domenica 30 luglio 2017

LA MACCHINA DEL PUDE HA UN BUCO NELLA GOMMA...

https://www.flashlyrics.com/image/tw/francesco-salvi/la-macchina-del-capo-95

1. Il titolo di questo post può essere anche meglio definito utilizzando il termine PUO (partito unico ordoliberista). Ma la "metrica" non sarebbe stata altrettando felice (rispetto al verso originale della nota canzoncina). 
Ai due commenti ho aggiunto dei links che consentono di richiamare nel loro pieno significato la portata del "buco" che i mandatari nazionali di ESSI non riescono a riparare...

A proposito di Ciampi (che non riuscivo a trovare): 
«Che poteri ha, quanta e quale sovranità possiede uno Stato, in regime di totale libertà dei movimenti di capitale? 
I mercati finanziari, i flussi di capitali determinano in misura significativa il prezzo del denaro, elemento fondamentale in una società moderna. 
Un paese, dunque, tanto più esercita la propria sovranità quanto più sa produrre il bene pubblico della credibilità e della fiducia (ndQ: v.sotto la voce Hazard Circular "und" scarsità di risorse)
Si tratta di un bene immateriale, che però è ben misurabile in termini economici e politici. La fiducia e la credibilità contribuiscono ad abbassare i tassi di interesse, a fare affluire capitali esteri e a far rimpatriare capitali nazionali fuggiti, ad apprezzare il cambio, a moderare l’inflazione. 
In un regime monetario intemazionale che si basa sulla libertà dei movimenti di capitale, produrre fiducia significa migliaia di miliardi in meno di spesa improduttiva nel servizio del debito, migliaia di miliardi di minori oneri debitori per le imprese, migliaia di miliardi in meno per la rendita finanziaria» (C. A. Ciampi, Un metodo per governare, Il Mulino, Bologna, 1996, pag. 15).

Gli stessi concetti esposti da Einaudi nel ’14. Impressionante questa imperterrita continuità. Ha ragione Berta a dire che per questa gente la storia dell’ultimo secolo è come se non fosse esistita.


Scorgo in effetti una coerenza esemplare in tutto ciò: e si basa sulla tecnica espositiva per cui mai e poi mai vengono presi in considerazione i costi (superiori) legati a questi (presunti) benefici (come inutilmente aveva ricordato Caffè). 
Peraltro, è tragicamente divertente come, in questi giorni, GLI STESSI CHE ANCORA SOSTENGONO QUESTE COSE (cioè i vantaggi di politiche rigidamente deflattive), si stiano pateticamente affannando a creare l'apparenza di una rinnovata sensibilità per "l'interesse nazionale".

Poiché questa "sensibilità" implicherebbe di tutelare l'interesse generale del popolo sovrano ex art.1 Cost. (occupazionale, salariale, di partecipazione politica pluriclasse), e non solo quello di pochi a percepire interessi reali positivi, in realtà STANNO SIMULANDO.
Mentre gli interessi reali positivi svaniscono (più che altro per la fine generalizzata della solvibilità nazionale sistemica), e la crisi bancaria è praticamente inarrestabile, - e mentre il rapporto debito/PIL dilaga, pur riducendosi l'onere degli interessi, sicchè si vuole intaccare, direttamente in sede UE, lo stock del risparmio (e non più solo il reddito)-, semplicemente non trovano più i vantaggi della perdita del "controllo" dell'offerta nazionale e dell'esclusione progressiva dall'appartenenza all'oligarchia di chi ha promosso questa "fiducia".

Insomma, la "credibilità" verso i "mercati finanziari" - incredibilmente proposta come esercizio della sovranità!- è un servizio a favore degli investitori esteri che, alla lunga, inevitabilmente, fa svanire i vantaggi della "complicità" per chi l'ha promossa: contro l'interesse di coloro che pure, deliberatamente mal informati e fomentati, avevano fornito (ai complici pro-investitori esteri) il consenso elettorale. si corre tardivamente ai ripari, quando ormai è lo stesso controllo mediatico ad aver perso gran parte della sua credibilità...

sabato 29 luglio 2017

AGGIORNAMENTO FRATTALICO: IL CEDIMENTO STRUTTURALE


http://1.citynews-today.stgy.ovh/~media/original-hi/29765139455062/cavalcavia-crollano-fossano-ansa-1-2.jpg

1. In attesa di ulteriori sviluppi (su Fincantieri "fuori" controllo,  Libia improvvisamente divenuta sede praticabile di centri per profughi, Telecom ex-Italia, forse con rete ri-nazionalizzabile ecc.),  - sviluppi che, vedrete, non mancheranno- provo a buttare giù alcuni punti implicati dal repentino "ritorno all'interesse nazionale" da parte dei giornaloni, con articoli e editoriali schierati a fianco della bandiera tricolore (in senso metaforico, naturalmente, dato che siamo l'unico Stato-membro UE che ha approvato una legge che rende obbligatorio affiancare la bandiera nazionale esposta in ogni possibile e immaginabile edificio pubblico).
Per l'illustrazione dello scenario attuale nei suoi antecedenti storici, di tipo ideologico-politico-economico (proprio in quest'ordine), mi limito a rinviare all'apposito post di Goofynomics, senza stare a ritirar fuori i passaggi di qualche centinaio di post in cui è stata analizzata, sotto molti profili possibili, tale ideologia politico-economica abbracciata dalla grancassa mediatica al servizio dell'oligarchia. 
Volendo fare un riassunto del riassunto, potremmo dire che gli interessi della timocrazia nazionale si sono ormai trasformati in quelli di un oligarchia estera controllante. E i topi adesso temono che la nave affondi sul serio (prima non ci credevano: si sdraiavano a Capalbio e pontificavano sul debito pubblico che si trasmette alle generazioni future...); e dunque si agitano.

2. La seconda chiave di lettura riguarda un aspetto strettamente connesso: questa crisi de L€uropeismo come dogma supremo della restaurazione neo-liberista e timocratica (Quarto Partito-led), dogma ancora oggi ritenuto dai giornaloni degno di rimpiazzare la Costituzione nei suoi stessi principi fondamentali e inderogabili, non pare il frutto di alcuna progressiva consapevolezza dei rapporti causa/effetto
Almeno per la schiacciante maggioranza della ital-classe dirigente impegnata, fino a ieri (incluso), nel provocare e propagare l'autorazzismo espertologico e orwelliano.
No: si tratta più di un cedimento strutturale, improvviso e sorprendente (per il Quarto Partito e il suo battage mediatico-culturale). Un evento terrificante ma assolutamente imprevisto ove, come in effetti non può che accadere, si prosegua ad utilizzare i parametri di interpretazione della realtà che si ritenevano non solo dominanti ma anche consolidabili.

