrative: proprio quelle "lacune" che, invece, come vedremo subito, caratterizzano tutta la costruzione €uropea nei trattati e, ancor peggio, la tentata giustificazione di essi che si fornisce sul piano costituzionale. 
Un tentativo largamente fallito che, peraltro, ormai non si preoccupa nemmeno più di cercare una qualche rivisitazione delle barcollanti premesse da cui è partito: giungendo infatti a conclusioni palesatesi appunto come sempre più assurde.

Va detto, però, che la questione sarebbe meglio, molto meglio, se risultasse risolvibile come il riflesso di una coscienza diffusa da parte dei cittadini italiani: perché senza tale diffusione di consapevolezza, cioè senza una larga condivisione nell'opinione pubblica, non sarà possibile attivare quel processo politico-elettorale che, come in molti si rendono conto, è il propellente effettivo del recupero della sovranità democratico-costituzionale.

2. Pongo allora ai lettori la questione: in presenza del quadro normativo attualmente risultante dai trattati europei, come fareste a riaffermare la sovranità democratica secondo un percorso praticabile a livello sia di consenso politico interno che di "relazioni" con gli altri paesi improntate ad un rigoroso rispetto del diritto internazionale?
E per "come", intendo, non tanto la dettagliata indicazione dei contenuti di atti politici e normativi che portino al risultato voluto. Intendo, più semplicemente, il saper indicare (ma con non minore difficoltà, poiché precisare un indirizzo politico deve preferibilmente conseguire alla chiarezza di idee sulla risolvibilità di tutti i problemi di dettaglio) quali azioni di massima sono corrispondenti, appunto, alle linee di indirizzo politico effettivamente e legittimamente adottabili per l'obiettivo del recupero della sovranità democratica.

3. Pongo quindi questo interrogativo e cerco di agevolarne la soluzione indicando alcuni riferimenti interpretativi e normativi che risultano logicamente rilevanti.
Partiamo da un "come" diametralmente opposto a quello che è oggetto della questione qui posta; e ciò nell'ovvia considerazione che, se un errore di scelta è stato fatto, il primo rimedio è compiere una scelta di segno opposto che si manifesti in un atto capace di rendere inoperativo quello erroneo o, peggio, viziato in cui si è concretizzata la scelta da correggere.
Partiamo dunque dal "come", tecnicamente, siamo entrati in questo quadro istituzionale €uropeo
La risposta pare facile, cioè: attraverso una legge di autorizzazione alla ratifica (art.80 Cost.), elemento che ci consente anche di dire che, quale scelta di segno opposto, non sia praticabile un referendum. E non solo, e non tanto, per via del divieto ex art.75, comma 2, Cost., ma per le ragioni giuridico-politiche e istituzionali spiegate qui.

Ma la risposta al "come ci siamo entrati?" non è (più) così semplice se la si intende nella sua legittimità sostanziale, cioè nei suoi risvolti relativi al rispetto del nucleo inviolabile della sovranità costituzionale ed all'effettivo contenuto dei trattati (che, nel loro significato e portata, diamo per scontati, in base a quanto detto in "Euro e/o democrazia costituzionale" e ne "La Costituzione nella palude").

4. Fortunatamente, e paradossalmente, buona parte del problema ce lo ha già risolto...Amato (qui, p.6.1.):
"Cito in argomento un autore insospettabile di antieuropeismo come Giuliano Amato (Costituzione europea e parlamenti, Nomos, 2002, 1, pag. 15): 
Quando si ratificano i trattati internazionali, in genere si ratificano quelli che disciplinano le relazioni esterne. Quando si ratifica una modifica dei trattati comunitari non si ratifica una decisione che attiene alle relazioni esterne, ma una decisione che attiene al governo degli affari interni. 
Il processo di ratifica così com'è è congegnato è allora del tutto inadatto ad assicurare ai parlamenti il ruolo che ad essi spetta rispetto agli affari interni
Il procedimento di ratifica è tarato sull’essere ed il poter essere un potere intrinsecamente dei governi esercitato sotto il controllo dei parlamenti. Tant’è vero che la legge di ratifica è una legge di approvazione e non è una legge in senso formale.
Ma il vero clou del paradosso, dicevo, consiste nel fatto che “la politica dei piccoli passi nel processo di integrazione comunitaria ha fatto sì che mai nessuno abbia detto espressamente che, con i Trattati che si andavano stipulando, si stava costruendo una nuova costituzione.” (Luciani, op. cit., pagg. 85-6). 
5. Un secondo punto da conoscere è quello relativo alla pretesa supremazia dei trattati sul diritto nazionale (e citiamo sempre il post di Arturo che, comunque, ha preannunziato di approfondire ulteriormente la questione):
"Dopo il fallimento del progetto di costituzione europea a seguito dei due referendum francese e olandese, il 22 giugno del 2007 la Presidenza del Consiglio Europeo se n’è uscito con questa solenne dichiarazione:
L’approccio costituzionale (ndr; in sede di trattato sull'unione europea), che consiste nell’abrogare tutti i Trattati e rimpiazzarli con un singolo testo definito “Costituzione” è abbandonato. […] Il TUE e il TFUE non avranno un carattere costituzionale
La terminologia usata nei Trattati rifletterà questo cambiamento: il termine “costituzione” non verrà usato […]. Con riguardo alla supremazia del diritto comunitario, la conferenza intergovernativa adotterà una dichiarazione ricordando l’attuale giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea”.
Tale dichiarazione è diventata la numero 17 allegata all’atto finale della conferenza intergovernativa che ha approvato il Trattato di Lisbona firmato il 13 dicembre 2007, ossia: 
La conferenza ricorda che, per giurisprudenza costante della Corte di giustizia dell'Unione europea, i trattati e il diritto adottato dall'Unione sulla base dei trattati prevalgono sul diritto degli Stati membri alle condizioni stabilite dalla summenzionata giurisprudenza.
Inoltre, la conferenza ha deciso di allegare al presente atto finale il parere del Servizio giuridico del Consiglio sul primato, riportato nel documento 11197/07 (JUR 260):
«Parere del Servizio giuridico del Consiglio
del 22 giugno 2007
Dalla giurisprudenza della Corte di giustizia si evince che la preminenza del diritto comunitario è un principio fondamentale del diritto comunitario stesso. Secondo la Corte, tale principio è insito nella natura specifica della Comunità europea. All'epoca della prima sentenza di questa giurisprudenza consolidata (Costa contro ENEL, 15 luglio 1964, causa 6/64 […] non esisteva alcuna menzione di preminenza nel trattato. La situazione è a tutt'oggi immutata. Il fatto che il principio della preminenza non sarà incluso nel futuro trattato non altera in alcun modo l'esistenza del principio stesso e la giurisprudenza esistente della Corte di giustizia.

