venerdì 29 settembre 2017

CAMBIAMENTI EPOCALI: L'ANNO DEL "RITORNO"





1. Cercherò di farla breve (veramente). 
Poiché ho constatato una prevalente, e peraltro confusa, vena esoterista che interpreta il diffuso sentire di un cambiamento epocale, in vario modo (prevalentemente sprezzante della democrazia sostanziale che, in termini storici complessivi, diciamoci la verità, si rivela essere una breve fase utopica del costituzionalismo giuridico), abbandono, per il momento, l'aggiornamento dell'ipotesi frattalica (che è molto consolatoria, mi dicono in molti, ma pur sempre ricollegabile a quella fase utopica). E dunque, mi cimento con qualcosa di più ligio al "tradizionalismo" dominante (si fa per dire: la struttura e i rapporti di classe rimangono talmente concreti che conflitti sezionali e "morali", metafisiche e metastoriche, sono sempre in agguato per creare "coscienze" di semicolti in preda a proiezioni identificative a effetti autolesionistici, molto pratici ed "esistenziali". Bazaar capirà. Ma anche molti altri...spero).

2. Il sistema tradizionalistico cui farò riferimento è la numerologia fondata sul Libro dei Mutamenti cinese, l'I-Ching (o I-King, secondo una pregressa fonetizzazione occidentale), forse (la disputa al riguardo non è oggettivamente interessante) il testo scritto, organico, più antico del mondo (attualmente storicizzabile). 
Per una delle migliori versioni aggiornate al sincretismo orientalistico dei nostri giorni, il consiglio di un "collezionista" di riedizioni e commentari vari, è questo.
Brevemente (dunque, dicevasi...): muoviamo dall'ipotesi che il XXI secolo sia uno spartiacque, in quanto come tale è autodefinito nella sintassi della stessa cultura occidentale; ma proprio in quanto divenuta anche recettiva di influenze culturali policentriche (assunte come interpretabili in modo convergente, mediante processi comparativi, reductiones ermeneutiche di vari testi e fonti, per istituire delle corrispondenze, e via dicendo...fino a dettagliate analisi-sintesi, più o meno giustificate da vari meccanismi compensativi psicologici, che agevolano l'autorassicurante rimozione della condizione di "subalterno"). 

3. All'interno della numerazione temporale romano-cristiana del XXI secolo, mediante le segnalatate corrispondenze cronologiche, d'altra parte, sarebbe collocabile la fine dell'era attuale (brutta) e l'inizio di una nuova (un po' meno brutta)
Su questo esistono diverse teorie (quella appena linkata parla del 2025 e ci tornerà utile perchè...è così) e innumerevoli tentativi di datazione (tra "precessione degli equinozi" e datazione steineriana al 2030): non le ripercorriamo e ci limitiamo a prendere atto di questo fatto culturale in senso fenomenologico.

Utilizzando la numerazione (micro)ciclica dell'I-Ching, e riferendola, molto prosaicamente e pragmaticamente, alla situazione €uropea rapportata all'Italia, avremmo un anno iniziale del XXI secolo collocabile nel 2001: il procedimento interpretativo così adottato, si sottolinea, è meramente temporale-sequenziale e quindi prescinde dai vari sistemi di consultazione del Libro (monete, steli, etc; adatti a singoli quesiti individuali), di cui si assume pertanto come "predittiva-orientativa" la struttura numerologica in sé che descrive comunque andamenti trasformativi partendo da un "punto zero".

4. Il 2001, nei termini che qui interessano, conferma la praticabilità non del tutto arbitraria di questo approccio: 1º gennaio: inizia il XXI secolo (eloquente la corrispondenza numerologico-simbolica con quanto accade il 2 gennaio, se si conosce cosa significhi il numero 2, simbolo della forza "oscura" primigenia: 2 gennaio: tutta la parte settentrionale dell'India - proprio l'India- resta senza corrente a causa di un guasto ad un'importante centrale elettrica del Paese).
Ecco il fondamentale risvolto €uropeo del 2001 (al suo culmine):
15 dicembre - Nei 12 paesi europei facenti parte dell'Unione Economica e Monetaria (UEM) vengono distribuiti gli euro starter kit (sacchetti con monete di Euro), in previsione della messa in circolazione ufficiale che avverrà il 1º gennaio 2002. Sottoscrizione da parte dell'Unione europea della Dichiarazione di Laeken (cioè della "impellente" necessità di allargamento dell'UE ai paesi dell'Europa dell'est con esigenza di adeguamento della governance istituzionale che porterà a Lisbona).
5. Da questo momento, se vi munite del Libro, è possibile per qualunque lettore trarne delle conseguenze: mi riservo nei commenti di illustrare eventualmente alcune più sofisticate implicazioni (legate alle c.d. linee mutanti, argomento da sempre da prendere con le pinze, senza autoindulgenza) che consentono di dettagliare l'interpretazione sul senso riassuntivo, per i vari anni considerati, degli esagrammi numerati. 
Oggi, saremmo dunque nel 17° anno del secolo, corrispondente, all'esagramma "Il Seguire" (dopo che al 2012, pensate, è corrisposto "Il ristagno", forse il più nefasto tra tutti). 
Il segno 17, è altamente aderente alla realtà italiana, in quanto allude a una situazione in cui "come noi non dobbiamo chiedere agli altri di seguirci...così siamo in grado di seguire gli altri senza danno solo alla medesima condizione" di coerenza e di azione "giusta" (traggo dal commento alla c.d. "sentenza" di Wilhelm).
Si tratta di un evidente richiamo alla condizione di "reciprocità", propria del diritto internazionale (art.10 Cost.) ripresa nelle "condizioni di eguaglianza" che l'art.11 Cost., pone come condizione di adesione alle organizzazioni internazionali che perseguano la pace e la giustizia tra le Nazioni (escludendo la legittimità costituzionale dell'adesione a organizzazioni internazionali prive di questi effettivi connotati...).  
Il commento "Kama" di Reifler ci dice: voi e gli "amici" avete diversi sistemi di valori e principi che entrano spesso in conflitto...(!) E perciò, in vero spirito €uropeo, "dovete fare a meno delle aspettative che entrano in conflitto con quelle degli Amici". Oggi più che mai, come ormai appare evidente praticamente a tutti.
Lo esplicito: oggi, 2017, dovete (cioè non c'è possibilità di scelta) fare a meno delle aspettative che sono oggettivamente in conflitto con i partners UE: così sulla condivisione dell'accoglienza degli immigrati, così sull'atteggiamento cooperativo della Germania relativo all'espansione della sua domanda interna mediante reflazione salariale, così sull'atteggiamento paritario che mai la Francia potrebbe avere nelle relazioni politico-industriali verso l'Italia. Così, infine, sull'idea che un trattato liberoscambista, basato sui vantaggi comparati e sulla specializzazione "retrograda" che ci vorrebbe imporre, nonché su una moneta "denazionalizzata" (e deflattiva ex se), possa mai costituire un vincolo assunto nell'interesse del popolo italiano.

6. Sempre in breve: segnalo, e quindi consiglio, - nell'intraprendere l'interpretazione di lettura sequenziale-strutturale qui ipotizzata-, di guardare agli anni (cioè esagrammi numerati in modo corrispondente), 2018: "L'emendamento delle cose guaste- operare su ciò che è stato corrotto", 2019: "L'avvicinamento"...della classe dominante alla volontà di "sostenere e proteggere il popolo", fino al 2024, "Il ritorno- Il Punto di Svolta", allorché, anche se "la via è tortuosa" è "propizio avere una qualche luogo dove andare"
Tanto che, non a caso (sempre per il 2024):
"Così gli antichi re al tempo del solstizio, chiudevano i valichi, i mercanti e gli stranieri non viaggiavano. E il Sovrano non viaggia nelle province"
7. Questo quadro complessivo, trasposto al vincolo esterno e alla istituzione totalitaria €uropea, segnerebbe appunto, nel 2024 e proiettato verso il 2025 (v. sopra sulla fine dell'oscura età del Ferro), un mutamento realmente epocale.
Non sarà una passeggiata, ma almeno potrebbe concludersi abbastanza positivamente per noi. (Fino al successivo mutamento)...

