venerdì 31 marzo 2017

LA CRESCITA €XPORT-LED E LE "RIFORM€": SIAMO SEMPRE COSI' SICURI CHE BASTINO?


Magari ne parliamo anche sabato...

1. Partiamo da un dato ragionevolmente ottimistico: le esportazioni italiane, che si sono attestate ad un valore intorno al 27% del PIL, cresceranno anche nel 2017 mantenendo, grosso modo, questo stesso rapporto: e ciò in virtù di un PIL previsto in crescita intorno all'1% nel 2017, decimale più decimale meno, rispetto al valore assoluto attuale di 1672, 438 miliardi di euro, (in crescita dello 0.9% nel 2016, secondo l'Istat più recente), e di un volume complessivo delle esportazioni che si aggiri, quest'anno, sui 450 miliardi di euro.
Da questo punto fattuale e previsionale, in poi, le interpretazioni possono essere le più varie. L'Istat appena citato, ad esempio così connota la crescita del 2016:
"Dal lato della domanda interna nel 2016 si registra, in termini di volume, una crescita dell'1,2% dei consumi finali nazionali e del 2,9% negli investimenti fissi lordi. Per quel che riguarda i flussi con l'estero, le esportazioni di beni e servizi sono aumentate del 2,4% e le importazioni del 2,9%.
La domanda interna ha contribuito positivamente alla crescita del Pil per 1,4 punti percentuali (0,9 al lordo della variazione delle scorte) mentre la domanda estera netta ha fornito un apporto negativo (-0,1 punti).
A livello settoriale, il valore aggiunto ha registrato aumenti in volume nell'industria in senso stretto (1,3%) e nelle attività dei servizi (0,6%). Il valore aggiunto ha invece segnato dei cali nell'agricoltura, silvicoltura e pesca (-0,7%) e nelle costruzioni (-0,1%).
L'avanzo primario (indebitamento netto meno la spesa per interessi) misurato in rapporto al Pil, è stato pari all'1,5% (1,4% nel 2015).
L'indebitamento netto delle Amministrazioni pubbliche (AP), misurato in rapporto al Pil, è stato pari al -2,4%, a fronte del -2,7% del 2015".

2. Su "Il Messaggero" di oggi, 31 marzo (pag.28), peraltro, Marco Fortis, un economista mainstream tra i più equilibrati ed attenti, ci offre una valutazione un po' diversa, così riassumibile: in Italia, le imprese che rappresentano il 57% del sistema produttivo, che include l'industria manifatturiera, il commercio e il turismo, "tira" per la crescita, mentre il rimanente 43%, rappresentanto dalla pubblica amministrazione, dai servizi pubblici locali, dalle banche e dalla telecomunicazioni, nonché dalle costruzioni, è ancora in crisi o ancora fermo.
Nel settore del made in Italy che cresce, "l'aumento è stato particolarmente forte per commercio (+7%), alloggio e ristorazione (+6.8%) e industria manifatturiera (+4,1%)...
Dal punto di vista della crescita, negli ultimi anni, non è dunque mancato l'apporto del "made in Italy"; quello che ci è mancato, come dimostra il surplus record della bilancia commerciale, pari a 51,6 miliardi...riguarda invece il "sistema Italia" che nel 2014-2016 ha visto arretrare il suo valore aggiunto dell'1,4%".
E qui iniziano alcuni "distinguo" su cui occorrerebbe meditare con attenzione: 
"A prescindere dalle difficoltà specifiche delle costruzioni e dalla impossibilità di aumentare la spesa della PA per i noti vincoli di bilancio, spiccano le diminuzioni generalizzate del valore aggiunto di elettricità, gas, acqua, rifiuti, trasporti, informazione, telecomunicazioni, banche...In questi settori le politiche economiche di stimolo, come quelle per investimenti delle imprese o per i consumi delle famiglie...possono far poco..."
Ergo, attraverso "profonde riforme", in cui si misuri la continuità del vari governi, "è anche necessario modernizzare a tappe forzate con più concorrenza e innovazione il "sistema Italia", cioè i servizi pubblici e privati di supporto all'economia, affinché essi, dalla PA alle banche, dai servizi pubblici locali alle reti, comincino a creare finalmente più valore, specialmente nel Mezzogiorno".
[Ma forse i settori "modernizzati" sono tali per una certa svalutazione dell'euro, intervenuta dal 2014 e a seguito del QE di Draghi, nonché per il calo, in via di riassorbimento, del prezzo dei prodotti petroliferi e delle commodities: forse, quindi, sono molto più vulnerabili di quanto non si pensi al mutare di queste condizioni esogene (ad esempio: un dollaro che si svaluta rispetto alla valuta unica...).]

