martedì 31 dicembre 2019

UN AUGURIO PER UN 2020 DI BENESSERE E DEMOCRAZIA A TUTTI GLI ITALIANI

http://www.ceredaclaudio.it/wp/wp-content/uploads/2016/07/assembleacostituente.jpg
"...Ed infatti, per i teorici del costituzionalismo politico non esistono i “diritti”, tanto meno fondamentali:
“… “i diritti non sono briscole che mettono sotto scacco il bene comune perché essi hanno senso solo nella misura in cui contribuiscono ad esso e forniscono un ampio ventaglio di opportunità individuali per tutti i membri della comunità” … In quanto intrinsecamente politici, i diritti hanno bisogno di essere costantemente vigilati e protetti da processi politici
Inoltre, questa condizione rimanda al fatto che il dibattito pubblico sui diritti non può accettare una loro qualificazione come beni assoluti, poiché ciò contrasterebbe con l’idea che l’agire politico sia anzitutto mosso dalla volontà di trovare una conciliazione, per quanto temporanea, al conflitto fra diverse interpretazioni. Una cultura dei diritti eccessivamente legalistica rischia di ammantare le rivendicazioni personali di un atteggiamento fortemente atomistico, poco incline al compromesso…” [8].

1. Mi permetto di rivolgere gli auguri di in Felice Anno Nuovo a tutti gli italiani.
Non parlerò di "sfide" che ci attendono: perché le "sfide" sono una categoria utilizzata nel linguaggio delle organizzazioni economiche internazionali, e che aspirano a essere sovranazionali, per significare la creazione di regole sovranazionali che limitano, impoveriscono e ostacolano il benessere dei cittadini, e, allo stesso tempo, per indurli ad accettare questi oneri e queste difficoltà come inevitabili, TINA.
"Sfide" è quindi un termine, apparentemente accattivante, che induce, e spesso costringe, a sopportare nuove regole vessatorie e incomprensibili al senso comune, in nome di vantaggi futuri che sono e saranno acquisiti solo da coloro che "dominano" i mercati
Il meccanismo (psicologico di massa) implicito è che se non raccogli la "sfida", al di là di qualsiasi calcolo elementare sulla convenienza nel farlo, non sei all'altezza, o sei un codardo, o un retrivo, che si oppone a un imprecisato "progresso", calato dalle alte sfere dell'insindacabile tecnocrazia dei mercati, e che, come tale, non si è (ma più) abilitati a porre in discussione.

Le "sfide", - come può constatare chiunque legga un documento programmatico, od un qualsiasi testo che racchiude la presunta "ragion d'essere" di una proposta o di una fonte normativa proprie di un'organizzazione economica internazionale (laddove tale termine è utilizzato ad ogni piè sospinto) -, sono dunque l'artificio retorico per attivare la richiesta di una sottomissione a un peso, a un malessere, a un sacrificio, che normalmente non ha alcuna contropartita e che, più in generale, non trova alcuna base giustificativa nei principi fondamentali della nostra Costituzione democratica.

2. parlerò di altri concetti apparentemente accattivanti ma che dissimulano il proprio contrario: come l'identità nazionale, laddove accoppiata all'idea di un'irreversibile ed accelerata privazione della sovranità nazionale. I due concetti, identità e privazione, ovverosia "cessione", della sovranità, nazionali, sono in evidente ed insanabile contrasto. 
Si tratta di un eloquente esempio (qui, p.2, infine) di "proposizioni usate come se fossero complementari, - ad es. “libero mercato” e “giustizia sociale”, “stabilità monetaria” e “piena occupazione”[8] – mentre, per motivi strutturali, qualsiasi sovrastruttura giuridica non potrà obbligare gli organi di governo ad eseguire entrambi gli obiettivi, essendo per motivi “tecnici” mutuamente esclusivi. Poiché il capitale è naturalmente più forte del lavoro, la spoliticizzazione del governo delle comunità sociali permette di relativizzare l'ordine giuridico in funzione degli interessi del capitale del Paese dominante".

3. Non parlerò, ancora, della coesione nazionale invocata come atteggiamento in qualche modo "dovuto", da parte dei cittadini e dei popoli, quale risposta o reazione collettive, alle "sfide": cioè all'imposizione di sacrifici, privi di contropartita e di legittimazione costituzionale, e alla cessione di sovranità nazionale. 
In un simile contesto, quale indubbiamente si profila oggi per tutti gli italiani, questa coesione nazionale, questo dover essere uniti e criticamente passivi nell'accettazione di "vincoli esterni", si risolve in un imperativo morale al "subire" la privazione del benessere e dei diritti e delle libertà fondamentali garantite dalla Costituzione democratica del 1948.

4. Neppure parlerò, infine, del "bene comune", come obiettivo, altrettanto ambiguamente imprecisato e volutamente sfumato, - in quanto privo di ogni ancoraggio al testo della Costituzione repubblicana -, a cui va asservito ogni diritto e ogni dialettica politica all'interno del popolo sovrano (art.1 Cost.). 
"Bene comune" è un concetto extra-costituzionale e, a rigore, estraneo al diritto positivo nazionale, e quindi extra-giuridico, che legittima come valore, prevalente su ogni altro, quello dell'ordine del mercato temperato dalla volontaristica e spontanea "fraternità", consistente nell'animo caritatevole dei percettori di profitti ed interessi; spontaneo ma, in quanto tale, incoercibile e non esigibile da parte delle norme degli Stati democratici. 
(Cfr; qui, pp. 5-10: "Questo insieme di lodevoli propositi, che certamente presuppongono una sforzo ideale e etico, costantemente ritrovabile nell'intera comunità sociale, (dato che la stessa teoria postula che se anche uno solo se ne tira fuori, rischia di azzerarsi il vantaggio di ogni possibile "bene comune"), viene dunque contrapposto all'interesse pubblico incarnato dalle norme dello Stato: inevitabilmente, se lo Stato limita il "libero mercato", da un lato nega la precondizione di diffusione del bene comune, dato che gli individui non potranno più liberamente esercitare la loro spinta solidaristica coessenziale all'iniziativa economica (secondo questa visione, ovviamente), dall'altro, disconosce il carattere esclusivamente privato, e funzionale al bene comune, della stessa illimitata disponibilità e trasmissione della proprietà mediante il "mercato" (se non altro lo Stato vorrà tassare e appropriarsi di una parte della proprietà delle ricchezza prodotta e deciderà di intestarsi  alcuni beni per ragioni di interesse statale, stabilite da norme pubblicistiche).
...
Riteniamo che siano ora chiarite origini e portata del concetto di "bene comune", e che quindi risulti  verificato, nella coerenza del relativo pensiero, come esso sia alternativo e, in termini molto pratici, oppositivo a quello di interesse pubblico generale incarnato dallo Stato costituzionale democratico". )