3. Da questo complessivo scenario nasce, più che la constatazione di una Caporetto, un progressivo stato di agitazione autodifensiva del sistema, che tenta ogni possibile disperata misura per conservare se stesso, non avendo però alcuno strumento cognitivo e culturale adeguato per fronteggiare un'evoluzione degli eventi che lo travolgerà comunque.
Dunque, ci troviamo di fronte a un fenomeno del tutto simile al 25 luglio 1943, allorché si coltivò l'illusione che, di fronte al precipitare degli eventi e alla scelta di minimizzarli ufficialmente, pure quando non potevano più essere ignorati dall'opinione di massa, si potesse cercare una "presa di distanza" verso responsabilità individuali, sperando che ciò potesse funzionare per preservare una qualche continuità.
Ed in effetti, (sebbene su questo argomento faremo un approfondimento ulteriore), il riassestamento che ne conseguì, nel complessivo arco di tempo in cui si svolse, risultò in una qualche forma di continuità: cioè, si verificò un cambio dei vertici istituzionali della classe dirigente (peraltro neppure integrale), ma non una rivoluzione. Almeno, se intesa come mutamento della classe sociale che sostituisce quella che, in precedenza, aveva il controllo istituzionale: questo avvicendamento di classi sociali, nonostante la natura rivoluzionaria del programma costituzionale poi adottato, fu in sostanza impedito dalla sconfitta militare e dalla conseguente condizione di protettorato di una potenza estera che ne derivò l'Italia.

4. Svolte queste necessarie premesse, rammentiamo la cronologia precisata nell'ultimo aggiornamento frattalico (p.8-9):
"La "Marcia" ebbe luogo com'è noto il 28 ottobre 1922 ma fu lungamente preparata, con una prova generale ad Ancona (2 agosto) e la famosa riunione della camicie nere di Napoli (24 ottobre).
L'8 (!) ottobre 1996, la Repubblica fa trapelare che 

"Pronti a rientrare nello Sme. Secondo informazioni non ufficiali Prodi avrebbe deciso di passare ai fatti. Avrebbe cioè dato incarico ai funzionari del Tesoro di avviare le consultazioni e, soprattutto, gli studi sul livello che deve avere la lira per rientrare nell' accordo di cambio europeo, abbandonato quattro anni fa..."
L'ufficializzazione del rientro nello SME, è del 30 novembre 1996.
Berlusconi dichiara  di averne già sentito parlare e di considerarla una buona notizia: solo che, per lui, il problema è "restarci in €uropa". L'identificazione UE= euro ha già preso il sopravvento nello spin mediatico che viene propinato agli italiani. Nell'opinione pubblica, nessuno si rende conto delle conseguenze a cui si possa realmente andare incontro, ma la cosa viene accettata come un meritorio atto di governo.
Inizia il "balletto" del cambio di parità sul marco: "L'Unità" lo ipotizza a 1010 £, Confindustria punta a 1050 £ (giustamente), la City a quota 1000, la Francia "stranamente" a 950 (per quelli che non avessero capito 'sta faccenda, a tutt'oggi, credo non ci sia più nulla da fare). Ma Ciampi chiude ogni discussione


Basta con i sospetti, i dubbi, le in-terpretazioni capziose, le guerre guerreggiate à la Bundesbank. L’Ita-lia, ha detto Ciampi, intende essere tra i fondatori della moneta unica europea rispettando i parametri di Maastricht «senza vie traverse, senza aggirarne le condizioni.
Da notare che una timida resistenza, totalmente al di fuori del richiamo a principi costituzionali, anzi basata sul suo opposto teorico-economico, nella precedente discussione del 27 novembre (su una mera interrogazione parlamentare), la imbastisce l'on Marzano:  lamenta che il cambio fissato a £ 990 risultasse penalizzante e che il governo si era impegnato a concordare 1020. Ma, al tempo stesso, ritiene comunque l'adesione (ndr; allo Sme e quindi all'euro) non mantenibile perché non abbiamo proceduto al previo taglio "strutturale" della spesa pubblica e saremmo stati "in ritardo" nel "processo delle privatizzazioni"...

Anche il 25 novembre 1922, allorché Mussolini ricevette i pieni poteri con voto della Camera (!), la classe politica e la stessa base popolare italiana non realizzano la piena portata dell'evento: cioè, nessuno si preoccupa veramente di prevedere gli ulteriori esiti della situazione politica, nel momento in cui viene ufficializzato il passaggio ad una forma di governo che non si cura più di rispettare la sostanza (elettivo-parlamentare dell'investitura del presidente del consiglio) dell'ordinamento "costituzionale" albertino, lasciandone in piedi solo le forme (l'incarico del Re e la compartecipazione di altri partiti al primo governo Mussolini), con qualche aggiunta; ad es; il "formale" Gran Consiglio, che non fu destinato, poi, ad assumere effettive decisioni, tranne che, beffardamente, l'ordine del giorno Grandi nella fatidica conclusione del 25 luglio  1943.
..."
5. Riassumendo in termini frattalici (rammentando che è pur sempre un divertimento che, peraltro, più di uno trova estremamente "liberatorio"): il "dies a quo" della versione tragica è il 28 ottobre 1922; nella versione farsesca è, grosso modo, il 30 novembre 1996
Dunque queste prime avvisaglie di cedimento strutturale tenderebbero a portare a una formalizzazione (autoconservativa) della "presa di distanza" (da se stessi), in questo 2017, ma con circa 33 giorni di spostamento in avanti rispetto al 25 luglio (magari con l'inevitabile intensificarsi della "accoglienza" nonostante il dispiegamento della flotta).
Dal che l'8 settembre si ri-colloca anch'esso con un equivalente ritardo nel corso dell'anno, circa alla metà di ottobre, per capirsi: proprio, cioè, nella fase più calda dell'approvazione L€uropea della manovrona o manovretta di "stabilità" che precederà, guarda caso, la fase elettorale più accesa (e la prova generale siciliana).
Nel frattempo, dovendosi tarare su questo delay cronologico gli altri eventi intervenuti dalla metà del 1943, si può anticipare che il "divertimento" (frattalicamente parlando), non mancherà (potete sbizzarirvi: è chiaro che il punto realisticamente più confuso riguarda il ruolo degli USA in tutta la vicenda: ma non si può avere tutto dalla vita...frattalica).