3. Infrastrutture e servizi, dunque, dovrebbero essere oggetto di "riforme", dimenticando, peraltro, che questi settori sono quelli che, più di ogni altro, sono stati assoggettati alle privatizzazioni e liberalizzazioni imposte dall'appartenenza all'€uropa. E la privatizzazione di Poste italiane continua a testimoniarci lo stesso fenomeno di assolutamente dubbia convenienza, per l'interesse economico generale e per gli stessi conti dello Stato, di queste operazioni.
Su questo non dovrebbero nutrirsi dubbi: oltretutto, come dovrebbe essere arcinoto, dalla pubblica amministrazione alle reti, fino ai settori liberalizzati dei servizi, si tratta di monopoli naturali e oligopoli (secondo le varie strutture di mercato riscontrabili), che sono state privatizzate nella forma o nella sostanza (dalla cessione a gruppi privati, alla creazione di società pubbliche con partecipazione, normativamente prevista e in intensificazione, di partners "industriali" privati). 

4. Quanto alle banche, poi, Fortis pare dimenticarsi dello stretto legame fra gli effetti dell'Unione bancaria e crisi di "redditività" del settore, sia quanto agli indici di patrimonializzazione più elevati richiesti, sia quanto alla valutazione (€urovigilata e approvata) delle sofferenze creditizie  che, a loro volta, dipendono dalla stessa disciplina €uropea di loro cessione forzata, all'interno di un ambiente di politiche economico-fiscali che le ha generate
E le ha generate per adottare esattamente "l'aggiustamento" delle partite correnti estere che lo stesso Draghi ci ha spiegato essere, senza alternative che non siano "unrealistic", mirato a diminuire prezzi e salari mediante una forte azione di consolidamento fiscale che determini, essenzialmente attraverso l'inasprimento della riduzione della domanda pubblica (già fortemente attenuata da oltre 20 anni di saldo primario positivo dei conti pubblici), una contrazione dei consumi (limitando le importazioni) che induce, inevitabilmente, l'innalzamento del livello di disoccupazione e, quindi, del potere di acquisto "interno".

5. Se dunque, considero un dato incontestabile l'impossibilità di aumentare la spesa della P.A. per i noti "vincoli di bilancio", come posso pretendere che aumenti il valore aggiunto del settore pubblico  con mere riforme a carattere essenzialmente "moralizzatore", cioè che muovano dall'ipotesi (a "costo zero") che il problema siano la pigrizia e la scarsa competenza dei pubblici dipendenti, mentre sono decenni (come attesta lo "Studio Giarda" e confermano coerentemente i DEF annuali) che investimenti in conto capitale sull'organizzazione pubblica sono prevalentemente negativi o nulli
E, ancora, mentre s'è perseguita una politica di blocco del turn over che ha depauperato o decimato le competenze disponibili, e proprio mentre la normativa di azione pubblica (i procedimenti-funzioni) è divenuta sempre più complessa a causa del continuo irrompere della disciplina derivante dall'UE? Una disciplina, torrenziale e complessa che ha peraltro investito anche il vasto settore dei servizi pubblici, in regime di oligopolio o monopolio, privatizzati e regolati dell'UE?
Basti pensare a quanto dice Attali sulle difficoltà della Brexit, ostacolata, a suo dire, dalla necessità di "integrare oltre 19.000 direttive e regolamenti europei" nella legislazione del Regno Unito!
Insomma, se si parla di riforme, per un così ampio settore del "sistema Italia", si dovrebbe essere coscienti che l'Italia, - astretta dal duplice vincolo: fiscale-finanziario, nel crescendo verso il pareggio strutturale di bilancio, e normativo-regolario, impostogli dall'€uropa-, non solo non ha molto da rimpoverarsi ma, anzi, sul fronte delle euro-riforme risulta particolarmente solerte (basta guardare a diversi livelli di privatizzazione e liberalizzazione, nei settori corrispondenti, di Germania e Francia).