6. A questo punto, per agevolare ulteriormente una riflessione sulla soluzione da dare alla questione posta più sopra, vi cito le norme più importanti della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati che rilevano nel caso di assunzione di un obbligo internazionale da trattato, mediante una legge di ratifica che, nel caso dei trattati europei, abbiamo visto essere inadatta a rispettare il ruolo rappresentativo costituzionale dello stesso parlamento, (che si deve presumere necessariamente conforme alla sovranità popolare insita nell'art.1 Cost.), e ciò a causa dei contenuti "peculiari" del trattato sottoposto ad approvazione.
Premettiamo pure che la "denunzia" di Amato, relativa alla non idoneità della legge di ratifica rispetto ai contenuti in quanto incidenti sugli "affari interni", è una pregiudiziale di ordine "procedurale" (cioè attiene alla legittimità dello strumento costituzionale nel caso di quei contenuti e con quegli effetti), e prescinde dall'autonoma questione se QUALSIASI strumento (previsto dalla Costituzione, ovviamente), e qualsiasi tipo di dibattito parlamentare, possano introdurre nell'ordinamento quei contenuti: tale questione si risolverebbe, negativamente, alla stregua dell'art.11 Cost. e dei c.d. controlimiti...ove mai fossero applicati da..."qualcuno": v.qui, p.7, infine
Ne abbiamo parlato nei libri sopra citati e molto, negli ultimi tempi, su questo blog.

7. Stabilito che sia lo strumento utilizzato per vincolarci ai trattati europei, sia i contenuti degli stessi sono altamente controvertibili sul piano del rispetto di norme costituzionali non revisionabili, perché fondamentali e quindi non modificabili da alcun trattato, queste sono le norme rilevanti della Convenzione (che notoriamente hanno carattere di codificazione del diritto internazionale generale, qui, p.3, quello contemplato dall'art.10 Cost., e, quindi, sono una fonte superiore e prevalente rispetto alla previsioni di qualunque trattato):
Articolo 27 
Diritto interno e rispetto dei trattati
Una parte non può invocare le disposizioni del suo diritto interno per giustificare la mancata esecuzione di un trattato. Questa regola non pregiudica quanto disposto dall'art. 46. 
Questione chiusa, sul piano del diritto internazionale? 
Non proprio: occorre evidentemente andare a vedere cosa dica l'art.46 (e non fermarsi, come fanno gli spaghetti-liberisti ad affermare che il non sequitur della supremazia del diritto europeo, si estenda al diritto costituzionale nel suo intero perché...lo dice la Corte europea, senza che nessun principio del genere sia affermato esplicitamente nei trattati: e una ragione ci doveva pur essere se non sono stati in grado di farlo: chiedere alla Germania, per esempio, cfr; pp. 1f-1g...).

8. Ecco allora l'art.46 (riporto anche l'intitolazione della relativa Sezione perché ci fa capire le conseguenze della illegittimità costituzionale che investa, come abbiamo visto, sia lo strumento che ha introdotto il vincolo sia i contenuti di quest'ultimo). Evidenzio le parti che fanno capire come l'apparente eccezionalità della previsione "finale", non sia affatto tale se si versa in tema di violazione delle norme fondamentali di una Costituzione nazionale:
Sezione 2 NULLITA' DEI TRATTATI Articolo 46
Disposizioni del diritto interno riguardanti la competenza a concludere trattati

1. Il fatto che il consenso di uno Stato a vincolarsi a un trattato sia stato espresso in violazione di una disposizione del suo diritto interno riguardante la competenza a concludere trattati non può essere invocato dallo Stato in questione come viziante il suo consenso, a meno che questa violazione non sia stata manifesta e non riguardi una norma del suo diritto interno di importanza fondamentale.
2. Una violazione è manifesta se essa è obiettivamente evidente per qualsiasi Stato che si comporti in materia secondo la pratica abituale e in buona fede
9. Ed allora; date tutte queste premesse, quale sarebbe secondo voi una soluzione al "come" che abbiamo posto all'inizio?
Consideriamo, infatti, che, le norme fondamentali della nostra Costituzione sono ben definite e notorie nella comunità internazionale e, sicuramente, alla cerchia dei politici e dei giuristi europei: al punto chela nostra Costituzione è servita da modello "positivo" per altri Stati europei, come pure da modello "negativo" per le forze del capitalismo finanziario sovranazionale, (da ultimo, chiedere a De Grauwe). 
Dunque è nei fatti, storici e politici, attinenti allo sviluppo dei trattati che non si possa opporre una mancata "evidenza", se ci si comporta in "buona fede".
Insomma, sarebbe segno di sicura "cattiva fede" contestare una primaria evidenza: la nostra Costituzione non attribuisce a nessun organo costituzionalmente previsto la "competenza" a sopprimere, o a cedere, la titolarità dell'obbligo della Repubblica di tutelare il lavoro in tutte le sue forme
Tanto più che questo obbligo statale è affermato anche nello ius cogens del diritto internazionale generale, anch'esso pacificamente prevalente sul diritto contenuto in qualsiasi trattato, e ciò in termini che dovrebbero valere per tutti gli Stati di diritto democratici!

