venerdì 26 ottobre 2018

INTERPRETAZIONI FRATTALICHE

Mutando l'ordine degli addendi, entro una certa contestualità, il risultato non cambia molto...
Rammentiamo però che alla Costituente si arrivò solo 3 anni dopo (e non senza ulteriori grandi sofferenze per un popolo diviso e tormentato da una feroce occupazione straniera). Ci si arrivò a seguito del referendum del 2 giugno 1946 che, contestualmente, elesse l'Assemblea. La sua prima riunione fu il 25 giugno 1946. L'inizio di un lungo e non lineare percorso...interrotto da una buia parentesi di oltre 30 anni...ma che forse riusciremo a riprendere.




giovedì 25 ottobre 2018

MUSSOLINI THE ORIGINAL: TRA LIBERALISMO E SOVRANITA' SENZA POPOLO


Fondamentale post "fenomenologico" di Arturo.
Inutile dire che nella lettura occorre prendersi il dovuto tempo di riflessione. E non trascurare i links. Neppure uno.

 1. Continuano a moltiplicarsi, in forme anche grottesche, le accuse di fascismo rivolte al governo, alla maggioranza, ai suoi elettori ma anche agli italiani in generale.
Visto che il fascismo storico fu un impasto confuso di filoni politici diversi – sindacalismo, nazionalismo, combattentismo, idealismo, elitismo, eccetera – esso si presta bene ad analisi che si concentrino sul coté ideologico, individuino questo o quell’elemento astrattamente ritenuto essenziale per ricostruire una genealogia in grado di isolare il virus malefico e formulare atti d’accusa.
Con l’impiego di metodologie siffatte si è riusciti nella notevole impresa di identificare le origini del fascismo nell’opera di De Maistre (Isaiah Berlin), come in quella di Marx (Settembrini). Risultati tanto disparati dovrebbero però far sorgere qualche perplessità sul metodo.
Di puro buon senso mi paiono quindi le riserve in proposito formulate dal più noto storico dell’ideologia fascista, Emilio Gentile: “Nessuno può prevedere a quali altri esiti potrebbe condurre questo modo di studiare le origini dell’ideologia fascista su un piano esclusivamente teorico-intellettualistico, accentuando ora l’uno ora l’altro degli elementi - o dosando in proporzione differente gli elementi - che si reputano essenziali per definire l’essenza di un «fascismo idealtipico».” (Le origini dell’ideologia fascista (1918-1925), Il Mulino, Bologna, 1996, pag. 19).

2. Da parte nostra, abbiamo provato a ricollocare il fascismo sul terreno dei rapporti materiali e del conflitto sociale. Un approccio che, se non può vantare l’appeal della novità, mi pare ancora fornito di un certo potere esplicativo.
In generale, comunque, ogni spiegazione storica presuppone necessariamente una certa immagine della società, cioè dei fattori causali che vi operano e della loro interazione. L’unica alternativa è quella che Labriola chiamavaempirismo del racconto”, “mettere, cioè, assieme come vien viene, uomini e cose, le necessità di fatto e gl’influssi subiettivi.”, lasciandosi influenzare dalle mode e dalle egemonie del momento. Non molto promettente, direi.

3. Qui vorrei fare con voi un piccolo esperimento: anziché proporvi una qualche ricostruzione del fascismo vorrei provare a lasciar parlare le fonti.
A scanso di equivoci: è ovvio che le fonti *non* parlano mai da sole, ma penso che uno dei (pochissimi) vantaggi della disastrosa situazione che stiamo vivendo in questi anni sia la possibilità di approfittare della verità contenuta nel famoso detto crociano che vuole la storia sia sempre “contemporanea”.
Ovvero sono convinto che i teorici della durezza del vivere, dello Stato che è come una famiglia, del pareggio di bilancio, dello stampar moneta e dei dolorosi ma necessari sacrifici, involontariamente ci abbiano obbligati a perforare il velo del feticismo economico, offrendoci anche la possibilità di usare questa consapevolezza, pagata a caro prezzo, per (ri)leggere la storia passata pesandone in modo abbastanza plausibile i fatti e le idee. (Sia chiaro: mi riferisco alla storia di società capitaliste e solo di quelle). La mia chiosa si limiterà alla spiegazione di fatti poco noti e a suggerire qualche analogia col presente; alla fine proverò a cavare qualche riflessione.
Come fonte userò quasi esclusivamente articoli e dichiarazioni di Mussolini, l’importanza del cui ruolo non ha bisogno di particolari giustificazioni. 
La raccolta che userò è ovviamente l’Opera omnia di Benito Mussolini, La Fenice, Firenze, 1951-1963, voll. 1-35, curata da Elio e Duilio Susmel (d’ora in avanti, OO con indicazione del volume e della pagina), ma indicherò sempre anche la fonte originale.
Vogliamo provare? Partiamo!
  
