martedì 2 ottobre 2018

RECENSIONE DE GRAUWE - PARTE II: "L'IMPOSSIBILITA' DELLA CRESCITA"?

(Ho dovuto abolire le immagini di "illustrazione" introduttiva, perché la piattaforma blogger mi intima di cancellare contenuti coperti da copyright a seguito di segnalazioni di aventi diritto, non rese note e genericamente menzionate; e senza quindi la precisazione di quali esatti contenuti sarebbero in contestazione. Poiché alla intimazione segue "d'autorità" la cancellazione dell'intero post, in TUTTI i suoi contenuti originali, - cioè sacrificando integralmente il diritto d'autore espresso nell'esposizione originale, critica e scientifica degli argomenti - è più agevole continuare il discorso senza immagini e cercare di difendere la libera espressione della sostanza del pensiero qui esposto).

Post di Arturo a completamento della recensione dell'ultimo libro di De Grauwe.

4. Seconda questione, la disuguaglianza.
4.1. De Grauwe ci riporta la famosa “curva di Kuznets”:




 Il significato della curva si spiega facilmente: 
Basandosi su un’analisi statistica dei dati fiscali americani fra il 1914 e il 1948, l’economista americano Simon Kuznets nel 1953 arrivò alla notevole conclusione che la disuguaglianza di reddito negli USA si era ridotta in modo significativo. Da questa circostanza, Kuznets stabilì che il capitalismo conteneva una legge che garantiva che, man mano che un paese diventava più ricco, la disuguaglianza di reddito si riduceva. Espresse il concetto in quella che fu poi chiamata “curva di Kuznets”, che potete vedere nella figura 5.3. L’asse orizzontale rappresenta il reddito pro capite, quello verticale la disuguaglianza.” (pag. 62).
La curva di Kuznets ha avuto una grande influenza su generazioni di economisti e politici, confutando l’idea marxista che il capitalismo conducesse a disuguaglianze crescenti. Questa teoria ottimista implicava che lo sviluppo del capitalismo lo avrebbe liberato dallo spiacevole tratto della disuguaglianza di reddito, rendendolo socialmente accettabile. Secondo Kuznets, un meccanismo automatico assicurava che il capitalismo non conducesse a sviluppi rivoluzionari, come Marx aveva predetto.
Col senno di poi sembra che la visione di Kuznets fosse solo un sogno, basato su un periodo di storia molto limitato fra le due guerre. 
Purtroppo.

4.2. Il problema è che De Grauwe per destarsi dal sogno usa come sveglia, in modo quasi esclusivo, Piketty.
Ora, non posso qui per motivi di spazio entrare nel merito del vastissimo libro di Piketty. 
Basti dire che contiene sì molti spunti interessanti - alcuni di carattere storico sono autentiche chicche (per esempio l’ipotesi che al declino della Gran Bretagna abbiano contribuito in non trascurabile misura i poderosi avanzi primari volti a remunerare una generosa rendita sui titoli del debito pubblico accumulato durante le guerre napoleoniche) - ma anche un enorme difetto di impostazione di fondo, denunciato da molti economisti eterodossi: “Questo autore ritiene ci si trovi di fronte a un tasso di crescita lenta plurisecolare, determinato da fattori tecnologici e demografici, al quale tutte le nazioni finirebbero prima o poi per convergere. Alla luce di questa convinzione, i casi di più alta crescita sarebbero null’altro che una manifestazione dell’avvicinamento dei Paesi a più basso grado di sviluppo a quelli che si trovano sulla frontiera tecnologica, come pure del recupero – nell’ambito dei Paesi industrialmente più avanzati – di fasi di temporaneo arresto o rallentamento del processo di crescita. L’andamento del capitalismo mondiale non rifletterebbe quindi che una legge millenaria, semplicemente di tanto in tanto localmente perturbata da circostanze di natura accidentale. Né la crescita del prodotto né la sua distribuzione tra salari e profitti dipenderebbero dalle linee di politica economica effettivamente perseguite nei diversi contesti e dai sottostanti rapporti di forza tra le classi: nella sua analisi, tanto il tasso di crescita del prodotto che la sua distribuzione sono sostanzialmente dei dati esogeni, entrambi dipendendo dall’offerta di lavoro e dalla sua produttività (ossia dal progresso tecnico).
La tesi dell’“impossibilità della crescita, quali ne siano le cause e i giudizi sui livelli raggiunti nell’ultimo trentennio – grandemente moderati, secolarmente stagnanti, convergenti ad un presunto ritmo plurisecolare lento – è in essenza la tesi dell’impossibilità di influenzare la crescita attraverso la politica
Del ruolo svolto da questa tesi come potente strumento di conservazione dello status quo abbiamo già detto nel primo capitolo. Ci interessa qui porre in luce che una ragione non secondaria dell’attrattiva da essa esercitata risiede nel fatto di costituire un’idea deresponsabilizzante. Che si tratti di senso di colpa derivante da conversioni opportunistiche o di frustrazione generata da una genuina sensibilità sociale, la “crescita impossibile” è un formidabile alibi, ed è pertanto un comodo abito mentale nel quale ci si infila senza troppa fatica.” (Barba e Pivetti, La scomparsa della sinistra in Europa, Imprimatur, Reggio Emilia, 2016, s.p.).

