martedì 27 febbraio 2018

REDDITO DI CITTADINANZA: UN APPELLO ALLA RAGIONEVOLEZZA (COSTITUZIONALE). NON PROMUOVIAMO "LA RASSEGNAZIONE"

Risultati immagini per appello alla ragionevolezza

1. Cominciamo questo post da questa rivendicazione di "autorevole endorsement":
2. Si tratta di precisare però quale sia l'ideologia economico-scientifica sottesa da questa riflessione sul basic income in quanto legato "alla sostituzione degli uomini con le macchine".
Intanto rammentiamo che il reddito di base, nelle sue varie versioni (tra cui, nonostante la confusione concettuale prevalente, va annoverato il "reddito di cittadinanza"), è stato concepito da Hayek e Friedman con l'espressa finalità di non far esplodere un malessere sociale - inteso nella sua accezione di problema di ordine pubblico per i più abbienti e produttivi- che, lungi dal derivare dal fiorire di investimenti in IRS (che piuttosto tendono a mostrarsi in costante flessione in tutto il mondo "avanzato", qui; p.3, e specialmente in €uropa), è piuttosto legato al modello di mercato del lavoro perfettamente flessibile che consente sia di puntare sulla competitività esportativa, sia di traslare sui lavoratori le ricorrenti crisi determinate dalla sovraproduzione alle quali si espone, strutturalmente, un modello socioeconomico export-led.

3. Il reddito di cittadinanza, anzitutto, è del tutto simile, nella sua funzione, alle riforme Harz preventivamente introdotte dalla Germania per acquisire un vantaggio competitivo sui partners dell'eurozona, con i quali avrebbe dovuto invece coordinare in senso cooperativo le proprie politiche del lavoro e fiscali (almeno secondo i trattati che, molto in teoria, qui, p.5, punirebbero inoltre l'eccesso di surplus delle partite correnti accumulato da un appartenente all'eurozona, "eccesso" che è dunque considerato, ope legis €uropae, con una presunzione assoluta di non cooperatività e di ostacolo alla naturale convergenza delle economie dell'eurozona).
Questa funzione è quella di fissare, in termini più o meno stringenti, a seconda dei tempi e dei modi in cui si sia obbligati ad accettare un'offerta di lavoro a pena di perdere l'erogazione pubblica del beneficio, una soglia salariale di entrata nel mercato del lavoro più bassa che in precedenza, - e per di più decrescente per via della cornice fiscale di compressione della domanda e dell'occupazione, in cui il meccanismo si inserisce (certamente se si considera l'eurozona sostenibile e un problema non prioritario).

4. Al di là dello spinoso problema del corretto accertamento amministrativo e tributario delle categorie di beneficiari effettivi nonchè, non secondariamente, e di quello di una altrettanto effettiva organizzazione e efficace erogazione delle attività di formazione e ricerca attiva di lavoro (che presuppone, per circa 9 milioni di potenziali aventi diritto, un'efficiente e colossale macchina burocratica, come tale estremamente costosa) l'attuale ddl del m5s non sfugge a questo evidente scopo essenziale.
Ed infatti, esso prevede (se siamo aggiornati quanto il prof.Ricolfi, in un recente articolo su Il Messaggero), che il beneficiario del rdc possa rifiutare 3 offerte di lavoro (parrebbe di qualunque livello retributivo e per qualsivoglia profilo di mansioni), prima di arrivare alla quarta fatidica offerta che sarebbe rifiutabile solo a certe condizioni, cioè solo ove non sia "congrua" (art. 12, comma 2, del ddl): un'offerta di lavoro  (non più rifiutabile) è considerata congrua se, cumulativamente, sia "attinente alle propensioni, agli interessi e alle competenze acquisite dal beneficiario" (il che, diciamolo subito, pone capo, in sede giudiziale, a un quasi irrisolvibile problema di onere della prova, incombente sul potenziale lavoratore recalcitrante); la retribuzione oraria sia "maggiore o eguale all'80% di quella riferita alle mansioni di provenienza"; il posto di lavoro sia "raggiungibile in meno di un'ora e venti minuti con i mezzi pubblici".

5. Per quanto, dunque, sia controvertibile (intendo proporio in senso giudiziale) l'attinenza alle propensioni e agli interessi (introducendosi uno sbarramento soggettivamente molto esteso), la prevedibile risposta della giurisprudenza (a fronte del rifiuto opposto dal beneficiario) - e dovrebbe trattarsi del giudice civile del lavoro, essendosi in una fase di conclusione di un contratto di lavoro (seppure caratterizzato da norme imperative, civilistiche, determinanti un obbligo a contrarre)-, sarà piuttosto restrittiva. 