10. La risposta alla domanda posta sopra al punto 2., sulla scorta delle premesse "agevolative" finora svolte, è dunque una risposta importantissima che ognuno di noi può tentare di dare: ed è importantissima perché ogni cittadino dovrebbe poter valutare la ordinaria diligenza e competenza che dovrebbe impiegare chiunque sia coinvolto, su mandato del popolo sovrano nelle forme costituzionalmente previste, nel processo di adesione e applicazione dei trattati. 
Questa valutazione spettante a ciascun cittadino, adeguatamente informato, è appunto l'esercizio della democrazia (sostanziale).
Utilizzando questo metro di diligenza e competenza, infatti, ciascun cittadino ridiviene giudice consapevole delle responsabilità della sua classe dirigente e, quindi, si riappropria del proprio ruolo di detentore anche a titolo individuale della sovranità, esercitato anzitutto (ma non solo) tramite il processo elettorale.
In pratica, dare questa risposta costituisce l'UNICA via che consente di ridare senso al proprio voto.
Prima che diventi del tutto inutile: non solo nella sostanza, come già si verifica adesso, ma addirittura nella forma, cioè nell'assetto istituzionale prossimo futuro...derivante dai trattati e dalle loro ipotizzate "riforme", (v.qui p.10), naturalmente.

mercoledì 24 maggio 2017

LA LEZIONE FRANCESE: TRA STECCATI IDEOLOGICI E R€CUL€R AUTOLESIONISTA

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Da Francesco Maimone e Bazaar riceviamo, e volentieri pubblichiamo, questo post: ci pare che esso contribuisca a una riflessione necessaria proprio in questo momento, nel quale la "via stretta" di una resistenza democratica deve procedere, più che mai, evitando l'interpretazione "inerziale" (rispetto a tendenze che nel presente risultano inattuali) degli elementi strutturali della realtà.  
Ci pare cioè importante prevenire "scostamenti ideologici" da un corretto percorso dialettico, scostamenti destinati pericolosamente ad amplificarsi nel proseguire delle traiettorie prescelte. Ovvero, scostamenti destinati ad accentuare un "cul de sac", pur quando reso evidente dai duri fatti della realtà socio-economica dell'eurozona. Una realtà ormai decisamente orwelliana.
La cosa di cui dovremmo essere coscienti è che siamo in un momento eccezionale di travolgimento delle istituzioni costituzionali senza precedenti nella storia delle Repubblica: lo sforzo resistenziale dovrebbe indirizzarsi a neutralizzare il trascinamento di steccati ideologici, superabili con un realistico dialogo in nome della forza unificante del comune interesse costituzional-democratico (ovviamente, la disponibilità al superamento deve essere bilaterale: cioè vale per qualunque parte in causa). Ho aggiunto qualche "nota di Quarantotto" [NdQ].

1. Questo intervento prende le mosse dal post, a firma dell’amico Mimmo Porcaro, pubblicato il 10 maggio 2017 su “Sollevazione” ed intitolato “Strategia e tattica: le lezioni che ci vengono dalla Francia”. Le argomentazioni ivi addotte da Porcaro, ed in gran parte condivisibili, rappresentano allo stesso tempo l’occasione per alcune riflessioni su taluni passaggi del suo ragionamento che, di contro, non ci vede del tutto in sintonia.
In tal senso, Porcaro ha sottolineato con efficacia che il successo elettorale di Macron è stato determinato dalla “Union Sacrée” dell’oligarchia eurocratica dipinta, tuttavia, come forza democratica contrapposta al Front National propagandato, per converso, come forza dagli spiccati connotati fascisti. 
L’evidente dissonanza cognitiva di massa evidenziata da Porcaro ci pare corretta, dal momento che – come lo stesso sottolinea – la mera autoreferenzialità democratica ed antifascista, supportata ad arte dal clero mediatico, non può predicarsi per un europeismo padronale di cui Macron è al momento l’eroe riconosciuto” e che ha “da tempo messo in atto con efficacia una precisa strategia di dissoluzione de iure e de facto delle Costituzioni”. Pertanto, quell’europeismo “antifascista” (l’Union Sacrée), cosmeticamente acconciato da democrazia – prosegue Porcaro – sarebbe in realtà solo “il miglior sostituto funzionale del fascismo stesso” che, tuttavia, al momento “semplicemente non c’è”.