8. Post scriptum: personalmente trovo la situazione attuale "grave ma non seria" come non mai. 
L'agire simultaneo, all'interno di qualsiasi "mutazione" di forze opposte eppure complementari, non significa dualismo, ma "realizzazione mediante superamento" degli opposti in gioco: ma in un'alternanza senza fine che consente costanti riequilibri, necessari a pena di estinzione dell'Umanità.
Poi c'è chi non disdegna questa ipotesi perché non si ascrive al (resto della) Umanità stessa. Si sbaglia naturalmente.
Nelle conseguenze (per...ESSI e i loro seguaci) di questo errore "esiziale", volendo praticare il (disdicevole) "attaccamento", risiederà però il divertimento di un'evoluzione che sarà certamente anche traumatica. Ma per costoro, "di più"...

mercoledì 27 settembre 2017

L'INVARIANZA ELETTORALE DELLA GERMANIA E LE "RIFORME" DELLA SINISTRA COSMETICA

http://www.amicimarcobiagi.com/wp-content/uploads/2017/02/elefante.jpg
"The majority of voters in Western countries are here!"

1. Non mi stancherò mai di ripetere che tutto il battage, sulla crisi della costruzione europea e sul risultato "sconcertante", costruito dai media intorno alle elezioni tedesche, dipende dal concetto cosmetico di "destra" che si è costruito per simmetria al (neo)concetto di sinistra ridotta alla promozione dei diritti cosmetici (qui, p.2, infine): l'idea-guida è assuefare l'opinione di massa alla prevalenza di minoranze sezionali "deboli" per rendere accettabile la prevalenza della minoranza di classe timocratica, come fatto compatibile con "l'essere di sinistra". 
In ciò sta il capolavoro del controllo mediatico del neo-liberismo e della idraulicizzazione della democrazia liberale, fatta passare come evoluzione naturale delle democrazie sociali in virtù della "globalizzazione" (che è invece un fenomeno di pervicace istituzionalizzazione intenzionale condotta dalle stesse elites e nient'affatto naturalistico).

2. Una volta capito che questa schematizzazione destra-sinistra non è fatta per descrivere la realtà dell'evoluzione dell'UE ma per dissimularla, cioè per dissimulare i suoi fini originari, si capisce che, finora, la "costruzione" è stata un indiscutibile successo.
Ma proprio per questo, cioè per essere stata efficace ed efficiente nel rendere irrilevanti "i parlamenti" nazionali, e quindi il suffragio universale, ed assorbire la sovranità degli Stati in un "buco nero" da cui non dovesse più riemergere (v. qui, le ormai celebri parole di Amato), - proprio per costituire ciò la forma più efficace di restaurazione dell'ordine internazionale dei mercati, (cioè istituzioni sovranazionali fondate riduzionisticamente su: a) gold standard (ovvero valuta de-nazionalizzata con banca centrale indipendente "pura"; b) free-trade; c) flessibilità del mercato del lavoro)-, questo successo lascia inevitabilmente sul campo di battaglia una quantità di vittime che, nell'ideologia neo-liberista dei vincitori, sono assunte come "costi". 
Ma sono classificabili come costi solo in quanto le vittime (chiamate elegantemente "i perdenti della globalizzazione") sopravvivano fisicamente, continuando a gravare sull'efficiente allocazione delle risorse necessariamente scarse quali disoccupati e anziani improduttivi: nei prediletti termini malthusiani, se fossero fisicamente morte o MAI NATE, queste vittime sarebbero un asset

2.1. E non a caso, la massa degli immigrati chiamati a sostituire i mai nati, i suicidati e i pensionati (di cui accorciare opportunamente le aspettative di vita) sono denominati "risorse": in effetti servono a ricostituire e possibilmente ad ampliare le fila dell'esercito industriale di riserva dei disoccupati e dei precarizzati, spingendo, attaverso una costante destabilizzazione sociale (che è il "costo" del successo, già messo in conto) verso la piena realizzazione del lavoro-merce (cioè della condizione di equilibrio teorizzata dai neo-ordo-liberisti come "flessibilità" che consente di negare persino il verificarsi periodico delle crisi, viste come mere fasi di aggiustamento verso gradi più intensi di flessibilità, come postulato della mai abbandonata visione teocratica della Legge di Say). 

3. Ora i discorsi di Macron sulle riforme dei trattati, come pure le svolte a destra della Merkel, sono perfettamente comprensibili nella loro natura dialettica apparente (che Wolf spiega in modo lineare), e di mere sfumature tattiche ed auto-conservative, che sono adottate di fronte al "costo" della crescente impopolarità elettorale prima o poi conquistata da qualsiasi leader L€uropeista.
Queste posizioni pseudo-dialettiche, infatti, rimangono saldamente ancorate dentro il pensiero unico delle elites che hanno re-istituzionalizzato l'ordine internazionale del mercato: di cui L€uropa costituisce il più imponente successo, in quanto realizzante tale obiettivo in una comunità di Stati in precedenza caratterizzata da elevati livelli di industrializzazione "matura", di benessere relativamente diffuso e di connessa democrazia sociale (qui, p.4).

4. Ribadiamo un passaggio di Wolf , dal post sopra linkato (p.9), che proprio perché scritto a maggio, cioè ben prima delle elezioni tedesche, mostra come il "cul de sac integrazionista" che si sarebbe creato ora è pura fantasia (dei media italiani in particolare):
"La soluzione alle divergenze di competitività che propone la Germania (ndr; e che piace agli spaghetti-liberisti sopra ogni altra cosa e, aggiungiamo, valeva ieri come vale oggi essendo del tutto indifferente il risultato elettorale), è che ognuno segua il suo modello
Nel 2016 tutti i membri dell'eurozona hanno così conseguito, eccetto la Francia, un surplus delle partite correnti (ndr; problemino non da poco...per Macron e la popolarità che ne ricaverebbe ove volesse accodarsi agli altri nel realizzare rapidamente, alla Monti, l'aggiustamento delle partite correnti). 
Il saldo corrente complessivo dell'eurozona è passato da un deficit dell'1,2% nel 2008 ad un surplus del 3,4% nel 2016 (ndr; complice un dollaro forte che, però, dopo un transitorio effetto elettorale "Trump", sta tornando sui suoi passi)."
...E dunque? Ecco: 
"Se la Francia fosse indotta in una prolungata deflazione competitiva, Marine Le Pen diverrebbe presidente alla prossima tornata
Macron deve chiedere ad Angela Merkel se la Germania sia disposta a rischiare questo risultato. Le "riforme" (ndr; del mercato del lavoro, beninteso) in Francia sono essenziali. E così lo sviluppo di istituzioni di condivisione del rischio (ndr; nella migliore delle ipotesi e al netto delle condizionalità  giugulatorie volute dai tedeschi, da realizzarsi al più nel 2024, a "Macron" ormai giubilato). 
Ma l'eurozona ha bisogno di un grande salto in avanti nelle retribuzioni dei tedeschi. Potrà accadere? Ho paura di NO (ndr; questa risposta logico-macroeconomica, cooperativa e anche democratico-sostanziale, non è più "praticabile" sol perché il malcontento sociale ha portato voti a AfD e...ai liberali)."