giovedì 27 luglio 2017

VITALIZI KAPUTT: NON DISSOLVIMENTO DEL PRINCIPIO DI IRRETROATTIVITA' MA DEL LEGITTIMO AFFIDAMENTO


http://slideplayer.it/slide/976573/3/images/49/2.3.+I+PRINCIPI+DI+DERIVAZIONE+COMUNITARIA.jpg

1. Nonostante le tante lamentele sugli "sprechi" presunti e sull'intollerabile peso del debito pubblico, trasmesso immancabilmente alle generazioni future, nonchè sulla "enorme" spesa pubblica, l'intervento in funzione peggiorativa del trattamento pensionistico - ciò che si vuole costituzionalizzare per...costituzionalizzare l'euro-, non è considerato in sé illegittimo dalla giurisprudenza costituzionale, della Cassazione e anche amministrativa.
Si esclude infatti che tale intervento peggiorativo sia retroattivo allorché ci si trovi di fronte ad un "rapporto di durata", ove cioè la posizione soggettiva sostanziale (cioè il diritto a percepire la pensione) consista in un credito pecuniario, ma il suo adempimento da parte dello Stato, cioè il pagamento, si svolga nel tempo attraverso prestazioni (versamenti di denaro), di carattere periodico che si verificano nel futuro rispetto al sorgere del diritto alla prestazione.

2. Nell'escludere la retroattività come carattere delle leggi che dispongono il peggioramento del trattamento pensionistico (o di qualsiasi altro diritto di prestazione verso lo Stato, d'altra parte), detto in pillole, si distingue grosso modo (le formulazioni dottrinali e teorico giurisprudenziali sono tra le più varie e incerte) tra fattispecie generatrice della posizione giuridica di vantaggio (nel caso delle pensioni, il raggiungimento di una certa età e l'aver versato un certo ammontare di contributi per un certo numero di anni) ed effetti, protratti nel tempo, del rapporto giuridico (v. qui, in specie note 20 e 22: cioè il pagamento periodico, tendenzialmente mensile, di assegni pensionistici, sarebbe un autonomo effetto giuridico, scisso dal sorgere del diritto e, come tale, soggetto alla legge del tempo in cui verrà erogata, purché non si chieda la restituzione delle rate precedenti erogate sotto la legge vigente al tempo del collocamento in pensione). 
Se la "fattispecie generatrice" del rapporto di durata non è rivalutata dalla nuova legge, cioè diversamente regolata a posteriori (come ben definisce Luciani parlando di "dissolvimento della retroattività", sempre qui, nota 117),  - e in pratica, se non viene ridisciplinato ex tunc lo stesso sorgere del diritto, fino al punto che la legge successiva arrivi a escluderne il riconoscimento "ora per allora"-, considerando costitutivi del diritto solo i diversi requisiti di età e contributivi ANCHE per chi fosse già andato in stato di quiescenza negli anni passati (in base ai requisiti della precedente legge),  si arriva comunemente a sostenere che un "taglio" delle pensioni in godimento, non risulterebbe retroattivo.

3. Questo modo di considerare le cose, ormai assolutamente prevalente in Italia, pone dunque un unico limite per così dire "estremo" agli effetti di QUALSIASI legge peggiorativa in materia pensionistica, (al fine di non considerarla retroattiva): quello di negare gli effetti della precedente legge (in vigore al momento del "pensionamento") nell'aver GIA' dato luogo al diritto a pensione. 
Ma è anche da aggiungere (e se avete voluto leggere i links inseriti lo potrete approfonditamente constatare) che questo limite vale solo e sempre "dopo" la transizione del lavoratore nello stato di quiescenza: prima, durante la vita lavorativa del dipendente, in teoria, qualunque modifica della disciplina pensionistica sarebbe consentita, o almeno non incapperebbe nella qualificazione di retroattività, proprio perché, per definizione, non si è ancora perfezionata la fattispecie generatrice del diritto (alla prestazione).

4. Va anche ricordato che l'art.11 delle c.d. "preleggi" (preambolo al codice civile) prevede sì che "la legge non dispone che per l'avvenire; essa non ha effetto retroattivo": ma questa indicazione è un mero principio posto in una fonte legislativa, mentre la Costituzione esclude la retroattività della solo legge penale, cioè "punitiva" (art.25). Quindi, una legge "civile" (nel senso ampio di "non penal-sanzionatoria") successiva, che non intervenga in materia penale, non ha ostacoli a disporre in senso retroattivo e la retroattività delle leggi non penalistiche, in linea di principio, deve solo essere giustificata in base alla sua "ragionevolezza".
Per norme retroattive "peggiorative" della condizione di reddito e di patrimonio dei destinatari si cercherà normalmente una giustificazione in un qualche principio costituzionale che viene bilanciato con l'interesse pubblico che si intendeva tutelare con la legge "ampliativa" precedente, e che viene normalmente fatto prevalere su tale interesse (ormai, in modo generalizzato, in nome dei vincoli di bilancio con assunti con l'UE)..

5. Questo quadro presupposto, non esclude che la Corte, o molto più raramente, Cassazione e giudici amministrativi, possano rinvenire altri profili di illegittimità di discipline peggiorative di prestazioni erogate dallo Stato, o anche, cosa che dal punto di vista finanziario pubblico assume lo stesso significato, peggiorative di pagamenti in corrispettivo dovuti dai privati che si trovino in un rapporto (di diritto pubblico) "di durata" con l'amministrazione (ad es; i canoni pagati dagli assegnatari di pubblici alloggi o dai concessionari di beni demaniali marittimi). Ma non si tratta, appunto, di illegittimità legate alla retroattività in sè.
Con una considerazione molto empirica e soggetta a valutazioni caso per caso, che risentono moltissimo delle convinzioni extratestuali, rispetto al dettato costituzionale, determinate dal senso comune generato dal controllo mediatico e dal connesso indirizzo politico affermatosi di forza nei rapporti sociali, la Corte potrà giudicare certi peggioramenti legislativi della situazione di creditore dello Stato, entro rapporti a esecuzione periodica di prestazioni, come irragionevoli o "non consentanei". 
Cioè, secondo orientamenti ormai difficilmente prevedibili e sempre più restrittivi, la Corte potrebbe ritenere questi peggioramenti "eccessivi", perché troppo drastici o prolungati nel tempo: in genere si censura la non temporaneità del sacrificio, in quanto non commisurato alla durata dello stato di "emergenza" che lo giustifica, ovvero, si censura il suo incidere in una misura non sufficientemente graduata nel tempo.