Dal sogno all’incubo, ma sempre addormentati si resta, direi.

Espunta dal quadro la redistribuzione primaria, ossia il conflitto sociale, l’unico rimedio alla disuguaglianza rimane ovviamente la tassazione. Ma rimossa un’analisi corretta della cause del problema, il rimedio appare del tutto privo di realismo: “La liberalizzazione dei movimenti di capitale, per fare il principale esempio concreto, non può coesistere con un sistema fiscale improntato a criteri di accentuata progressività; allo stesso modo, una seria politica di controlli valutari è difficilmente concepibile senza una forte presenza dello Stato nel settore dell’intermediazione finanziaria.” (Ibidem)
D’altra parte una redistribuzione fiscale in grado di rimpiazzare funzionalmente quella primaria non s’è mai vista nemmeno in annate ben più rosee degli odierni chiari di luna, come il “giovane” Piketty stesso riconosceva.   

5. Spero risulti chiaro a questo punto come l’operazione di spezzettamento dei nessi causali impedisca l’elaborazione di un quadro esplicativo generale e quindi la predisposizione di una reazione, culturale e politica, all’altezza della gravità della situazione.
Vi invito a confrontare le giustapposizioni di De Grauwe con l’organica connessione di cause ricostruita da Alberto, che ovviamente si guarda bene dal separare finanziarizzazione, disuguaglianza e conflitto sociale: il paragone è impietoso.

Giudizio complessivo negativo, dunque?

6. Sì, però…ho lasciato per ultimo quello che mi pare il guizzo più notevole, certamente il più interessante per noi, di tutto il libro.
Arriviamo al seguente paradosso: la democrazia è necessaria per proteggere il capitalismo nel lungo periodo. Le istituzioni democratiche rendono possibile identificare interessi collettivi velocemente e dar loro voce. Questo obbliga i politici a promuovere gli interessi collettivi invece degli interessi individuali dei ricchi e influenti. In questo modo le istituzioni democratiche portano stabilità: la discrepanza tra interessi individuali e collettivi non cresce in misura eccessiva”. (pag. 78).

Questa è un’affermazione molto impegnativa e apprezzabile, una vera rottura epistemologica col neoliberalismo: non è il mercato il luogo di verificazione della bontà dell’azione pubblica, ma è la politica che deve tutelare interessi collettivi che il mercato non solo non garantisce ma mortifica.
Se, come dice Foucault (Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France (1978-1979), a cura di M. Senellart (sotto la direzione di F. Ewald e A. Fontana), Paris, Gallimard-Seuil, pag. 120), a me pare giustamente, il rapporto Stato – società teorizzato dal neoliberismo si organizza attorno all’idea di « uno Stato sotto sorveglianza del mercato, anziché un mercato sotto sorveglianza dello Stato » (chiamiamolo vincolo esterno?), l’osservazione di De Grauwe rompe senz’altro con questa logica.   
Ho già accennato ai faticosi presupposti perché quel che è perfettamente ovvio in pratica, anche alla luce degli stessi fatti riportati da De Grauwe, lo risulti anche in teoria, ma la conclusione resta comunque apprezzabile.