5. Sarà allora meglio rammentare in cosa consista, e sia sempre constistito, il capitalismo tedesco e quale sia stato sempre, ed invariabilmente, il suo ruolo, promosso dai veri fondatori USA del federalismo L€uropeo, all'interno della costruzione. 
Ci richiamiamo a uno scritto di Halevi, già più volte citato in questo blog, ma che oggi è straordinariamente attuale. (Halevi, va precisato, non è un keynesiano, tantomeno "post": ma è quantomeno un euro-realista, privo di illusioni sulla riformabilità dei trattati).
Di tale paper consiglio un'attenta rilettura: sarebbe troppo lungo riprodurlo per intero. 
Ma tre passaggi meritano di essere riportati perchè mostrano sia la omogeneità del capitalismo tedesco rispetto a quello USA, riguardo alla struttura dominante degli oligopoli internazionalizzati, sia la peculiare rigidità ed invarianza dell'ideologia politica (ordoliberista-corporativista) che lo sorregge e che è parsa alle elites USA il motivo per avallare il modello tedesco come elemento di stress trasformativo dell'intera Europa:
A) Complessivamente dal 1982 al 1989 (ndr; piena "era SME") le eccedenze con l’estero non fecero che crescere fino a toccare quasi il 5% del prodotto interno lordo della RFT.  
Questo costituiva il valore più alto nell’arco dell’intero decennio per l’insieme dei paesi dell’Ocse ad eccezione di alcune punte toccate dalla Svizzera. La composizione delle eccedenze mutò inoltre in favore dei redditi da investimenti esteri. Nel 1982 tale voce era nulla per cui il surplus con l’estero era dovuto interamente all’attivo commerciale. 
Nel 1989 il valore degli introiti netti da investimenti esteri era intorno al 20% del valore dell’attivo commerciale
Il fatto che l’aumento delle esportazioni nette in prodotti industriali venisse affiancato da un rapido incremento dei proventi netti dall’estero mostrava che la strategia tedesca di internazionalizzazione del capitale attraverso le esportazioni aveva successo. Le politiche messe in cantiere negli anni settanta poterono germogliare negli anni ottanta, nonostante l’ulteriore calo della crescita reale europea e mondiale.
Lo SME fu alla radice di questo successo
Avendo ricompattato l’Europa sulla Germania nella fase alta del dollaro (1980-85), lo SME costituì un formidabile strumento per barricare il potere economico del capitale tedesco in Europa nella fase post-Plaza della svalutazione del dollaro. Dopo il 1985 le eccedenze europee con gli USA, compreso il surplus tedesco, si affievolirono assai rapidamente Complessivamente invece la crescita dell’attivo tedesco nei conti con l’estero continuò a crescere in assoluto ed in proporzione del reddito nazionale. Oltre il 60% del surplus della bilancia dei pagmenti corrente di Bonn proveniva dall’Europa, mentre nei confronti del Giappone la Germania soffriva di un deficit crescente. I profitti effettuati dal territorio tedesco nelle transazioni estere si realizzavano quindi principalmente in Europa.
Il contesto economico generale era però altamente stagnazionistico
Dopo la grande espansione economica del 1968-73, dovuta soprattutto agli aumenti salariali, il tasso di crescita medio annuo europeo scese, nel periodo 1973-79, dal 4,9 al 2,5%. Quello della RFT passò dal 4,9 al 2,3%, cioè sotto la media europea
Dal 1979 al 1990 il tasso europeo calò ulteriormente al 2,3% mentre il saggio di crescita tedesco toccava appena il 2%, aumentando lo scarto negativo rispetto alla media del Continente. Il basso tasso di crescita della RFT assieme alla posizione oligopolistica, protetta dallo SME, dell’apparato finanziario-industriale della Germania in Europa spiegano il ‘successo’ della strategia di accumulazione attraverso l’estero del capitale tedesco. La posizione globalmente oligopolistica della Germania è parzialmente deducibile, per il periodo 1979-90, dall’andamento medio positivo della ragioni di scambio. In altre parole, crescendo di meno ed esportando senza cedere sui prezzi la Germania strinse l’Europa in una morsa oligopolistico-stagnazionistica [3].
L’accumulazione stagnazionistica tedesca ottenne grande plauso in Europa
La tecnocrazia francese esaltava il ‘modello renano’ contrapponendolo sia al capitalismo cartaceo anglo-americano sia all’inesitente radicalismo dei sindacati ufficiali tipo CGT. È comunque vero che in Germania i sindacati si adeguarono al ‘modello renano’ malgrado il paese esibisse un tasso di disoccupazione vicino al 7% benchè in moderato declino dal 1986. Il successo nel campo delle esportazioni contribuirono a convincere anche i sindacati che il ‘modello’ funzionava e bisognava quindi farlo durare. 
Dei problemi che tale strategia creava se ne preoccuparono in pochi, tra i quali però va menzionato Romano Prodi che in un saggio del 1990 colse chiaramente la morsa deflattiva in cui Bonn avvinghiava l’Europa [4]. 
In ogni caso spinte a mutare il contesto delle cose non emergevano a meno che non si volesse prendere sul serio il piano Delors, una sorta di omogeneizzazione del capitalismo europeo in un’alleanza oligopolitica transnazionale gestita pariteticamente dalla burocrazia francese e dalle istituzioni tedesche. Il cambiamento avvenne perché crollò la parete orientale su cui poggiava il capitalismo tedesco in Europa.
Nota 4, che ci interessa da vicino: Romano Prodi, “The economic dimension of the new European balances”, Banca Nazionale del Lavoro Quarterly Review, no. 173, 1990 

B) Nel capitalismo oligopolistico l’aumento dei margini di profitto non conduce necessariamente ad un maggiore investimento, può invece aggravare la stagnazione. Al tempo stesso le imprese sono sollecitate rafforzare ulteriormente i margini di profitto quando subentrano considerazioni di natura finanziaria legate al pagamento di dividendo e/o all’ottenimento di prestiti dai ‘mercati finanziari’. Ne consegue che la finanziarizzazione dei processi decisionali implica la trasformazione di attività in passività finanziarie future. 
Per esempio se, come accade in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, una società si impegna comunque a pagare dei dividendi, l’emissione azionaria considerata come un attivo dal lato finanziario si trasforma in un esborso e quindi in passività. Se invece la società conserva la libertà effettiva di non distribuire dividendi, sottomettendo tale possibilità alla propria strategia di sviluppo, la traslazione di attività in passività non avviene automaticamente. Negli Stati Uniti il crescente ricorso ad istituzioni finanziarie extra bancarie obbliga vieppiù le imprese ad onorare l’impegno di erogare dividendi. Inoltre l’intercompenetrazione tra ‘mercati finanziari’ e fondi di investimento impone decisamente alle imprese di seguire una doppia linea che poco ha a che fare con l’investimento reale di lungo periodo. Da un lato esse devono garantire i pagamenti ai detentori di pacchetti di azioni, in larga parte in mano a società finanziarie. 
Dall’altro lato le imprese devono assicurare che le azioni esibiscano valori tendenzialmente crescenti. La dinamica della capitalizzazione borsistica diventa così un elemento essenziale nella capacità di ottenere prestiti e di emettere strumenti di indebitamento come le obbligazioni. La consistenza del valore dei dividendi e delle azioni è valutata in termini reali, viene cioè paragonata all’andamento dell’inflazione e del saggio di interesse. In tal modo le imprese devono endogeneizzare il comportamento anti-inflazionistico
Dati quindi i prezzi, vi è un solo modo per conseguire un saggio di rendimento monetario coerente con le valutazioni generate dai ‘mercati finanziari’: aumentare i margini di profitto. Proprio perché i prezzi sono dati, ciò implica la riduzione del costo del lavoro (salario) unitario. 
In teoria la riduzione dei costi di produzione può effettuarsi tramite gli investimenti produttivi. Quest’ultimi però dipendono principalmente dalla domanda ed hanno perciò un orizzonte temporale molto diverso dall’immediatezza richiesta dai ‘mercati finanziari’. Ne consegue che la pressione principale viene esercitata sul salario stesso.
Quanto descritto corrisponde al comportamento dell’economia americana negli ultimi due decenni che ha comportato una crisi senza ritorno nel salario della grande massa dei lavoratori statunitensi [1]. Questo tipo di accumulazione finanziaria si risolve in un grande numero di persone allo sbando, anche se formalmente occupate, per le quali l’accesso ai servizi ed alle prestazioni pubbliche di natura sociale è vieppiù subordinato al principio dell’obbligo reciproco. 
Ancora alla fine degli anni ottanta la Germania era lontana anni-luce da questa visione della società, possibile solo in un’economia totalmente spanata, disarticolata ed autoritaria come quella americana. In Germania la stessa deflazione salariale era concepita in termini produttivistici: ristrutturare tecnologicamente - non finanziariamente - per aumentare la produttività rispetto al salario. Se i risultati erano positivi in termini di profitto i sindacati cercavano di far scattare la contrattazione aziendale che poi diventava un elemento nella contrattazione di categoria. 
È su questa base che, nella sostanza, i sindacati hanno accettato la strategia neomercantilista varata dai socialdemocratici nel 1969 e continuata da Kohl nel 1983, le cui conseguenze stagnazionistiche e altamente negative in termini occupazionali per la Germania e l’insieme dell’Europa sono già state discusse. Una forza lavoro occupata allo sbando è inconcepibile in Germania, ma è proprio questo che Schroeder vuole sradicare dalla testa della popolazione.