6. Almeno se si considerano le visioni oggi di gran lunga prevalenti sull'art. 36 Cost. e, prima ancora sull'effettività del diritto al lavoro ex art.4 Cost., espresse da Cassazione e giudici di merito.
Sotto la pressione della teologia supply-side dell'€uropa, infatti, si assiste a un regresso (dis)funzionale della contrattazione collettiva in sé, nel tutelare il salario reale e persino nominale (vista libertà dei capitali e le delocalizzazioni intensificate); alla restrittività giurisprudenziale nell'uso della stessa contrattazione collettiva come punto di riferimento nella sua pienezza, alla sua concreta inutilizzabilità a fronte di una pletora dilagante di lavori atipici in posizione sostanziale di subordinazione, all'irresistibile convergenza delle forze politiche sul ruolo privilegiato da conferire alla contrattazione aziendale (considerata legittimamente derogatoria in pejus della parte economica dei contratti collettivi: cosa che già ora determina una regressione giurisprudenziale nell'applicazione dell'art.36 Cost.).

7. Dunque, non avendosi questa considerazione diciamo olistica delle tendenze sistemiche della disciplina del rapporto di lavoro (che è un'assoluta noncuranza verso l'effettiva applicazione della Costituzione lavoristica da parte dei proponenti del rdc, senza la quale non sarebbe infatti spiegabili l'asistematica e acritica enfasi su tale "rimedio"),  più o meno, l'effetto pratico di quella stessa clausola di salvaguardia, nello sviluppo prevedibile delle pronunce giurisprudenziali (rebus sic stantibus, e visto che degli altri aspetti macroeconomici dell'euro-mercato del lavoro, dichiaratamente, non ci si preoccupa affatto, anzi si predica la riduzione austera del debito pubblico del 40% in 10 anni via taglio delle spese improduttive e delle pensioni),  sarà quello di fissare un salario di entrata pari all'80% della retribuzione prevista, in termini attuali (cioè del momento di formulazione della "quarta offerta") per l'eventuale precedente occupazione, o peggio, fino al limite, per chi non fosse mai stato occupato in precedenza, di un salario pari all'80% dell'ammontare dello stesso reddito di cittadinanza (questa ipotesi-limite, almeno stando alla clausola citata, appare inevitabile dal punto di vista logico-giuridico; ed è persino ipotizzabile che l'offerta possa comportare una retribuzione ancora minore dell'80% del rdc, per chi abbia avuto esperienze lavorative precarie ai livelli mansionistici meno elevati e non possa accampare, pur possedendola formalmente, una professionalità-titolo di studio concretamente utilizzata nell'esperienza lavorativa).

8. Ci pare perciò opportuno concludere facendo un tentativo di richiamo alla ragionevolezza, proprio agganciandosi all'ideologia economica dell'endorsement che abbiamo visto all'inizio del post. Non è importante aver trovato un rimedio che appare "geniale", e appagante in termini di consenso; sarebbe ben più importante capire su quale modello socio-economico si vuole puntare, perché se si trova il rimedio e solo poi si manifesta l'ideologia economica su cui appoggiarlo, nei pochi anni di successiva applicazione di quel rimedio, il consenso si perde con una drammatica velocità.

In questa prospettiva di estremo richiamo alla ragionevolezza, ci piace riproporre (qui, p.8), "da quello stesso post, la sottolineatura di Cesare Pozzi, circa la prevalenza del fattore istituzionale, cioè delle decisioni politiche di chi "controlla" lo Stato, rispetto all'aspetto occupazionale (registrato a posteriori come mera risultante delle naturalistiche forze del mercato globalizzato):
D. Si sostiene che l'attuale disoccupazione diffusa, nei paesi a capitalismo "maturo", è essenzialmente dovuta agli effetti dell'applicazione delle nuove tecnologie nei modelli di impresa evolutisi negli ultimi anni: è una valutazione realistica o fuorviante?
 
R. La domanda sottende uno dei principali "bachi" della teoria ortodossa.
L'economia di mercato che la maggior parte dell'Umanità ha in cuore - perché è liberale, quindi non vincola il destino terreno dell'uomo alla sua dotazione iniziale di diritti, e promette un benessere diffuso su una quota mai raggiunta della popolazione di ogni Comunità - si basa su una particolare declinazione del capitale che ne enfatizza la dimensione artificiale e perciò può essere detta "capitalistica". Su questa falsariga se l'applicazione di nuove tecnologie riduce la necessità di occupare in alcuni mercati, apre lo spazio per nuovi mercati e per l'aumento del tempo libero

Il problema della disoccupazione si crea a causa degli assetti istituzionali, quando sono il risultato di teorie normative che discendono da teorie economiche non coerenti con i propri presupposti (se si spacciano per liberali) e quindi male regolano tutti gli aspetti critici che si vengono a creare, comunità per comunità, lungo il tempo storico

D. Se esiste una correlazione stimabile, rispetto all'intero mercato del lavoro, tra la diminuzione degli occupati e l'applicazione delle innovazioni tecnologiche, questo effetto non dovrebbe rallentare in un periodo in cui una vasta e prolungata recessione, dovuta a cause iniziali essenzialmente finanziarie e poi a politiche fiscali restrittive, determina naturalmente una caduta degli investimenti produttivi (lamentata in tutte le aree, dall'UE al Giappone)?
 