4. Nel voto che dovremo emettere a chiusura di questo convegno, la riaffermazione della nostra ostilità al ministero Nitti deve dominare su ogni altro pensiero. Si deve soprattutto a quest’uomo se l’Italia ogni giorno di più vede diminuito il suo prestigio all’estero e se all’interno la situazione è sempre più caotica e sconfortante. L’insuccesso dell’ora legale e l’occupazione delle fabbriche (sebbene in definitiva questi gesti siano apparsi inconcludenti ed artificiosi) sono le cause principali dello svalutamento della nostra moneta. (Sulla situazione interna, discorso pronunciato a Milano, nella sede dell’Alleanza industriale e commerciale sita in piazza San Sepolcro 9, la mattina dell’11 aprile 1920, nel corso dell’assemblea del comitato centrale dei Fasci Italiani di Combattimento. Il Popolo d’Italia, n. 89, 13 aprile 1920, OO, vol. 14, pag. 406).
Il riferimento all’ora legale si riferisce al c.d. “sciopero delle lancette”. La svalutazione, notoriamente una sciagura, in particolare negli anni Venti (o no?), sarebbe causata da rivendicazioni operaie. Non so voi, io un odore di fatepresto e di giustificazione di metodi spicci antioperai la sento…
E infatti, pochi giorni dopo:

5. “Caro Mussolini,
nella ricorrenza della vittoria antibolscevica del 15 aprile 1919, a nome degli arditi che vi parteciparono insieme ai fascisti ed al popolo milanese, vi mando i saluti più sinceri.
Con la demolizione dell'Avanti! fu stroncata in quel giorno la presunta forza armata bolscevica italiana e a Orlando,— allora mendicante a Parigi — ne venne un giovamento morale non trascurabile, che valorizzò maggiormente la nostra moneta.
(Fonogramma a mano, Il Popolo d’Italia, n. 91, 15 aprile 1920, OO, vol. 14, pag. 408).
L’autore della missiva è Ferruccio Vecchi; l’episodio a cui si riferisce è l’assalto alla sede dell’Avanti: se è per difendere la moneta, anche un attacco squadrista diventa più che giustificato. Imercati, si sa, sono esigenti.

6. Proseguiamo. Il titolo dell’articolo già dice tutto: Basta col torchio!
Gli avvenimenti che si svolgono sulle rive del Carnaro non devono far passare sotto silenzio un delitto che si sta commettendo in questi giorni a Roma: un delitto terribile, che avrà conseguenze disastrose sulla vita della nazione. Si è deciso di stampare tremila milioni di nuova carta moneta. Perché? Dai « mugugnamenti » di Giovanni Giolitti e dei suoi ministri, si è arrivati a capire la ragione di questa funestissima torchiata. Ci sono le industrie siderurgiche che stanno male e dovrebbero chiudere. Ora il Governo ha autorizzato le Banche di emissione a stampare tanta carta straccia quanta ne occorre per tenere in piedi la baracca siderurgica. Occorre la spaventévole cifra di tremila milioni. C’è da rabbrividire! Ancora un passo su questa strada e siamo agli «assegnati», cioè alla carta che non ha più valore alcuno, cioè alla catastrofe totale ed irreparabile.
Aumentare invece che ridurre la massa della valuta, significa volere deliberatamente piombare nell’abisso. Secondo le norme elementari dell’economia, fra massa di beni reali e massa di beni simbolici, ci dovrebbe essere un rapporto di equilibrio. Quando aumentano i beni simbolici — carta-valuta — e diminuiscono gli altri, si ha il fenomeno dell’inflazione cartacea, con relative conseguenze tangibili a chiunque.
Durante la guerra, il fenomeno dell’inflazione, cioè dell’emissione a getto perenne di carta-moneta, si poteva anche spiegare come una necessità dovuta all’eccezionale regime economico e politico imposto alla nazione. Ma dopo la guerra bisognava obbedire a questo imperativo categorico: non aumentare di una sola lira la massa cartacea circolante e provocare il fenomeno inverso della « deflazione ».” (Il Popolo d’Italia, n. 293, 8 dicembre 1920, OO, vol. 16, pag. 47).
Non c’è bisogno di particolari commenti, direi. Sennonché abbiamo finalmente la prova che pure Mussolini, come Hitler: vd. n. 7, era un seguace della teoria quantitativa della moneta; in più caldeggiava apertamente la deflazione, naturalmente per evitare la solita catastrofe. Che sorpresa.
Merita di essere segnalata l’illogicità dell’argomentazione secondo cui la monetizzazione del fabbisogno sarebbe nefasta, ma in guerra invece si potrebbe fare: e perché mai? (Una risposta parziale è l’esistenza durante la guerra di forme di razionamento – peraltro utilizzabili anche in pace per salvaguardare l’occupazione: vedi il solito Caffè – ma l’implicita ammissione di un qualche effetto espansivo della domanda pubblica monetizzata è evidente).

7. Pochi giorni dopo, eccolo tornare alla carica: “Da tutto ciò risulta che il ministro Meda, pur avendo l’aria di smentire, ha pienamente confermato. Ora noi ci dichiariamo nemici acerrimi di questo come di qualsiasi altro ministero che aumenti o tolleri che sia aumentata, anche nella proporzione di una cartina da una lira, la quantità della nostra valuta cartacea. Se tutto ciò che dicono gli economisti di professione sulle conseguenze dell’inflazione cartacea è vero, le prospettive per il nostro domani sono tali da giustificare la richiesta e fors’anco l’applicazione della pena capitale contro i ministri responsabili.” (Basta col torchio! L’on. Meda ciurla nel manico!, Il Popolo d’Italia, n. 298, 14 dicembre 1920, OO, vol. 16, pag. 55).
Niente meno. D’altra parte, se lo dicono gliesperti…