2. Quest’ultimo passaggio rappresenta il primo punto sul quale riteniamo di non convenire con il pensiero di Porcaro, per come testualmente dallo stesso espresso. 
In proposito, bisogna preliminarmente intendersi su cosa debba intendersi per “fascismo” (almeno nella tradizionale elaborazione della teoria marxiana) termine quantomai equivoco e foriero di fraintendimenti più di quanto si possa immaginare. Volendo definire il fenomeno in relazione a quelli che Lelio Basso assumeva fossero i suoi “caratteri permanenti” e non contingenti, è possibile sostenere che lo stesso è “… la tendenza del capitale ad esercitare una totale manomissione sul pubblico potere, assicurandosi in pari tempo una base di massa nel paese, qualunque siano poi le forme che questo regime reazionario di massa riveste di volta in volta” [L. BASSO, Fascismo ed antifascismo oggi, in Problemi del socialismo, marzo 1960, n. 3, 285].
Il capitalismo, a causa delle sue contraddizioni, nei suoi momenti di crisi (che per Marx costituiscono la normalità) si trova nelle condizioni di non riuscire a superarla e deve allora cominciare ad utilizzare lo Stato. 
Da questo punto di vista, il fascismo storico in Italia – innescato dalla crisi del primo dopoguerra, ma non solo - non ha fatto altro che anticipare “… un processo che poi si generalizzerà: cioè la simbiosi tra Stato e capitalismo, fra economia e politica. A un certo momento per non tenere in movimento - in quel caso per rimettere in movimento il meccanismo del profitto che si era fermato, e oggi viceversa per mantenere costantemente in movimento il meccanismo del profitto - è necessario che ci sia questa simbiosi fra Capitale e Stato. Lo Stato diventa l’ausiliario quotidiano del capitalismo” [L. BASSO, Le origini del fascismo, Savona, Centro giovanile, cicl., 10-45].

3. Ciò che costituisce la “forza determinante”, il carattere permanente del fenomeno fascista come storicamente rivelatosi è quindi la costante “tendenza del capitale oligopolistico all’appropriazione del potere statale” [L. BASSO, Le origini del fascismo, in Fascismo e antifascismo (1918-1936) – Milano, 12]. 
Nel fascismo storico la concentrazione del capitale oligopolistico aveva sembianze nazionali; negli odierni sviluppi (v. p.5) tale concentrazione, trainata dall’ideologia neo-liberista, si presenta in versione allargata e transnazionale, ovvero europea nonché a vocazione (naturalmente) globalizzata. 
Appropriazione del potere statale” significa sostanziale privatizzazione dell’interesse pubblico attraverso desovranizzazione degli Stati e manomissione definitiva dei processi democratici che continuano a permanere come mera vernice per coprire la restaurazione del vecchio ordine capitalistico (ante 1929, per intenderci), con le conseguenti manifestazioni che Porcaro bene elenca, cioè: dissoluzione della democrazia parlamentare, sottrazione di potere ai parlamenti nazionali e traslazione del medesimo potere “ad organismi non-parlamentari posti scientemente “al riparo dal processo elettorale” (le oligarchie economiche, rappresentanti del governo sopranazionale dei mercati).
 
4. Nel caso specifico del fenomeno €urounitario, gli strumenti utilizzati dalle oligarchie economiche transnazionali sono i trattati ordoliberisti, compiuta realizzazione di quella “terza via” dal carattere mimetico, convintamente messa alla porta, in Italia, in sede di Assemblea Costituente e poi “gioiosamente” rientrata dalla finestra grazie ad una sedicente “sinistra”, paludata di quel federalismo irenico e del benessere il cui suggello massimo si identifica con la moneta unica (novella versione dello storico gold standard) e la teoria della Banca Centrale Indipendente, teleologicamente orientata al mantenimento della stabilità dei prezzi (obiettivo cui sono preordinati principlalmente il divieto per la BCE e per le banche centrali nazionali di finanziare i deficit del bilancio pubblico nonché il divieto statutario di adottare azioni solidali interstatali, all'interno dell'eurozona, qui p.7, che possano perseguire o tentare di ripristinare la piena occupazione).
Orbene, se, mutuando ancora le parole di Gramsci a completamento di quanto poc’anzi detto, il fascismo “… è l'espressione organica della classe proprietaria in lotta contro le esigenze vitali della classe lavoratrice, della classe proprietaria che vuole, con la fame e con la morte dei lavoratori ricostruire il sistema economico rovinato dalla guerra imperialista (appunto il capitalismo ante 1929)…” [A. GRAMSCI, Il carnefice e la vittima, Ordine nuovo, 17 luglio 1921], allora l’attuale assetto eurounitario non può considerarsi un mero “sostituto funzionale del fascismo”, ma incarna la quintessenza stessa del fascismo, ontologicamente presente (pur essendo necessariamente diverso dal fascismo storico, appunto nelle contingenti forme sovrastrutturali e ideologiche, nel senso inteso da Marx). 

5. Questo riscontro dei "caratteri permanenti" indicati da Basso e Gramsci, semplicemente c’è, ed i dati in Italia sulla disoccupazione strutturale, il livello ingravescente della povertà e l’immiserimento generalizzato (del tutto incompatibili con il dettato della nostra Costituzione keynesiana) stanno a testimoniarlo.
Non dovrebbe destare stupore, peraltro, che il fascismo new style come sopra inteso difficilmente, nei suoi caratteri contingenti, esteriori ed equivoci (per esempio, lo squadrismo), possa ripresentarsi con le stesse forme del ventennio. 
Già nel ’60, al riguardo, Lelio Basso avvertiva: 
Da molti anni io mi sforzo di richiamare l’attenzione della sinistra italiana su questi equivoci e su questo problema, sulla necessità cioè di individuare la vera natura del fascismo e le sue radici strutturali; ciò è necessario anche a fini pratici perché compito della sinistra è precisamente quello di attaccare e distruggere quelle radici senza di che non sarà mai spianata la via alla democrazia
Non solo ma se non sappiamo distinguere gli aspetti permanenti e quelli contingenti del pericolo fascista, rischiamo di continuare ad attendere una minaccia fascista nelle stesse forme del 1922 e a non vedere il fascismo che si avanza per altre vie… Sotto questo profilo la posizione della destra socialista è tipica: agitando lo spauracchio di un fascismo vecchio stile, essa rinuncia a combattere a fondo il fascismo nuovo stile” [L. BASSO, Fascismo ed antifascismo, cit.].