Il fatto che non ci sia questo rallentamento è il segnale che alla nostra crisi strutturale si sta rispondendo in questa fase generando la maggior pressione possibile sul lavoro in modo da consolidare l'idea che sia tornato una merce. Quando la situazione di rassegnazione si sarà affermata si cercherà di arrivare a un assetto di occupazione diffusa a basso reddito
E' significativo in questo senso l'enfasi che si è posta sui dati italiani relativi alla distribuzione del reddito (che sono tra i meno diseguali nel Mondo occidentale) rispetto al silenzio sul fatto che 85 persone possiedono quanto la metà più povera dell'umanità (che mi sembra in linea con quanto dico).

Ecco: interroghiamoci sulle cause strutturali della disoccupazione, e sull'incidenza delle molto concrete scelte istituzionali che hanno prodotto la pandemia attuale (anche di sotto-occupazione: qui, p.6), e tentiamo di non incentivare la "situazione di rassegnazione", ed invece, di ripristinare la legalità della Costituzione fondata sul lavoro (qui, introduzione pp. 1-2: notare la felice sintesi fatta dalla prof.Stirati).

domenica 25 febbraio 2018

SEGNALI DI VITA DAL COSTITUZIONALISMO: LA SOVRANITA' "KEYNESIAN-DEMOCRATICA-SOSTANZIALE" BATTE DUE COLPI

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http://www.fasaleaks.it/the-italians-la-serie-21-guido-carli-si-sta-rivelando-utile/

1. Tra venerdì e sabato scorsi si sono, per così dire, concentrati una serie di segnali provenienti dall'area di sinistra (in un caso dichiaratamente, nell'altro, quantomeno, per collocazione mediatica), segnali relativi alla questione costituzione-incompatibilità coi trattati €uropei.

1.1. Faccio un richiamo preliminare per indirizzarne la comprensione e dare una chiave di lettura che risulti coerente per i lettori di questo blog, che potremmo definire un'avanguardia informata e, come tali, - dobbiamo rassegnarci per il momento-, in minoranza...ma, se non altro, culturalmente ponderabile (cioè dall'elevato peso specifico). 
Questo il richiamo preliminare: i trattati €uropei, - e con essi intendiamo tutto l'apparato normativo divenuto operante dagli anni '50 del secolo scorso- non erano ab initio e, a maggior ragione successivamente, non sono semplicemente divergenti (giudizio politico) rispetto all'indirizzo politico proprio di una democrazia costituzionale "sociale", ma sono, prima ancora e principalmente, insanabilmente incompatibili con la nostra Costituzione e con la democrazia sostanziale che essa prefigura.
Ciò fa sì che le "riserve", anche nel senso tecnico del diritto internazionale (v. in specie p.1.1. e p. II), che si possono apporre rispetto alla stessa adesione e applicazione dei trattati (e, come sappiamo, la Germania, di riserva, sostanzialmente unilaterale, e quindi "illecita" dal punto di vista del diritto dei trattati, ne ha apposta una gigantesca), non dovrebbero essere oggetto di un giudizio (o "ripensamento") di natura politico-economica, quanto piuttosto di un obbligo giuridico prioritario: quello del ripristino della legalità costituzionale come irrinunciabile qualificazione della sovranità democratica.

2. Tanto premesso - e le implicazioni che derivano dal richiamo preliminare sono state oggetto di un'interminata serie di post, che hanno cercato di affrontare tutte le possibili sfaccettature del problema di legalità e di compatibilità col modello economico-normativo della Costituzione stessa- il primo segnale proviene da un illustre costituzionalista, il prof.Azzariti, che ha scritto un interessante articolo su un quotidiano di sinistra(-sinistra...), prontamente seguito da un'intervista sul FQ.
Ve ne propongo i passaggi più significativi, nell'economia del discorso svolta da anni su questo blog, integrandola con dei links che costituiscono, allo stesso tempo, sottolineatura e approfondimento critico delle varie affermazioni:

"La legge costituzionale n. 1 del 2012, che ha introdotto nella Carta costituzionale il principio del pareggio di bilancio (“equilibrio tra le entrate e le spese”), è il frutto del peggior revisionismo costituzionale. Approvata praticamente all’unanimità da un Parlamento sotto pressione, in tempi rapidissimi.
Approvata in tempi rapidissimi e senza un’adeguata discussione, con una sinistra subalterna ad un governo tecnico che assumeva il rigore come unico parametro politico di giudizio, ha rappresentato una risposta alla crisi economica di natura puramente ideologica, collocando in Costituzione le particolari politiche di stampo neoliberista.
POLITICHE RILEVATESI poi fallimentari, che la stessa classe dirigente del nostro Paese non ha potuto perseguire. Infatti, da che è stata approvata la modifica al testo della Costituzione ci si è costantemente appigliati alla possibilità di derogare i vincoli di bilancio nei casi di “eventi eccezionali”. Un monumento alla miopia di una classe dirigente incapace di perseguire gli obiettivi che essa stessa si impone.
MA CIÒ CHE APPARE più grave della riforma è che essa rappresenta una rottura con la storia del costituzionalismo pluralista e democratico del nostro Paese. 
Come si può pensare, infatti, di escludere dall’ordine costituzionale ogni opzione diversa da quella neoliberista? Verrebbe da dire che la scelta compiuta nel 2012 sia stata espressione di un’infelice visione neo-totalitaria.
Accecati dall’ideologia che impone di limitare, in ogni caso, la spesa pubblica, si è dimenticato (?) l’obbligo della Repubblica di garantire i diritti fondamentali delle persone. 
Ed è qui il vulnus costituzionale più grande
Non può essere data, infatti, una riforma della parte economica della nostra Costituzione che stravolga i diritti la cui tutela è assicurata come “inviolabile” nella prima parte del testo (articolo 2). Tali diritti – lo ha scritto a chiare lettere anche di recente la Corte costituzionale (...??) – devono rappresentare un limite invalicabile, tutelato anche a livello internazionale. Pertanto deve essere “la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione” (così la sentenza n. 275 del 2016...??? NdQ: appunto, e teniamo conto anche della nascita di questo equivoco).
IL NOSTRO spigliato revisore ha maldestramente tentato di giustificare questa inversione delle priorità costituzionali (prima la stabilità, poi i diritti incomprimibili) in base ad un inesistente obbligo europeo. 
Il Fiscal compact in realtà si limita – e già non è poco – ad imporre vincoli di natura permanente, ma non obbliga ad iscriverli in Costituzione.
La scelta dunque di “costituzionalizzare” il principio del pareggio di bilancio ricade pienamente nella responsabilità politica del Parlamento italiano. Ciò comporta il gravissimo effetto di rendere immodificabili le politiche del rigore anche nell’auspicabile ipotesi di un ravvedimento a livello europeo.
SONO PASSATI sei anni da questa improvvida riforma e il suo fallimento è ormai evidente. Un Parlamento responsabile ne prenderebbe atto e rilancerebbe le ragioni del costituzionalismo così disinvoltamente disattese. In particolare, dovrebbe essere interesse di tutte le forze politiche e sociali che si ispirano alla Costituzione proporre una controriforma che riaffermi le giuste priorità: prima i diritti fondamentali delle persone, poi le ragioni legate agli equilibri delle finanze pubbliche. Dovrebbero essere le rappresentanze politiche e sociali di sinistra a sollecitare il cambiamento, ma così non è...
UNA LEGGE COSTITUZIONALE di iniziativa popolare è stata elaborata dal Coordinamento per la Democrazia Costituzionale (proposta presentata assieme al quella sulla legge elettorale e in accordo con quella sulla scuola). Essa si propone non solo di eliminare le regole contabili definite nella sciagurata revisione del 2012, ma anche di individuare il limite delle politiche di spesa, che devono in ogni caso garantire il “rispetto dei diritti fondamentali delle persone”. È necessario raccogliere 50.000 firme nel vuoto della comunicazione e in assenza di mezzi.
UNA LEGGE costituzionale di iniziativa popolare è un azzardo, ma anche un atto estremo di responsabilità. Ci vuole in effetti coraggio per proporre al prossimo Parlamento di invertire la rotta, provando a riparare i guasti prodotti dal revisionismo costituzionale...".

2.1. Una nota in calce all'idea di un'iniziativa popolare per una legge di revisione costituzionale (che vale anche nel caso che tale revisione fosse invece proposta da una maggioranza parlamentare): poiché, quand'anche su iniziativa popolare, il diritto costituzionale di revisione è derivato, in quanto "costituito" e non "costituente", esso comporterebbe una duplice controindicazione negativa nei confronti delle vere controparti della tentata riaffermazione delle priorità legali-costituzionali (cioè le occhiute e ostili istituzioni Ue-M): 
a) si avrebbe un diritto applicabile ex nunc, cioè non utilmente opponibile come originaria e duratura violazione "obiettivamente evidente" di "norme del diritto interno di importanza fondamentale"; 
b) in conseguenza di ciò, si ratificherebbe per implicito l'antica, e altrettanto duratura incomprensione della Corte costituzionale, sulla natura dei trattati e sulla portata dell'art.11 Cost., con effetti boomerang, cioè selfdefeating, in chiave di legittimità della pretesa di sciogliersi dal vincolo esterno. 

2.2. Insomma si tratterebbe di convalidare e "rimuovere" il problema fondamentale, - e non irrimediabile, poiché le norme costituzionali non sono abrogabili per desuetudine e l'illecito derivante dalla loro violazione non dovrebbe essere prescrittibile-, del perché e del come i "controlimiti" non siano mai stati effettivamente applicati (qui, p.11, per un suggerimento illuminante di Luciani)
Sul piano inevitabile dei rapporti di diritto internazionale, sarebbe estremamente rischioso determinare, sia pure indirettamente, una sorta di sanatoria di una gravissima fase di sospensione del dettato costituzionale non revisionabile, e affrontare una difficile conflittualità politico-internazionale che, invece, dovrebbe poter essere prevenuta. Specialmente facendo le proprie mosse (almeno nella fase di avvio) all'interno dell'eurozona (qui, p.2), come ha dovuto apprendere a sue spese la Grecia.