6. La posizione attuale della giurisprudenza parrrebbe decisamente limitata ad affermare che "est modus in rebus": e dunque si orienta nel senso che la formula del "legittimo affidamento", che ha sostituito nella pratica quella della (esclusa) retroattività della legge peggiorativa della condizione, costituzionalmente tutelata, di lavoratori (e operatori economici in genere), operi essenzialmente come graduazione e attenuazione nel tempo della restrizione dei diritti sociali. Questa restrizione viene ritenuta, comunque, "finanziariamente" lecita in linea di massima, salvo temperamenti apportati caso per caso (per la pensione come per il pagamento di corrispettivi per il godimento di beni pubblici, sia pur essenziali secondo le norme costituzionali).
Ma questa moderazione quantitativa e questa gradualità sono affidate, per definizione, a un concetto di "legittimo affidamento" storicamente mutevole: ciò che ieri, o qualche decennio fa, poteva apparire un'irragionevole ed eccessivamente drastica, e non graduale, privazione di utilità economiche erogate dallo Stato, via via, fino ad oggi, muta di senso. 
Questo nuovo e inarrestabile "senso" si sviluppa sulla base della assoluta convinzione (anch'essa extratestuale rispetto alla Costituzione) che il risanamento finanziario dei conti dello Stato, imposto dalla benefica e moralizzatrice adesione agli obblighi imposti dalla partecipazione all'Unione europea, sia sempre più un obiettivo prevalente e assolutamente ragionevole, in quanto tale risanamento sia imposto dalla "scarsità di risorse" e dalla finalità di "promuovere la crescita".

7. Fatto questo riassunto preliminare di complesse questioni su cui i giuristi si affannano a trovare giustificazioni che si riducono a "quanto" sia prioritario il mantenimento dell'euro (ma per lo più senza rendersene conto), e rinviato alla lettura dei links relativi, nonché a (tutti) quelli sulle teorie espresse da Einaudi nel 1914 nel suo libro di scienza delle finanze, postateci da Francesco Maimone-, spero che un lettore in normale buona fede possa comprendere il quadro ideologico-economico che viene attuato, anzi accelerato, con la previsione del ricalcolo dei vitalizi (tendenzialmente pensionistici) dei parlamentari.
Siamo nell'ambito del perseguimento di un unitario disegno che considera in termini morali (come ogni rivendicazione anticasta, che si manifesta esclusivamente col pre-giudizio di immoralità dell'intervento dello Stato nel perseguimento dei suoi fini costituzionali essenziali), un problema di democrazia sociale: cioè ad un'esigenza di "rimozione degli ostacoli" che, anzitutto, si legava alla possibilità di tutti, anche dei meno abbienti, di partecipare effettivamente alla vita politica del paese: senza provvidenze mirate a coprire sul piano previdenziale chi si fosse dedicato a svolgere ruoli elettivi al servizio del paese, solo gli abbienti e coloro che siano i mandatari di questi potrebbero dedicarsi alla politica attiva (e all'elettorato passivo). 
E' anche ovvio che chi, tra gli eletti, come in concreto risulta dalla composizione professionale dei parlamentari (sempre più negli ultimi decenni, imprenditori, grandi professionisti e dirigenti d'azienza), disponesse di redditi e patrimoni di rilevante consistenza, non dovesse essere, in radice, destinatario di provvidenze, indennitarie come previdenziali, di cui non avrebbe altrimenti avuto alcun reale bisogno: o almeno avrebbe dovuto esserlo nella ridotta misura rapportata alla sua effettiva condizione economica.

8. Il fatto di aver affidato all'auto-gestione dei detentori del potere legislativo la fissazione della esatta e sempre crescente misura delle proprie provvidenze, come pure di ogni altra indennità per l'esercizio delle funzioni, e che ciò abbia dato luogo ad abusi, che urtano il senso comune, non esclude che permanga la validità di un sistema che tuteli la fasce sociali più deboli consentendogli di essere rappresentate nelle assemblee elettive.
Una correzione ragionevole degli eccessi che si sono accumulati nel tempo, purtroppo, non è resa possibile da questa situazione di radicale conflitto di interesse creato da decidenti che disciplinano i propri stessi interessi economici
Il "giochino", in compresenza della crisi finanziaria pubblica permanente (qualificazione insostenibile sul piano della corretta individuazione di cause/effetti, e di cui la Corte costituzionale stenta a rendersi conto per le ragioni sopra esposte) in cui viene gettato lo Stato a seguito dell'adesione alla moneta unica e ai vincoli fiscali conseguenti, è andato troppo oltre: ne discende una perdita di consenso che mette in pericolo la prospettiva di rielezione, per cui si corre ai ripari proponendo alla "gggente" uno scambio tra il "merito" di essere divenuti fanatici sostenitori dell'abolizione di privilegi (di cui non si riconosce più l'originaria finalità di democrazia sostanziale), e la riconquista della popolarità in quanto crociati moralizzatori.

9. Ma poiché si tratta di un unico disegno realizzato in "crescendo", - oltre a rinunciare a fare quello che sarebbe più logico, cioè rivedere secondo canoni di ragionevolezza e di attualità l'insieme delle norme auto-dettate che regolano i vari compensi dei parlamentari, magari fissando una volta per tutte criteri veramente trasparenti, che rendano tali disposizioni vincolate a oggettivi parametri esterni e determinati da soggetti terzi ed imparziali-, si genera un altro effetto.
E questo ulteriore effetto appare poi in effetti la "vera posta in gioco" di tutta la faccenda, rendendo la finalità della riconquista della popolarità nella veste di "pentiti della casta" un mero scopo esteriore e strumentale: e invero, si pone il precedente che l'applicazione di quasi qualunque drastica e non graduale riduzione dei diritti previdenziali sia accettabile, a maggior ragione se l'esempio è dato da chi sta per deliberarne di molto più estese e generalizzate per tutti i lavoratori.
Insomma, si pone una nuova frontiera nell'assottigliare, fin quasi ad azzerarlo, il "legittimo affidamento": la suggestione che ne risulta è del tutto irrazionale. 