5. Parlerò invece, dell'augurio più sentito, per tutti gli italiani, che è quello di ritrovare la democrazia sostanziale, che è in definitiva, nelle intenzioni dei nostri Costituenti, un sinonimo di sovranità democratica.
Riporterò perciò (ancora una volta, perché ce n'è bisogno), le parole di Lelio Basso su questi temi:
(qui, p.4) “…penso che la battaglia per la democrazia nei singoli paesi debba essere prioritaria rispetto ai fini federalisti…ci sono cose che vanno, secondo me, profondamente meditate. A me, se così posso dire, la sovranità nazionale non interessa; però c’è una cosa che mi interessa: è la sovranità democratica... Nella Costituzione abbiamo scritto, nel primo articolo: “L’Italia è una Repubblica democratica”; poi abbiamo aggiunto quelle parole forse sovrabbondanti “fondata sul lavoro”; e poi abbiamo ancora affermato il concetto che la “sovranità appartiene al popolo”
Sembra una frase di stile e non lo è. Le costituzioni in genere hanno sempre detto “la sovranità emana dal popolo” “risiede nel popolo”; ma un’affermazione così rigorosa, come “la sovranità appartiene al popolo che la esercita” era una novità arditissima. Contro la concezione tedesca della “sovranità statale”, di quella francese della “sovranità nazionale”, noi abbiamo affermato la “sovranità popolare” quindi democratica. A questo tipo di sovranità io tengo” [37]. La sovranità costituzionale è tutto. (L. BASSO, Consensi e riserve sul federalismo, L’Europa, 15-30 giugno 1973, n. 10/11, 109.118).
Ed ancora (qui, p.7):
...a) innanzi tutto le limitazioni di sovranità sono consentite solo ai fini di assicurare la pace e la giustizia fra le Nazioni, e sì riferiscono quindi a organismi tipo ONU, tribunali internazionali e simili, ma non ad un organismo, la Comunità, il cui fine precisato dall’art. 2 del Trattato, è quello “DI PROMUOVERE UNO SVILUPPO ARMONIOSO DELLE ATTIVITÀ ECONOMICHE”;
b) in secondo luogo altro è una “limitazione” di sovranità (come può essere la rinuncia alla guerra, la limitazione del diritto di armarsi e anche l’accettazione di controlli reciproci al riguardo, e simili) e altro è invece il trasferimento della propria sovranità ad organi esterni, come il consiglio o la commissione, la quale ultima, come previsto dall’art. 157, avrebbe potuto non comprendere neppure un italiano
 (ndQ: e sull'art.11 rammenterei ancora le profetiche precisazioni di Meuccio Ruini); 
 c) in terzo luogo va osservato che la parola “sovranità” ha un duplice significato: uno riguarda la personalità internazionale dello Stato e significa il diritto di ciascuno Stato alla piena indipendenza nei confronti di ciascun altro; il secondo riguarda invece il modo come ciascuno Stato esercita nel proprio interno il potere sovrano…

Ora pare a me che la “limitazione” di cui parla l’art. 11 si riferisce ai rapporti fra Stati, ma non può intaccare il principio fondamentale della nostra costituzione, secondo cui (art. 1) l’Italia è una repubblica democratica e “la sovranità appartiene al popolo che la esercita”
Attribuire poteri legislativi, senza il concorso e anche contro la volontà del Parlamento italiano, a un consiglio composto da un rappresentante di ciascun governo, o addirittura a una commissione nominata collegialmente dai governi membri, SIGNIFICA SPOGLIARE IL POPOLO DELL’ESERCIZIO DELLA SOVRANITÀ in materia di estrema importanza e, quindi, sovvertire l’ordinamento costituzionale italiano.

Dell’esistenza di questo grave problema l’opposizione è stata cosciente: chi scrive…ha personalmente sostenuto una lunga battaglia in seno alla commissione degli esteri della Camera fino al 1969, ma governo e maggioranza si sono sempre mostrati sordi.

Ora attendiamo la decisione della Corte, ma se anch’essa si pronunciasse in senso contrario a quanto qui sostenuto, il problema sarebbe risolto solo sul piano formale. Si tratta infatti di vedere se un popolo, che vuol essere democratico, può essere governato da norme, che invadono campi sempre più vasti, e che sfuggono a qualsiasi decisione preventiva o controllo successivo di organi elettivi, cioè al controllo della rappresentanza dei cittadini interessati
” [L. BASSO, È incostituzionale l’adesione al MEC ?, Corriere della Sera, 27 maggio 1973].

In nome di questa memoria, di questa limpida versione della legalità costituzionale, mi permetto perciò di dare un senso ai miei auguri a tutti gli italiani.

mercoledì 18 dicembre 2019

UN PO' DI STORIA ITALIANA...LA "SVOLTA" DEL 1946. "UN GIRO DI VITE INTORNO ALL'INFORMAZIONE"

Umberto II in partenza per l'esilio dall'aeroporto di Ciampino.
ADDENDUM in premessa: questo post di storia politico-istituzionale, va letto come antefatto dello sviluppo istituzionale e politico-economico, dichiaratamente praeter Constitutionem (se non "contra"...), che abbiamo narrato, con il contributo delle fonti richiamate da una pluralità di commentatori, in questo precedente post:

BREVE STORIA DELLA RIMOZIONE PREVENTIVA DELLA COSTITUZIONE: IL VINCOLO INTERNO COME SOSTANZA DEL VINCOLO ESTERNO (anche i commenti che ne contrassegnano il conseguente dibattito meritano un'attenta lettura).