8. Facciamo un salto di due anni per arrivare al clou: 
Due cose occorrono. Anzitutto che il ministro del Tesoro parli chiaro. Non perifrasi vaghe, per nascondere il male, ma la schiettezza dei numeri. Chiediamo, insomma, una esposizione sincera, che abbia l’effetto — sui signori deputati e sul paese — di un poderoso pugno nello stomaco. Dopo l’esposizione finanziaria, è necessario esaminare il problema dal punto di vista esecutivo: quale organo occorra creare per effettuare il più inesorabile regime della lesina. Il Parlamento è inadatto allo scopo. I signori deputati non sanno mai dire di no. Il Governo subisce le pressioni dei deputati.
Dopo il pietoso e miserando risultato della riforma burocratica — conclusosi non in una falcidia, ma in un grosso aumento di personale e di spese — è illusorio sperare nella Camera o nel Governo. Bisogna istituire, sia pure come loro emanazione, ma al disopra delle fluttuazioni degli ambienti governativi e parlamentari, una vera e propria dittatura della lesina, con poteri assoluti e coll’obiettivo preciso: affrettare il pareggio del bilancio. Non si sono costituite all’infuori del Governo e del Parlamento, commissioni speciali, munite di poteri sovrani, per la liquidazione del materiale di guerra? Si nomini un’altra commissione che liquidi al più presto il deficit nel bilancio dello Stato. E’ necessario che tutti i cittadini si convincano della realtà di questo dilemma: o la lesina o il fallimento.” (Lesina, Il Popolo d’Italia, n. 155, 30 giugno 1922, OO, vol. 18, pagg. 264-5).
(Lesina vuol dire ovviamente “austerità”.)
C’è tutto: il tremendismo economico, come l’ho sentito definire da un economista spagnolo, che giustifica la sottrazione della politica fiscale al parlamento, troppo sensibile al miope egoismo del popolo-lemming per poter conseguire il salvifico pareggio di bilancio, in nome del raggiungimento del quale tutto diventa lecito.
Che certe posizioni le sostenesse Benito Mussolini in fondo non stupisce; qualche perplessità in più suscitano proposte di segno non proprio opposto provenienti da istituzioni autoproclamatesi depositarie dell’antidoto agli orrori del Novecento. 

10. Il famoso “discorso del bivacco” è già stato riportato in un commento e anch’esso non ha bisogno di ulteriori esegesi.

11. Dalle parole passiamo ai fatti, entrando nel regime, con un discorso molto importante: 
Qualcuno potrebbe domandare: perché tanto clamore, perché tanti armati per una cerimonia che si potrebbe chiamare di ordine puramente amministrativo, quale è la consegna dei miei due bilanci al Ministero delle Finanze? A questo punto interrogativo conviene rispondere: per diversi motivi, uno più plausibile dell’altro.
La solennità che accompagna questo gesto sta a dimostrare l’importanza enorme che il Governo annette ad un rapido ripristino della normalità finanziaria.
Noi abbiamo solennemente promesso di avviare il bilancio dello Stato verso il pareggio e a questa promessa noi vogliamo tener fede a qualunque costo. Bisogna persuadersi che se il tutto crolla, crolla anche la parte; e che se l’economia della Nazione va al precipizio, tutto quello che è dentro la Nazione, istituzioni, uomini, classi, è destinato a subire l’identica sorte.
E perché questi armati? Per dimostrare che il Governo ha delle forze.
Io dichiaro che voglio governare, se possibile, col consenso del maggior numero di cittadini; ma nell’attesa che questo consenso si formi, si alimenti e si fortifichi, io accantono il massimo delle forze disponibili.
Perché può darsi per avventura che la forza faccia ritrovare il consenso e in ogni caso, quando mancasse il consenso, c’è la forza. Per tutti i provvedimenti anche i più duri che il Governo prenderà, metteremo i cittadini davanti a questo dilemma: o accettarli per alto spirito di patriottismo o subirli.
Cosi io concepisco lo Stato e così comprendo l’arte di governare la Nazione.
Questo passaggio conferisce una certa concretezza ai termini un po’ vaghi del famoso trilemma (più realisticamente un dilemma) di Rodrik.

Così si conclude il pezzo:
Bisogna portare nel nostro spirito un senso di severità assoluta. Bisogna considerare che il denaro dell’erario è sacro sopra ogni altra cosa. Esso non piove dal cielo e non può essere nemmeno fatto col giro del torchio che, se potessi, io vorrei spezzare. E tratto dal sudore e, si può dire, dal sangue del popolo italiano, che lavora oggi, che lavorerà di più domani. Ogni lira, ogni soldo, ogni centesimo di questo denaro deve essere considerato sacro e non deve essere speso se non quando ragioni di stretta e documentata necessità lo impongano.
La storia dei popoli dice che la severa finanza ha condotto le nazioni alla salvezza. Penso che ognuno di voi sia partecipe di questa verità ampiamente documentata dalla storia. Con questa convinzione vi porgo il mio cordiale e fraterno saluto.” (Risposta al ministro delle finanze, Il Popolo d’Italia n. 57, 8 marzo 1923, OO, vol. 19, pagg. 163-4)
Pauperismo eroico” in salsa quantitativista.