6.1. Il problema sono le conseguenze che NON vengono tratte.
In un impressionante libro Martin Gilens [le cui conclusioni abbiano visto riportate nel saggio di cui abbiamo parlato qui, n. 5] analizza come il sistema politico americano promuova gli interessi dei percettori dei redditi più elevati. Ciò è strettamente connesso col fatto che negli USA il denaro è il fattore fondamentale per vincere le elezioni. In una certa misura si potrebbe dire che anche gli USA sono vittima di una forma di “capitalismo clientelare” [crony capitalism].”
Se dunque scopriamo che effettivamente la forma più massiccia e seriale di corruzione” è quella che agisce sul processo normativo”, il rimedio dovrebbe essere “la democrazia sostanziale (sto citando da qui), ossia un insieme di garanzie che assicuri alla maggioranza la possibilità di partecipare, e determinare, il processo decisionale: uno stretto legame fra “contenuto sociale e contenuto politico della democrazia”, come diceva Basso (qui, n. 3. Nota: spero non vi sia sfuggita la possibilità di leggere integralmente Il principe senza scettro sul sito dedicato a tutti i suoi scritti, fornito pure di motore di ricerca interno). 
Siamo realisti, non chiediamo tanto a De Grauwe; dopo la sferzata al sistema politico americano uno sguardo a quello europeo, in cui viviamo lui e noi, non mi pare però sarebbe stato chiedere troppo.
Non pervenuto.  
6.2. Ed è un gran peccato. Perché con tutto il male che si può dire, e che abbiamo detto, della Costituzione americana, perlomeno legislativo ed esecutivo lì vengono *eletti*. Forse le prodezze di un’élite che ha fatto della sottrazione di se stessa al processo elettorale (che per lei è  “è certo miglior cosa”, come diceva ironicamente Gramsci parlando di quella fascista) il proprio credo,  almeno un accenno critico l’avrebbero meritato: il disastro dell’euro non è per nulla estraneo all’alterazione dei rapporti di forza politici fra maggioranza e minoranza “ricca e influente”, proprio il contrario: non bastassero i fatti (che non bastano mai), si tratta di una valutazione facilmente ricavabile anche da un autore di impeccabile caratura mainstream come Eichengreen (qui, n. 2), per tacere di una vasta letteratura politologica e storica (Majone, Gillingham, Bartolini, Anderson, Scharpf, eccetera), spesso non meno ortodossa.
Nell’ambito della quale vi ho già citato Collignon - Schwarzer e Posen, e ora ci aggiungo una colonna accademica dell’integrazionismo come Moravcsik
L’UE riguarda essenzialmente la promozione del libero mercato. I principali gruppi di interesse che la sostengono sono imprese multinazionali, non ultime quelle americane.” (Conservative Idealism and International Institutions, Chicago Journal of International Law, Fall 2000, p. 310).
No, perché un tale assordante silenzio rispetto a ovvietà ampiamente attestate in letteratura spinge l’eurostrabismo, come lo chiamo io, oltre i limiti della cecità (e del ridicolo).