6. Gli stessi moniti ci venivano rivolti nel 1950 da Piero Calamandrei (che pure non era marxista) il quale, nel rivendicare e difendere la sovranità democratica, avvertiva che 
“… le forme di limitazione di sovranità conosciute e classificate dai giuristi non sono tutte le limitazioni che operano di fatto nella vita degli Stati … i canali di penetrazione attraverso i quali le imposizioni esterne riescono ad infiltrarsi nell’interno di un ordinamento costituzionale apparentemente sovrano possono essere molto più complicati e molto meno classificabili di quelli previsti negli schemi dei giuristi.
Sicchè può avvenire che in uno Stato che si afferma indipendente gli organi che lo governano si trovino, senza accorgersene, in virtù di questi segreti canali di permeazione, a esprimere non la volontà del proprio popolo, ma una volontà che vien dettata dall’esterno e di fronte alla quale il popolo cosiddetto sovrano si trova in realtà in condizione di sudditanza” [P. CALAMANDREI, Lo Stato siamo noi, Chiarelettere, Milano, 2016, 35-36].  
Calamandrei non sarebbe purtroppo vissuto abbastanza per constatare che, nell’attuale frangente storico, quei “segreti canali di permeazione” sono in verità quanto mai palesi, e che quelle “limitazioni di sovranità” si sono concretate addirittura in cessioni di sovranità eurocertificate.

7. Alla luce di quanto sopra esposto, su altri punti dell’analisi fornita da Porcaro ci permettiamo di dissentire. 
Egli, al riguardo, dopo aver affermato che “il fascismo semplicemente non c’è”, paventa altresì che esso potrebbe materializzarsi in futuro sotto le sembianze del Front National e della Lega Nord, qualificati all’uopo - in quanto movimenti di una “destra protezionista” - come “organismo politico della frazione più debole del capitale” che andrebbe incontro “alla specifica esigenza di una parte del capitale, che non è già quella di avere una nazione priva di immigrati… ma piuttosto quella di avere una nazione piena di immigrati clandestini, e quindi più facilmente sfruttabili”.
Orbene, chiarita in primo luogo l’intima essenza di quel fenomeno autoritario che per comodità chiamiamo fascismo, sia il “soggetto” che attualmente lo impersonifica (ovvero, l’assetto eurounitario risultante nel complesso dai Trattati), a noi sembra invece fondamentale “spulciare” il programma della Lega Nord (lo stesso vale per il Front Nazional francese) per capire se tale movimento assecondi o meno un tale assetto istituzionale. 
E su questo specifico aspetto si dà il caso che proprio la Lega Nord (così come il Front National) abbia assunto come primario punto programmatico la rivendicazione della sovranità democratica (sia pure con una "indecisione" terminologica che, oggettivamente, riflette un conflitto al suo interno che non appare ancora del tutto risolto), opponendosi in ogni sede (nazionale ed europea) a quest’Europa mediante la pubblica denuncia dei suoi metodi e delle sue finalità considerate (a ragione) in netto conflitto con i principi fondamentali della Costituzione (appunto nella sostanza, laddove, peraltro, non è solo tale partito, ma praticamente tutti, ad "accusare" un richiamo poco consapevole alla effettiva portata del modello costituzionale).

8. In tal senso, diciamo "sostanziale" (e indubbiamente ben suscettibile di essere perfezionato in base al compimento di un intero percorso), la rivendicazione della piena sovranità democratica-costituzionale (intesa, ex artt. 1, 3, comma II, e 4 Cost., come effettiva e necessitata realizzazione di tutti i diritti sociali) - la quale presuppone di necessità l’abolizione della BCE indipendente e del connesso “vincolo esterno” – deve essere considerata tutt’altro che irrilevante ai fini della tutela della dignità dei lavoratori e dei diritti fondamentali di tutti i cittadini italiani, i quali di quella sovranità sono e rimangono gli esclusivi titolari. 
Ciò che semmai può rimproverarsi alla Lega Nord (meno al Front National, almeno fino ai recenti "tentennamenti", che denotano una certa qual mancanza di fiducia nella propria scommessa politica) è semmai l'enfasi largamente insufficiente posta sui temi evidenziati (rapporto di assoluta idiosincrasia tra BCE indipendente, mercato del lavoro flessibile e, ovviamente, parametro costituzionale di sua tutela come principale argomento di legittima opposizione al "vincolo €uropeo"), la cui propugnazione è invece essenziale, se non assorbente, per chiudere la partita del conflitto sociale.