1. Grazie a Luca, che ha richiamato un precedente intervento di Francesco Maimone (in 4 parti), risulta utile riportare questa ricostruzione storica di Lelio Basso e, per connotarne l'aderenza ai fatti dell'epoca, le sue esatte premesse storico-politiche tratte dal libro di M.Lucia Sergio "De Gasperi e la questione socialista – "L’anticomunismo democratico e l’alternativa riformista", (Rubettino, 2004, 79-81).
Queste vicende storiche risultano tanto illuminanti, quanto ostinatamente ignorate da un popolo che, nella crisi attuale, pare aver perduto ogni contatto con la sua storia e, ancora più, con la capacità di identificarla e comprenderla; questo riproporsi di "fattori dominanti", nell'adattamento delle forme di governo a orientamenti ancor oggi certamente presenti, indurrebbe a una riflessione sul senso vero del fenomeno "fascismo" (se mai si volesse dar credito alla sua ricostruzione storica sempre compiuta da Basso e, non paradossalmente, da Von Mises, qui, pp. 3-4, ma vale la pena rileggersi il post fino in fondo).
Successivamente, dopo una combattuta trattativa, seguì un accordo tra sindacati e Confindustria, concluso il 30 ottobre dello stesso anno, riguardante "l’aumento del 35% dei salari minimi, il pagamento della tredicesima e la retribuzione di 12 giorni di ferie l’anno, accordo accompagnato dall’adozione della «scala mobile» diretta ad adeguare i salari operai al costo della vita". 
Questo accordo, come si desume dal contesto della ricostruzione storica sottoriportata, conseguì ad un clima politico in cui le elezioni amministrative, tra il marzo e l'ottobre del 1946, avevano, nella seconda tornata, complessivamente ridimensionato il peso elettorale della democrazia cristiana rispetto al risultato delle politiche, svoltesi il 2 giugno insieme al referendum sulla forma repubblicana:

2. “…. E’ a questo luglio 1946 (quando al disagio per il Premio della Repubblica gli industriali associano l’angoscia per le violenze riscontrate in molti episodi di contestazione operaia) che si può datare probabilmente la nascita del famoso “quarto partito” imprenditoriale.

Infatti, i verbali della Giunta esecutiva di Confindustria di quei giorni restituiscono un clima di profonda animosità nei confronti della classe dirigente del paese, una difficoltà di rapporti diretti col Presidente del Consiglio e coi rappresentanti economici del partito di maggioranza relativa, e una sfiducia nella politica, che si traduce nella determinazione ad agire “da soli”, a “farsi partito” con una propria autonomia di propaganda, lobbyng e gestione dei finanziamenti politici.

Nella seduta del 9 luglio Angelo Costa non nasconde il suo dissenso con De Gasperi e sottolinea la tentazione di rottura presente nello stato d’animo di gran parte degli imprenditori: “Fino ad ora le conversazioni con l’on. De Gasperi sono state improntate all’opportunità o meno dell’aumento e sulla sua eventuale misura. Di fronte a questo fatto nuovo, non so più come si possa collaborare”.

A latere
di questa dichiarazione preliminare del Presidente di Confindustria, si sviluppa nella Giunta Esecutiva degli industriali un dibattito molto acceso sulle modalità di pressione politica dell’organizzazione padronale e di finanziamento dei canali privilegiati:

“Siamo estraniati completamente – dice l’imprenditore edile Gualdi – da quelle che erano le nostre forze, e pur essendo in periodo parlamentare, al parlamento non abbiamo alcuna nostra rappresentanza…Ricordiamo che durante le elezioni la nostra azione è stata la più infelice che si potesse immaginare. Siamo partiti tardi, senza alcuna intesa, abbiamo elargito somme anche cospicue senza che ci sia un partito che debba dimostrarci riconoscenza, senza che ci siano uomini che considerino questo nostro apporto come l’elemento determinante della loro elezione
. Un risultato più ignobile ed inutile non può pensarsi”.

Nella seduta del giorno successivo Alighiero De Micheli, futuro Presidente di Confindustria nel quinquennio ’57-’62, chiede molto polemicamente: “Quale sarà il partito e quali saranno i partiti che ci difenderanno? ... E’ opportuno che la Presidenza inviti le aziende associate a versare un contributo per le spese di stampa e propaganda, senz’altra specifica. Senza questa base concreta, e cioè se gli industriali non sono disposti nemmeno a questo piccolo contributo mentre poi devono tirar fuori i denari per San Togliatti…è meglio chiuder bottega. I DENARI, DACCHÉ I FENICI HANNO INVENTATO QUESTA MERCE, È L’UNICO MEZZO CON CUI SI RIESCA A FARE QUALCOSA”.

Fra gli industriali c’è chi propone la creazione di un “partito industriale-agrario” espressione diretta in politica delle istanze del liberismo conservatore (in nota: la proposta era di De Ponti, presidente dell’unione industriale di Bergamo). Tale proposta non piace a Costa che definisce “maschere di vetro” gli organismi politici apertamente collaterali a Confindustria. S’insinua fra le righe del dibattito confindustriale quella seduzione di un “fare politica indiretto e latente” che, secondo una celebre interpretazione di Paolo Farneti, caratterizza storicamente “l’alienazione dalla politica” della borghesia italiana.

Nella seduta della Giunta Esecutiva i verbali registrano spesso delle interruzioni perché il Presidente Costa in più occasioni si apparta per chiedere telefonicamente ai membri del Governo notizie dettagliate sul Premio della Repubblica. Vengono contattati in ordine Corbino, De Gasperi e Campilli. 
A proposito della telefonata con De Gasperi, Costa riferisce, davanti ad un uditorio piuttosto freddo e contrariato, che il premier ha ricusato la richiesta di udienza degli industriali ed ha altresì comunicato che la decisione della revisione dei salari è irrevocabile. In nota: Verbale della riunione della Giunta Esecutiva del 10 luglio 1946: “Ho parlato in questo momento col Capo del Governo. Mi ha detto che è dispiacente di non poterci ricevere immediatamente perché è impegnato nella formazione del Governo. Ha spiegato che la questione del premio gli è stata presentata come se potesse essere accettata dagli industriali e che ha trovato l’accordo con il ministro Corbino (ndQ: Corbino poi si dimetterà, nel settembre 1946, data l'impopolarità delle politiche deflattive perseguite, "con l'aiuto decisivo del governatore della Banca d'ItaliaLuigi Einaudi"). Si tratta di una soluzione fra richieste di diverse entità, e purtroppo non si può tornare indietro.