6.3. Il problema è che, in materia di integrazione, dalle premesse poste da De Grauwe, ossia che il mercato ha sempre bisogno di istituzioni politiche sovraordinate, dovrebbero derivare a piombo le conseguenze individuate da Stiglitz nel suo libro sull’euro (The Euro, W. W. Norton & Company, N. Y., 2016, s.p.): 
La lezione fondamentale da trarre è che l’integrazione economica – la globalizzazione – fallirà se travalica l’integrazione politica. La ragione è semplice: quando i paesi si integrano, diventano anche più interdipendenti, così che le azioni di alcuni hanno influenza anche sugli altri. C’è quindi molto bisogno di un’azione collettiva per assicurarsi che ciascuno compia più azioni positive e meno negative verso gli altri paesi.
Ci sono due problemi: in assenza di una sufficiente integrazione politica un’unione economica mancherà delle istituzioni necessarie per intraprendere la suddetta azione collettiva per rendere l’integrazione benefica per tutti; in assenza di sufficiente solidarietà, la condizione di certi gruppi sarà peggiore di quel che sarebbe stata in assenza di integrazione.”
Ma quando le circostanze economiche sono molto diverse, quando alcuni paesi sono debitori e altri creditori, allora l’integrazione politica, compresa la creazione delle istituzioni politiche necessarie per far funzionare l’integrazione, diventa più difficile.”
Ciò che è necessario non sono solo strutture economiche simili ma anche analoghi sistemi di credenze, riguardanti la giustizia sociale e il funzionamento del sistema economico.” 
Col che, “purtroppo”, si colpisce al cuore la strategia di integrazione fondata sul federalismo divisivo e ritrovano tutta la loro saggezza e pregnanza le indicazioni di Mortati: “il trasferimento di competenze dagli organi interni a quelli comunitari in tanto deve ritenersi ammissibile in quanto appaia sussistente, non già un'identità di struttura tra gli uni e gli altri, ma il loro sostanziale informarsi ad analoghi criteri in modo che risultino soddisfatte le esigenze caratterizzanti il nostro tipo di stato” (qui: torniamo quasi alle origini del blog :-)).  
E certo allora la reticenza di De Grauwe risulta comprensibile.

7. Proviamo allora a tirare le somme.
Il libro di De Grauwe è un collage di mezze verità composto da chi, pur rendendosi conto dei rischi che seguono al disastro prodotto dall’egemonia sociale e culturale di cui è stato parte, non riesce a trovare il coraggio e la lucidità per compiere un salto di qualità in termini di analisi.
Peccato per lui e voltiamo pagina.

10 commenti:

  1. Mi sa che De Grawe ha ben interiorizzato quanto scriveva qualche post fa Bazaar:

    "La dialettica che si genera nella sovrastruttura politica [in questo senso credo che De Grawe intenda la democrazia] tende a sua volta a confermare e perpetuare le istituzioni esistenti: il controllo tramite il potere economico [kratos] e politico-legislativo [arché] sui mezzi istituiti per istruire ed informare garantiscono un perimetro intellettuale, concettuale, coscienziale, oltre al quale il dibattito politico [e religioso aggiungo io] non può accedere affinché non venga mai messo in discussione il potere primigenio.”

    Per non dover mai mettere in discussione il potere primigenio mi sembra che alla fine De Grawe confonde la democrazia sostanziale con un surrogato delle indagini di mercato...

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  2. La classe egemone - con codazzo di intellettuali, professori, tecnici, ideologi - è assolutamente screditata.

    Se dopo la seconda guerra mondiale lo era solo tra intellettuali democratici, ora lo è difronte a gran parte dei popoli.

    Agghiacciante "la chicca" di Piketty sul declino della Gran Bretagna: farà felice tutti i ricercatori affascinati dalla biografia dei Rothschild.

    Gli interessi sui titoli di debito pubblico sono l'uovo di Colombo del dominio classista: un'ovvietà contabile che, con le spropositate risorse messe a disposizione dalla strozzinaggio dei popoli, viene cancellata dalla coscienza collettiva da secoli.

    La banca centrale "indipendente" è il pilastro di questo meccanismo: tutte le becere idiozie dei liberali, tutto virile darwinismo e propensione al rischio, qualificano l'incommentabile stupidità di quello che si rivela un pensiero gretto, violento e codardo. Doti di qualsiasi usuraio.

