lunedì 25 giugno 2018

PROTEZIONE DEL COPYRIGHT E LOTTA ALLE FAKE NEWS: L'ART.21 COST. IN PERICOLO



I PIÙ RECENTI TENTATIVI DELL’UE DI INTERFERIRE SULLA LIBERTÀ DI INFORMAZIONE COSTITUZIONALMENTE GARANTITA: PROTEZIONE DEL COPYRIGHT E LOTTA ALLE FAKE NEWS
Post di SOFIA
1) In un precedente post era già stato affrontato il tema dell’informazione e delle molteplici sfaccettature che interessano questo enorme segmento di mercato.  Si era già rimarcato che anche la comunicazione e l’informazione subiscono le logiche di qualunque altro elemento del mercato, con l’ulteriore aggravio che sono i più potenti strumenti di controllo di massa.
Le multinazionali che controllano la globalizzazione economica, indeboliscono le istituzioni democratiche attraverso decisioni che scavalcando le istituzioni parlamentari e, con il pretesto di favorire gli interessi della collettività, finiscono per determinare una grande trasformazione del modo di concepire i diritti.
Questo avviene attraverso un incremento dell’offerta e dell’utilizzo dei mezzi di comunicazione di massa.  Però, se comunicazione e informazione si fanno potenzialmente globali, significa che anche il controllo dell’informazione si fa potenzialmente tale. Innanzitutto perché l’informazione è un bene da gestire e diventa anch’esso PRODOTTO.
Dall’altro perché coloro che operano in situazioni di concentrazione hanno bisogno dello strumento informazione per continuare a mantenere la loro situazione di monopolio/oligopolio e tenderanno, quindi, ad avere il controllo delle imprese che si occupano dell’informazione.
Da notare che i meccanismi sono sempre glie stessi, anche in questo settore: il controllo dell’informazione diventa strumento per imporre agli uomini ciò a cui debbano credere e ciò per cui debbano lottare, e quella che passa per essere una imposizione assolutamente necessitata dalla volontà di tutelare i cittadini/consumatori in verità non è che l’ulteriore strumento di controllo della massa pensante o il tentativo, quantomeno, di arginare il pensiero che non si uniformi alla ideologia liberista.
Recentemente si è assistito a due fenomeni che ne sono un chiaro esempio: la volontà del parlamento europeo di voler introdurre regole più severe per la protezione del copyright nonché per la lotta alle fake news.