Chiusa la parentesi dei contatti telefonici col governo, la riunione riprende poi sul tema della creazione del partito “antipartito” imprenditoriale, cioè dell’organizzazione dell’attività di lobbyng in funzione di una rappresentanza degli industriali il più possibile autonoma dai partiti esistenti. Alla fine l’idea che prevale, perché ritenuta la meno dispendiosa, è in primo luogo quella di lasciare alle associazioni territoriali aderenti alla Confederazione il compito di amministrare le sovvenzioni alle campagne elettorali e in secondo luogo – e su questo punto batte l’insistenza della Giunta Esecutiva – di stringere un giro di vite intorno all’informazione mediante:
a) interessamento diretto sulla proprietà della testata;
b) interessamento indiretto sulla proprietà della testata tramite gruppi amici e coordinati in una comune azione;
c) parziale copertura di disavanzi di gestione o comunque sovvenzioni a fondo perduto, con la promessa, quale contropartita, di determinati atteggiamenti (in nota: Archivio storico Confindustria, Considerazioni su di una possibile azione di coordinamento nel campo della stampa, Allegato 2, Stampa e propaganda, 1 luglio 1946).


Il “quarto partito” era nato. Restava solo da rodare la macchina. E le elezioni amministrative del novembre 1946 erano solo la prima occasione…
” [M. LUCIA SERGIO, De Gasperi e la questione socialista – L’anticomunismo democratico e l’alternativa riformista, Rubettino, 2004, 79-81].

3. Il seguito e le conseguenze attualizzate ce li spiega Lelio Basso:
… Le elezioni amministrative dell’autunno 1946, che segnarono per la democrazia cristiana una netta perdita di posizioni, agirono da campanello d’allarme; le pressioni americane e vaticane esercitate in quel periodo trovarono un terreno favorevole. In dicembre la rottura del tripartito e il nuovo orientamento a destra della democrazia cristiana eran già decisi e poco appresso attuati; correlativamente l’Uomo Qualunque veniva dagli industriali abbandonato al suo destino, e la destra democristiana, diventata la vera ispiratrice della politica del partito e del governo, spariva o quasi come frazione costituitaDe Gasperi annunciava ufficialmente il suo connubio col “quarto partito”, cioè COL PARTITO DEGLI INDUSTRIALI E DEGLI AGRARI…

Trovato il partito adatto alla nuova esperienza totalitaria, è necessario porre in essere gli strumenti perché questa visione totalitaria domini veramente tutta la vita dello stato. Questa azione si articola in due momenti distinti ma strettamente uniti: 
- creare un mito totalitario e farne il substrato dell’unità nazionale, dichiarando antinazionali e stranieri tutti coloro che rifiutano di accettare questo mito e che non sono d’accordo con la politica ufficiale, in modo da isolare le forze progressive
- in secondo luogo lottare contro queste ultime per indebolirle progressivamente ed escluderle dalla partecipazione reale alla vita del paese.

La tecnica del mito
è ormai conosciuta: tuttavia il suo contenuto varia a seconda delle circostanze. 
Il mito della razza pura e del dominio mondiale sugli altri popoli (hitlerismo), il mito dei destini imperiali di Roma (fascismo) furono caratterizzati da un contenuto attivo, cioè di aggressione;
MA IN UN PAESE LA CUI POLITICA UFFICIALE È QUELLA DELL’ASSERVIMENTO ALLO STRANIERO, COME L’ITALIA DI OGGI, sarebbe difficile poggiare su un mito di conquista imperiale; alla fase attuale appaiono quindi più confacenti dei miti negativi di difesa contro un immaginario pericolo e perciò di solidarietà di tutti i popoli (cosmopolitismo) , i quali miti presentano anche il vantaggio di offrire alle masse un capro espiatorio, indicato dalla classe dominante come responsabile di tutti i mali di cui le masse soffrono in realtà per le contraddizioni della società, cioè proprio per l’oppressione della classe dominante stessa: ... l’antisemitismo, la difesa della civiltà occidentale … appartengono a questo genere di miti a contenuto negativo. 
Il mito di conquista è riservato invece al popolo eletto, agli americani (mito del “secolo americano”, del “modo di vita americano”). 
Parallelamente chiunque non accetti di porsi sul terreno di queste false solidarietà nazionali, chiunque tenga fede a sé stesso, viene dichiarato nemico della comunità nazionale, posto al bando della società (“antinazionale” dei fascisti, “separatista” dei gollisti, unamerican della odierna propaganda ufficiale americana, “quinta colonna” secondo l’espressione di De Gasperi) …
L’ATTIVITÀ PARLAMENTARE È RIDOTTA A UNA MERA LUSTRA, in quanto non è più la maggioranza parlamentare che esprime il governo e gli traccia l’indirizzo politico, ma è il governo, o, meglio ancora, il ristretto gruppo dirigente del partito di governo, che si crea la sua maggioranza attraverso i metodi elettorali ben conosciuti e le prescrive la condotta sotto vincolo di disciplina. … gli elementi democratici vengono per quanto è possibile allontanati o messi in disparte. 
Il gruppo dominante si riduce così a pochi esponenti politici, AI MAGNATI DEL CAPITALE FINANZIARIO, ad alcuni alti papaveri della burocrazia, e, naturalmente, ai rappresentanti dell’America e del Vaticano.

NON VI È DUNQUE NULLA DI MUTATO NELLA SOSTANZA. Ancora una volta l’Italia si trova di fronte ai suoi problemi insoluti: … una classe dirigente incapace di iniziativa e decisa a vivere sempre più parassitariamente a carico della collettività, la crisi dei ceti medi più che mai pauperizzati e frantumati e anelanti soprattutto a un regime di stabilità e sicurezza, milioni di disoccupati e di sotto-occupati… 
E ancora una volta la classe dominante tende a ripercorrere la stessa falsa strada del passato, che consiste nell’evitare la soluzione facendo tacere i contrasti e così ignorando o addomesticando i problemi. Siamo convinti che la classe dominante in Italia non può più governare democraticamente il nostro paese, e che essa ha un’incoercibile tendenza a ristabilire in pieno il dominio totalitario, mutando naturalmente le forme e i nomi, e in parte anche i metodi, del suo governo, ed adattandoli al clima di questo secondo dopoguerra” [L. BASSO, Due totalitarismi: fascismo e Democrazia Cristiana, Milano, 1951, 280-291].