    Che usa il suo denaro ottenuto a strozzo per rifarsi un'immagine. Fino a sembrare il contrario di se stesso. Fino a farsi chiamare grottescamente "filantropo".

    Tutti 'sti professoroni, 'sti liberisti aedi del libero mercato, non sono altro che esaltati servitori di un sistema basato su indipendenza della banca centrale e avanzi di bilancio imposti a suon di austerità: chi controlla l'emissione monetaria - ovvero l'irenica classe cosmopolitica che promuove filantropicamente l'imperialismo - cava il sangue dai popoli ignari. Colpevolizzati dell'orrore che subiscono dagli stessi carnefici, dispensatori di austero e disgustoso moralismo.

    Desovranizzazione monetaria e pareggio di bilancio sono il fondamento di un ordine classista che grida vendetta a cospetto dei miliardi di persone strangolate da secoli a morte per garantire quest'esorbitante privilegio.

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    1. Però separare la finanza dal resto di un’economia capitalista è proprio il punto di vista che intendevo contrastare… :-)

      Senza l’immissione del potere d’acquisto generato da banca centrale indipendente e convertibilità aurea, che Amato e Fantacci definiscono infatti una “moneta di potenza”, la Gran Bretagna l’impero neanche l’avrebbe avuto.

      Forse la finanziarizzazione del secondo ottocento più che causa va considerata sintomo del declino britannico, come teorizza Arrighi in base al suo noto modello: “le espansioni finanziarie sono considerate sintomatiche di una situazione nella quale l’investimento di denaro nell’espansione del commercio e della produzione non assolve più al compito di incrementare il flusso di denaro verso lo strato capitalistico con la stessa efficacia delle transazioni finanziarie” (Il lungo XX secolo, Il Saggiatore, Milano, 2014, s. p.).

      Allora come oggi non è comunque possibile separare la finanza dal problema della domanda e degli investimenti. Il che ci riporta a una ben nota questione, che ho provato a ribadire qui...

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    2. Hai fatto bene a sottolinearlo perché su Twitter c'è stato chi se l'è presa con il "tasso di interesse" di per sé stesso. E, quindi, ovviamente, se si mette in discussione il funzionamento della banca centrale, si mette in discussione il capitalismo stesso.

      Dato il riferimento alle guerre napoleoniche mi sembrava chiaro che il riferimento fosse al controllo e all'influenza sull'emissione monetaria e sulle finanze pubbliche.

      Certamente la Gran Bretagna senza banca centrale indipendente non avrebbe avuto l'impero: e, magari, se la banca centrale fosse stata dipendente, invece di un ricco impero, avrebbe avuto una ricca democrazia.... (se ti ho capito)

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    3. @Arturo - "Senza l’immissione del potere d’acquisto generato da banca centrale indipendente e convertibilità aurea, che Amato e Fantacci definiscono infatti una “moneta di potenza”, la Gran Bretagna l’impero neanche l’avrebbe avuto."

      I fondatori della Banca d'Inghilterra furono presumibilmente gli stessi finanziatori (ancora oggi segreti) della 'Glorious Revolution'. La cosa appare abbastanza evidente dalla pura cronologia dei fatti storici (ovviamente se si adotta il punto di vista forense/materialista che una teoria storica deve spiegare sia i fatti noti che il movente delle azioni nonchè le apparenti contraddizioni).

      https://en.wikipedia.org/wiki/Glorious_Revolution

      Osservando in particolare le gesta del futuro William III negli anni che vanno dal 1672 al 1678 si percepisce il travaglio delle ricche elite finanziarie del nord Europa, ansiose di assicurarsi un porto sicuro per le loro attività (una specie di antesignano della moderna City) al riparo dalla potenza di Francia, Inghilterra e del 'Sacro Romano Impero' degli Asburgo.
      L'eliminazione brutale dei concorrenti fratelli De Witt (per assumere il pieno controllo in Olanda) fu un passo obbligato per il futuro Guglielmo III per ottenere l'investitura delle elite finanziarie del nord Europa (e successivamente di parte di quella inglese per rovesciare Re Giacomo e per creare un santuario finanziario sicuro a Londra, la City con la BDI).