C) ...Innanzitutto la strategia lanciata da Schroeder nota come alleanza per l’occupazione si basa sull’idea che gli aumenti salariali sono un ostacolo al riassorbimento della disoccupazione. Ovviamente questa spiegazione, tra l’altro errata sul piano concettuale, non è che un pretesto. 
Dal patto produttivistico orientato verso le esportazioni dei decenni settanta-ottanta, che comunque si è fondato su uno spostamento della distribuzione del reddito in favore del capitale e dei profitti senza tuttavia rilanciare il tasso di crescita reale, il governo social-verde di Schroeder è passato alla subordinazione dei sindacati ad una politica che pone le rendite azionarie - e quindi la valutazione proveniente dai mercati finanziari - al primo piano [3]. 
Inoltre e coerentemente con tale scelta, il Governo ha lanciato una riforma fiscale e dell’azionariato, la cui entrata in vigore è prevista quest’anno (2002), volta a facilitare le transazioni di pacchetti azionari e le stesse scalate ‘ostili’. Commentando tali misure l’International Herald Tribune ha giustamente osservato che esse aprivano la strada a radicali ristrutturazioni occupazionali destinate ad alterare profondamente il panorama sociale del paese e quindi dell’Europa. Infine la coalizione social-verde si sta battendo per spostare il sistema pensionistico verso i fondi di pensione proponendo finanziamenti pubblici agli schemi privatistici.
Data la natura altamente organizzata del capitalismo tedesco, i mutamenti vengono concepiti gradualmente. 
Nel frattempo i socialdemocratici cercano di organizzare il consenso intorno alla chimera finanziaria. “Il principio è nuovo” ha dichiarato con approvazione Erich Standfest, specialista di politica sociale del sindacato confederale DGB, aggiungendo: ”il fondo permetterà di allargare le possibilità dei piazzamenti facendo in particolare maggiormente appello ai mercati borsistici” [4]. La chimera risiede nel fatto che si spera di accrescere il patrimonio pensionistico riducendo, al contempo, i contributi sociali erogati dalle aziende. 
Lo sgonfiamento della bolla di Wall Street e l’ulteriore aggravamento della stagnazione stanno riaprendo la contraddizioni inerenti a tali strategie. I socialdemocratici non cambieranno però strada per cui la soluzione vettoriale delle contraddizioni avverrà sul terreno sociale, o in termini di scontro oppure in termini di accettazione passiva. Per salvare la loro strategia privatistico finanziaria - che è poi quella del capitale nella sua totalità - i governanti di Bonn, ora trasferitisi a Berlino, cercheranno di rafforzare l’Euro come moneta della deflazione salariale e del potere della ricchezza astratta, ossia di quella finanziaria. Su questo terreno troveranno l’appoggio delle classi capitalistiche europee ma non necessariamente del capitale americano.(Ndr "non necessariamente", sarebbe da precisare, con riguardo agli effetti, per gli stessi USA, del mercantilismo tedesco, ma, come comprovano i fatti, non certo rispetto alla potenza riplasmatrice della spinta tedesca rispetto ai paesi con le "Costituzioni antifasciste"...)
Dal punto di vista del lavoro dipendente, cioè di classe, è assolutamente importante convincersi che con questi obiettivi non vi è nulla da spartire. 
Bisogna quindi guardare alla creazione dell’Euro come un elemento delle strategie del capitale monopolistico europeo il quale lungi dall’essere omogeneo si esprime in maniera coerente solo nella lotta che conduce indefessamente contro il salario e la spesa pubblica produttiva e sociale
Invece, purtroppo, la sinistra partitica italiana è corresponsabile dell’accettazione dell’ideologia metapolitica insista nei discorsi sull’ “Europa” e sull’ Euro. Questa ideologia disarticola ed indebolisce la resistenza e la capacità di autonomia politica delle classi e degli strati la cui vita dipende unicamente dai redditi da lavoro e dal funzionamento ed ampliamento dei servizi sociali pubblici.

lunedì 25 settembre 2017

MERKEL, KOHL E LA N€O-GOVERNANCE: LA CAROTA DAVANTI AL MUSO (PER ORA)

http://www.ilrestodelcarlino.it/ravenna/cronaca/2012/11/03/796967/images/1578922-vincitori_horse_emotion_2012.JPG

1. Prendiamo le mosse dal rammarico, carico di suggestioni, del Sole24 ore:

Sappiamo già come sono andate le elezioni tedesche: i nostri media hanno fatto del relativo risultato la più grande giaculatoria dal tempo della Brexit. Tanto che mi pare appropriato evidenziare un ossimoro (forse) passato inosservato ai più (visto che generalmente anche il mainstream mediatico, oltreche le stesse istituzioni economiche internazionali, ormai concordavano sul fatto che L€uropa avvantaggiasse solo la Germania): 

Ora, nel voto tedesco è verosimile scorgere un'analogia con il risultato delle elezioni olandesi. Con un piccolo particolare in aggiunta: la Germania è il paese egemone nell'eurozona e, quindi, il suo governo, QUALUNQUE suo governo, è decisivo nel dettare la linea "comune", cioè quella a sè più conveniente. Che, a parte le giaculatorie, rimane strutturalmente quella del mantenimento dell'euro.

2. Seguono quindi i commenti dei media italiani, fermamente schierati a favore della Merkel, e cioè del mantenimento dell'euro ad ogni costo. 
Repubblica, non sapendo cogliere la ripetitività e, ancor più, le ragioni dei mutamenti, in quanto, come tutti i media italiani, parla degli effetti sociali ma non delle cause (cioè l'euro, da mantenere ad ogni costo, in oggettivo endorsement dell'egemonia tedesca) commenta "a caldo" così, in un modo che tutt'ora è replicato compattamente da tutti i giornaloni:
"La Cdu di Angela Merkel si conferma primo partito in Germania con il 33,3% (pur perdendo quasi 10 punti percentuali), male la Spd che supera di poco il 20% e l'estrema destra dell'Afd - che per la prima volta entra al Bundestag - è addirittura il terzo partito, con il 13,2%. Sono i dati delle prime proiezioni, che confermano gli exit poll, diffusi dai media tedeschi alla chiusura delle urne in Germania, nel voto per il rinnovo del Bundestag.
Successo anche per i liberali, intorno al 10%, ma in netto recupero rispetto a quattro anni fa. Tengono la Linke e i Verdi, sulle stesse percentuali del 2013".
E, peraltro, subito evidenzia:
"Scontata la conferma di Merkel come cancelliera, anche se non è chiaro quale maggioranza la sosterrà. "È una pesante sconfitta per l'SPD, oggi finisce per noi la grande coalizione", ha detto Manuela Schwesig, una delle esponenti di spicco dell'SDP. Parole confermate poco dopo dal leader del partito, Martin Schulz: "Andremo all'opposizione".
Con questi numeri infatti, e vista la posizione dei socialdemocratici, unica coalizione possibile sarebbe la coalizione cosidetta Giamaica (dai colori dei partiti), la coabitazione insieme alla Cdu dei liberali dell'Fdp e dei Verdi. Alleanza alla vigilia considerata difficile, visto che le posizioni di Fdp e Gruenen sono molto lontane. Tanto che la leader dei Verdi, Catrin Goering-Eckardt, ha detto a caldo: "I colloqui per il governo saranno difficili"."

3. Il fatto è questo: se alleanze con qualsiasi coalizione saranno presumibilmente possibili in nome di un maggior rigore nei confronti degli altri euro-partners, - quand'anche ciò non abbia alcuna razionalità economica per l'interesse tedesco, quantomeno quello principale: mantenere in vita l'euro-  il risultato sarà comunque quello preannunziato nel precedente post. Qualunque sia la collocazione di SPD; sulla cui vocazione all'opposizione, avendo un po' di pazienza, non sarei così sicuro: esistono pure gli "appoggi esterni" sulle principali misure che, in Germania, promuovo l'interesse nazionale dentro L€uropa. 
La Merkel rimarrà al governo e la sua "carta vincente" non potrà che essere la riforma dei trattati antisolidaristica e PIGS-distruttiva. In tal modo, ponendo fuori gioco ogni tipo di effettivo bail-out e di effettivo burden sharing, sia riguardo al debito pubblico sia rispetto ai sistemi bancari nazionali, vedrebbe rapidamente riaperta la strada del consenso. 
In effetti è sufficiente la semplice mossa di riformare i trattati, spingendo Macron al federalismo fiscale "maggiorato" con Moscovici poliziotto del rigore, a carico soprattutto dell'Italia, e proseguire lo stallo negoziale all'infinito sul fondo L€uropeo di salvataggio bancario.

4. Quanto al versante interno del dissenso tedesco, poi, basta condire il tutto con lo stesso epitaffio ausiliario che ha caratterizzato l'esito del similare voto olandese:  
Severità che, a dirla tutta, Merkel, Schauble e Issing avevano, già da un pezzo, adottato: ma si sono sbagliati sui numeri (sebbene a favore di Confindustria tedesca), prima di chiudere i giochi, come ha di recente ben evidenziato Clemens Fuens (oltre a dire tante altre cose interessanti specialmente per noi italiani),
"L'intera storia dei benefici economici portati alla Germania dall'immigrazione dei rifugiati nel 2015 è fuorviante, così com'è stata raccontata. Si trattava di aiutare le persone, ma non c'è stato un guadagno economico per la Germania. Ovviamente i grandi leader industriali ne sono stati felici, perché traggono vantaggio dalla manodopera a basso costo e non pagano per il welfare garantito ai migranti. Ma per l'economia nel suo insieme c'è un costo. L'immigrazione di persone che guadagnano meno della media porta ad una perdita di benessere per la popolazione nativa perché questi individui sono beneficiari netti dell'assistenza pubblica. Ottengono più in termini di servizi pubblici e trasferimenti di quanto contribuiscano in termini di tasse."
 