Pare proprio che ci toccherà cestinare il certificato elettorale…

domenica 15 dicembre 2019

AMATO, PRODI, LA POLITICA DEI REDDITI E I RISULTATI SUL MERCATO DEL LAVORO UE (DOPO SALVATAGGI ESM PER LA "STABILITA' FINANZIARIA" E QE "PER LA CRESCITA")

Questa ripubblicazione del post del 14 marzo 2018, non è una vera ripubblicazione: è più un remake aggiornato: in realtà, dalla traccia originaria, si sono rielaborati alcuni passaggi e AGGIORNATI i grafici relativi ai dati più significativi.


http://slideplayer.it/slide/2482260/8/images/3/Livio,+Storia+di+Roma+III,+34,+6:+(Lex+XII+Tabularum+est)+fons+omnis+publici+privatique+iuris..jpg
"Vuoi dunque che ripercorriamo l'origine del diritto rifacendoci alla sua fonte stessa? Una volta scopertala non vi è dubbio che dobbiamo riportare ad essa quanto stiamo indagando".

Risultati immagini per Schmitt  sovrano è colui che ha il potere di dichiarare lo stato di eccezione

1. Come spesso capita, Francesco ci lascia nei commenti degli spunti fondamentali e poi...mi tocca elaborarli per conservarli alla conoscenza generale dei lettori e sistemarli nel complessivo filo conduttore del blog (naturalmente Francesco va ringraziato e questo non costituisce un rimprovero).
Cominciamo da un punto che riguarda la spiccata tendenza di Giuliano Amato a "dirci in faccia" i veri scopi e i veri effetti dei trattati €uropei e quindi del c.d. "vincolo esterno".
Le affermazioni di Amato che riportiamo più sotto, meritano di essere attentamente considerate e rammentate, proprio per avere chiaro, senza le interferenze cosmetico-propagandistiche che caratterizzano la c.d. "rivoluzione liberale", il quadro in cui l'Italia si è mossa, almeno a partire dall'Atto Unico, che predeterminava il successivo trattato di Maastricht e la  fase operativa della stessa moneta unica
Quella stessa unione monetaria la cui venuta in esistenza, come obiettivo fondamentale della costruzione europea, risale al trattato del 1957, (qui p.5.1-5.3), almeno come impegno pattizio, culminando puntualmente nel Rapporto Werner del 1971, mentre la sua teorizzazione in chiave federativa è enunciata da Hayek e Einaudi tra il 1939 e i primi anni '40 (qui, pp.6.3.-6.5) del secolo scorso. 

2. Dunque lasciamo la parola ad un Amato che, nel 1989, (insieme naturalmente a Prodi), partecipa a un convegno sul tema "Moneta unica per l’Europa", (21 febbraio 1989, Roma, dibattito la cui registrazione trovate qui) e "non a caso" definisce senza mezzi termini la questione della sovranità e della sua cessione (non limitazione) irreversibile (almeno quanto, nelle intenzioni negoziali, e nelle recentissime dichiarazioni di Draghi, lo è l'euro):
Quando si insegna ad un ragazzino di primo anno all’università in che cosa consiste la sovranità, la prima cosa che gli si dice è “batter moneta”
Quindi c’è niente popò di meno quel problema lì di mezzo. Una volta si diceva “batti moneta e dichiara le guerre”. Ora pudicamente si dice “batti moneta e poi paga pensioni, stipendi”. Batter moneta come caratteristica dello Stato sovrano continua ad essere la prima cosa che viene in mente. E non a caso…”.
3. Le conseguenze di questa cessione di sovranità all'€uropa - e che l'€uropa reclama perentoriamente e senza mezzi termini -, perfettamente definita da Amato sul piano giuridico-costituzionale - che poi sia costituzionalmente anche legittima è tutto un altro discorso che Amato e...Prodi si guardano bene dall'affrontare- , sono contestualmente definite e preconizzate da Prodi:
… Questi sono i problemi più grossi che noi dobbiamo affrontare, insieme ovviamente al discorso dei costi relativi dell’inflazione. Ma su questo io non è che non ci stia perché non lo ritenga importante, ma perché è già stato così talmente sottolineato che non voglio aggiungere un’altra parola.
E’ stato talmente sottolineato da voler ricordare che, quando ci fu l’edesione italiana allo SME – me lo ricordo benissimo, perché coincise con quel quarto d’ora in cui sono stato Ministro dell’Industria (il problema non è durar molto, ma esserci negli appuntamenti storici!!) [risate] – quando ci fu quella discussione c’era perfettamente accordo, il Paese era d’accordo.

Il grosso problema era di trarne le conseguenze, cioè DI APPROFITTARE PER UNA IMMEDIATA NUOVA POLITICA DI TIPO SALARIALE, per quella che allora veniva chiamata, nella coda della terminologia, la “politica dei redditi” . Ma sull’accordo, sulla politica monetaria, il Paese già da allora era sostanzialmente d’accordo. Chi non lo era, era per paura, non perché non ci credesse. Diceva, “ma non ci indurre in tentazione”, cioè non esageriamo, insomma; ma l’Italia è stata sempre favorevole a questo.
Ed è abbastanza interessante perché, tutto sommato, nonostante non ci sia stato un adeguamento politico immediato…però successivamente l’adesione allo SME è stato quella specie DI FATTO CORROSIVO QUOTIDIANO CHE CI HA SPINTO AD AVERE POLITICHE LEGGERMENTE PIÙ SAGGE con il passare del tempo.

Quindi io non ritengo assolutamente che sia stato negativo, anzi CHE SIA STATO UN FATTO DI IMPORTANZA FONDAMENTALE. Anche se non ho dato mai importanza alla larghezza della “banda”, perché in materia monetaria quelle che contano sono le aspettative psicologiche. Per me l’idea che si debba litigare per avere la “banda” più larga degli altri, io non l’ho mai capita e non riuscirò mai a capirla, perché quando un Paese come l’Italia comincia a peggiorare, deve mollare il tutto, insomma…
” 
Chiosa Francesco nello stesso suo intervento: 
Tutti sapevano che cosa avrebbe significato l’€uro. Il vincolo esterno è stato utilizzato per condizionare la politica dei redditi, è stato cioè “il fatto corrosivo quotidiano che ci ha spinto ad avere politiche leggermente più sagge”. Politiche deflattive.  