10. Se infatti si era esagerato coi vari compensi dei parlamentari, la rinuncia ad una complessiva rimodulazione ed oggettivazione neutrale della materia, lascia il campo al solo criterio che, in effetti, si vuole affermare: ogni trattamento pensionistico, futuro o in godimento, può essere rivisto in base all'integrale calcolo contributivo.
La punizione subita, in nome della moneta unica e del pareggio di bilancio, da parte delle nuove generazioni (pp.10-11), va estesa a tutti perché l'abolizione dei "privilegi" realizzata "contra se" dalla classe politica elettiva, rilegittima quest'ultima a imporre a tutti-tutti i sacrifici imposti da L€uropa
 Poco importa se la composizione sociologica dei parlamentari, già da decenni, vede la prevalenza di soggetti economicamente privilegiati per propria privata condizione professionale, e se dunque, tale ri-legittimazione, a ben vedere, non abbia nulla a che fare con l'eguaglianza sostanziale nell'imposizione di sacrifici comparabili, nella misura, tra i diversi destinatari

11. E poco importa se l'idea di rideterminare in peius le pensioni in godimento o in procinto di essere maturate non sia conforme al criterio dell'adeguatezza che, l'art.38 Cost., imponeva di estendere e proseguire proprio rispetto alle "future generazioni", sicché far stare male, e progressivamente peggio, tutti i lavoratori non è un rimedio all'ingiustizia già perpetrata in nome de L€uropa, ma solo il perseguimento "militarizzato" e avallato dalla Corte costituzionale, dell'assetto sociale implicito nell'euro
Quell'assetto che Carli, pur principale ideatore e propugnatore del "vincolo esterno", sapeva essere scientemente perseguito dalla moneta unica in quanto ad effetti equivalenti al gold standard (qui, p.4) e che, appunto, Carli stesso descriveva così (p.8)
"...il ritorno alla convertibilità aurea generalizzata implicava governi autoritari, società costituite di plebi poverissime e poco istruite, desiderose solo di cibo, nelle quali la classe dirigente non stenta ad imporre riduzioni dei salati reali, a provocare scientemente disoccupazione, a ridurre lo sviluppo dell’economia".

martedì 25 luglio 2017

BERLINGUER, L'INFLAZIONE E LA DEFORMAZIONE NELL'ATTRIBUZIONE DELLE RESPONSABILITA'


http://www.daparte.it/sito/wp-content/uploads/2014/06/ascismocapitalismo.jpg

1. Nel 1976, Berlinguer sull'Unità, rilascia un'intervista il cui passaggio fondamentale è la notoria locuzione che l'inflazione colpisce sempre e per primi i ceti più poveri:

2. Berlinguer era in effetti un po' troppo pessimista; come abbiamo più volte visto (qui, p.1), all'inizio degli anni '80, Giavazzi e Spaventa, nell'analizzare l'uscita italiana dalla crisi di c.d. stagflazione, alla fine degli anni '70, parlavano di una ripresa molto più brillante che negli altri paesi:  
"Senza misure supply-side, comunque, l'inflazione sarebbe stata, al meglio, neutrale: grazie (però) a un sistema fiscale non indicizzato (ndr; in Italia: cioè grazie al fiscal drag che appesantiva de facto la tassazione sulle persone fisiche, su redditi aumentati in termini solo nominali, in presenza di inflazione), l'inflazione fornì le entrate per finanziare i sussidi alle imprese che permisero allo stesso tempo un recupero dei profitti e lo stimolo alla domanda proveniente da un deprezzamento reale. Il costo della conseguente disinflazione furono bassi precisamente perché  l'inflazione e la svalutazione della moneta avevano spinto i livelli di profitto dell'industria.  Questo paper sviluppa una comparazione specifica con l'esperienza del Regno Unito (cioè col sistema di tagli dell'intervento pubblico e di liberalizzazioni e privatizzazioni della Thatcher) che prese le mosse da condizioni molto simili a quelle italiane.
Argomentiamo che il successo della stabilizzazione italiana, e il suo evidente risultato superiore paragonato a quello britannico, sia dipeso in modo cruciale dal tempismo e dalla sequenza delle politiche poste in essere: facendo innalzare i margini di profitto e forzando l'aggiustamento solo successivamente a ciò, l'Italia non dovette subir l'ondata di chiusura di impianti osservata in UK.

Tanto che ammettevano "nonostante l'indicizzazione salariale, l'inflazione costituì un efficace strumento di politica economica e la disinflazione risultò relativamente indolore".