2) La commissione Affari legali del Parlamento europeo ha dato il suo assenso a regole più severe sulla protezione del copyright in Europa, e il 4 luglio 2018 potrebbe essere approvata la direttiva Ue sul diritto d’autore (direttiva sul copyright) proposta due anni fa (proposta di direttiva sul diritto d’autore nel mercato unico digitale n. 2016/0280) e che potrebbe divenire legge nei 27 Paesi membri dell’Unione nel 2021.
Nei suoi effetti pratici, soprattutto i contestati artt. 11 e 13, danno un quadro delle sottese volontà dell’UE molto diverso.
L'art.11 introdurrebbe la cosiddetta "Link Tax". In pratica, la possibilità per gli editori di farsi pagare i diritti per la semplice pubblicazione del link ad un articolo, quando il link incorpora un estratto, un riassunto di notizia, quello che adesso fa "Google News" ad esempio. I diritti di copyright verrebbero estesi così al titolo, agli snippets (gli estratti), fino all'URL, la parte che identifica l'indirizzo di una risorsa web. 
Diventerà così impossibile il dibattito pubblico in rete, in quanto si potrà commentare un articolo di giornale senza poterne mostrare neppure una riga , perfino il titolo. A meno che non si consegua la licenza.E siccome i link vengono pubblicati dagli utenti sulle piattaforme di condivisione note, a doversi dotare di specifica licenza saranno Google, Facebook, Twitter. Questa norma, quindi, parrebbe avvantaggiare i grandi editori,  a svantaggio dei piccoli editori e blogger che dovranno scendere a patti con gli editori e stringere accordi sull'indicizzazione e sulle pubblicazioni di estratti degli articoli con l’obbligo di indicare necessariamente il relativo link. Insomma tutte le start-up o i servizi indipendenti saranno costretti a disattivare qualunque attività di recupero informazioni su un contenuto esterno linkato.
Esiste poi il Creative Common, cioè una serie di licenze che consentono di dare una progressiva libertà al riutilizzo dei propri contenuti.
L’articolo 13, invece, impone ai gestori delle piattaforme user generated content (come YouTube, GitHub, Instagram e eBay) di eseguire un controllo preventivo su ogni contenuto caricato dagli utenti, al fine di verificare che non vi sia alcuna violazione del copyright e solo successivamente accettarlo e renderlo disponibile online. In sostanza si impone di installare filtri automatici dei contenuti che impediscono agli utenti di caricare in Rete materiale protetto da copyright ovvero a ottenere le licenze per mostrare quei contenuti. Questi strumenti di rilevamento dei contenuti, peraltro, sono già stati ritenuti, dai tecnici ed esperti di settore, difettosi, generano falsi positivi, non si adattano a tutti i tipi di contenuti e sono anche troppo onerosi.
I filtri devono inoltre essere applicati non solo ai servizi che ospitano una “grande quantità di contenuti”, ma anche a quelli che semplicemente ne facilitano la disponibilità in rete anche se non li ospitano.
Questo chiaramente impedirà il dibattito pubblico o qualunque utilizzo dei contenuti che non sia fatto a scopo commerciale (come ad esempio i meme, che sono foto con una scritta), ma anche la pubblicazione di quei contenuti creativi per i quali esiste una licenza (non verificabile dagli algoritmi), o di quei contenuti originali che però possono trarre in inganno gli algoritmi (così come di qualunque contenuto giornalistico indipendente dal mainstream) e porrà in essere una sorta di censura preventiva, che metterà in capo agli utenti la responsabilità di dimostrare (dopo lunghe procedura che potenzialmente si possono concludere in un nulla di fatto) che i loro contenuti non ledono il diritto di autore.
Sostanzialmente, quindi, l’art. 13 ribalta quella che era stata la posizione assunta dalla Corte di Giustizia nelle pronunce Sabam c. Scarlet e Sabam c. Netlog, nelle quali la Corte concludeva nel senso che un sistema di filtraggio generalizzato e preventivo degli utenti fosse in contrasto con le norme europee. La Corte europea aveva chiarito che non si può imporre ad un provider di installare un filtro che controlli i caricamenti di tutti gli utenti per impedire che siano uploadati file in violazione dei diritti d’autore. E nell’ottenere un’ingiunzione (per ottenere la rimozione di ontenuti non autorizzati) e nell’applicarla, occorre equamente bilanciare i diritti in gioco, quindi la protezione del copyright da un lato e la tutela degli altri diritti fondamenti dall’altro (come la privacy e la libertà di espressione).
Anche se la Commissione sembra voler tutelare i cittadini/consumatori da grandi lobby o grandi centri di potere come Google o Facebook in verità finisce per incidere sui piccoli, sui privati, sugli utenti comuni, sulle piccole imprese che non riusciranno a sopportare i costi di gestione di una piattaforma che richiede filtri automatici complessi o i costi per le richieste di autorizzazioni al fine di non violare i diritti di copyright.
Ed anche in caso di violazioni, solo i grandi avranno tasche sufficientemente profonde per confrontarsi con le responsabilità che dovessero arrivare e dotarsi delle tecnologie cui fa riferimento la direttiva mentre le parti più deboli non riusciranno nell’impresa e saranno costrette a cedere il passo.
I grandi, così facendo, diventeranno sempre più grandi e i piccoli si ritroveranno rapidamente esclusi dal mercato dell’informazione.
Quindi dietro la facciata di un intento teso a  responsabilizzare gli intermediari della comunicazione perché questo produrrebbe effetti positivi per i mercati e la democrazia, e ridimensionerebbe lo strapotere dei big della Rete, in verità si sta decidendo di affidare ai monopoli dell’informazione il compito di decidere in relazione a quale contenuto rischiare una causa per violazione della proprietà intellettuale e in relazione a quale contenuto procedere immediatamente alla rimozione senza rischiare: quindi l’ennesimo implicito assenso a pratiche di sorveglianza di massa in un settore particolare come il mondo di internet che, probabilmente, stava sfuggendo maggiormente al controllo.
Occorre aggiungere una volta approvata la Direttiva, se pure l’Italia decidesse di non recepirla, questa produrrebbe comunque i  suoi effetti: basta che sia approvata e recepita da un solo grande paese europeo (e la recepirebbero in molti), essendo Google e Facebook soggetti transnazionali, e questi sarebbero comunque costretti a porre in essere algoritmi, filtri, comportamenti che poi ovviamente ricadrebbero senza alcun distinguo anche sui cittadini italiani.
Per chi volesse approfondire specificatamente questo tema si possono consultare anche i seguenti link:
1) https://www.byoblu.com/2018/06/21/sullorlo-della-tomba-di-internet-controrassegna-blu-18/ 
2) https://www.surveymonkey.com/r/salvainternet
3) http://blog.ilgiornale.it/foa/2018/06/24/lultima-della-ue-il-web-senza-immagini-e-senza-idee-si-chiama-censura-io-non-ci-sto-e-tu/
https://www.byoblu.com/2018/06/26/la-camicia-di-forza-della-ue-sulla-rete-paolo-becchi/