4. Il "fatto corrosivo quotidiano", cioè la cessione di sovranità, e quindi, come ci insegna Amato, del potere di "battere moneta", ha quindi prodotto i suoi effetti; e questi effetti sono stati esattamente quelli che discendono dal parallelismo funzionale della moneta unica rispetto al gold standard. In particolare Carli li aveva, a sua volta, pre-descritti in modo "scultoreo" (sempre qui, p.8):
"L’argine contro il dilagare del potere d’acquisto che movendo dagli Stati Uniti minaccia di sommergere l’Europa, si continua a sostenere, potrebbe essere innalzato esclusivamente mediante il ripristino del gold standard. In realtà, concezioni del genere incontravano, un tempo, un coerente completamento nelle enunciazioni che attribuivano al meccanismo concorrenziale il compito di realizzare, mediante congrui adattamenti dei livelli salariali, il riequilibrio dei conti con l’estero.
Insomma, il ritorno alla convertibilità aurea generalizzata implicava governi autoritari, società costituite di plebi poverissime e poco istruite, desiderose solo di cibo, nelle quali la classe dirigente non stenta ad imporre riduzioni dei salari reali, a provocare scientemente disoccupazione, a ridurre lo sviluppo dell’economia."
5. Non può e neppure deve stupire, quindi, che oggi i media mainstream registrino, in una giaculatoria senza memoria di questi antecedenti ben precisi e intenzionali del paradigma €uropeo, questa realtà:
5.1. Si tratta naturalmente di una mezza verità, poiché nel 1989 la povertà non era assolutamente agli stessi livelli attuali: semplicemente il 1989 è stato l'anno in cui sono iniziate le relative rilevazioni statistiche omogeneamente confrontabili.
Perché non solo la povertà (assoluta e relativa) in Italia è giunta a livelli senza precedenti, almeno rispetto alla fine degli anni '80, solo a seguito dell'aggiustamento austero e credibile imposto dalla crisi del debito (commerciale, cioè da squilibri nei conti con l'estero) nell'eurozona, ma abbiamo pure assistito alla proliferazione del "nuovo", ma del pari voluto, fenomeno dei working poors (frutto naturale del "quotidiano fatto corrosivo" in cui sono consistite le politiche "più sagge" che additava Prodi):

http://www.programmazioneeconomica.gov.it/2017/12/18/andamenti-lungo-periodo-economia-italiana/#Quota%20di%20popolazione%20in%20povert%C3%A0%20assoluta%20per%20aree%20geografiche
La stima ISTAT mostra un lento aumento dell’incidenza della povertà assoluta in Italia nel 2007-2010 (dal 3,5% al 4%) e un’accelerazione nel 2011-13, con un picco del 6,3% delle famiglie italiane in povertà assoluta. Nel 2014 si manifesta un primo ridimensionamento dell’incidenza della povertà assoluta che scende al 5,7%. Il centro e il nord sono caratterizzati da un andamento analogo al dato nazionale, ma con livelli di povertà assoluta inferiori rispetto alla media nazionale di 1-2 punti percentuali, toccando nel 2014 il 4,2% di famiglie in povertà assoluta nel nord e il 4,8% nel centro. Il Mezzogiorno invece ha un livello maggiore di povertà assoluta, il quale cresce più che proporzionalmente rispetto al resto d’Italia dal 5,1% del 2010 al 10,1% del 2013, ma che nel 2014 beneficia di una riduzione più forte, scendendo all’8,6% di incidenza della povertà assoluta, pur rimanendo circa il doppio rispetto al centro-nord. Nel 2015-2016 la povertà assoluta aumenta al nord e al centro, calando moderatamente al sud.
La stima ISTAT dell’incidenza della povertà relativa mostra limitate oscillazioni a livello nazionale con un aumento dall’11,2% nel 2011 al 12,8% nel 2012. Tale aumento è più sensibile ed è continuato più a lungo nel Mezzogiorno, dove l’incidenza della povertà relativa à passata dal 19,1% nel 2009 al 23,6% nel 2014.

Quanto ai dati della povertà assoluta e relativa italiana, possiamo fornire, sempre dallo stesso sito gov.it, i dati aggiornati ultimi disponibili (all'ottobre 2019). Colpisce la stabilità, anzi il leggero aumento del dato complessivo, cui contribuisce il sensibile incremento, successivo al 2016, della povertà soprattutto assoluta, ma anche relativa, nell'area "Nord" dell'Italia:

La stima ISTAT mostra un lento aumento dell’incidenza della povertà assoluta in Italia nel 2007-2010 (dal 3,5% al 4%) e un’accelerazione nel 2011-13, con un picco del 6,3% delle famiglie italiane in povertà assoluta. Nel 2014 si manifesta un primo ridimensionamento dell’incidenza della povertà assoluta che scende al 5,7% ma ri-aumenta, con fluttuazioni negli anni successivi, raggiungendo il 7% nel 2018. Il centro e il nord sono caratterizzati da un andamento analogo al dato nazionale, ma con livelli di povertà assoluta inferiori rispetto alla media nazionale di 1-2 punti percentuali. Il Mezzogiorno invece ha un livello maggiore di povertà assoluta, il quale cresce più che proporzionalmente rispetto al resto d’Italia dal 5,1% del 2010 al 10,1% del 2013, per poi scendere temporaneamente e risalire, tornando nel 2018 al 10%.
La stima ISTAT dell’incidenza della povertà relativa mostra un aumento dall’11,2% nel 2011 al 15% nel 2018. Tale aumento è più sensibile ed è continuato più a lungo nel Mezzogiorno, dove l’incidenza della povertà relativa à passata dal 19,1% nel 2009 al 25,9% nel 2018.

Questi poi  i dati relativi all'Eu a 28 (o 27 che dir si voglia). Di cui forniamo un sottostante aggiornamento circa la variazione  (non avvenuta) dei working poors successivamente al QE ed ai "salvataggi" condizionali di ESFS e ESM: 

Fig.2 Dinamica delle percentuali di popolazione a rischio di povertà nell’area Euro e in alcuni dei paesi 2007 - 2015
 Image_0.png
NB: Aggiorniamo il dato dei lavoratori a rischio di povertà secondo gli ultimi dati Eurostat disponibili (2019). Ci dicono che tale percentuale è rimasta, nella media, e in modo impressionante, stabile, nonostante i pretesi effetti reflattivi (cioè espansivi) del QE intervenuto a partire dal 2015! Il dato è particolarmente "incongruo" rispetto alle dichiarazioni sulla "ripresa" fatte sia durante il QE, sia ribadite per giustificarne la cessazione (poi, come sappiamo, prontamente..."ripensata").