3. Indolore, rispetto ai livelli di disoccupazione e al livello della spesa pubblica e del debito rispetto al PIL (sempre qui, pp.1-3). Ciò che invece, Berlinguer mirava a limitare sollevando, poco dopo, la questione morale - contro ogni clientelismo e in favore de "l'economia aperta", suscitando la ormai celebre reazione di Federico Caffè che, nel "Processo a Berlinguer" (1982), stigmatizzò il "frequente indulgere al ricatto allarmistico dell’inflazione, con apparente sottovalutazione delle frustrazioni e delle tragedie ben più gravi della disoccupazione, costituiscono orientamenti che, seguiti da una forza progressista come quella del Partito comunista, anche se in modo occasionale e non univoco, possono contribuire ad allontanare, anziché facilitare, le incisive modifiche di fondo che sono indispensabili al nostro paese". 
Ancor prima, Caffè (nel "fatidico" 1978), aveva contrastato l'idea dell'inflazione come la "più iniqua delle imposte" con un articolo il cui titolo oggi sarebbe più che mai attualissimo: "La vera emergenza non è il “populismo” ma una normalizzazione di tipo moderato". Vi riporto il passaggio fondamentale perché accosta la posizione di Berlinguer a quella di Hayek: e siamo nel 1978 (!):
"La riscoperta del mercato, che non è fenomeno esclusivamente italiano anche se nel nostro paese ha trovato conturbanti consensi perfino nelle forze politicamente progressiste, lascia sconcertati, in quanto appare immune da ogni ripensamento critico che sia frutto della imponente documentazione teorica ed empirica disponibile sui fallimenti del mercato: dalla sua incapacità di tutelare efficacemente il consumatore che dovrebbe esserne il sovrano, al suo assoggettamento alle forze che dovrebbero dipendere dalle sue indicazioni, al riconoscimento delle carenze che esso manifesta nella segnalazione di esigenze vitali,  ma non paganti, della collettività.
I propositi di programmazione, d’altro canto, non si discostano ancora oggi dall’antica riserva mentale, di stampo einaudiano, che esorcizzava, a suo tempo, lo stesso termine di piano, sfumandolo in quello più blando di schema, o svuotandolo di una connotazione specifica, in quanto “tutti fanno piani”.
Questo arretramento culturale si traduce, fatalmente, in una deformazione nell’attribuzione delle responsabilità di una situazione che si conviene definire meramente di emergenza.
Che di arretramento culturale si tratti non dipende meramente dal ritorno all’antico: il ricupero di idee del passato che siano state a torto trascurate o che non siano state adeguatamente comprese a tempo debito, risulta generalmente valido.
Ma allorché Hayek ha, del tutto recentemente, scritto che “la causa della disoccupazione risiede in una deviazione dai prezzi e dai salari di equilibrio che si stabilirebbero automaticamente, in presenza di un mercato libero e di una moneta stabile”, si è di fronte non a una fruttuosa rielaborazione di idee che abbiano radici lontane, ma all’ennesima attestazione dell’atteggiamento del ritorno retrivo di chi non ha saputo niente apprendere e niente dimenticare.
L’informazione maggiormente in grado di influenzare l’opinione pubblica, i messaggi delle persone in posizione di potere e di responsabilità non differiscono da questa, in fondo patetica, incapacità di studiosi indubbiamente eminenti, come Hayek, di riconsiderare in modo nuovo antichi convincimenti".
4. E quanto "antico" è questo convincimento che l'inflazione sia la più iniqua delle imposte a carico dei (soli) poveri? 
Ne troviamo traccia (traiamo dallo studio di Clara Mattei) già nella Conferenza di Genova del 1922, - promossa dalla FED con i banchieri centrali (e non), chiamati a indicare le soluzioni alla crisi di stabilità monetaria e finanziaria (inevitabilmente) susseguente alla prima guerra mondiale, che metteva in pericolo la restituzione soddisfacente delle linee di credito concesse ai paesi indebitatisi con la guerra (tra cui l'Italia) e poi costretti, dalla svalutazione, ad accrescere il debito estero conseguente alle indispensabili importazioni. Specie importazioni alimentari per i paesi agricoli, e non ancora industrializzati, che avevano dovuto mobilitare i contadini come soldati, e non riorganizzarono tempestivamente una produzione agricola auto-sufficiente, e né disponevano di una produzione di beni industriali idonea a sostenere senza danni finanziari e monetari, gli scambi con l'estero. 
4.1. Lo vediamo, in particolare, nella Resolution III (qui p.7), che indica il legame genetico tra gold standard e banche centrali indipendenti:
L'inflazione è una "modalità di tassazione non-scientifica e dissennata" (v. qui, pensiero ripreso da Einaudi, in "addendum") che produce costi della vita più elevati e consequente "malessere del lavoro".
“In secondo luogo le banche, in particolare le banche di emissione, devono essere indipendenti dalla pressione politica al fine di agire esclusivamente “entro le linee di una finanza prudente"(Resolution III, 28). 
Più specificamente, i tassi di interesse devono salire al fine di restringere il volume del credito disponibile. Invero, "se il saggio controllo del credito porta al denaro "caro", questo risultato aiuterà di per sè a promuovere l'economia" (Resolution VII, 29). La commissione è consapevole che queste misure accrescono il costo della restituzione del debito flottante. 
Tuttavia afferma:
“non vediamo ragioni del perché la comunità nella sua capacità collettiva (cioè i Governi) dovrebbero essere soggetti a qualcosa di meno della normale misura di restrizione del credito che riguarda i membri individuali della comunità"  (Resolution IV, 28).”
 
Cioè lo Stato deve mettersi in mano ai mercati finanziari: lo sappiamo benissimo che il senso dell’indipendenza delle banche centrali è questo, ma le conferme fan sempre piacere.
Ovviamente “a  Brussels si è già concordi sul fatto che “E' altamente desiderabile che i paesi che hanno deviato da un effettivo gold standard debbano ritornare ad esso,” [Resolution VIII, 19].”

5. L'originaria formulazione parla semplicemente di "malessere del lavoro" non di "iniquità verso l'orfano e la vedova": la formula è elittica, perché in realtà allude alle rivendicazioni salariali dei lavoratori che si manifestavano in quel dopoguerra, una volta ottenuto il traumatico (per ESSI) diritto di sciopero (o, almeno, la cessazione della sua illiceità penale e repressione militar-poliziesca), . 
Oltretutto, quei lavoratori - inclusi i poliziotti e i militari che, secondo il "vecchio" schema ante-guerra, avrebbero dovuto essere utilizzati nella repressione degli scioperi (dettaglio storico-sociologico da non trascurare)-, erano in gran parte reduci dal massacro della grande guerra e, a fronte di un drastico "taglio" della forza lavoro (sterminata a milioni da gas e mitragliatrici), avevano imparato ad organizzarsi in sindacati che erano sempre più forti, con un'autoorganizzazione che si rifletteva anche nella rappresentanza politica consentita dal suffragio universale (al tempo, ai suoi "esordi").
Ebbene, il contrasto a queste rivendicazioni fu teorizzato in nome del gold standard e delle banche centrali indipendenti e proprio l'accanimento in questo pensiero unico legittimò, appunto, l'avvento in Italia del fascismo e ogni altra deriva autoritaria nel resto d'Europa.
La realizzazione TINA di questo "mondo ideale" giustificò poi l'autoritarismo ben visto e finanziato da ambienti finanziari anglosassoni - come ci testimonia direttamente Benjamin Strong, presidente della Fed e laudatore dell'efficienza del fascismo nel 1927- e industriali, come ci testimonia Basso (qui, p.3).  
Con buona pace della ricostruzione di Berlinguer che "salta" qualche fondamentale passaggio nell'attribuire all'inflazione la generazione "autonoma" del fascismo, ignorando il decisivo "intervento di (ben precise) forze sociali" indicato da Basso.