3) L’altro cavallo di battaglia dell’Unione Europea è la lotta alla “disinformazione in rete, definita come l’insieme di “informazioni false o fuorvianti create, presentate e diffuse per ottenere un vantaggio economico o per ingannare le persone e che può creare un pregiudizio pubblico.” Nel giugno 2017, il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione per chiedere alla Commissione europea di verificare l’eventualità di adottare provvedimenti normativi in merito. Quest’ultima ha subito provveduto a costituire un gruppo di esperti che il 12 marzo 2018 ha prodotto un report ("Final Report of the High Level Expert Group on Fake News and Online Disinformation").
La Commissione europea, insieme agli Stati membri, vorrebbe una cooperazione tra organizzazioni dei mezzi d’informazione, piattaforme, ricercatori accademici, verificatori dei fatti e delle fonti, industria della pubblicità e organizzazioni della società civile al fine di garantire il necessario livello di controllo pubblico ed equilibrio nella definizione di standard di trasparenza. Suggerisce, come norme di principio generale, che tutti i media digitali forniscano «le informazioni necessarie» a identificare chi c’è dietro un determinato tipo di informazioni. «Le piattaforme dovrebbero mostrare queste informazioni», si legge nel rapporto, dove come «primo passo» verso il nuovo percorso di trasparenza si consiglia di specificare i termini di pubblicità politica e di sponsorizzazioni. Si insiste anche sulla necessità di fornire informazioni sugli algoritmi alla base della selezione e della pubblicazione delle notizie. Dovrebbero poi essere costituiti  speciali centri europei  per i problemi di disinformazione”, con il compito di portare aventi ricerche interdisciplinari che monitorino costantemente tecnologie, strumenti, natura e impatto potenziale della disinformazione nella società, valutando la veridicità dei fatti alla base di notizie e informazioni nelle aree di interesse generale (politica, cronaca, salute, scienza, istruzione, economia, ecc.). A questi stessi centri verrebbe inoltre conferito l’incarico di identificare e mappare le fonti e i meccanismi di disinformazione sul web, e rendere disponibili i dati delle piattaforme al pubblico.  
Insomma, si pretenderebbe di tutelare il pluralismo informativo a tutela della democrazia creando “sistemi di filtraggio” dei contenuti così che ogni utente possa costruirsi una propria via informativa sulla base di “indicatori” di qualità e affidabilità delle fonti.
E tutto questo, nuovamente sulla premessa che soprattutto i social media rappresentino un problema per la varietà dell’informazione a cui gli utenti sono esposti. Quando invece è stato spiegato in più occasioni  ( tra cui qui, o qui) come il problema non è internet, i social e neppure il pluralismo informativo che apparentemente pare sussistere su ogni canale informativo.
Che  gli strumenti di tutela proposti dalla Commissione non vogliano affatto risolvere il problema della democrazia, ma semmai limitarla si evince dal fatto che in verità non vi sono davvero mezzi idonei che possano impedire di usare gli strumenti indicati dalla Commissione per creare deliberatamente una timeline o un feed interamente composto di fonti ritenute poco affidabili; né che possano impedire un uso perverso degli “indicatori” che la Commissione tanto fatica a descrivere e cercare di comporre; nè che i media ritenuti affidabili secondo questi criteri riescano comunque a stillare solo disinformazione. 