12. Il “duce” colse la drammatica (per gli italiani) occasione per riflessioni generali di carattere teorico. Ora che ne abbiamo visti i presupposti materiali può essere interessante affrontarle: dobbiamo consultare “Gerarchia”.
Per approfondire e chiarificare le idee del fascismo, Mussolini fondò nel gennaio del 1922 la rivista «Gerarchia», con l’ambizioso proposito - analogo a quello che lo aveva spinto a creare dieci anni prima, e in tutt’altro contesto, la rivista «Utopia» - di svolgere «un’opera culturale di critica e di scelta più vasta, più complessa e ben altrimenti delicata e profonda di quella che può compiere un quotidiano». Nel Breve preludio, Mussolini spiegava il significato del titolo, chiarendo il suo concetto fondamentale di gerarchia. Gerarchia, egli affermava, significava scala di valori umani, di responsabilità e di doveri. Le gerarchie erano necessarie a qualsiasi sistema, ma nessuna di esse poteva ritenersi eterna. Lo scopo di questa definizione era duplice, mirando a giustificare e ad accreditare, contemporaneamente, sia l’immagine del fascismo come movimento restauratore dell’ordine sia la sua volontà rivoluzionaria, in quanto espressione di una nuova gerarchia, e quindi di una nuova concezione dello Stato. 
Mussolini, certamente, voleva suscitare attorno al fascismo il consenso della borghesia presentandolo come una forza equilibratrice, che avrebbe ristabilito l’ordine e rinnovato la società nel quadro della tradizione dello Stato nazionale. Ma, nello stesso tempo, egli voleva anche distanziare il fascismo dalle posizioni ideologiche troppo tradizionaliste e conservatrici, per esaltarne la novità e la modernità come movimento politico di avanguardia. Così, pur riconoscendo il grande valore spirituale della tradizione come «creazione successiva e costante» dell’anima di un popolo, Mussolini respingeva l’idea della tradizione, in senso metapolitico, come qualcosa di assoluto, di immutabile e di definito, un’idea che, dal suo punto di vista, serviva solo a legittimare l’inamovibilità della vecchia gerarchia al potere. Il fascismo rispettava la tradizione che costituiva patrimonio storico di un popolo, ma non poteva certo arrestare la sua azione di fronte a gerarchie tradizionali in declino perché incapaci di esercitare la loro funzione dirigente: erano gerarchie che avevano compiuto il loro ciclo storico e dovevano, perciò, cedere le redini del comando alle nuove gerarchie in ascesa, espresse dal fascismo.
Documenti significativi, a questo proposito, sono l’articolo Forza e consenso, del 1923, e il saggio Preludio al Machiavelli del 1924. In essi Mussolini espone con una certa sistematicità le sue idee sulla crisi dello Stato liberale, la funzione del potere statale, la natura degli uomini e il ruolo del capo.” (E. Gentile, op. cit., pagg. 314-5 e 478).  

12.1 Vediamo dunque la critica al liberalismo contenuta in “Forza e consenso”, uscito su Gerarchia esattamente nel marzo del ’23 (OO, vol. 19, pagg. 195-6):
Ma insomma, in che cosa consiste questo liberalismo per il quale più o meno obliquamente si infiammano oggi tutti i nemici del fascismo? Liberalismo significa suffragio universale e generi affini? Significa tenere aperta in permanenza la Camera, perché offra l’indecente spettacolo che aveva sollevato la nausea generale? Significa in nome della libertà lasciare ai pochi la libertà di uccidere la libertà di tutti? Significa fare largo a coloro che dichiarano la loro ostilità allo Stato e lavorano attivamente per demolirlo? È questo il liberalismo? Ebbene, se questo è il liberalismo, esso è una teoria e una pratica di abbiezione e di rovina. La libertà non è un fine; è un mezzo. Come mezzo deve essere controllato e dominato. Qui cade il discorso della « forza ».
Mi pare abbastanza chiaro: il rimprovero al liberalismo è di non essere abbastanza autoritario. Confesso che di tutte le critiche possibili al liberalismo, questa proprio non mi sarebbe mai venuta in mente.
Ovvero l’opposizione al liberalismo in sé non garantisce proprio nulla: dipende dalle ragioni che la sostengono.
Posto come assiomatico che qualsiasi provvedimento di governo crea dei malcontenti, come eviterete che questo malcontento dilaghi e costituisca un pericolo per la solidità dello Stato? Lo eviterete colla forza. Coll’accantonare il massimo di forza. Coll’impiegare questa forza, inesorabilmente, quando si renda necessario. Togliete a un Governo qualsiasi la forza — e si intende forza fisica, forza armata — e lanciategli soltanto i suoi immortali principi, e quel Governo sarà alla mercè del primo gruppo organizzato e deciso ad abbatterlo. Ora il fascismo getta al macero queste teorie antivitali
Quando un gruppo o un partito è al potere, esso ha l’obbligo di fortificarvisi e di difendersi contro tutti. La verità palese oramai agli occhi di chiunque non li abbia bendati dal dogmatismo, è che gli uomini sono forse stanchi di libertà. Ne hanno fatto un’orgia. La libertà non è oggi più la vergine casta e severa per la quale combatterono e morirono le generazioni della prima metà del secolo scorso. Per le giovinezze intrepide, inquiete ed aspre che si affacciano al crepuscolo mattinale della nuova storia ci sono altre parole che esercitano un fascino molto maggiore, e sono: ordine, gerarchia, disciplina. Questo povero liberalismo italiano, che va gemendo e battagliando per una più grande libertà, è singolarmente in ritardo. È completamente al di fuori di ogni comprensione e possibilità.