E sempre registrando, all'interno delle persone occupate a rischio di povertà, un numero incredibilmente alto (ancorché lievemente migliorato, ma di ben poco) di persone a rischio povertà nel "lavoro autonomo" (self-employed), indice che tale condizione di self-employment è sempre più una facciata contrattualistica e forzata che maschera la più spietata precarietà (dato che si unisce al costante aumento di lavori temporanei e di part-time involontari). Da notare, che il dato attuale, è comunque più alto, nel caso del lavoro autonomo, - ma pure in quello dei lavoratori dipendenti -, di quello registrato nella fase più "nera" della crisi del debito pubblico, nonostante i "salvataggi" messi in atto con ESFS e ESM, e sempre nonostante il QE, a indicare la colossale trasformazione in senso deflattivo del mercato del lavoro, operata in Ue (e nell'eurozona) per privilegiare la "stabilità finanziaria".
E, per altro, come mostrano le ultime vicende bancarie in Italia, nonché la notoria situazione bancaria in Germania, (tra Deustchebank da "salvare" e banche dei Lander già salvate), FALLENDO PURE NEL GARANTIRE LA STABILITA' FINANZIARIA.

6. Ma il 1989, non casualmente, è stato anche l'anno in cui Prodi e Amato auspicavano, come frutto di "politiche più sagge", esattamente questi effetti. "Sagge"...ma per chi? 
...E il paese "era d'accordo" veramente? Come e quando è stato interpellato informandolo in modo comprensibile da tutti gli elettori (duramente) interessati? 
I precedenti "referendari" non possono certo essere addotti come un argomento a sostegno, dato l'oggetto quantomeno opaco del quesito che fu posto nel mitico referendum sull'Europa del 1989, e, peraltro, anche l'inadempienza che ne seguì, rispetto agli esatti termini del pur opaco quesito, nei contenuti del successivo trattato di Maastricht (qui, pp. 6-9)!
Oggi, forse, il paese "scopre", votando, che non è, e non è mai stato, d'accordo: ma dipende da chi si debba ritenere legittimato a esprimere la volontà per tutto il paese.

7. Insomma, chi ha voluto, in un modo o nell'altro, lo ha fatto "al riparo dal processo elettorale".
E intende continuare a farlo... 
https://image.slidesharecdn.com/castelfidardo-150322171254-conversion-gate01/95/mmt-a-castelfidardo-sovranit-saldi-settoriali-eurozona-66-638.jpg?cb=1427045174 

Mario Monti cita Stefano Feltri ...le leve del potere sono ormai INESORABILMENTE ALTROVE

venerdì 13 dicembre 2019

IL PLEBISCITO ELETTORALE A FAVORE DI JOHNSON: QUANTO CI RIGUARDA (e breve manuale di diritto dell'eurozona)




1. Il voto di ieri nel Regno Unito è di grande interesse e non tanto  (o non solo) perché indica un sintomo della crisi dell'Unione europea: da questo punto di vista si tratta di una conseguenza quasi naturale della peculiarità della Gran Bretagna all'interno dei paesi-membri, tra i più (relativamente) "antichi" ed importanti.
Basti al riguardo un'osservazione oggettiva: il Regno Unito è l'unico paese non appartenente all'eurozona che sia anche un (notevole) contributore netto al bilancio Ue (si pensi che invece, dentro l'eurozona, ad es; Spagna, Portogallo e Grecia permangono come percettori netti, avendo quindi un interesse strutturale alla "permanenza" del tutto opposto a quello del Regno Unito..e dell'Italia). 
E questo pur avendo la Gran Bretagna fruito (a seguito di precedenti negoziati condotti dai governi britannici a tutela degli interessi nazionali) di un regime speciale di deroga, più favorevole (c.d. rebate), nel calcolo della sua contribuzione complessiva.

2. Quella sotto riportata, dunque, era la situazione complessiva di contributori e percettori netti al 2015 (stimata dunque alla vigilia del referendum sulla Brexit), calcolando che il contributo è agganciato al reddito nazionale lordo (parte del Pil effettivamente consumabile nel territorio nazionale) ed alla sua dinamica. E questo spiega perché, con la sua prolungata recessione e stagnazione, l'Italia abbia visto leggermente scendere, ma non troppo (se correttamente calcolato), il suo contributo complessivo e quindi quello netto (cioè somma versata strutturalmente in eccesso rispetto a quanto programmaticamente si possa ricevere dall'Ue. Anche se la Brexit, eliminando la contribuzione britannica, porterà a una riespansione della contribuzione italiana):

Risultati immagini per tabella 2019 dei paesi-membri dell'Ue che sono contribuenti netti e percettori netti al bilancio Ue

3. In altri termini, quale secondo contribuente netto, il Regno Unito, a seguito della mera Brexit, si ritrova a ad avere uno spazio di manovra di bilancio accresciuto di circa 10 miliardi di euro, pari a poco meno 0,4 punti di Pil, che può, senza alcun imposta o taglio di spesa aggiuntivi, risparmiare (per raggiungere un disavanzo di bilancio inferiore) o, appunto, convertire immediatamente in sgravi tributari o maggior spesa pubblica
Inoltre, per il resto della contribuzione, diciamo la parte a "prestazione corrispettiva", il Regno Unito disporrà di circa 0,7 punti di Pil di spazio fiscale, che potrà comunque destinare diversamente da quanto gli imponeva l'adesione ai programmi di spesa vincolati al bilancio Ue: potrà così, - e con l'aggiunta di 10 miliardi di risparmi "certi" -, scegliere di incentivare maggiormente la ricerca scientifica, il finanziamento di start-up o di imprese già esistenti, nei settori ritenuti strategici, come quello energetico e della mobilità, o potenziare il proprio sistema sanitario pubblico o quello infrastrutturale, combattendo la povertà mediante la creazione pubblica di posti di lavoro
Ed infatti, Boris Johnson, nella sua campagna elettorale ha molto enfatizzato questi temi - in particolare quello del rafforzamento della sanità pubblica-, relativi alla maggior capacità, derivante dall'uscita dall'Ue, di svolgere politiche fiscali e industriali più estese e più mirate alle esigenze del Paese.
Ed ha pure elaborato un piano di rilancio industriale in settori privilegiati ritenuti strategici (appunto, mobilità, fonti alternative connesse, ITC, risanamento urbanistico): più o meno criticabile, ma pur sempre indubitabile circa le..."coperture", fornite automaticamente dalla Brexit.
Ed è questo, un aspetto di non secondaria importanza nella vittoria elettorale di Johnson, che non ha registrato alcuna eco, o traccia, in Italia, dove, come abbiamo visto, si tende in radice, nella comunicazione mediatica e "ufficiale", a sottacere (o "rimuovere"), sia la realtà del nostro essere contribuenti netti all'Ue, sia l'aspetto della libertà di scegliere le specifiche priorità nelle politiche anticicliche e di rilancio della crescita che deriverebbero dal non essere più astretti dai programmi "one size fits for all" elaborati dal Consiglio Ue.