9. In secondo luogo, è bene altresì intendersi in cosa consista quella “frazione più debole del capitale” protezionista di cui la Lega Nord (e il Front National in Francia) costituirebbe il rappresentante politico. 
Se, come sembra, la “frazione più debole del capitale” è fatta coincidere da Porcaro con la piccola e media borghesia, cioè con quel ceto medio che Lelio Basso (ma v. qui, P.4) definiva Terza Forza (PMI, intellettuali, liberi professionisti, burocrati etc.), essa - chiusa nell’individualismo che non è affatto coscienza liberale, ma un meschino egoismo antisociale - è in realtà una vittima del capitale oligopolistico, esattemente come il proletariato: “La piccola borghesia e gli intellettuali, per la posizione che occupano nella società e per il loro modo di esistenza, sono portati a negare la lotta delle classi e sono condannati quindi a non comprendere nulla dello svolgimento della storia mondiale e della storia nazionale che è inserita nel sistema mondiale e obbedisce alle pressioni degli avvenimenti internazionali …” [A. GRAMSCI, Previsioni, Avanti!, ed. piemontese, 19 ottobre 1920].
Privo di una coscienza di classe, il ceto medio è incapace di rendersi conto che l’attuale concentrazione capitalistica, trainata dall’assetto €urocratico, non può che condurlo alla rovina: “… Il regime fascista muore perché … ha contribuito ad accelerare la crisi delle classi medie. L'aspetto economico di questa crisi consiste nella rovina della piccola e media azienda: il numero dei fallimenti si è rapidamente moltiplicato in questi due anni. Il monopolio del credito, il regime fiscale, la legislazione sugli affitti hanno stritolato la piccola impresa commerciale e industriale: un vero e proprio passaggio di ricchezza si è verificato dalla piccola e media alla grande borghesia, senza sviluppo dell'apparato di produzione; il piccolo produttore non è neanche proletario, è solo un affamato in permanenza, un disperato senza previsioni per l'avvenire” [A. GRAMSCI, La crisi delle classi medie, L'Unità, 26 agosto 1924].

10. [NdQ] Dunque, sul piano strutturale, e non su quello sovrastrutturale-ideologico delle "illusioni" del Terzo Partito, abbiamo un'evidenza: se i ceti medio-piccolo imprenditoriali e professionali,  in base ad un corretta analisi dei dati economici registrabili dagli esiti delle politiche economiche del fascismo, furono marginalizzati da esso - in nome dello stato di necessità che corrispondeva, allora, all'antioperaismo utilizzato come spauracchio sedativo-, ne dovremmo trarre un'obbligata quanto incredibilmente trascurata conclusione (che pure la storia economica di addita con grande chiarezza).
E cioè che, sul piano logico, se tale condizione passa, tra l'epoca del fascismo ed il secondo dopoguerra, dalla marginalizzazione politico-economica ideologicamente sedata, ad una rilevanza politico-economica senza precedenti, questi stessi ceti hanno goduto, forse più di tutti, della crescita del benessere legata alla (pur parziale) applicazione del modello democratico costituzionale
Ed inoltre, il passaggio dalla condizione di operaio o contadino a quella di piccolo-medio imprenditore o di professionista, è tra l'altro, un fenomeno (generazionale) che si afferma solo dopo il 1948, come frutto della progressiva democratizzazione sociale costituzionale, e denota l'irrompere nella società italiana della c.d. "mobilità sociale" che è appunto il frutto della "eguaglianza sostanziale" e della c.d. "redistribuzione ex ante", (qui, p.4) che è la vera caratteristica della democrazia costituzionale del 1948.
I ceti "indipendenti", valorizzati politicamente e, specialmente, allargati nel numero, sono, sul piano dei riscontri consentiti dalla ricognizione dei fattori della crescita italiana del dopoguerra (v. qui, pp.5-8), i grandi beneficiari delle politiche industriali pubbliche codificate dalla c.d. "Costituzione economica", che hanno diffuso sul territorio, e pervaso in strati sociali sempre più ampi, la capacità di reddito e di spesa originata dall'incremento occupazionale e competitivo consentito dalla presenza della grande impresa pubblica.

10.1. Infatti, come negli anni ’20 per le oligarchie nazionali, così nella situazione odierna per il capitale oligopolistico internazionale:
… Tutta una serie di misure viene adottata dal fascismo per favorire una nuova concentrazione industriale … L'accumulazione che queste misure determinano non è un accrescimento di ricchezza nazionale, ma è spoliazione di una classe a favore di un'altra, e cioè delle classi lavoratrici e medie a favore della plutocrazia
Il disegno di favorire la plutocrazia appare sfacciatamente nel progetto di legalizzare nel nuovo codice di commercio il regime delle azioni privilegiate; un piccolo pugno di finanzieri viene, in questo modo, posto in condizioni di poter disporre senza controllo di ingenti masse di risparmio provenienti dalla media e piccola borghesia e queste categorie sono espropriate del diritto di disporre della loro ricchezza.
Nello stesso piano, ma con conseguenze politiche piú vaste, rientra il progetto di unificazione delle banche di emissione, cioè, in pratica, di soppressione delle due grandi banche meridionali …”. [A. GRAMSCI, Il fascismo e la sua politica, Tesi approvate dal congresso del partito comunista a Lione (gennaio 1926)].
Nelle parole di Gramsci risuona l’eco delle privatizzazioni che hanno investito e continuano ad interessare il nostro Paese sull’onda di un clima di crisi permanente, della deindustrializzazione massiccia del sistema produttivo italiano (nonché del conseguente indotto, campo prediletto delle PMI) ormai per lo più estero-controllato, l’acquisizione in mano straniera degli assets strategici (da ultimo, il caso Alitalia prossimo venturo) nonché i probabili sviluppi della crisi bancaria sottoposta alle regole del bail in europeo a danno della gran massa dei risparmiatori.

11. Ciò che risulta paradossale, peraltro, è che il capitale oligopolistico non celi le proprie strategie di concentrazione, ma anzi le reclami in nome del “più €uropa” e della globalizzazione, come si ricava dalle inequivocabili parole di Vincenzo Boccia, Presidente di Confindustria, ovvero della la più grande associazione di quella “frazione dominante del capitale” che Porcaro pur individua essere “l’elemento che realmente diede il via libera a Mussolini”.
 