12.1.1. Di là dalla pretesa di incarnare una svolta epocale, mi pare che la sostanza di questa retorica truculenta l’abbia colta perfettamente il solito Pareto in un articolo di poco successivo: 
Si è detto che parecchie economie del fascismo stanno più sulla carta che nei fatti. C’è forse un poco di vero in ciò, specialmente per le ferrovie. Ma da prima, il solo porle sulla carta è avviamento a compierle, e poi molte già sono recate in atto. Se ne persuade agevolmente chi studia le relazioni del De Stefani, nonché l'ampio ed importante articolo: Sei mesi di politica finanziaria del governo fascista1, di Lello Gangemi. E impossibile, se si vuole tenere conto dei fatti, negare che siamo proprio sulla via di un prospero successo. La fede dei gregari concede di recare in opera i provvedimenti che il senno dei capi fa utili al paese. Seguiterà questo andamento? Speriamolo, poiché da esso dipende la salvezza della Nazione." (In margine al bilancio di De Stefani, « Il Giornale Economico », 10 giugno 1923, pp. 161-163, e poi ne « Il Giornale di Roma », 14 giugno 1923, ora in Scritti sociologici, vol. II, UTET, Torino, 1974, pag. 1203).
Ricondotta a quella che è la sua funzione nell’ambito del conflitto sociale e analizzata nel suo rapporto col feticismo, anche lo studio dell’ideologia può ritrovare ovviamente tutto il suo spazio e la sua importanza.
Senza questo tipo di contestualizzazione, però, diventa, nella migliore delle ipotesi, un esercizio di erudizione, interessante proporzionalmente alla preparazione dello studioso (ma di Del Noce ce n’è stato uno); nella peggiore, un’arma polemica, buona magari per sostenere, con un grottesco rovesciamento della realtà storica, che il fascismo sarebbe una manifestazione di irrazionalità delle masse, sempre pericolose e da tenere quindi al guinzaglio corto. Cornuti e mazziati, mi verrebbe da dire. 
Sorvoliamo pietosamente.

12.2. Passiamo dunque al Preludio al Machiavelli (Gerarchia, n. 4, aprile 1924, OO, vol. 20, pagg. 253-4): 
Mentre gli individui tendono, sospinti dai loro egoismi, all’atomismo sociale, lo Stato rappresenta una organizzazione e una limitazione. L’individuo tende a evadere continuamente. Tende a disubbidire alle leggi, a non pagare i tributi, a non fare la guerra. Pochi sono coloro — eroi o santi — che sacrificano il proprio io sull’altare dello Stato. Tutti gli altri sono in istato di rivolta potenziale contro lo Stato. Le rivoluzioni dei secoli XVII e XVIII hanno tentato di risolvere questo dissidio che è alla base di ogni organizzazione sociale statale, facendo sorgere il potere come una emanazione della libera volontà del popolo. C’è una finzione e una illusione di più. Prima di tutto il popolo non fu mai definito. È una entità meramente astratta, come entità politica. Non si sa dove cominci esattamente, né dove finisca. L’aggettivo di sovrano applicato al popolo è una tragica burla. Il popolo tutto al più, delega, ma non può certo esercitare sovranità alcuna. I sistemi rappresentativi appartengono più alla meccanica che alla morale. Anche nei paesi dove questi meccanismi sono in più alto uso da secoli e secoli, giungono ore solenni in cui non si domanda più nulla al popolo, perché si sente che la risposta sarebbe fatale; gli si strappano le corone cartacee della sovranità — buone per i tempi normali — e gli si ordina senz’altro o di accettare una Rivoluzione o una pace o di marciare verso l’ignoto di una guerra. Al popolo non resta che un monosillabo per affermare e obbedire. Voi vedete che la sovranità elargita graziosamente al popolo gli viene sottratta nei momenti in cui potrebbe sentirne il bisogno. Gli viene lasciata solo quando è innocua o è reputata tale, cioè nei momenti di ordinaria amministrazione.
Questo passaggio è molto importante: vi si trova il classico repertorio elitistico, risalente a Mosca e Pareto, che di ampia circolazione ha sempre goduto anche e prima di tutto in campo liberale (vedi per esempio l’Einaudi che abbiamo riportato qui, n. 2.3. D’altra parte gli stessi Mosca e Pareto hanno oscillato fra liberalismo e fascismo); la negazione della soggettività politica del popolo (con buona pace di chi fantastica essere popolo e sovranità concetti fascisti); la naturalizzazione del conflitto e dell’egoismo asociale, altro topos liberale.
Particolarmente interessante, e altra mancanza di distanza dalla visione del mondo liberale, è che il conflitto non dipende dall’egoismo: guerre e crisi si presentano come inspiegate fatalità a cui l’egoismo individuale tenderebbe semmai ad *opporsi*. Ovvero si stigmatizza come asociale un elementare desiderio di conservazione di beni essenziali, la vita innanzitutto. Se appena si dubita del fatalismo catastrofista, tale “egoismo” sembra andare di conserva, più che opporsi, all’interesse sociale e l’indispensabilità, almeno katechontica, della democrazia risplende in tutto il suo fulgore.

13. Su questo discorso agli industriali del ’28 ha già detto l’essenziale Quarantotto nel commento sotto. Ora risulterà chiaro che tutto era meno che un fulmine a ciel sereno.

14. Un ultimo commento di Emilio Gentile (op. cit., pag. 480) per avviarci alle conclusioni: “Il problema della sovranità, nel pensiero di Mussolini, era risolto riaffermando il ruolo assoluto del potere esecutivo. Del resto, secondo Mussolini - ed anche in questo è evidente un riflesso delle idee di Le Bon - tutta la storia della civiltà era una continua limitazione della libertà dell’individuo. La critica di Mussolini al liberalismo e al parlamentarismo non era originata da convinzioni ideologiche reazionarie; non era una critica dottrinaria di principio, come per i nazionalisti o i tradizionalisti nostalgici dell'ancien régime, ma una critica alla funzionalità sociale del sistema e dell’ideologia liberale per la conquista e per la conservazione del potere nella società di massa e nei tempi moderni.