Questa presa di posizione di Einaudi è perfettamente allineata con le conclusioni delle Conferenze degli anni '20, che include nelle sue premesse ideologico-economiche "naturali" e che, comunque, inserisce anche  in questo famoso passo; ma che vengono abilmente paludate di quella veste morale "preoccupata" dei più deboli, che, evidentemente, dovette poi suggestionare Berlinguer. Da notare che, in una non casuale anticipazione, la versione einaudiana era inserita in uno scritto sui "problemi economici della federazione europea" (!):
Il vantaggio del sistema [di una moneta unica europea] non sarebbe solo di conteggio e di comodità nei pagamenti e nelle transazioni interstatali. Per quanto altissimo, il vantaggio sarebbe piccolo in confronto di un altro, di pregio di gran lunga superiore, che è l’abolizione della sovranità dei singoli stati in materia monetaria
Chi ricorda il malo uso che molti stati avevano fatto e fanno del diritto di battere moneta non può avere dubbio rispetto alla urgenza di togliere ad essi cosiffatto diritto. 
Esso si è ridotto in sostanza al diritto di falsificare la moneta (Dante li avrebbe messi tutti nel suo inferno codesti moderni reggitori di stati e di banche, insieme con maestro Adamo) e cioè al diritto di imporre ai popoli la peggiore delle imposte, peggiore perché inavvertita, gravante assai più sui poveri che sui ricchi, cagione di arricchimento per i pochi e di impoverimento per i più, lievito di malcontento per ogni classe contro ogni altra classe sociale e di disordine sociale. 
La svalutazione della lira italiana e del marco tedesco, che rovinò le classi medie e rese malcontente le classi operaie fu una delle cause da cui nacquero le bande di disoccupati intellettuali e di facinorosi che diedero il potere ai dittatori.  
Se la federazione europea toglierà ai singoli stati federati la possibilità di far fronte alle opere pubbliche col gemere il torchio dei biglietti, e li costringerà a provvedere unicamente colle imposte e con i prestiti volontari, avrà, per ciò solo, compiuto opera grande. 
Opera di democrazia sana ed efficace, perché i governanti degli stati federati non potranno più ingannare i popoli, col miraggio di opere compiute senza costo, grazie al miracolismo dei biglietti, ma dovranno, per ottenere consenso a nuove imposte o credito per nuovi prestiti, dimostrare di rendere servigi effettivi ai cittadini.” (L. Einaudi, I problemi economici della federazione europea, saggio scritto per il Movimento federalista europeo e pubblicato nelle Nuove edizioni di Capolago, Lugano, 1944 ora in La guerra e l’unità europea, Milano, Edizioni di Comunità, 1950, pagg. 81-82)."

7. Con il che il cerchio si chiude, sicché una corretta memoria storica dovrebbe consentire, alla maggior parte degli italiani, di capire perché ci troviamo oggi in questa situazione.

domenica 23 luglio 2017

UN RIMEDIO SEMPLICE SEMPLICE: IL VETO ASTENSIONISTICO

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1. Come prima cosa invito a rileggere questi due post: 
Nel primo si analizza come la democrazia "liberale", cioè a processo elettorale idraulico e mirata esclusivamente alla instaurazione dell'ordine internazionale del mercato, risulti più efficiente di uno Stato autoritario-dittatoriale nel realizzare lo "Stato minimo", quello che conserva e rafforza il potere sociale e istituzionale di una ristretta oligarchia: nelle attuali condizioni storico-istituzionali, questa maggior efficienza è determinata dal perseguimento implicito di un altro grado di astensionismo (prossimo o superiore al 50%). 
L'astensionismo, nelle democrazie occidentali contemporanee, caratterizzate dal suffragio universale, e dalla difficoltà formale di abolirlo (per lo meno al momento), è la forma (autolesionistica) che assume la reazione, intenzionalmente provocata, alla introduzione di "vincoli", monetari e fiscali, di natura tecnocratica e ad applicazione automatica (imposti normalmente per via di trattati internazionali, quindi vincoli "esterni"). 
Si realizza, cioè, proprio inducendo l'indifferenza del corpo elettorale verso l'esito del voto, quella forma di efficienza del governo delle oligarchie teorizzata proprio da Pareto (qui, p.6): … Lasciando da parte la finzione della “rappresentanza popolare” e badando alla sostanza, tolte poche eccezioni di breve durata, da per tutto si ha una classe governante poco numerosa, che si mantiene al potere, in parte con la forza, in parte con il consenso della classe governata, molto più numerosa…

2. Nel secondo post, sul presupposto che in un regime di democrazia "liberale", a causa della invariabilità delle politiche che qualunque maggioranza uscita dalle urne sarebbe scontatamente "vincolata" a perseguire", si evidenzia che il rimedio principale non sia votare "contro le tasse", ma "non votare per chiunque non ponga la questione della inaccettabilità democratica della banca centrale indipendente, da cui deriva la conseguente inaccettabilità di tutti i corollari che, affermatisi a livello europeo, costituiscono il vincolo esterno".
In quella sede, tuttavia, si premetteva che "il problema delle banche centrali indipendenti non è culturalmente percepibile dal cittadino comune
Questi è in grado di registrare l'aumento della pressione fiscale a livelli insostenibili, ma non sa collegare questo effetto al crescente e devastante costo del collocamento del debito pubblico sui "mercati".
Potrà perciò votare "contro" le tasse, ma non evitare che le tasse continuino ad aumentare, magari attraverso patetiche "rimodulazioni" di cui i governi europeizzati e ordoliberisti si servono per attrarre un consenso del tutto ingannevole: cioè basato sulla illusione finanziaria, per cui il costo della copertura dell'onere del debito viene spostato da un titolo di imposizione all'altro, da un tributo a un taglio della spesa pubblica per servizi pubblici essenziali, senza che il cittadino-elettore sia in grado di percepirlo.
Al massimo, sarà (coattivamente) indotto a pensare che sia un rimedio "ridurre il debito" o "tagliare la spesa pubblica", accedendo all'idea - che vedo ripetuta ancora più ossessivamente, in questi giorni- di "aver vissuto al di sopra delle proprie possibilità"."

3. Adottando quindi il metodo fenomenologico, un rimedio democratico più efficiente non sta tanto nel superare il controllo mediatico che rende impenetrabile all'opinione di massa l'espressione di un voto consapevole, (ciò richiederebbe tempi lunghi e autentiche rivoluzioni sul controllo di vasti settori dell'economia, con esiti molto incerti).
Infatti, il sistema mediatico tende a dissimulare in ogni modo il problema delle banche centrali indipendenti e dell'ideologia sottostante ai vincoli esterni di natura monetaria e fiscale, e quindi all'invariabilità delle politiche che qualunque maggioranza sarebbe vincolata a perseguire. Si può dire, anzi, che questa opera di dissimulazione degli scopi effettivamente perseguiti col "vincolo €sterno" sia il compito principale del sistema mediatico (che, appunto, come evidenziava Basso, è perciò rigidamente controllato dalle stesse oligarchie timocratiche).
Il rimedio sta nel trasformare il senso della reazione in cui consiste l'astensionismorebus sic stantibus, questa risulta "istintiva" (cioè inevitabilmente non cosciente della cause effettive di questa invariabilità) e finisce addirittura per agevolare il gioco delle oligarchie.
Ma è possibile immaginare un meccanismo istituzionale che attribuisca all'astensionismo il senso di una manifestazione di volontà effettivamente espressiva di un dissenso impeditivo della prosecuzione delle politiche oligarchiche.