4.1. L'ipotesi di governo di coalizione alternativo all'attuale, sarebbe poi così difficile? Non tantissimo, visto che un interesse nazionale condiviso comunque c'è:
'Giamaica' riuscirebbe (secondo le proiezioni) ad avere 348 deputati su un totale previsto di 631: 220 seggi a Cdu/Csu, ai liberali di 67 e ai verdi di 61. Il problema è che Verdi e Liberali hanno posizioni inconciliabili su molti punti, come l'Ue. L'altra opzione, la Grosse Koalition, con i suoi 137 deputati vedrebbe una maggioranza più ampia con 357 deputati."

5. Ma...niente paura: l'analogia con  l'Olanda rende allora molto utile domandarci: com'è andata a finire la formazione di una maggioranza di governo?
Se non ci sono novità recenti, grosso modo così: 
"Da quando ci sono state le elezioni generali, lo scorso 15 marzo, i Paesi Bassi sono senza governo: il risultato molto frammentato ha fatto sì che non ci fosse una maggioranza chiara, e nonostante intense trattative i principali partiti non hanno ancora raggiunto un accordo per formare una coalizione che raccolga almeno 76 parlamentari, necessari per avere la maggioranza al parlamento. Le vacanze estive stanno poi complicando le trattative, con i parlamentari che chiedono di rimandare tutto a settembre".
In Germania, come pure in Olanda, tuttavia, queste estenuanti fasi di trattativa - nonostante l'ossessivo "facciamocome" ital-autorazzista che ci addita sempre esempi di "governabilità" nordeuropei- non costituiscono un'anomalia:
"Forse i media internazionali, e olandesi, si preoccupano per la mitologica "governabilità"?
"Dalla seconda guerra mondiale, i governi hanno avuto un tempo medio di formazione di 72 giorni, da paragonare alle 4-6 settimane necessarie per formare una tipica coalizione in Germania. Il record olandese sono i quasi sette mesi necessari nel 1977, ma anche ciò impallidisce rispetto al suo vicino, il Belgio, che dopo le elezioni del 2010 ha impiegto 541 giorni per arrivare a un accordo di coalizione". 
316 giorni per formare un governo conservatore "di minoranza" in parlamento (dopo ben due elezioni rivelatesi inutili a chiarire una precisa maggioranza): un governo che si regge sull'astensione "collaborativa" (!) dei socialisti, che non hanno interesse a sottoporsi a una terzo voto politico in tre anni, dato che temono di uscirne letteralmente distrutti".

6. E viene da pensare, visto che "i mercati governano, i tecnici gestiscono e i politici vanno in televisione", in Italia come in Germania: (pp. 4-7) non si fa prima a dire che gli unici "voti" che contano sono quelli di Confindustria e dei banchieri centrali?
  
Insomma, a cominciare, in ordine cronologico dalla Spagna, la soluzione Citigroup rimane la più probabile, in tutte le sue variegate forme che non ne mutano la sostanza, oltretutto, abbondantemente confermata sullo scenario dell'eurozona, come linea naturale di evoluzione - verso la definitiva irrilevanza, ne L€uropa- del suffragio universale nazionale.
A proposito: la soluzione Citigroup è stata esplicitata solo per l'Italia. Ma non è una novità questa estremizzata sincerità, che dico!, brutale schiettezza, rispetto ai nostri affari interni: è l'esplicitazione della nuova costituzione materiale L€uropeizzata. 

7. Tornando ai riflessi italiani di queste elezioni tedesche, avendo un po' di pazienza nell'attenderne i prevedibili sviluppi, mi pare che lo schema vincente si stia ripetendo.
Basta convincere l'opinione di massa degli italiani che c'è una cosa molto "bella" - ieri l'euro, oggi la nuova governance federal€ antisolidaristica- ma i tedeschi "non ci vogliono" (come no!), e farne un feticcio, una carota da metterci (per ora) sotto il naso, e con cui andare festanti all'ennesimo festino in cui siamo il piatto principale in menu: l'Ital-tacchino "porchettato".   

8. Siccome, in molti, i links non se li vanno a leggere, a scanso di equivoci, vi ripropongo il "vero volto €uropeo" di Kohl (così, Tietmeyer in una intervista col settimanale "Il Mondo" il 15 maggio 1995 (n.20, datato 20 maggio), a cura di Stefano Eleuteri):
"Il 1996 fu l’anno delle decisioni definitive per l’euro. L’Italia arrivò alla volata finale in difficoltà, e indietro. Il terreno sarà poi recuperato da Prodi e Ciampi – pagando il prezzo suppletivo di una parità troppo alta. Ma la decisione, si poteva scrivere quindici anni fa di questi giorni, era già stata presa:
“Kohl dirà un giorno, lo va dicendo da tempo, che Margaret Thatcher e François Mitterrand gli hanno estorto un impegno a “restringere” la Germania nell’euro, in cambio del consenso alla riunificazione. E che questo impegno fecero patrocinare dagli Usa – che invece l’euro non lo amano, per il poco che lo considerano. Il cancelliere lo va dicendo per venire incontro all’opinione pubblica nel suo paese: i giornali, sia conservatori che socialisti pretendono che la Germania non gradisca l’euro, non gradisca cioè un legame stabile con gli altri paesi europei. La verità è però un’altra: Kohl vuole tutti nell’euro, per non avere concorrenze sleali da parte dei partner europei. In particolare ci vuole l’Italia. In disaccordo per questo col suo stesso presidente della Bundesbank, l’amico di partito Tietmeyer. Al quale l’ha detto chiaro, e di questo ne ha reso edotto Lamberto Dini: l’Italia deve entrare nell’euro, alle condizioni di Maastricht, fin dal primo minuto.
Hans Tietmeyer, da buon tecnico, ha escogitato varie soluzioni per una sorta di Euro 2, un secondo livello di paesi europei con vincoli di spesa pubblica meno rigidi. Il suo ragionamento è semplice: l’Italia ha un debito doppio di quello della Germania, non potrà mai stare nei parametri rigidi fissati a Maastricht. Per l’Italia e gli altri paesi indebitati come il Belgio, si può quindi pensare a un Euro 2. Si può pensarci anche come una soluzione a tempo, “per un anno”: finché le economie dei paesi più indebitati si metteranno in condizione di onorare gli impegni di Maastricht.
Il cancelliere invece è di tutt’altro parere: un’Italia fuori dall’euro, e insieme strettamente legata all’industria tedesca, farebbe una concorrenza rovinosa. L’Italia deve quindi essere subito parte dell’euro, alle stesse condizioni degli altri partner.”
 

domenica 24 settembre 2017

ELEZIONI IN GERMANIA TRA RIFORM€ DEI TRATTATI...E HAZARD CIRCULAR



1. Cerchiamo di percepire le cose dalla "giusta distanza", avendo razionalmente a riferimento lo scenario complessivo degli avvenimenti economico-istituzionali in fieri sulla scena L€uropea. Merkel-Schulz oggi stravinceranno, sapendo in anticipo che la Große Koalition si "ha da fare".
Soprattutto perché non ci sono sostanziali differenze tra le politiche economiche ordoliberiste (in continuità mercantilista, rispetto a L€uropa), che intendono perseguire i due rispettivi partitoni filo€uropeisti. 
Questa convenienza prioritaria a stare insi€me - dopo qualche il rituale balletto nelle trattative per formare il governo (da tirare per le lunghe quanto basta in una tradizionale cosmesi)- può essere sintetizzata da questo slogan elettorale abilmente utilizzato:


2. Come dovremmo ormai sapere, appena messa nel sacco la conferma dell'attuale "governabilità", la Germania, assicuratasi l'essenziale appoggio di Macron (cioè delle elites francesi; sarebbe troppo dire "della Francia"), passerà alla fase accelerativa delle riforme dei trattati in senso ancor più stringente dell'antisolidarietà interstatale che li caratterizza, passando a un regime finanziar-poliziesco ancora più duro e colpevolizzatore dei paesi che difettino di una competitività millimetricamente modellata su quella tedesca. 
E' da presumere che, qualunque sia l'attuale orientamento governativo e, inoltre, qualsiasi sia l'esito delle prossime elezioni, i "negoziatori" pro-tempore italiani appoggeranno senza sostanziali riserve questa riforma: sì, verrà fatta qualche obiezione, ma la sostanza sarà valutata positivamente, dato che tutti i principali rappresentanti politici, tutti gli espertologi chiamati in causa, e tutti i media, concordano già ora sul fatto che il problema è l'enorme debito pubblico, e che è giunto il momento di affrontarlo con decisione per...promuovere e favorire "la ripresa". 
E infatti, con grottesca coerenza, gli parrà naturale accelerare l'insostenibilità di tale debito pubblico, accettando il rating dei titoli del debito (risk weighted), come pure, astutamente, l'incremento di contribuzione (netta) al neo-bilancio federale dedito alle condizionalità...