Ossia, laddove il liberalismo manteneva un certo grado di consenso, fin quando poteva filtrarlo politicamente con gli “infiniti modi” di cui parlava Pareto (qui, n. 1), riservandosi di aprire alla bisogna stati di eccezione proprio nei momenti in cui di sovranità popolare più “potrebbe sentirsene il bisogno” - qui non si può negare che Mussolini ci abbia preso in pieno – un non limitabile ingresso delle masse nella vita pubblica obbliga a trasformare l’eccezione in regola e rimuovere una volta per tutte il rischio del mancato consenso, organizzandolo totalitariamente dall’alto e reprimendo il dissenso, sostituendolo però col rischio pretoriani, che in effetti ha amplificato fino al parossismo le tendenze distruttive della società  capitalistica.
(Naturalmente questa interpretazione presuppone un certo peso assegnato al conflitto sociale, in particolare alla sua risoluzione in chiave deflazionista: sta a voi decidere, sulla base di una lettura dei documenti che vi ho proposto nutrita dall’esperienza di questi anni, se condividete tale ponderazione).
Finora il riproporsi di analogo dilemma è stato rinviato dalla novità costituita dai mass-media e dal benessere accumulato nel “trentennio d’oro”; come verrà affrontata la congiuntura legata allo screditamento dei primi e all’esaurirsi del secondo sarà senz’altro interessante (nel senso in cui la parola viene impiegata in una nota maledizione cinese).

domenica 7 ottobre 2018

IL RISVEGLIO DELL'OVVIO: LA MERKEL NON LEGGE KRUGMAN

POST DI BAZAAR



    
«La vittoria a sorpresa di R.Brinkhaus [a capogruppo alla Camera] deve mostrare ad Angela Merkel che la [sua] fine è vicina»

1. Il risveglio dell’ovvio nelle coscienze di chi è pagato per non aver coscienza.

Da Berlino a New York sembra che l’ovvio – se non proprio il banale – si faccia breccia nella consapevolezza degli intellettuali delle nazioni dominanti.

Questo articolo su politico.eu di Konstantin Richter si profila come un interessante punto di vista sulla dinamica economico-politica della Germania.

Il nostro rileva come la percezione dell’opinione pubblica sulla politica economica e sulle relative performance della Germania sia assolutamente fuorviata dalla propaganda tedesca.

Richter mette in luce come l’ideologia propria del capitalismo tedesco sia diversa da quella del mondo anglosassone, segnatamente da quella statunitense: «la nostra economia è condotta dall’ansia» a differenza di quella statunitense il cui «successo economico» è «basato sulla mera avidità o sull’ambizione epica o sul desiderio, come da Silicon Valley, di creare la prossima grande innovazione».

I media tedeschi sono focalizzati su altri problemi sociali, come quelli creati dall’immigrazione di massa, oppure su lontani problemi di cronaca internazionale, sorvolando sui segnali che arrivano dalla sfera economica nazionale; e vengono ricordati:

1 – lo scandalo degli accordi di cartello volti alla falsificazione delle quantità di emissioni emesse dai motori delle maggiori case automobilistiche tedesche;

2 – le condizioni disastrose in cui versa Deutsche Bank che «è l’istituzione che ha gestito praticamente la grande impresa tedesca controllando grosse quote delle società più importanti». Commerzbank non è messa meglio.

3 – Tyssenkrupp è sotto attacco dagli investitori;

4 – Bayer si è esposta con l’acquisizione ad alto rischio di Monsanto;

5 – il settore automobilistico non ha investito in innovazione.

Quando all’inizio del terzo millennio la Germania veniva chiamata dalla stampa estera «il malato d’Europa», il catastrofismo propagandato agevolò le riforme del mercato del lavoro e dello Stato sociale di Gerard Schröder, con la relativa compressione delle dinamiche salariali volta alla “svalutazione competitiva”.

Il nuovo modello tedesco di economia di mercato – che noi per inciso sappiamo essere il classico vecchio modello mercantilistico teutonico – ha rassicurato con le sue performance l’opinione pubblica.

Richter fa notare che questo stato di euforia nasconde l’insidioso lato nascosto del modello di sviluppo tedesco: nessuno parla più del problema demografico, della mancanza di personale qualificato – strettamente legati al modello mercantilista –  o del declino di Deutsche Bank.

Soprattutto Richter osserva come il gigante tedesco abbia i piedi d’argilla: come è stato ottenuto l’incredibile surplus tedesco se il vantaggio competitivo su cui sono basate le esportazioni non è stato ottenuto tramite gli investimenti?

Non solo con la svalutazione del lavoro  ottenuta da Schröder.

La rivelazione di una dura presa di coscienza è così espressa: «il successo degli esportatori tedeschi è ancora basato sulla superiorità dei loro prodotti? O è solo la droga anestetizzante dell’euro debole?»

La risposta a questa domanda la conosciamo: l’euro è spaventosamente sottovalutato per il mercato tedesco, regalando un vantaggio competitivo alla Germania che risulta essere destabilizzante per l’intera economia mondiale.