      Se Marx avesse incluso questa 'congettura' in nota al passo riportato da Francesco Maimone:

      " Sin dal loro sorgere le grandi banche, mascherate da pompose denominazioni nazionali, sono state solo società di speculatori privati che appoggiavano i governi e tramite i privilegi loro concessi potevano anticipare ad essi del denaro. Perciò l’accrescersi del debito pubblico trova una misura estremamente precisa nel progressivo salire delle azioni di queste banche, il cui pieno sviluppo data dalla fondazione della Banca d’Inghilterra (1694). La Banca d’Inghilterra cominciò col prestare il suo denaro al governo al tasso dell’8%; allo stesso tempo aveva avuto dal parlamento l’autorizzazione ad emettere moneta con questo stesso capitale, prestandolo nuovamente al pubblico sotto forma di banconote. Con queste essa poteva scontare gli effetti, fare anticipi su merci e acquistare metalli pregiati. Né passò molto che una tale moneta di credito fabbricata da essa stessa si trasformasse nella moneta con cui la Banca effettuava prestiti allo Stato e liquidava per conto dello Stato gli interessi del debito pubblico. Essa non solo dava con una mano per ricevere di più con l’altra, ma, proprio mentre riceveva, RIMANEVA CREDITRICE PERPETUA DELLA NAZIONE FINO ALL’ULTIMO CENTESIMO SBORSATO…"

      avrebbe anche creato la odierna categoria dei 'complottisti'.

      Ma probabilmente anche Marx non si sentiva di osare troppo, anche perchè non credo che non avesse notato la curiosa moria in quegli stessi anni delle molte decine di eredi al trono del Re Sole...

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    4. La banca centrale al tempo della convertibilità aurea implicava di per sé un controllo sulle finanze pubbliche, visto che era la raccolta fiscale a garantirla (la convertibilità, dico).

      Concordo che sul piano storico non è possibile mettere in discussione le origini della banca centrale senza attaccare uno dei presupposti di sviluppo del capitalismo.
      D'altra parte non trovo però sbagliato, lo fanno anche Amato e Fantacci, sottolineare l'aberrazione antropologica rappresentata dall'idea di una separazione e automatismo dell'economia, se paragonata al funzionamento di moneta e credito nel medioevo e nella prima età moderna, in cui il signore poteva sempre intervenire, via moneta immaginaria, per adeguare la disponibilità di mezzi di pagamento alle esigenze della comunità, mentre gli scambi internazionali erano regolati attraverso un complesso sistema di clearing ruotante attorno alle fiere dei cambi.

      Ovvero è uno di quei casi in cui emergono le contraddizioni alle origini del capitalismo, coi relativi vantaggi (una grande espansione delle ricchezze, ovviamente perlopiù a vantaggio di pochi) e svantaggi (espulsione della giustizia distributiva dall'assetto istituzionale della moneta e crisi periodiche).

      Domandarsi se l'Inghilterra potesse "saltare" gli orrori dell'accumulazione originaria approdando comunque alla ricchezza è una questione molto affascinante ma, confesso, di là dalle mie capacità di esplorazione. :-)

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  3. Già, la banca centrale indipendente:

    IL DEBITO PUBBLICO, vale a dire L’ALIENAZIONE DELLO STATO…IMPRIME IL SUO MARCHIO ALL’ERA CAPITALISTICA. L’unica parte della cosiddetta ricchezza nazionale che entri realmente nel possesso collettivo dei popoli moderni è il loro debito pubblico. Donde, assolutamente consequenziaria, la moderna dottrina che un popolo diviene tanto più ricco quanto più s’empie di debiti. Il CREDITO PUBBLICO diviene il ‘credo’ del capitale. E sorto l’indebitamento dello Stato, il peccato contro lo spirito santo, imperdonabile, cede il posto alla mancanza di fede verso il debito pubblico.