6. Ma il punto saliente è che Fortis appare trascurare che "l'aggiustamento" imposto dall'appartenenza alla moneta unica, corrisponde ad un ben noto modello che privilegia la domanda estera su quella interna, per definizione sacrificata alla prima. 
E' un modello neo-liberista, freetrade, legato all'originaria impostazione del gold standard, che è espressamente teorizzato e aggiornato nel funzionamento dell'euro (qui p.6) e nell'idea della privazione della sovranità monetaria. 
Gli investimenti interni, in una parte importante dell'economia italiana (non tradable), languono? Gli stessi investimenti sono poco consistenti - sebbene come evidenzia, Fortis, maggiori di quelli effettuati in Germania- persino nei settori esportativi divenuti più dinamici (grazie all'aggiustamento competitivo di prezzi e salari)?
Ma questo è il modello mercantilista (v.p.5), che privilegia la domanda estera e comprime, strutturalmente, la domanda interna: e ce lo ha spiegato Joan Robinson che il freetrade, propugnato dai trattati UE come "economia sociale di mercato fortemente competitiva", è (v.p.8) una "più sottile" forma di mercantilismo istituzionalmente aggiustata...

6. Il quesito "ma dove si va puntando sulla domanda interna?" ha già ricevuto una risposta avversa dalla storia economica e non c'è serie di "riforme" che possano risolvere il problema delle economie esclusivamente "competitive" e votate al surplus "record" delle partite correnti.
Ma il "bello" è che persino i modesti risultati di crescita che strutturalmente questo modello ha sempre comportato, - una crescita sempre selettiva e riservata alla parte dell'economia orientata all'esportazione con il sacrificio della domanda interna (e quindi dei settori da essa "inamovibili")-, ove posti all'interno del paradigma fiscale dell'eurozona, sono destinati ad una battuta d'arresto: se infatti fossero rispettati i desiderata delle euro-istituzioni circa i livelli di consolidamento fiscale che l'Italia, "consumati" i margini one-shot della ridottissima flessibilità del fiscal compact, dovrebbe attuare nell'immediato futuro, e non si vede come ciò, almeno stavolta, possa essere evitato, la crescita "parziale" di cui parla Fortis, cioè quella di un'Italia a due velocità, potrebbe persino cessare brutalmente e trasformarsi in repentiva e nuova recessione.

7. Se, tra manovre di correzione verso l'obiettivo del pareggio strutturale di bilancio e piani di rientro fiscale per l'intervento pubblico di salvataggio bancario, i volumi di consolidamento fiscale non si misureranno più in pochi decimali, ma in punti interi di PIL, quale scampo avrebbero pure le industrie vitali e competitive dell'attuale modello export-led che parrebbe la panacea di tutti i mali?
E quali specifiche, e non generiche, riforme, potrebbero compensare questa controspinta riduttiva del PIL dovuta, a voler essere realistici, all'applicazione di un corretto moltiplicatore fiscale (incluso il teorema di Haveelmo) ai volumi del consolidamento obbligato?