Ma i risvegli sui temi che la frontiera intellettuale italiana ha da tempo acquisito e divulgato, non si fermano al tragico karma alemanno: il nobel Krugman ci porta in altre vette dell’ovvio che, fuori da questi spazi, non è così banale: la dialettica tra microeconomia e macroeconomia che – dopo decenni di neoliberalismo – siamo abituati a non percepirla più, considerato che le due discipline risultano confusamente sovrapposte, non permettendo di distinguerne i diversi ambiti; ciò sappiamo essere naturale in quanto caposaldo del pensiero liberale è il cosiddetto individualismo metodologico che, nelle scienze economiche, si manifesta nello sviluppare modelli microfondati sul comportamento individuale al posto di ragionare per aggregati.

D’altronde, come amava dire la Thatcherpasdaran del liberismo antioperaio e discepola di Hayek «non esiste la società: esistono soltanto gli individui».

2. Risvegli: «La macroeconomia è meglio di ciò che pensate, la microeconomia è peggio, ed i dati sono limitati»

 

Krugman fa notare l’assoluto fallimento della comunità scientifica degli economisti nel dare supporto alla politica al fine di evitare, gestire, ed uscire dalla crisi che, da più di dieci anni, sta dilaniando la vita di centinaia di milioni di persone in tutto il mondo.

Il massimo che gli economisti riescono a produrre come autocritica è chiedersi se «non sarebbe necessario dare un maggiore ruolo ai mercati finanziari nei loro modelli».

Pochi, però, «hanno fatto ciò che avrebbero dovuto», ossia, «mettere in discussione interamente la direzione che ha preso la macroeconomia in questi ultimi quarant’anni».

L’economista americano ci informa che generalmente tra economisti la vulgata è – sulla falsa riga del meno-stato-più-riforme, più-disastro-economico, meno-stato-più-riforme, più-disastro-economico, ecc., in un circolo vizioso e viziato dagli interessi immediati delle classi egemoni – che il fallimento delle ricette economiche sia stato dovuto a troppa-macroeconomia-troppo-poca-microeconomia.

Per cui il circolo vizioso e viziato di meno-stato-più-riforme, con tutti i vari corollari microfondativi della microeconomia applicati alla crisi, ha trovato pure la leva del circolo vizioso (e viziato) di troppa-macroeconomia-troppo-poca-microeconomia, ricette-inutili-quando-va-bene-e-catastrofiche-quando-va-male, e via, viziosamente, nelle bolge infernali della stagnazione quando va bene, della recessione e della depressione quando va male.

Paul Krugman ci dice che «l’esaltazione della micro come l’unica “vera” teoria economica dà alla microeconomia troppo credito e ciò è di gran lunga la causa  dei modi in cui la scienza economica ha fallito».

L’imbarazzante conclusione di queste dinamiche, ci informa il premio Nobel, è stata che influencer, tanto all’esterno quanto all’interno della professione economica, hanno deciso che la scienza economica è un «nonsense» – insomma, non è proprio una scienza – e, quindi, sarebbe stato molto meglio affidarsi a «coloro che erano immersi nel mondo reale, ovvero ai grandi capitani d’impresa»; da cui l’epopea mediatica accompagnata dalla maestosa immagine: “lo ideale dell’omo virile” schumpeterianamente emerso dalla selva di cadaveri lasciati dal darwinismo mercatista: in breve, l’epopea degli espertologi.

Oppure – osserva l’illustre economista – di converso e per amor di positivismo, ci si è «concentrati sui risultati empirici e si è tralasciato i modelli».

Secondo Krugman gli aitanti espertologi del mondo dell’imprenditoria (e delle grandi organizzazioni sovranazionali, aggiungiamo noi) sono stati, «nell’ultimo decennio, più dannosi che inutili, mentre le vocine nell'aria udite dagli squilibrati (sic) con potere decisionale hanno, come al solito, dato un pessimo consiglio». Parole di Paul.

Mentre – guarda un po’ – se «l’evidenza empirica è importante e ce n’è sempre più bisogno, i dati non parlano pressoché mai per se stessi; punto che è stato ampiamente dimostrato dai recenti eventi di politica monetaria».

Insomma, di fronte all’evidenza del disastro economico-sociale che ci circonda, dove una banda di «squilibrati» – quattro noci in un sacco (avrebbe Togliatti in Costituente a proposito dei liberali) – ha dirottato e preso in ostaggio gran parte dei Paesi a democratizzazione avanzata, pare che qualche Nobel abbia iniziato timidamente a far dell’epistemologia delle scienze sociali.

Krugman porta l’esempio dei due fisici Julian Schwinger and Richard Feynman: Schwinger riuscì per primo a venire a capo dell’elettrodinamica quantistica, ma i suoi metodi erano incredibilmente complicati.

Feynman ci arrivò egualmente ma con un approccio molto più semplice – i suoi famosi diagrammi – che davano il medesimo risultato ma erano molto più semplici da usare.

Nessuno vide mai Schwinger usare questi diagrammi, ma si mormora che avesse una stanza chiusa a chiave in cui teneva i diagrammi di Feynman che usava in segreto.

Ecco, la macroeconomia moderna ricalca questo aneddoto: immaginate però che  Schwinger controlli tutte le riviste e sia in una posizione per cui può prevenire che nessuno possa pubblicare con il metodo più semplice.

Cos’è l’equivalente dei diagrammi di  Feynman?

Ciò che tutti gli studenti del primo anno dei corsi di economia politica studiano sotto il nome di “modello IS-LM”.