2.1. Insomma, dentro la moneta unica, i dogmi del liberoscambismo, della crescita senza "puntare" sulla domanda interna, e la logica della scarsità di risorse, - in pratica la Hazard Circular- tengono in pugno le istituzioni di tutti i paesi coivolti nell'eurozona e i relativi partiti sono ridotti a fedeli esecutori di questa "madre di tutti i dogmi" (antidemocratici), costantemente ritirata fuori in ogni fase cruciale del capitalismo

3. Proprio perché parla della Hazard Circular e del suo ruolo essenziale all'interno del "federalismo interstatale", - assunto come inevitabilmente omogeneo a qualsiasi federalismo- riporto questo commento di Bazaar, che non solo ci delinea sinteticamente la genesi storica del modello politico-sociale che stiamo subendo, in tutto l'Occidente sottoposto all'ombrello atlantista (v. la "premessa), ma anche le sue proiezioni in un prossimo futuro. 
Storicamente, la ricostruzione di Bazaar, prende le mosse dalla guerra civile USA di Secessione, le cui fratture furono, in parte, ricomposte proprio introducendo la "solidarietà" FISCALE centralizzata, nello Stato federale, cioè nello US Governement, così odiato dagli anarco-liberisti e dai tea-party, ma pure dai mondialisti "liberal", in vista dell'agognato momento in cui tutto il globo sarà governato da ONG private controllate da ESSI
Quella stessa solidarietà fiscale - c.d. "di trasferimenti", che in realtà, secondo la nostra Costituzione, dovrebbe comporsi di politiche di investimento e industriali di interesse comune a tutta la Nazione (v. qui, p.4) - che il federalismo L€uropeo, come pure quelli "local-secessionisti", si fanno un punto d'onore di voler eliminare:
"Chang fa notare che il fronte liberoscambista è rappresentato dagli stati del sud, economicamente fondati su schiavitù e latifondi e, di conseguenza, strutturalmente collaborazionisti coi britannici a causa dei "vantaggi comparati".

Tanto che il "partito sudista" era pubblicamente tacciato di essere filobritannico.

Chiaramente, il problema di annichilire la forte aspirazione democratica dei singoli stati nazionali nordamericani prima di essere vincolati dalla federazione - che erano oggettivamente molto libertari rispetto allo stato oppressivo che la putrida "nobiltà" imponeva ai popoli europea - concentrava la discussione dell'élite americana proprio intorno al "check & balance" per produrre istituzioni "federali" che garantissero l'alternanza, nella dialettica governo-opposizioni, tra interessi della proprietà terriera del sud e della borghesia mercantile del nord.

Contemperando la comune esigenza di non permettere strutturalmente la solidarietà di classe dei lavoratori, e, quindi, la democrazia, tramite la natura divisiva della grande federazione, ed i suoi corollari di inconciliabilità di interessi molto diversi tra ceti che avrebbero gli stessi interessi di classe. Ossia, il federalismo nasce con l'intento di provocare artificialmente conflitti sezionali non di classe. Così, la sanior pars, può governare indisturbata esclusivamente su indiscutibili ed eticissimi "principi".

La tradizione hamiltoniana liberista ma non liberoscambista, volta a proteggere l'infant capitalism del nord, troverà poi naturale sbocco con Lincoln.

Certo è che la dottrina Monroe segna l'indipendenza nazionale degli USA che, in qualche modo, possono sviluppare la propria industria nazionale ed essere loro ad imporre il "libero scambio" agli altri.

Infatti, dalla Hazard Circular del 1862, si evince che al capitale britannico sta bene che gli USA si emancipino definitivamente e non rimangano ad esportare patate e cotone - come vorrebbe la logica ricardiana di specializzazione - poiché de facto hanno dimostrato la forza per entrare nell'élite delle "potenze imperialiste". Aboliscano pure la schiavitù ma che si attengano totalmente al "protocollo" liberale: scarsità delle risorse tramite controllo privatistico dell'emissione monetaria (v. "macroregioni" L€uropee). Che Lincoln la pianti col "crimine" di soddisfare la domanda di denaro per lo sviluppo dell'economia. Non si vorrà mica rischiare di arricchirsi tutti e far finire l'ordine secolare che permette esorbitanti privilegi ai pochissimi, no?

Schmitt si sgola per decenni a dire, poi, che ogni volta che si parla di Occidente e occidentali, si parla sempre e solo di dottrina Monroe.  

Quando l'Occidente avrà compreso Russia, Iran, Corea del Nord, Siria e Cina... bè, anche degli USA non ci sarà più bisogno. Tutto sarà Occidente per la gioa del Grande Oriente. E, come sapevano i Founding Fathers, l'umanità si schiavizzerà in un'impersonale tirannia a cui non parteciperanno neanche le stesse élite con la loro infantile vocazione mondialista".

giovedì 21 settembre 2017

"TIMO" CATALUNYA...ET DONA FERENTES (festosamente all'autodistruzione: ma non delle elites locali).


1. La "lotta" di cui si devono evitare i segni, stra-ovviamente, è quella con L€uropa delle macroregioni in cui dissolvere gli Stati nazionali. 
QED in diretta sincronica ital-€uropeista:


2. Sul punto macroregioni, loro essenza, e DICHIARATE finalità, da rileggere questi due post:

A) L'ATTACCO FINAL€ ALLA SOVRANITA' DEMOCRATICA: LE MACROREGIONI (zitti, zitti, nella "notte" delle Costituzioni democratiche...la "grande società" avanza)

B) MACROREGIONI E "BEST PRACTICE" (irish-way) ALL'INTERNO DELL'AREA EURO: MA SIETE SICURI?

Sintesi (dei due lunghi post, corredati dalla illustrazione della enorme mole delle fonti dirette L€uropee, già emanate "a vostra insaputa"): 

"...le macroregioni trovano il loro senso, - come risulta evidente dalla procedura di proposta e approvazione, rigidamente controllata dalle istituzioni UE all'interno (sicuramente per quanto ci riguarda) della moneta unica-, nel divenire un sistema di attuazione accelerato del modello economico dell'euro

In questo quadro strategico (intrisencamente tecnocratico), che tende ulteriormente a forzare l'applicazione dei trattati, aggirando le resistenze di Stati nazionali e relativi parlamenti, le macroregioni servono essenzialmente a evitare di dover dare soluzione ai problemi di mutamento dell'assetto europeo. 
Ed infatti, oltrepassano a livello ideologico-culturale, fondato su una neo-etnia condivisa e "contro" le identità nazionali di provenienza, i problemi di asimmetria dell'eurozona. 
Insomma, implicano un'accettazione idealistica, tanto labile quanto facile da suscitare, in nome della dissipazione delle nazionalità, identificate, senza alcuna coerenza con la realtà delle vicende dell'eurozona, con gli Stati "oppressori" e "tassatori". 
Esse possono quindi contare su un (ben noto) serbatoio propagandistico internazionalista e, al tempo stesso localista, tipico dell'attacco dispersivo delle sovranità democratiche portatrici del welfare.
Ottenuta l'adesione fideistica delle comunità interessate all'accordo autorizzato da Bruxelles (e già la contraddizione dovrebbe essere un campanello d'allarme), le macroregioni creano, a livello sub-statale (e simultaneamente internazionalizzato) una coesione competitiva, inevitabilmente diretta a prevalere, cioè ad affermare la propria supremazia economico-commerciale, sulle aree e regioni non incluse nel patto, in perfetta aderenza alla logica mercantilista e liberoscambista che inevitabilmente caratterizza lo scopo essenziale di rimodellamento sociale della moneta unica
...
Ma l'innesco della suddetta suggestione "ideale" non tiene conto degli effetti concreti che subiranno le relative comunità, proprio perchè il sistema, diretto e monitorato da Bruxelles, non può differire da quello attualmente vigente, di cui, invece, costituisce un'evoluzione accelerativa ulteriore.

La grande contropartita che viene offerta è essenzialmente psicologica, almeno per le masse "elettorali": la direzione delle operazioni è sì affidata a Bruxelles ma depotenziando radicalmente ogni voce in capitolo dello Stato nazionale.  La prospettabilità di un tale vantaggio è vera quanto è vera la vulgata che gli Stati nazionali siano di ostacolo alla efficienza dei mercati e che il libero gioco di questi sia la panacea di tutti i mali. Che è poi un altro modo di considerare vera la spiegazione per cui il problema italiano sarebbero il debito pubblico, la casta, la corruzione e la spesa pubblica improduttiva.