    Il debito pubblico si trasforma in una delle più possenti leve dell’accumulazione originaria. Come per magia, essa dona al denaro, improduttivo, la capacità di procreare, e così lo converte in capitale, senza che esso debba andare incontro alla fatica e al rischio che comportano necessariamente l’investimento industriale o quello usuraio. In effetti i creditori dello Stato non danno nulla, giacché la somma prestata viene convertita in obbligazioni che possono essere cedute senza difficoltà e che nelle loro mani funzionano ancora come altrettanta moneta contante.

    Tuttavia, pur non tenendo conto della classe di persone oziose, che vivono di rendita e che vengono generate in questa maniera, e della ricchezza improvvisata dei finanzieri, che fungono da mediatori tra governo e nazione - come pure non tenendo conto della ricchezza degli appaltatori di imposte, dei commercianti, dei fabbricanti privati, ai quali ogni prestito dello Stato appare per buona parte come caduto dal cielo - il debito pubblico ha fatto nascere le società per azioni, il commercio d’ogni genere di effetti negoziabili, l’aggiotaggio, insomma ha creato il giuoco di Borsa e la moderna BANCOCRAZIA.

    Sin dal loro sorgere le grandi banche, mascherate da pompose denominazioni nazionali, sono state solo società di speculatori privati che appoggiavano i governi e tramite i privilegi loro concessi potevano anticipare ad essi del denaro. Perciò l’accrescersi del debito pubblico trova una misura estremamente precisa nel progressivo salire delle azioni di queste banche, il cui pieno sviluppo data dalla fondazione della Banca d’Inghilterra (1694). La Banca d’Inghilterra cominciò col prestare il suo denaro al governo al tasso dell’8%; allo stesso tempo aveva avuto dal parlamento l’autorizzazione ad emettere moneta con questo stesso capitale, prestandolo nuovamente al pubblico sotto forma di banconote. Con queste essa poteva scontare gli effetti, fare anticipi su merci e acquistare metalli pregiati. Né passò molto che una tale moneta di credito fabbricata da essa stessa si trasformasse nella moneta con cui la Banca effettuava prestiti allo Stato e liquidava per conto dello Stato gli interessi del debito pubblico. Essa non solo dava con una mano per ricevere di più con l’altra, ma, proprio mentre riceveva, RIMANEVA CREDITRICE PERPETUA DELLA NAZIONE FINO ALL’ULTIMO CENTESIMO SBORSATO
    Dato che il debito pubblico è basato sulle entrate dello Stato, che ne deve pagare gli interessi annui, ecc., IL MODERNO SISTEMA DELLE IMPOSTE È DIVENUTO INDISPENSABILE COMPLEMENTO DEL SISTEMA DEI PRESTITI NAZIONALI. I prestiti danno ai governi la possibilità di sostenere spese eccezionali senza che i contribuenti ne risentano direttamente, sebbene comportino un successivo aumento delle tasse. Del resto l’aumento delle tasse causato dall’ingrandirsi del debito pubblico spinge il governo a nuovi prestiti allorché si presentino nuove spese eccezionali. Il fiscalismo moderno, di cui le tasse sui mezzi di sussistenza di prima necessità (e perciò il loro rincaro) costituiscono il punto d’appoggio, racchiude quindi in sé il germe della progressione automatica. Per questo l’aumento delle tasse non è un incidente, ma il principio
    . (segue)

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  4. Questo sistema venne adottato per la prima volta in Olanda, e il gran patriota De Witt l’ha poi magnificato nelle sue Massime come il SISTEMA MIGLIORE PER RENDERE L’OPERAIO UBBIDIENTE, SOBRIO, lavoratore e... sovraccarico di lavoro… Su questo non v’è da discutere, nemmeno da parte degli economisti borghesi.[K. MARX, Il Capitale, Libro I, Capitolo XXIV, La cosiddetta accumulazione originaria]. Se tagli anche la spesa sociale e gli "sprechi", diretta conseguenza del meccanismo, il quadro è completo.