Nel corso dell’incontro linkato, infatti, l’intervistatore ha fatto notare a Boccia che il sistema italiano è composto in maggioranza di PMI, riferendo che un grande imprenditore italiano avrebbe però affermato quanto segue “Le piccole e medie imprese sono microaziende. Le microaziende, in questo mondo, non hanno più alcun significato”. 
Il commento di Vincenzo Boccia è stato lapidario: “Ha ragione. Piccolo è una condizione da superare. Bisogna costruire le filiere e le alleanze. Se vogliamo affrontare i mercati globali, quello che dice Guerra è esattamente la verità. Non possiamo più difendere lo status quo, ma bisogna costruire un percorso. Bisogna andare in Borsa”.
Il ceto medio – confermando le parole di Gramsci sopra riportate - non è quindi in grado di comprendere che nulla ha da spartire con quest’€uropa di matrice mercantilistica (cioè costruita su misura proprio per la “frazione dominante del capitale” votata all’export ed alla concentrazione), dal momento che il proprio terreno di elezione è da sempre rappresentato dal mercato interno, ormai quasi del tutto sterminato a causa delle politiche deflattive neo-ordoliberiste e della valuta unica che vietano ogni intervento statale in economia.  
In definitiva, quella medesima piccola e media borghesia, appoggiando il sistema eurocratico anti-Stato che la vuole “far fuori”, non è cosciente che si autocondanna a diventare una costola del proletariato oppresso e con il quale, a ben vedere, avrebbe quindi tutto l’interesse a solidarizzare.

12. A stretto rigor di termini, dunque, ammettendo che la Lega Nord (stesso discorso è valido per il Front National) sia “l’organismo politico” della piccola e media borghesia alla quale la propria proposta politica si rivolgerebbe (la “frazione più debole del capitale”), allora la battaglia programmatica anti-€uro e per il recupero della piena sovranità costituzional-democratica (monetaria, di controllo pubblico dell’economia e dei confini nazionali) non può che avvantaggiare tutte quante le classi, in teoria antagoniste (coscienti o meno che siano) della grande borghesia capitalistica internazionale. 
Quanto detto ci porta di conseguenza a sostenere che dette forze politiche non si scaglino affatto “contro una parte dei lavoratori”, poiché la rivendicazione di un’attuazione piena ed incondizionata della democrazia costituzionale significa, per antonomasia, tutela sociale redistributiva e pluriclasse.
[NdQ-2] Come sarebbe poi (parliamo del caso, e del programma del Front National) operativamente possibile "scagliarsi contro una parte dei lavoratori" se oltre al recupero della sovranità monetaria, si considera prioritario (parlando addirittura di "sacralizzazione"), il rafforzamento dell'iniziativa industriale pubblica e la pubblicizzazione non negoziabile dei servizi pubblici, insieme con l'abolizione della loi travail? 

13. [NdQ3] Semmai, a rendere implausibili queste enunciazioni, è tentennare e "reculer" sulla questione dell'euro, che, per l'appunto costituisce il vincolo istituzionale che rende impossibile ogni attuazione di politiche sociali del pieno impiego, nonché di politiche industriali pubbliche, falcidiate dal regime del divieto di aiuti di Stato e dai limiti di bilancio (che sono appunto previsioni dei trattati intenzionalmente intese a rendere irrilevanti tali politiche, proprio perché incompatibili col modello sociale gold standard abbracciato dall'Unione europea).
Ma la scarsa fiducia nella comprensione degli elettori, da parte delle forze "sovraniste", di fronte a inevitabili battute d'arresto transitorie, è il risultato (erroneo) di una presa d'atto della forza mediatica delle oligarchie finanziarie, e in nessun modo l'indicatore rivelante una recondita strategia di scagliarsi contro "una parte dei lavoratori". 
E tra l'altro, tale "parte", come verrebbe selezionata dato che, abbiamo visto, quei punti programmatici avvantaggiano indistintamente tutte le classi danneggiate dai poteri timocratici filo-europeisti? 
Sarebbe un'operazione (di maliziosa "riserva mentale") semplicemente irrealizzabile a posteriori, perché suicida dal punto di vista del consenso, una volta conquistata una posizione di governo da cui realizzare quei punti progammatici. (E la riconversione post-elettorale di Trump, comunque nascente da un'ambiguità originaria ben più accentuata, insegna quanto le "riserve mentali" siano una strada di perdizione verso la precarietà nel consolidamento del potere conquistato alle urne).

14. Su un ultimo punto, in proposito, ci sembra importante porre l’attenzione. 
Ci sembra innanzi tutto una (ulteriore) contraddizione in termini qualificare, come fa l’amico Porcaro, dette forze politiche come protezioniste e addirittura xenofobe, salvo poi sostenere che le medesime vorrebbero “una nazione piena di immigrati clandestini … più facilmente sfruttabili”. 
A noi pare, piuttosto, che una tale asserzione sconti una “contaminazione ideologica”, in quanto da un lato non si fonda su reali dati fenomenologici (è anzi di dominio pubblico che Lega Nord e Front National siano contrari all’immigrazione clandestina, e proprio per tale motivo sono ormai identificati in modo semplicistico come forze politiche razziste/xenofobe) e dall’altro, correlativamente, presuppone che il protezionismo sia sempre e comunque negativo.
Il protezionismo, quello autentico (ammesso che il termine abbia un senso univoco fuori dal contestodegli imperialismi europei e del loro naturale sviluppo in termini di controllodei mercati), non può in prima battuta avvantaggiare le PMI, le quali semmai ne traggono solo un vantaggio riflesso e marginale, essendo le stesse – come detto - legate all'intervento pubblico nell'economia nonché alla connessa crescita industriale del territorio. 
Il protezionismo in senso stretto, infatti, avvantaggia l'oligopolio nazionale, che fa “da asso piglia tutto” e non consente di certo - dato il suo panorama istituzionale e il funzionamento della "rendita" rispetto al livello di occupazione - che esista una "frazione debole del capitale".