Ciò presuppone che all'esistenza dello Stato, ed alla sua residua (molto poca) sovranità, sia attribuibile la responsabilità della crisi economica e delle difficoltà di sviluppo dell'area interessata, in un deliberato processo di rimozione della realtà dell'intera area euro, - basti dire che, tranne la Germania, solo i paesi UEM hanno persistenti difficoltà di crescita, ma non quelli dell'UE che non sono parte dell'area euro.
...
L'assetto che si registrerebbe nelle macroregioni è facilmente prevedibile: spostando su questo governo privatizzato e localista (per quanto allargato) la responsabilità di determinare l'assetto del mercato del lavoro, ed in genere, il co-governo transnazionale della parte essenziale dell'economia, si imporrebbe la immediata (anzi, istantanea) attuazione della correzione dei CLUP e quindi dei livelli salariali "relativi" dell'area interessata, in ogni sua parte "componente"

In altri termini, le aree italiane (partecipanti alle varie macroregioni), ove poste a diretto contatto con altre aree "core", dovrebbero necessariamente devolvere alle istituzioni macroregionali, che provvederebbero in forma di accordi deliberativi che bypassano ogni competenza costituzionale e legislativa nazionale, il potere di imporre l'immediata correzione dei livelli salariali che risulti determinata dalla rilevazione delle "pratiche virtuose" della regione più competitiva coinvolta nell'accordo. 

L'aggiustamento quindi sarà in partenza asimmetrico, potendo NON esserlo solo in caso di precedente convergenza assoluta dell'andamento del CLUP e dell'indice di competitività dei rispettivi "ambiti regionali" interessati. 

L'urgenza irrinunciabile corrisponde ad una correzione che sarebbe altrimenti impossibile, nella stessa misura e tempistica, a livello dell'intera area euro, se non altro perchè gli Stati che la realizzassero integralmente nella misura "voluta" dall'€uropa rischierebbero il collasso (anche se Irlanda e Portogallo, per non parlare della Grecia, hanno attuato le correzioni in misura quasi integrale, non riuscendo certo a risolvere "l'enigma" delle crescita stabile ed effettiva: naturalmente non cercate di capirlo in base a quanto vi dicono i media italiani). 
O comunque la correzione gestita dagli Stati,  può agire solo in un periodo molto più prolungato (come sanno gli italiani, i greci, i portoghesi e gli spagnoli che emigrano in Germania attualmente).
...

La Confindustria, ancora nel 2014, parla di una correzione salariale, di recupero della competitività, nella misura del 20%: opportunamente, in questa direzione, la macroregione, col suo "piano di azione" teleguidato da Bruxelles, potrebbe realizzare "d'imperio", cioè in via normativa obbligatoria per le popolazioni interessate, sancita dal suo organismo associativo "privato", dei tagli netti delle retribuzioni nelle misure che, adattate alle specifiche realtà macroeconomiche interessate, le riportino appunto sul livello della "best practice" dell'area appartenente al paese più competitivo (cioè che ha svalutato maggiormente il proprio tasso di cambio reale) che si è associato nella stessa macroregione.

La domanda interna e le strutture industriali dell'area aderente, che si trovi a subire questa correzione, si troverebbero in una situazione "greca", o al più irlandese Questo l'esito più certo e inevitabile delle macroregioni, ove attuate nei settori che darebbero senso all'operazione - e non il carattere di ulteriore sovrapposizione di entificazioni di governo più o meno (macro)locale. Macro-locale ma, con certezza, fortemente centralizzato e, programmaticamente, autoritario (in quanto coessenzialmente orientato alla competitività sul costo del lavoro).
...

Le implicazioni sarebbe molte: dalla insostenibilità di un sistema sociale integrato, plurinazionale, che si basi esclusivamente sulla esportazione-competitività, al costo fiscale che la inevitabile caduta della domanda interna imporrebbe in termini di minor base imponibile, in situazione di obbligatorio pareggio di bilancio -immediato e senza mediazioni- e di invarianza delle precedenti risorse pubbliche (che comunque diminuirebbero), fino alla depatrimonializzazione delle attività aziendali e immobiliari, soggette, come tali, all'acquisizione "agevolata" dei famosi investitori esteri.
Naturalmente, come sta accadendo di fronte alla evidenza offerta dal complesso delle folli politiche €uropee, tutto quanto qui sinteticamente illustrato non verrà "creduto": si crederà alla immaginifica efficienza dei mercati ed al fatto che, "dentro l'euro noi ce la possiamo fare"...Andando festosamente all'autodistruzione. Autodistruzione delle "masse" e non delle elites, localistiche e estero-investitrici, per cui, invece sarebbe un autentico "banchetto"

3. Però, però...se quella che precede è la sintesi (di una pletora ingovernabile, per l'intelligenza umana, delle elucubrazioni cosmetiche sponsorizzate da ESSI), relativa alla STRUTTURA cui aspirano le macror€gioni, val bene la pena di fare un piccolo cenno alla "sovrastruttura" ideale e pseudo-culturale (chiedere a Soros...), che costituisce l'alimentatore del consenso (disinformato) indispensabile a realizzare questo (senza dubbio) brillante disegno. Anche in questo caso traggo e sintetizzo, apportando alcune precisazioni (spero) chiarificatrici, da un precedente ciclo di post sul tema "federalismo & indipendentismo" e relativa soluzione "geniale" del conflitto tra oligarchie e massa di "perdenti" (inutile che ne ri-consigli la ri-lettura):