    Il resto è nauseante sovrastruttura, cioè liberismo, impregnato di “austero e disgustoso moralismo” (come pensiamo che si arrivi a parlare del reddito di cittadinanza, ma anche dell’incredibile pippone sulle “spese immorali”?) veicolato da “intellettuali, professori, tecnici, ideologi”. Di economisti borghesi (coscienza ed esistenza pseudo-scientifica dei capitalisti) alla De Grauwe, incapace di manifestare persino nella catastrofe un briciolo di quella che un tempo si sarebbe chiamata “coscienza infelice”.

    Ma anche su questo, Marx ci aveva visto lungo:

    …Come l’aumento dei bisogni e dei loro mezzi produca la mancanza di mezzi, l’economista politico lo dimostra (e il capitalista: noi in genere parliamo sempre di uomini d’affari empirici quando ci rivolgiamo agli economisti – loro confessione ed esistenza scientifica) 1) riducendo il bisogno del lavoratore al più indispensabile e al più misero sostentamento della vita fisica…dicendo quindi: l’uomo non ha altro bisogno di attività né di godimento; dichiara infatti anche questa vita come vita ed esistenza umana; 2) calcolando come criterio di misura, anzi come criterio di misura generale, la vita (esistenza) più miserabile possibile…egli fa del lavoratore un essere insensibile e senza bisogni, così come della sua attività una pura astrazione da ogni attività; ogni lusso del lavoratore gli appare quindi riprovevole, e tutto quel che va oltre il più astratto bisogno…gli appare come un lusso.

    L’economia politica, questa scienza della ricchezza, è quindi nello stesso tempo la scienza della rinuncia, della privazione, del risparmio, e giunge realmente sino al punto di risparmiare all’uomo persino il bisogno d’aria pura o movimento fisico.Questa scienza dell’industria meravigliosa è allo stesso tempo la scienza dell’ascesi e il suo vero ideale è l’avaro ascetico, ma usuraio e lo schiavo ascetico ma produttivo.

    Il suo ideale morale è il lavoratore che porta alla cassa di risparmio una parte del suo salario e per questa sua idea prediletta essa ha trovato persino un’arte servile…ESSA È QUINDI…UNA SCIENZA REALMENTE MORALE, LA PIÙ MORALE DELLE SCIENZE. La rinuncia a se stessi, la rinuncia alla vita, a tutti i bisogni umani, è il suo dogma fondamentale. Quanto tu meno mangi, bevi, compri libri, vai a teatro, al ballo, in osteria, pensi, ami, teorizzi, canti, dipingi, tiri di scherma ecc., tanto più tu risparmi, più grande diventa il tuo tesoro… il tuo capitale…L’economia politica della morale è la ricchezza di buona coscienza…La relazione dell’economista politico alla morale, se non arbitraria, accidentale, e quindi infondata e non scientifica, se non è costruita come apparenza, ma intesa come essenziale, può essere soltanto la relazione delle leggi economiche-politiche alla morale….L’economia politica esprime soltanto alla sua maniera le leggi morali
    ” [K. MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Milano 2018, 155-159]. Einaudi docet.

    Ecco ancora serviti i decrescisti da strapazzo, gli stregoni del debito pubblico, della credibilità (“il credito è il giudizio economico-politico sulla moralità di un uomo”, sempre Marx) e della sobrietà.

    (A proposito, Draghi è salito al Colle a lasciare il pizzino. Ancora una volta, però, non ho visto intervenire cellulari dei Carabinieri)

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  5. Magari a qualcuno interessa ed altri potranno spiegare come mai accade :
    https://www.whitehouse.gov/articles/americas-unemployment-rate-falls-lowest-level-almost-50-years/?utm_source=ods&utm_medium=email&utm_campaign=wwr

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    1. https://www.zerohedge.com/news/2018-10-07/not-your-grandpas-jobless-rate

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