15. Il grande capitale oligopolistico, infatti, mira sempre e comunque a creare classi subalterne ed oppresse, mantenute a livelli di mera sopravvivenza non dissimili da quelli del medio-piccolo salariato, in linea con la previsione di Marx secondo cui la lotta suprema è combattuta tra due classi soltanto, proletariato e borghesia, senza alcuna distinzione - nell’ambito di quest’ultima - tra frazione debole e dominante del capitale
In definitiva: protezionismo imperialista old style o "internazionalismo cosmopolita" (sempre come definito da Basso nella sua equivalenza al primo, p.2), è sempre e solo la grande impresa finanziarizzata a dominare la scena.
Piuttosto, un protezionismo intelligente, una sapiente “autarchia economica nazionale” in campo merceologico e della forza lavoro erano sostenuti da Keynes [J.M. KEYNES, National Self-Sufficiency, The Yale Review, Vol. 22, no. 4 (June 1933), 755-769] come da Federico Caffè (intellettuali che non possono essere definiti propriamente imperialisti o xenofobi), ci sembrano quanto mai necessari e conformi, in Italia, al dettato della Costituzione. 
[NdQ4] Senza dimenticare quell'anello di congiunzione tra i due costituito dall'illuminante analisi di Kaldor relativa al "vincolo della bilancia dei pagamenti" rispetto alla piena occupazione, e ai diversi modi di risolverlo, cooperando e adottando misure di coordinamento non egoistico tra paesi diversi: cioè esattamente l'opposto di quanto predicato nei trattati europei.

16. Deve, cioè, essere assolutamente chiaro che non sono più eludibili l’interrogativo e le argomentazioni che proprio Caffè poneva in proposito negli anni ’80:
“… Nell’ambito di un’economia mondiale interdipendente e soggetta, nello scorcio degli anni più recenti, a vicissitudini perturbatrici origine di problemi tuttora aperti, è individuabile una funzione utile per una politica economica che miri a realizzare un adeguato dosaggio tra l’incoraggiamento delle esportazioni e un’autonoma azione di sostegno della domanda interna? I termini adoperati evitano ogni appello emotivo alla creazione di “un nuovo ordine internazionale”, come pure ogni atteggiamento difensivo di orientamenti protezionistici
Né le frasi ad effetto, ripetute sino alla noia, né il ripudio della realtà con aprioristiche demonizzazioni contribuiscono a dare concretezza allo sforzo di comprensione e di immaginazione necessario per avviare a soluzione i complessi problemi dell’economia internazionale.
La loro gravità non sembra da collegare a prospettive di crolli finanziari o di disgregazioni involutive proprie delle vicende degli anni trenta. Trasformazioni profonde sono intervenute rispetto a quei tempi. Nondimeno malgrado l’enfasi che abitualmente viene posta sulle proiezioni verso il futuro, non può sfuggire a un osservatore attento il riaffermarsi di quella “cristallizzazione delle disuguaglianze” che, nell’immediato secondo dopoguerra, fu di ostacolo al conseguimento degli attesi risultati istituzionali sul piano della cooperazione internazionale nella sfera degli scambi internazionali. Si assiste, oggi, a un succedersi di monologhi che sembrano sinora incapaci di dar vita a un valido dialogo” [F. CAFFE’, In difesa del welfare – Saggi di politica economica, Rosemberg & Sellier, 1986, 93 e ss.].

16.1. Ripudiare la realtà attestandosi su “aprioristiche demonizzazioni” (in particolare riassunte nella frettolosa e non scientificamente univoca locuzione "protezionismo"), e contra Constitutionem, in nome della pace e di un benessere utopistici da decenni contrabbandati però ad arte dal pensiero unico, significa continuare a sostenere (anche involontariamente ed in modo equivoco) posizioni inaccettabili propugnate già da Von Mises [L. MISES, Die Gemeinwirtschaft - Untersuchungen über den Sozialismus, 1922, 219, nota 1, e 220] nonché da Einaudi [L. EINAUDI, Protezionismo operaio,Corriere della sera 20 novembre 1910], che francamente non ci sembrano essere stati campioni di democrazia e di solidarietà sociale.
Recuperare, in Italia, l’indipendenza nazionale e la sovranità democratica della dignità del lavoro costituisce quindi la essenziale (e necessaria) pre-condizione rispetto ad ogni altra discussione; solo in un secondo momento, quello della normalizzazione che superi lo “stato di eccezione” eterodeterminato e la “rottura costituzionale”, sarà possibile ritrovare lo spazio per la legittima contrapposizione politica e le differenze programmatiche (nei limiti, s’intende, del necessitato programma fissato dalla Costituzione repubblicana). 
Sino ad allora – e senza che ciò significhi in alcun modo “legittimare l’idea … che in fondo Le Pen e Salvini sono “un po’ di sinistra”, o comunque “più di sinistra” dei vari Renzi, D’Alema, Bersani e via elencando” - ci sembra autolesionistico, in nome di una intransigente prevenzione, escludere dal novero degli “Alleati” qualunque forza politica che dichiari di condividere l’obiettivo sopra menzionato e che solo la storia, a posteriori, sarà quindi in grado di giudicare.