"Insomma, anche l'etnia è, in definitiva, un'invenzione culturale umana, che, come per tutte le ipostatizzazioni sociali (cioè le sintesi assunte come "certezze di giudizio"), è facilmente rappresentabile come espressione di rapporti di forza: l'identità etnica è genericamente riferibile, più che ad omogeneità razziali, culturali o linguistiche –  che, come abbiamo visto, sono scientificamente non discriminabili –  a omogeneità di carattere “contrappositivo”.
Il gruppo sociale trova i propri confini e, quindi, la propria identità, nel momento in cui condivide un “nemico” – un competitor! – comune: scegliete voi dagli innumerevoli esempi degli ultimi decenni, in Italia, e sempre rammentando cosa dice Rodrik sul divide et impera su cui prosperano le elites liberoscambiste (qui, p.4). Come le classi sociali sono prodotte dal conflitto distributivo, così lo sono anche le sovranità nazionali e le entità politiche autonome in genere.
...Va peraltro aggiunto che il conflitto distributivo costituisce (comunque, in ogni periodo storico: per lo meno successivo all'instaurarsi della civiltà "agricola") il naturale esplicarsi delle dinamiche di gruppi sociali  a interessi differenziati, in ragione della "proprietà" (la Chiesa ha tanto da insegnare - alle elites contemporanee- su questo), ma gruppi coesistenti in modo continuativo su un territorio avente caratteri geo-morfologici tendenzialmente comuni, o, volendo essere precisi, "accomunanti"; e, dunque, naturalisticamente interagenti fra loro, al punto da potersi riscontrare un comune patrimonio linguistico e culturale.
Infatti, la prossimità  e la conseguente interconnessione di insediamenti, appunto caratterizzati da vicinanza fisica, rileva in funzione della consistenza del periodo storico in cui si struttura un "vincolo geografico" tra gruppi
Ovviamente ciò vale a certe date condizioni storiche di struttura economica e di conoscenze scientifiche - che determinano i mezzi di trasporto disponibili e la tipologia ed estensione di infrastrutture comuni come strade, ponti, centri di accoglienza e di stoccaggio per i mercanti in viaggio, etc.: queste condizioni promuovono e determinano- in modo variabile storicamente- l'ampiezza e la stessa omogeneità del vincolo geografico tra gruppi sociali.  Inoltre, pur ottusamente trascurate, nei nostri giorni di predominio dell'irrazionale neo-liberista e antistatalista, fondamentali risultano le condizioni organizzative e istituzionali comuni, da cui, in definitiva, dipende lo stesso avvio di ogni processo sia di avanzamento scientifico che di infrastrutturazione. Si pensi alla cesura tra medio-evo e epoca dell'Impero romano d'Occidente, in termini di diversa crescita delle condizioni di benessere generale, e di diffusione di conoscenze e tecnologie poi andate, appunto, perdute durante l'antistatalista anarchismo feudale.
...
Questo insieme di caratteri, storicamente contigenti, possono tuttavia essere "percepiti" come costanti, in termini di memoria collettiva, per varie generazioni vissute all'interno di quel territorio, plasmando i contatti e la comunicazione intragruppo. Si generano così prassi o "costumi", che, attraverso lo spontaneo rafforzamento del mezzo di comunicazione per eccellenza, il linguaggio - divenuto segno identificativo attraverso la "lingua"- fa assurgere naturalmente il frequente spostamento di "contatto" (con altri gruppi territorialmente localizzati: ma sempre in modo storicamente variabile) a autorappresentazione di una comune memoria culturale. 
Lingua e interazioni condivise, divengono memoria collettiva attraverso forme di narrazione culturale: musiche, canti, balli, credenze e celebrazioni ritualizzate, si sedimentano rispetto al gruppo che vive su quel territorio, fino alla elaborazione di una "letteratura" che codifica quella lingua e gli eventi "significativi" di quella memoria collettiva.
La precisazione appena fatta è un richiamo alla "effettività" del legame linguistico-culturale: questa effettività è, per definizione, relativa e mutevole nel tempo. Solo che risulta (intellettualmente e psicologicamente) difficile percepirlo nell'ambito di una singola generazione e, facilmente, si cade nella staticità identitaria: con grande soddisfazione delle elites, cosmopolite (qui, p.2), che godono dei frutti della strumentalizzazione di tale autopercezione statica (e torniamo sempre a Rodrik, sopra linkato).
Le "date" conoscenze scientifiche e tecnologiche, infatti, influiscono, in modo direttamente proporzionale alla loro velocità di mutamento, sul tipo di struttura economica e di comunicazione, che caratterizzano un gruppo territoriale: e questo include la (progressiva modificazione della) lingua.  Le predette condizioni (tecnologico-scientifiche e quindi proprie della trasformazione sociale capitalista) e la loro (variabile) velocità di cambiamento, quindi, influiscono anche sui caratteri sociali aggregativi in precedenza caratterizzanti un certo territorio "omogeneo": ma influiscono, appunto,  evolvendole in forme la cui portata può sfuggire all'interno della percezione propria di una vita umana
Questo mismatching o "time-lag", tra percezione dei singoli individui (interna alla durata della singola esistenza) e portata "sfasata" del ciclo di mutamenti strutturali, può dar luogo a forme "identitarie" coesistenti e, spesso, confliggenti tra loro, in funzione di fattori psicologici collettivi: il "nuovo" crea e distrugge e il bilancio (di benessere) dei più può risultare negativo. 
La spinta "conservativa" della memoria linguistico-culturale precedente, può essere tanto più forte quando più una forma "unificatrice" di struttura economica, tipicamente il capitalismo, si manifesta con la sua straripante capacità produttiva e di innovazione.
Questa forma di organizzazione sociale e politica "capitalista" (che oggettivamente ci troviamo oggi a fronteggiare, nella sua stessa evoluzione e contraddittorietà) è per definizione fortemente capace di instaurare assetti sociologici di produzione ben definiti (con la divisione del lavoro), dando luogo a forme politiche a sé convenienti, che contrassegnano il territorio, qualunque territorio, in funzione delle esigenze dei rapporti di forza dominanti così instaurati. 
Ma questi "nuovi"  rapporti di forza affermati dal capitalismo, dovrebbe essere intuitivo, non necessariamente, anzi quasi mai, coincidono con quelli delle precedenti comunità territoriali caratterizzate dalle diverse, e più antiche (obsolete, secondo il nuovo paradigma) condizioni sociali comunitarie, sempre coincidenti con una, altrettanto ingannevole, fase agricola "arcadica" intessuta della nostalgia - ideologicamente propagandata- di una perduta felicità agreste che era, invece, la dura realtà del servaggio della gleba e del latifondismo: variano in modo decisivo le condizioni di conoscenza scientifica (sistema di istruzione e formazione), di produzione e scambio (organizzazione del lavoro e infrastrutture) e le modalità di insediamento conseguente (polarizzazione su centri produttivi pianificati, rispetto all'insediamento agricolo "diffuso"). 
...
Questa precisazione ci è parsa utile per meglio comprendere il passaggio del post che precede, relativo alla generazione di un carattere contrappositivo (autodifensivo) del demos, una volta instaurate, dall'evoluzione dei rapporti di produzione, certe condizioni di forte e incompatibile mutamento strutturale (e culturale).
...
Il "nuovo", quindi, riflette anch'esso, come già il passato idealizzato agricolo-feudale, l'affermazione di interessi prevalenti e normalmente contrapposti a quelli della maggioranza, all'interno della comunità. E  ciò anche quando, come spesso, anzi per lo più, si verifica, questi nuovi interessi nascano da un'azione "innovativa" che si produce dall'interno della comunità "linguistica" medesima.  
Da aggiungere. Il tratto comune tra il passato (arcadico) idealizzato e i nuovi assetti della produzione, è tuttavia qualcosa di enormemente gradito alle elites capitaliste, specialmente quelle di scuola Hayekiana: l'implicito consolidamento delle GERARCHIE consentito dal comunitarismo ideale, propagandato come "coagulante", sebbene contro la stessa realtà del passato rinarrato dai "centri di irradiazione" del potere economico. Da questa disomogeneità di interessi ed effetti, interni alla comunità "etnica" precedentemente identificabile, e promossa da forze (dominanti) espresse dalla stessa comunità, va naturalmente differenziato il caso eclatante del mutamento indotto dalla guerra di conquista coloniale, in tutte le sue forme, "moderne" e più recenti. 
Ma anche qui, tra rivendicazione a trazione elitaria (ben dissimulata) del "localismo" e colonizzazione, si ravvisa un tratto comune, proprio del liberismo, formalmente territoriale ma sostanzialmente e sempre, "cosmopolita": in termini di stabilità della conquista, "nessuna forma (moderna) di colonialismo" (che non sia debellatio militare e sterminio con sostituzione etnica, cosa in cui pure "eccelle" una non lontana vocazione germanica), "è possibile senza la cooperazione delle elites locali". ...la conquista coloniale è quella operata da un gruppo vivente su un distinto territorio, avente una distinta lingua e tradizione culturale, e tesa ad instaurare uno stabile e unilaterale assetto predatorio delle risorse del gruppo territoriale assoggettato, che viene controllato da un governo che:  a) è situato, nel suo vertice decisionale, nel territorio del gruppo dominante (come nel caso di Bruxelles rispetto alle macroregioni...);  b) esclude istituzionalmente la partecipazione di esponenti del gruppo assoggettato a ogni forma di governo e di determinazione dell'indirizzo politico (idem come sopra).
Insomma, (al di fuori del caso del colonialismo, e peraltro solo tendenzialmente), parlare una lingua o un dialetto comuni non elimina il fatto che alcuni - pochi e autoproclamatisi "legittimati" al di sopra delle vecchie "prassi e usanze"-, in quanto divenuti capaci di dirigere l'assetto sociale, si avvantaggiano a danno di altri che, pur condividendo lo stesso idioma (e una certa tradizione territorial-culturale), subiscono le decisioni dei primi
4. Per concludere questa lunga sintesi (di tanto materiale e copiose fonti), mi rifaccio al succo del discorso che è riassumibile in questo passaggio di Lelio Basso (se non cogliete le evidenti correlazioni con tutto quanto precede, a mio modesto avviso, siete messi male, a meno che non facciate parte dell'oligarchia: ma in tal caso, coglierete benissimo e avrete anzi tutto l'interesse, molto personale, a negare l'evidenza):
“…penso che la battaglia per la democrazia nei singoli paesi debba essere prioritaria rispetto ai fini federalisti…ci sono cose che vanno, secondo me, profondamente meditate. A me, se così posso dire, la sovranità nazionale non interessa; però c’è una cosa che mi interessa: è la sovranità democratica... Nella Costituzione abbiamo scritto, nel primo articolo: “L’Italia è una Repubblica democratica”; poi abbiamo aggiunto quelle parole forse sovrabbondanti “fondata sul lavoro”; e poi abbiamo ancora affermato il concetto che la “sovranità appartiene al popolo”

Sembra una frase di stile e non lo è. Le costituzioni in genere hanno sempre detto “la sovranità emana dal popolo” “risiede nel popolo”; ma un’affermazione così rigorosa, come “la sovranità appartiene al popolo che la esercita” era una novità arditissima. Contro la concezione tedesca della “sovranità statale”, di quella francese della “sovranità nazionale”, noi abbiamo affermato la “sovranità popolare” quindi democratica. A questo tipo di sovranità io tengo[37]. La sovranità costituzionale è tutto.
(L. BASSO, Consensi e riserve sul federalismo, L’Europa, 15-30 giugno 1973, n. 10/11, 109.118).