4. Abbiamo già suggerito, in modo più organico e mirato, un insieme di riforme conservative e rafforzative dell'attuale Costituzione, lavoristica e pluriclasse, che quindi costituisce un ostacolo intollerabile alla piena instaurazione del regime oligarchico della democrazia "liberale" (ed infatti si continua, nei media, a voler definitivamente distruggere l'attuale Costituzione attraverso drastiche manomissioni formali). 
Ma queste soluzioni "chirugirche"esigerebbero che chi se ne facesse promotore sul piano legislativo, fosse già una consistente maggioranza politica nel paese. 
Proponiamo invece un rimedio che, anche nell'attuale governo mediatico dei mercati, avrebbero un facile e vasto riscontro nell'opinione pubblica, che comunque, e in qualche modo, ne ha orecchiato le problematiche relative.

4.1. Basterebbe eliminare il quorum del 50% per i referendum (abrogativi delle leggi), con una minima interpolazione dell'art.75 comma 4, della Costituzione, e invece introdurlo per la validità delle elezioni politiche, con una minima modifica dell'art.48 Cost., tesa a salvaguardare in concreto la "effettività" e la "libertà" del voto.
Se l'astensionismo da mera reazione istintiva che, in definitiva, il controllo oligarchico-mediatico ha attualmente il massimo interesse ad incentivare, divenisse  STRUMENTO DI MANIFESTAZIONE DI VOLONTA' CONCRETA DELL'INDIRIZZO POLITICO CHE NON SI VUOLE, avremmo in pratica qualcosa di simile al diritto di veto spettante ai tribuni della plebe nell'ordinamento dell'Antica Roma, solo diretto a contestare,anzicché singole leges, l'assetto dei rapporti di forza instaurati di fatto, e quindi contrari alla Costituzione. 
Ma il meccanismo attualmente ipotizzato, eviterebbe la "personalizzazione" di tale potere in un numero ristretto di aventi diritto, portati alla creazione di clientele distorsive del suo uso, e si atteggerebbe come strumento di democrazia diretta, realizzativo della partecipazione all'indirizzo politico della sovranità popolare.

4.2. In pratica, la contrarietà popolare all'attuale sistema di decisione politica €uro-vincolata, - oggi diffusa e dispersa, e posta, dall'esistenza del sistema mediatico, nella pratica impossibilità di autoorganizzarsi, per evidenti limiti di accesso a risorse finanziarie e a strumenti di comunicazione-,  avrebbe la possibilità di rendere decisivo, e istituzionale, il partito dell'astensionismo.
Ciò consentirebbe di coagulare la convergenza del vasto dissenso popolare su una volontà comune minima, non più ostacolata da reciproche pregiudiziali ideologiche, attentamente alimentate dal sistema mediatico di controllo oligarchico, che impediscono l'unità organizzata del prevalente dissenso. 

4.3. Avendo un'opportunità pratica di questa portata, la tentazione di astenersi dal votare finirebbe di essere generica protesta senza costrutto e sarebbe incentivata come forma di concreto segnale di "cambiamento" reale, e non costruito a tavolino dall'oligarchia mediatica. 
La soglia paralizzante dell'astensionismo "significativo" agirebbe da strumento di dissuasione preventiva, ridisegnando  radicalmente l'atteggiamento delle elites, oggi sprezzante del raggiungimento di un'effettiva maggioranza elettorale. 
La stessa ossessione praeter Constitutionem della "governabilità (qui, p.2.1.4.-2.1.6.) assumerebbe un senso sostanziale molto diverso e svuotato della sua insanabile ipocrisia.

5. La mera esistenza di un meccanismo del genere avrebbe conseguenze di enorme portata per ricalibrare entro l'alveo della legalità costituzionale il comportamento di tutte le forze politiche e delle stesse istituzioni:
- i partiti dovrebbero finalmente porsi il problema di non rendere immutabili le scelte politiche rispetto alla volontà popolare in base al vincolo esterno, perché sarebbero costretti, onde evitare che l'astensionismo paralizzi la loro stessa possibilità di governare,(vincendo elezioni idrauliche "in absencia" della maggioranza dell'elettorato),  a presentare preventivamente programmi impegnativi e che realmente realizzino gli interessi della maggioranza dell'elettorato;
-  poiché il problema della piena occupazione e delle politiche che ne consentirebbero il raggiungimento, che oggi risulta assolutamente prioritario, dovrebbe essere posto realisticamente allo scrutinio del popolo sovrano, coloro che predicassero la sola efficacia di misure sul lato dell'offerta, cioè volte esclusivamente ad abbassare i costi delle imprese in funzione della competitività estera, si troverebbero immediatamente a dover rendere conto del fallimento pluridecennale di questa ideologia che, comunque, è obiettivamente diretta a beneficare delle minoranze;
- i partiti principali, inoltre, dovrebbero inevitabilmente rendere conto del fatto che l'ideologia sottostante a tali politiche economiche può reclamare una legittimità soltanto sulla base di quel "lo vuole L€uropa": che è invece alla base dell'astensionismo. 
Ma l'astensionismo cesserebbe di essere neutrale, cioè indifferente, in termini di perdita di consenso: posti i partiti in condizione di constatare in modo istituzionalmente paralizzante l'effetto delle politiche propugnate per via dell'accettazione, supina e auto-deresponsabilizzante, del vincolo esterno, la gara elettorale non sarebbe più, come avviene nelle democrazie "liberali", mirata a conquistare il consenso del "centro", ma quello delle fasce più colpite dalle politiche finora perseguite.

Queste sono solo alcune delle implicazioni di questo rimedio "semplice-semplice": molte altre ve ne sono. E sono sicuro che sareste in grado di indicarle (sempre partendo dalle analisi dei due post la cui rilettura è suggerita all'inizio).