Bene: tutti gli economisti che lavorano in istituzioni che si occupano di macroeconomia ragionano, pensano, e discutono tra loro in funzione del modello IS-LM; ma, quando hanno bisogno di pubblicare sulle riviste, vengono costretti a «microfondare» il loro modello.

E un esempio lo facciamo noi: è come se si volesse dimostrare il principio di Archimede non considerando il volume complessivo dell’acqua spostata dopo averci immerso un solido, ma cercando di capire la reazione fisica dell’acqua studiando il comportamento di ogni singola molecola.

Ecco, la formula di galleggiamento, invece di risultare una semplice equazione con un paio di rapporti, si presenterebbe come un’orgia di equazioni differenziali… non risolte.

E diciamo noi, non risolte perché alla classe egemone non interessa che sia risolto alcunché. Perché la classe egemone ha scommesso sull’affondamento del Titanic (alias, “mercato globale”) e, se la nave non galleggia, i profitti e la sua influenza politica aumentano.

Il delirio matematico permette di dimostrare tutto ciò che fa comodo a chi può finanziare il delirio matematico stesso.

Immaginatevi, quindi, quale potrà essere la deontologia media dell’economista che ce la fa. Che ha un nome prestigioso...

Ora, le analisi basate sul modello IS-LM non danno grandi informazioni in tempi normali, ma forniscono precise previsioni – spesso previsioni molto preziose per le priorità delle persone – durante i tempi di grave crisi.

Ad esempio, se c’è un grande shock avverso della domanda, come quello che è avvenuto nel 2007/2008 quando è scoppiata la bolla dei mutui subprime, si manifesta un cambiamento di regime per cui né la politica monetaria né la politica fiscale hanno i medesimi effetti come in tempi normali.

Ad esempio, la macroeconomia keynesiana afferma che una volta che i tassi di interesse sono vicini allo zero, le politiche monetarie servono a poco o nulla.

Insomma, il famoso quantitative easing delle banche centrali non servirà a produrre inflazione.

Se per esempio si va a spiare (nella stanza chiusa a chiave di cui si diceva più sopra) i modelli di Tobin sul sistema bancario, scopriremmo che grandi aumenti della base monetaria non serviranno nemmeno molto a mettere in circolo moneta.

Ciononostante alcuni economisti sono impazziti nel cercare di spiegare come mai Bernanke alla Fed abbia aumentato di cinque volte la base monetaria e – nonostante gli ammonimenti sul deprezzamento del dollaro e l’allarmismo sull’inflazione – iprezzi siano rimasti al palo.

Eppure, commenta Krugman, «questo è esattamente ciò che ci si sarebbe dovuti aspettare».

...

E sulla politica fiscale?

La macro tradizionale afferma che – quando i tassi di interesse scendono intorno allo zero – non si sarebbe dovuto verificare alcuno spiazzamento, che i deficit non avrebbero dovuto far salire i tassi d’interesse, e che i moltiplicatori fiscali sarebbero stati più grandi che in condizioni normali.

Ovviamente le cose sono andate come dovevano andare secondo la macro keynesiana: non ci sono altri modelli in grado di stupire per accuratezza previsionale e “controintuitività” – eppure – non-economisti (ma anche economisti) si rifiutano di crederci.

La microeconomia non è servita a nulla, se non a ricordare che la macroeconomia keynesiana funziona.

Ciononostante, «la teoria microeconomica, fondata  nella rigorosa derivazione del comportamento individuale dalla massimizzazione dell’utilità, è stata presa come il gold-standard».

La macroeconomia keynesiana, a parte generiche proposizioni di profilo psicologistico come quelle relative alla propensione marginale al consumo, si occupa di aggregati senza esplicitamente descrivere cosa gli individui facciano: questa prassi è sempre stata considerata dubbia e rozza.

Però, cari liberisti-microfondatori, dice Krugman, «il-mondo-non-funziona-nel-modo-in-cui-pensate».

Tutte le previsioni basate sulla macroeconomia microfondata, del tipo: “solo i flussi monetari inaspettati dovrebbero influenzare la produzione reale”, “le temporanee variazioni del reddito non dovrebbero influenzare i consumi”, “la spesa pubblica dovrebbe spiazzare la domanda privata”, ecc. si sono rivelate sbagliate.

Un modo per capire che le teorie ed i modelli usati sono errati, è il dato empirico, ovvero il muro della realtà contro cui si va a sbattere! (Sulla pelle dei lavoratori, ovviamente).

Un altro argomento che tocca Krugman è il principio di autorità: «Io sono un famoso professore, quindi devi credere in ciò che dico». Commenta: «Così non finisce mai bene».

L’atteggiamento fallace opposto, invece, è quello per cui «gli economisti non sanno niente», e, aggiungiamo noi, chiunque può dire la qualunque, in un’orgia di espertologia che va dagli studi televisivi al bar sotto casa.

«Gli economisti non si sono guadagnati il diritto di essere altezzosi e superiori, soprattutto se la loro reputazione deriva dall’abilità di fare matematica complessa: la matematica complessa è stata particolarmente di poco aiuto ultimamente, se mai lo è stata»

Bè, caro Krugman: forse non sono semplicemente degli squinternati coloro che si affidano ai multimiliardari per le ricette di politica economica.

Forse è il pensiero economico dominante che, come direbbe Marx, è sovrastrutturato al potere economico dei multimiliardari.

Forse… nel frattempo tutti gli altri economisti e commentatori continuino a dormire.