3. L'altro segnale di scottante attualità, proviene invece da questo appello (già oggetto di strenua discussione su twitter, dopo il lancio fattone dall'amico Massimo D'Antoni), firmato da un nutrito gruppo di studiosi e accademici (che vedete riprodotto in fondo e che, per quanto di nostra conoscenza, vede risaltare figure di assoluto rilievo tra cui, anche oltre i vincoli di amicizia che ho per taluni dei sottoscrittori, è da sottolineare la presenza di Domenico Mario Nuti). Anche qui riproduco i passaggi salienti, inserendo qualche link di approfondimento critico (senza riproporre quelli già inseriti nella parte dedicata all'articolo di Azzariti e validi pure per questo):


"Negli ultimi quarant’anni la scienza e la tecnologia hanno fatto progressi inimmaginabili e la ricchezza del mondo è aumentata, tanto nei paesi che avevano un minor livello di sviluppo che in quelli di più antica industrializzazione. 
In questi ultimi, però, la maggiore ricchezza generata è andata quasi esclusivamente nelle mani di un piccolo numero di persone, invertendo la tendenza a una più equa distribuzione che si era verificata a partire dalla fine della seconda guerra mondiale. Non si è trattato di una fatalità o di un fenomeno impossibile da controllare: è stato il frutto dell’ideologia economico-politica che ha conquistato l’egemonia dagli anni ’80 del secolo scorso.

Da questa ideologia si sono lasciati conquistare anche i partiti della sinistra storica, tanto da essere in molti casi protagonisti, come forze di governo, delle politiche che da essa venivano dettate. L’Unione europea è nata sulla base di questa ideologia, le cui linee fondamentali sono ben sintetizzate dalle parole di Guido Carli, subito dopo la firma del Trattato di Maastricht, riportate nelle sue memorie: 
L’Unione Europea implica la concezione dello ‘Stato minimo’, l’abbandono dell’economia mista, l’abbandono della programmazione economica, una redistribuzione delle responsabilità che restringa il potere delle assemblee parlamentari e aumenti quelle dei governi, l’autonomia impositiva degli enti locali, il ripudio del principio della gratuità diffusa (con la conseguente riforma della sanità e del sistema previdenziale), l’abolizione della scala mobile, la riduzione della presenza dello Stato nel sistema del credito e dell’industria, l’abbandono di comportamenti inflazionistici non soltanto da parte dei lavoratori, ma anche da parte dei produttori di servizi, l’abolizione delle normative che stabiliscono prezzi amministrati e tariffe. In una parola: un nuovo patto tra Stato e cittadini, a favore di quest’ultimi”. 
Carli dimenticò di precisare “a favore di una parte di quest’ultimi”, ma per il resto la descrizione di quello che sarebbe accaduto è quanto mai precisa e definita.

Questa è l’Europa dell’euro e del Trattato di Maastricht a cui ci siamo legati.
Con una aggravante: il dominio politico-economico della Germania e dei suoi alleati, a cui per ragioni storiche è stata associata la Francia. 
Questo gruppo di paesi guida l’Unione in base ai suoi specifici interessi, anche quando confliggono con quelli degli altri membri. Pensare di riuscire a cambiare sostanzialmente questa situazione è puramente illusorio: la modifica dei trattati richiede l’approvazione all’unanimità (ma v. qui, p.2.1. per problemi opposti, cioè quelli di un'ennesima e incombente riforma sfavorevole all'Italia), che implicherebbe la rinuncia da parte del “nucleo forte” a una situazione che lo favorisce. 
La prospettiva è semmai di un peggioramento: le linee della riforma della governance europea, che dovrebbe essere approvata entro il prossimo anno, sono frutto di una trattativa essenzialmente tra Germania e Francia. Se verrà approvato lo schema attualmente in discussione, le conseguenze per l’Italia saranno pesantissime.
Il nucleo-guida ha già dimostrato di non tenere in alcun conto le ragioni del nostro paese: da oltre tre anni abbiamo chiesto ufficialmente di cambiare il metodo di calcolo del Pil potenziale (v. qui, pp. 11 e 16-18), che è la base di giudizio per i conti pubblici e che è stato giudicato poco attendibile da un gruppo di esperti incaricato di valutarlo dalla stessa Commissione, e ad oggi non abbiamo ottenuto alcun risultato. Questo è senza dubbio un pessimo segnale per il futuro.
...
Noi che sottoscriviamo questo documento crediamo che ciò avvenga perché LeU non ha dato precisi segnali di discontinuità rispetto al processo che ha portato i partiti tradizionali della sinistra a convertirsi alle idee del “pensiero unico” e alle scelte che questo ha comportato, prima fra tutte quella di disegnare un’organizzazione sociale funzionale ai desideri (non alle “necessità”) del mercato, subordinando ad essi le istanze di promozione sociale che la Costituzione pone come scopo della Repubblica. A parte alcune eccezioni, ci sembra che il suo atteggiamento rispetto all’Europa reale sia superficiale e reticente: non ha senso vagheggiare una ipotetica “Europa più giusta, più democratica e solidale” per cui non ci sono le condizioni né ci saranno nel prossimo futuro
Occorre invece porsi il problema di cosa fare per non farsi schiacciare dall’Europa che c’è. Che non abbia avuto il coraggio – o forse la convinzione – di dire che la strada dell’ultimo quarto di secolo era sbagliata per chi si ponga in un’ottica di sinistra.
...
Un primo passo può essere quello di proporre che sia possibile sottoporre preventivamente al giudizio della Corte Costituzionale, (NdQ: ipotizziamo pure i passi ulteriori e inscindibilmente complementari) anche su iniziativa dei cittadini, le norme e gli accordi che hanno origine dall’Unione europea. Come del resto avviene in Germania.