Stupisce, per contro che, pur in assenza di informazioni e dati sul fenomeno che si vorrebbe reprimere e di cui quindi non si conosce la reale entità ed i concreti effetti, si prefiguri la creazione di molteplici  organismi e la designazione di molteplici operatori  ai più svariati compiti (“Coalizione” tra piattaforme, operatori dei media ed esperti di fact-checking che costruisca un “Codice di Pratiche” per contrastare la disinformazione; un “esperto indipendente” che monitori sulla sua realizzazione fornendone una “valutazione iniziale dei progressi”; un organismo “indipendente” che ne tenga costantemente sotto controllo gli sviluppi; l’istituzione di una serie di “Centri europei” per la ricerca sulla materia; un “Centro di Eccellenza” dotato delle risorse necessarie a coordinare i singoli centri di ricerca). Così come stupisce che per mandare avanti una simile struttura si chiede venga predisposto un finanziamento almeno pari a quello disposto per il Dipartimento di Stato americano (120 milioni di dollari) per combattere l’interferenza straniera sulle elezioni del 2016.
   
4) Insomma, l’Europa, di fronte al problema,  mette in moto sempre lo stesso modus operandi: per evitare che la rimozione diretta del problema possa determinare qualche forma di ribellione, crea forme di emergenza inesistente nei confrinti delle quali l’Europa si accredita come l'unico soggetto in grado di farvi fronte (i singoli Stati sono comunque inefficienti); si centralizzano a livello europeo decisioni e normative a scapito delle sovranità degli Stati sul presupposto che solo le soluzioni imposte dall’alto garantiscano situazioni generalizzate di equità (ma in verità a scapito dei diritti fondamentali garantiti dalle costituzioni nazionali), e magari si finanziano progetti di fumo con i finanziamenti europei o con risorse statali, che in entrambi i casi non sono altro che risorse dei singoli Stati sottratte alle politiche economiche di ciascuno di questi e che diversamente verrebbero utilizzate per far fronte a situazione di vera emergenza. E queste le chiamano misure a sostegno della DEMOCRAZIA.



8 commenti:

  1. Conto molto sul fatto che in sede di Consiglio Europeo il Governo italiano (avendo cura di far apparire le sue contrarietà come condivise anche da altri stati) semplicemente metta il veto sugli articoli incriminati.

    In questo modo non ci sarà nessuna direttiva.

    https://it.wikipedia.org/wiki/Direttiva_dell%27Unione_europea

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  2. Ovviamente spero non passi questa delibera liberticida

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  3. Il problema dell'informazione falsa e fuorviante si risolve in poche mosse:

    1 - smantellamento di tutte le istituzioni unioniste;

    2 - nazionalizzazioni di massa delle infrastrutture e delle piattaforme che permettono la comunicazione telematica;

    3 - rivoluzione della disciplina delle licenze che, come per tutte le proprietà, deve tutelare i proprietari nei limiti delle finalità sociali che sempre, e comunque, la proprietà non può non avere avere.

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    1. Semplici a enunciarsi (qui) certamente...
      Facili da realizzarsi...beh, è un altro discorso

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    2. La nascita del Web ha coinciso con la globalizzazione degli anni novanta e seguenti, e quindi è facile confondere lo sviluppo delle tecnologie legate ad Internet con l'affermarsi del monopolio di imprese statunitensi.