8. Sì, perché tutto il sistema produttivo ed industriale italiano, pur quando divenuto "competitivo", ha bisogno della crescita della domanda interna
Nessun settore può pensare di sopravvivere solo sulla domanda estera, senza perdere redditività e capacità di investimento (persino lordo) e senza aggravare la situazione col circolo vizioso di un riacutizzarsi della disoccupazione, dovuto all'implacabile legge di Okun (qui, p.7).
E in proposito basta verificare la "debolissima" inflazione core italiana e pensare correttamente alla curva di Phillips. 
Non è razionalmente "sano" pensare a un paese la cui economia, come quella tedesca, si affidi a percentuali di export superiori ai livelli del 27-30% del PIL
Questo grado di dipendenza dalla domanda estera, oltre a turbare l'equilibrio politico internazionale (e mai come in questi giorni di paventato ritorno al protezionismo si dovrebbe trascurare tale aspetto), implica il depauperamento strutturale degli investimenti interni: certamente per quella quota, ma anche per quei settori, in cui, inevitabilmente, la loro convenienza  è stimata (dagli operatori economici) sulla crescita della domanda interna. E la crescita di quest'ultima è funzione della prossimità alla piena occupazione del sistema produttivo nel suo complesso, semmai stimolando politiche industriali che tendano a garantire l'equilibrio di lungo periodo dei conti nazionali con l'estero (come imporrebbe la nostra Costituzione).

Tra le righe si legge agevolmente quanta parte svolga, rispetto allo stato di salute di fatturati, investimenti e occupazione, la domanda interna; così come si indovina l'effetto devastante e imminente di una nuova ondata di austerità fiscale...competitiva o, forse, smobilitativa pro-investitori esteri, del nostro sistema industriale:  
 

10. Anzitutto, a sottolineatura di questi passaggi, precisiamo che stiamo proprio parlando della crisi recessiva 2011-2014, cioè quella determinata non dai sub-prime esplosi nel 2008 oltreoceano, ma da "l'aggiustamento" spiegato da Draghi e "candidamente" ammesso da Monti ("stiamo letteralmente distruggendo la domanda interna"). 
Quindi parliamo di "riforme" (del mercato del lavoro, del sistema pensionistico, della p.a., mediante tagli su tagli, delle stesse regole di autonoma adottabilità di politiche economico-fiscali da parte dell'Italia) dettate dall'€uropa e fissate con chiarezza nella stranota lettera della BCE dell'estate 2011.
Le riforme euroimposte agirono ieri in senso recessivo e oggi vengono richiamate "in servizio", ancora nello stesso intento di "aggiustamento" che passa, come un obbligo non negoziabile, per il consolidamento fiscale aggiuntivo, sempre recessivo!
 
10.1. I livelli di produzione, di occupazione e lo stesso numero delle imprese sono da allora diminuiti: c'è forse da rallegrarsene perché le "sopravvissute" nella foresta competitiva schumpeteriana, sono maggiormente produttive? 
E forse la perdita di produttività di settori come "studi professionali, servizi postali e telecomunicazioni" non discende dalla repentina contrazione della domanda interna indotta da tali riforme? 
E dunque occorrono dosi aggiuntive della stessa....cura? Cioè di "riforme" che dovrebbero indurre, non si sa come, i clienti degli studi professionali, cioè famiglie e imprese, a pagare le parcelle? 
E questo ora che i NPL obbligano le banche  a contrarre ulteriormente il credito e i risparmiatori a temere il bail-in sui conti correnti e ad adottare strategie di risparmio difensive, per il timore di fronteggiare nuova imposizione fiscale, magari a titolo patrimoniale, magari con l'aumento delle rendite castatali, che certamente farebbe sì che il "settore costruzioni" non si riprenderebbe mai più per decenni?

11. Persino le virtuosissime imprese "Global" contano per il 55% (!) sulla domanda interna, cioè sul livello di occupazione generale che determina la capacità di assorbimento del mercato nazionale. Le imprese "solo esportatrici" e le "two-way traders", a loro volta, dipendono "in larghissima parte dal mercato interno".
Stimiamo Fortis, ma se consideriamo intangibili i "noti vincoli di bilancio", per di più in prospettiva di acutizzazione oggettivamente recessiva (raccomandando sempre il corretto calcolo dei moltiplicatori fiscali), saremmo curiosi di capire quali specifiche riforme siano, in questo contesto, in grado di modificare l'andamento dell'economia italiana senza acutizzare la naturale scissione tra settore export oriented (ammesso che se ne mantenga la proprietà italiana e i suoi utili non divengano redditi trasferiti ai neo-proprietari esteri) e settori non tradable che, inevitabilmente, si fondano sulla domanda interna. Di cui la spesa pubblica, resa impossibile dai vincoli €uropei, è parte così importante...