Nicola Acocella, economista, univ. La Sapienza
Davide Antonioli, economista, univ. Chieti-Pescara
Lucio Baccaro, direttore Istituto Max Planck, Colonia
Roberto Balduini, dirigente, Roma
Annaflavia Bianchi, economista, univ. Ferrara
Luigi Bosco, economista univ. Siena
Sergio Cesaratto, economista, univ. Siena
Guglielmo Chiodi, economista, univ. La Sapienza
Carlo Clericetti, giornalista, Roma
Massimo D'Angelillo, economista, Bologna
Massimo D'Antoni, economista, univ. Siena
Sebastiano Fadda, economista, univ. Roma 3
Daniele Girardi, economista, univ. del Massachusetts
Andrea Guazzarotti, costituzionalista, univ. Ferrara
Ugo Marani, economista, univ. Napoli L’Orientale
Salvatore Monni, economista, univ. Roma 3
Antonio Musolesi, economista, univ. Ferrara
Domenico Mario Nuti, economista, univ. La Sapienza
Leonardo Paggi, storico, già docente universitario
Paolo Pini, economista, univ. Ferrara
Geminello Preterossi, Filosofo del diritto, univ. Salerno
Fabio Ravagnani, economista, univ. La Sapienza
Pasquale Santomassimo, storico, univ. Siena
Roberto Schiattarella, economista, univ. Camerino
Alessandro Somma, giurista, univ. Ferrara
Antonella Stirati, economista, univ. Roma 3
Francesco Sylos Labini, fisico Centro Enrico Fermi, Roma
Mirco Tomasi, economista, Bruxelles
Leonello Tronti, economista, univ. Roma 3
Antimo Verde, economista, univ. Tuscia
Marco Veronese Passarella, docente economia, univ. Leeds
Paolo Piacentini, economista, univ. La Sapienza
Marzia Zanardi, pensionata, Bologna
Gennaro Zezza, economista, univ. Cassino e Levy Institute


venerdì 23 febbraio 2018

LA QUESTIONE MEDIATICA TRA JUNCKER E LA ZIA D'ITALIA

http://www.voltairenet.org/article17502.html

1. Siamo in quella peculiare fase finale della campagna elettorale in cui i sondaggi sono vietati e perciò tutti i partiti in corsa possono, anzi "gli corre l'obbligo di", fare professione di ottimismo, potendo, un po' tutti, autocertificare che la strategia comunicativa e il programma prescelti daranno buoni frutti di consenso. Anzi "ottimi e abbondanti".
Essendo, in generale, "inutile polemizzare con i fatti" (ammesso che i sondaggi possano considerarsi tali, e non piuttosto un fattoide di massa come pochi altri), è a maggior ragione inutile polemizzare con le autocertificazioni in assenza di...fatti (che le contraddicano).
Proveremo invece a riproporre alcune parti dell'approfondimento dedicato alla "questione mediatica" (ero in dubbio se ri-occuparmi del fenomeno dell'astensionismo e delle sue condizioni "ottimali" di efficienza antidemocratica: non escludo di tornarci sopra ma, più utilmente, nel dopo elezioni). 
Della questione mediatica ci siamo occupati più volte ma trovo significativo riallacciarmi all'ultima occasione in cui abbiamo tentato di definirne la crescente criticità; cioè alla vigilia del referendum sulla riforma costituzionale

2. Quella consultazione, nel suo contesto e nei suoi epifenomeni, infatti, presentava alcune inquietanti analogie con l'attuale campagna elettorale. Basta apportare gli opportuni aggiornamenti ai più recenti sviluppi. 

2.1. Ma cominciamo col ricordare le premesse generali, giuridico-istituzionali e "di mercato" (peculiare ma pur sempre mercato) della questione mediatica.
La prima di tali premesse discende da una sintesi orwelliana (a) che si combina perfettamente con il più volte citato brano di Habermas (b):
(a) "Ogni singolo elemento dell'agenda dell'informazione mediatica è studiato per costituire un tassello della conservazione del potere oligarchico. Senza eccezione alcuna".

https://uniticontrounsistemamalato.files.wordpress.com/2015/01/g-orwell.jpg?w=520&h=326 http://calamouse.corrieredelveneto.corriere.it/articoli/Stei081213_med.jpg
La fisiologia della guerra, intrapresa dall'oligarchia, ha armi di combattimento adeguate per la conduzione di un conflitto continuo e ininterrotto: i media, - giornali, televisioni e, sempre più ovviamente, l'utilizzo del web- e il sistema finanziario di loro controllo totalitario. 