      Un servizio pubblico italiano di condivisione video sul modello di YouTube potrebbe essere gestito da un'azienda pubblica come la Rai, e un servizio di messaggeria social dalle Poste, per esempio. Normative sull'interoperabilità obbligherebbero gestori stranieri a condividere i loro flussi di dati con l'operatore pubblico italiano: i tweet sarebbero visibili nella piattaforma italiana.

      La gestione pubblica potrebbe semplificare molti problemi tra cui il controllo dei dati e dei metadati, l'opacità degli algoritmi, la distorsione dei risultati in base al peso degli inserzionisti. La questione dell'elusione fiscale degli operatori potrebbe essere risolta alla radice.

      Lo stesso ragionamento si potrebbe svolgere anche per i servizi di prenotazione alberghiera: un operatore pubblico italiano potrebbe offrire il servizio a costi più bassi per gli operatori turistici.

      Un aspetto di enorme rilevanza è che piattaforme gestite in Italia significherebbero anche presenza in un settore in forte sviluppo (intelligenza artificiale, big data, etc.) e quindi posti di lavoro molto qualificati con la possibilità di essere all'avanguardia tecnologica nel campo.

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    3. « Un servizio pubblico italiano di condivisione video sul modello di YouTube potrebbe essere gestito da un'azienda pubblica come la Rai, e un servizio di messaggeria social dalle Poste, per esempio.

      Mi hai capito in pieno.

      Ovviamente, come fa notare Quarantotto, è tanta roba.

      Ma un obiettivo bisogna pur darselo, avere in mente la direzione in cui si vuole andare.

      Poi, un passo per volta, risolti attriti e vinti conflitti... come si suol dire... volere è Potere. :-)

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    4. @Sergio
      Preferisco per l'IT italiano di stato altri obbiettivi (es.: medicina predittiva ricavabile dai dati complessi registrati al MEF dalle ricette dematerializzate ed elettroniche, che adesso non sono usati ).

      Vedrei un Youtube di stato e un whatsap di stato come oggi vedo la Rai.

      E penso di non essere solo a vederla cosi' .

      Per i non del mestiere: dati complessi = big data

      Sostituire Airbnb / Booking ?
      Gli italiani hanno gia' fatto un referendum (vinto) per abolire il ministero del turismo , politici e burocrati si sono inventati l'inverosimile per rimettere le mani nella marmellata.

      Ritengo che limitarsi allo stretto necessario (sanita', scuola, pubblica sicurezza ) e farlo bene per uno stato che voglia servire i cittadini siano obbiettivi sufficienti, anche per evitare derive parassitarie.

      Regaliamo i soldi ai poveri e lasciamo che le multinazionali americane spolpino i ricchi: gli effetti sul moltiplicatore sarebbero maggiori in quanto la propensione marginale al consumo dei poveri e' superiore a quella dei ricchi .

      O pensate che i poveri possano comprarsi un Iphone a 900 euro, abbonarsi allo youtube di stato per passare il tempo e poi chattare con una whatsapp di stato per prenotarsi il posto alla mensa della caritas ?

      Se invece si pensa di "intermediare" il fatturato delle grandi aziende americane per riportare in Italia parte della tassazione si sta sbagliando su 3 fronti , ma questo argomento esula il mio commento al commento.

      L'economia keynesiana non si fa scimiottando il privato ma facendo quello che il privato non puo' e non ha la convenienza a fare , se di interesse nazionale: es.: robotizzare l'agricoltura piu' qualitativa del mondo (la nostra) .

      Sig. Sergio comprendo le sue buone intenzioni ma nascerebbero (per la liberta' che proprio qui si vuole difendere ) piu' problemi di quanti se ne risolvano .

      Le grandi aziende americane hanno una serie di vantaggi: sono distanti , non hanno parenti a Roma, cugini in comune , o amici in regione .

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