(b) Nella definizione di Habermas si tratta di una guerra condotta in forma di d'assedio e quindi dell'uso di adeguate "macchine ossidionali".

http://it.manuelcappello.com/wp-content/uploads/2012/03/habermas-potere-comunicativo-IMG_4868.jpg
 
Sappiamo che il sistema di dispiegamento di queste armi "adeguate" e del loro controllo totalitario, assume, nella società globalizzata di massa, la forma del "pop", - quella che è più conveniente mantenere, perché ottiene la frammentazione strutturale di ogni possibile resistenza-, e si basa su alcuni principi:

b) la gestione, all'interno del sistema controllato dei media, dell'informazione e della controinformazione, in modo spesso indiretti ed occultati;

c) come conseguenza dei punti a) e b), il ferreo controllo dell'opinione pubblica ("ciò che gli uomini debbano credere e ciò per cui debbano affanarsi", nelle parole scolpite, da Hayek, sulla pietra tombale della democrazia sostanziale) che garantisce, al livello sottostante dell'opinione di massa (pop), una proiezione identificativa degli oppressi con gli oppressori, che ha come coagulante il senso di colpa (qui, p.2, b.) instillato nei primi. 
Nelle attuali condizioni storico-politiche, questa proiezione identificativa assume il significato di "paradosso €uropeo".
3. Poiché, (purtroppo), soltanto per taluni, questi richiami a presupposti teorici essenziali risultino utili, scendiamo dunque nel concreto, per verificare la segnalata analogia con le vicende che precedettero il referendum costituzional-riformatore. 
Proprio alla vigilia del referendum l'europarlamento se ne uscì con questa deliberazione:
E il nostro Juncker, esattamente in quegli stessi giorni, si segnalò per questo curioso appello (suggerendo, con un nervoso "mettere le mani avanti" che il referendum costituzionale italiano fosse proprio...sull'€uropa):

4. Puntuale, all'approssimarsi delle elezioni politiche, Juncker si "ripropone":


5. E il nervosismo di Juncker trova un puntuale riscontro interno con quello della Bonino, la (autodefinitasi) zia del Più Europa, che si inalbera con Travaglio dimostrando uno scarso livello di tolleranza alle "contraddizioni" più che al contraddittorio (che normalmente liquida con una serie di affermazioni apodittiche, e del tutto avulse dagli argomenti dell'interlocutore, che ritiene sacralizzate e come tali possibile oggetto soltanto di "venerazione". Questione di scarsa verifica dei presupposti teorici, storici, istituzionali e geo-economici sui quali si fonda il suo spinelliano atto di fede?):


6. E certamente la "zia degli italiani", gode di un'eccezionale dose di spazio televisivo per divulgare delle idee che in realtà sono ben note da molto e che, vorremmo rassicurarla, conosciamo benissimo:



7. Il problema della misteriosa iper-presenza mediatico-televisiva della Bonino - ma non solo sua, per la verità-, è tanto maggiore quanto minori risultavano le sue confessate incapacità di attrazione popolare in sede di presentazione della lista; tuttavia, tale problema, va esteso naturalmente a considerare tutta le serie di analoghe (e finanziariamente costose) super-visibilità, tutte in una c€rta direzione, e, non secondariamente, anche a considerare certi misteriosi oscuramenti; e tuttavia, questo problema, sembra passare inosservato.
Nondimeno è, dal punto di vista giuridico-costituzionale, molto rilevante:

8. Ribadiamo perciò i termini costituzionali della questione, che si àncorano all'art.21 della Costituzione assunto nella sua intera formulazione e nella sua armonizzazione sistematica con l'intero dettato della Carta (qui, pp.5-7). Partiamo dalla interpretazione "autentica" che fornisce Lelio Basso:


Se democrazia significa sovranità del popolo, e quindi di tutti i cittadini, se pertanto in un regime democratico ogni cittadino deve essere posto in condizione di esercitare i diritti che gli derivano dalla sua partecipazione alla sovranità collettiva, se la nostra Costituzione (art. 3 cap.) riconosce che questa democrazia rimarrà una vuota parola fino a quando tutti i cittadini non saranno messi in condizione di poter partecipare di fatto alla gestione della cosa pubblica, mi pare che se ne possa concludere che la collettività ha l’obbligo di dare a ciascun cittadino la concreta possibilità di tale partecipazione. 

Ora tale concreta possibilità non significa soltanto liberare ogni cittadino dagli assillanti problemi della fame, della miseria o della disoccupazione, non soltanto eliminare le stridenti disuguaglianze e gli squilibri perturbatori del tessuto sociale, MA ANCHE FORNIRE A CIASCUNO I MEZZI PER ESSERE IN GRADO DI APPREZZARE I VASTI E COMPLESSI PROBLEMI IN CUI SI ARTICOLA LA VITA COLLETTIVA. 

E TALI MEZZI SONO TANTO SOGGETTIVI (adeguato livello di istruzione e di coscienza civile e democratica) quanto oggettivi (un’informazione per quanto possibile seria e imparziale). Sarebbe infatti impossibile concepire una democrazia reale, un effettivo governo di popolo, se al popolo non fossero dati gli strumenti per accedere alla conoscenza della vita associata che esso deve governare e dei problemi che ne risultano ch’esso deve risolvere.

Ad assolvere a questo compito non è certamente sufficiente la libertà della stampa e dell’informazione in generale: LA LIBERTÀ DELLA STAMPA È CERTO UNA GRANDE CONQUISTA DEL PERIODO LIBERALE che va strenuamente difesa anche oggi, in un regime democratico più avanzato, ma è ben lungi dall’esaurire la materia

Essa infatti ha radice in una concezione individualistica della società e riflette il diritto di ogni individuo ad esprimere la propria opinione: riguarda di più cioè il diritto di chi vuole scrivere che quello di chi vuole leggere per essere obiettivamente informato, risponde assai più al concetto di libertà in senso tradizionale che a quello di servizio pubblico

In altre parole, la libertà di stampa rappresenta il diritto del singolo cittadino di “fare” qualche cosa e il correlativo dovere dello Stato di “lasciar fare”, mentre il servizio pubblico dell’informazione rappresenta un dovere della collettività di “fare” essa positivamente qualche cosa e il correlativo diritto di tutti i cittadini di ottenere dalla collettività la prestazione dovuta.

...la libertà d’informazione ha oggi assunto un significato diverso che nell’Ottocento

Che cosa significa parlare di libertà di stampa nel senso di riconoscere a ciascuno il diritto di fondare un giornale, quando si sa che in realtà solo pochi magnati, o un grandissimo partito, possono permetterselo? 

Mi sembra più giusto parlare di un DIRITTO DEL CITTADINO ALLA VERITÀ, cioè all’informazione più ampia e spregiudicata che gli fornisca tutti gli elementi per FORMARSI UNA SUA IDEA DELLA VERITÀ: ciò significa soprattutto che i partiti, i sindacati, le organizzazioni civili devono avere libero e incontrollato accesso alla radio e alla TV, per un tempo che corrisponda alla loro reale rappresentatività. Questo mi sembra il modo migliore di garantire la libertà dell’informazione, almeno nel settore radio-televisivo …” [L. BASSO, Affinché il Paese migliori, Il Giorno, 12 ottobre 1974].
9. A queste considerazioni del 1974, ne vanno aggiunte altre che, peraltro, corrispondono alla stessa propensione di Basso a denunciare la struttura antidemocratica del mercato all'interno del paradgima capitalistico attuale. Ecco, questo la denunzia di questo paradigma trova necessaria, e sicuramente ancor più prioritaria, necessità rispetto al mercato dell'informazione, a proposito del quale Basso, nel 1979, parla di "imperialismo culturale" (qui, p.4):

"...senza capire la natura irresistibilmente oligopolistica dei "mercati", di qualunque settore, ogni disquisizione sulle "libertà" è una squallida pantomima.

E lo è più che mai laddove sia in gioco un mercato caratterizzato dal preminente pubblico interesse del bene/servizio offerto: la cosa sarebbe agevolmente risolvibile con una legge sull'informazione conforme all'art.21 Cost. Di cui abbiamo in passato indicato, su questo blog, alcuni principi irrinunciabili.

Ma poi vedendo che le "classifiche" internazionali (invariabilmente redatte da ONG "senza frontiere" che attaccano gli Statibrutti e ignorano i "mercati") fanno coincidere la "libertà di informazione" con il numero di operatori privati (in oligopolio!) e con l'assenza di interferenza statale su di essi, non rimane che una sola soluzione: vietare lo svolgimento di servizi di informazione privata da parte di chi non sia, in modo accertato con totale rigore, un editore PURO.
Cioè privo di qualunque altro interesse commerciale, industriale o finanziario, il cui titolare si ponga quale oligopolista concentrato, in qualsiasi settore, e, come tale, portatore di una rilevante frazione di potere politico de facto, cioè al di sopra e al di fuori dello Stato di diritto costituzionale, come avvertiva Calamandrei.

E non solo: si deve trattare di un editore puro che sia finanziato ESCLUSIVAMENTE da un istituto di credito specializzato di proprietà pubblica, nonché amministrato da funzionari imparziali, a requisiti di nomina rigorosamente predeterminati (su oggettive "competenze") e soggetti a scadenze non rinnovabili delle cariche, nonché sorteggiati da un elenco aggiornato costantemente.

Poi sull'entertainment, facessero quello che vogliono (nei limiti delle leggi penali) e massima apertura del mercato: compresi i "film di interesse culturale".
La precondizione per la loro produzione e distribuzione deve essere SOLO la diffusione della cultura, per tutti, da parte di un imparziale e rafforzato sistema della pubblica istruzione.

Pubblica istruzione, (forte e imparziale), libertà di informazione, (ontologicamente separata da interessi privati di altro tipo, compresa la reverenza verso la "morale dei banchieri"), e eguaglianza sostanziale, sono praticamente la stessa cosa vista in momenti e angolazioni differenti".