4. Di minor rilevanza è invece il voto britannico, - pacificamente interpretato appunto come una sonora sconfitta dei remainers -, sulla situazione italiana.
Uscire dall'Ue, non essendo membro dell'Unione monetaria, è un processo che, a stretto "diritto europeo" (se pure questa locuzione ponga capo a un quid sistematico, nonché comprensibile per i cittadini comuni), risulta ben più semplice e incontra meno resistenze (per lo meno "di facciata" o "per presa di posizione") negli altri partners
Le difficoltà triennali incontrate dalla Brexit, infatti, sono imputabili essenzialmente al "fronte interno", cioè al predisporsi delle forze politiche presenti al governo (con la May), e complessivamente in parlamento, ad una posizione ambigua e ondivaga sulla volontà di arrivare comunque ad attuare il risultato emerso dal referendum.
Abbiamo anche già visto come, per motivi istituzionali, sociologici e soprattutto storico-politici, riflessi nelle differenze profonde delle fonti costituzionali tra Italia e Uk, la riaffermazione di sovranità assuma un senso ben differente in ciascuno dei due ordinamenti: quello che differisce è il rispettivo concetto sostanziale di sovranità (profilo che, appunto, deriva da un'evidente diversità nella collocazione di Italia e Gran Bretagna nella "comunità delle Nazioni", se considerata in termini secolari, cioè a partire, indicativamente, dal XVII secolo, allorché si hanno le prime elaborazioni del moderno diritto internazionale, e quindi, del concetto formale di sovranità interna ed esterna).

5. Non di meno, - svolte queste osservazioni relative alla convenienza economica (per così dire fiscale), accomunante, e ad alla tradizione storico-politica connessa alla diversa posizione interna alla stessa Ue, invece divergente -, l'interpretazione delle elezioni britanniche come conferma quasi plebiscitaria della Brexit, ci rammenta alcuni altri elementi di diritto circa la posizione di Stato appartenente all'eurozona, elementi direttamente derivanti da espresse disposizioni dei trattati o del diritto europeo e che è bene rammentare:
a) l'Unione europea non coincide con l'Unione monetaria e la condizione di Stato-membro della prima non obbliga ad aderire alla seconda (si veda qui, e in particolare il punto 4, secondo una lettura confermata anche dal prof. Guarino, pagg. 4-10, e fondata sulla lettera univoca del paragrafo 4 dell'art.3 del TUE);

b) l'adesione all'eurozona è invece il presupposto vincolante del c.d. fiscal compact, per gli Stati della sola eurozona (art.14, par.5, del trattato stesso, v. qui, p.5): il fiscal compact, infatti, non vincola pleno jure gli Stati-membri Ue che non appartengano all'EZ, fino a quando non aderiscano formalmente alla stessa (quindi, prima dell'adesione, non gli si applica la procedura di infrazione ex art.126 TFUE, ove gli stessi, pur essendo eventuali parti dell'accordo intergovernativo del fiscal compact, violino la regola del deficit e/o del debito pubblico, rimanendo solo soggetti a un processo di monitoraggio non sanzionatorio da parte della Commissione; v.art. 139 TFUE che denomina tali paesi "con deroga");
c) la non obbligatorietà dell'adesione all'eurozona, per i paesi membri dell'Ue, è confermata anche dal noto discorso di "commiato" di Barroso, assunto nelle sue basi giuridiche e non nel suo "wishful thinking" politico (ovvero, palesemente, de iure condendo, ancora inesistente);

d) la stessa Unione bancaria, con la sua interminabile regulation e soft law, attuativa e sanzionatoria, è geneticamente applicabile ai soli paesi dell'eurozona;
e) infine, anche l'ESM si applica ai soli paesi dell'eurozona e, cosa più importante, nella sua versione attuale, conferma come l'adesione all'euro non sia un obbligo gravante sugli Stati-membri che non vi abbiano aderito, e, inoltre, che la stessa adesione all'ESM non sia affatto obbligatoria, ma condizionalmente ritenuta auspicabile, per gli stessi membri dell'eurozona.
e1) In tal senso milita anzitutto il fatto che, per poter istituire l'ESM sia stata adottata una decisione unanime modificativa del trattato (aggiungendovi l'art.136, par.3), e che il Fondo, e la sua riforma, siano frutto di un accordo intergovernativo: cioè di un (ulteriore) consenso unanime di cui non ci sarebbe stato bisogno se l'istituzione del Fondo fosse stata prevista come obbligatoria anzi che, com'è nell'art.136, par.3, come "facoltativa" ("possono istituire").
e2) E un'indicazione di grande attualità, confermativa di questa (evidente) interpretazione letterale, la si ritrae dallo stesso testo della riforma ESM (specialmente se visto nella sua originaria versione in inglese), nello stesso originario "considerando (7)": 
(7) Tutti gli Stati membri della zona euro diventeranno membri del MES. Per effetto dell'adesione alla zona euro, lo Stato membro dell'Unione europea dovrebbe diventare membro del MES con gli stessi diritti e obblighi delle parti contraenti.
5.1. Risulta evidente che gli Stati membri della zona euro "diventeranno" membri del MES, perché gli hanno dato vita trovando l'accordo unanime originario del 2 febbraio 2012, e quindi il testo dell'accordo non può che prendere atto della sua base di volontà costitutiva degli Stati stessi; tuttavia, qualora uno Stato-membro dell'Ue aderisse alla zona euro (per sua scelta facoltativa e comunque non sanzionata dai trattati), dovrebbe e non "dovrà" diventare membro del MES: proprio perché anche entrando nell'eurozona non si è vincolati, in virtù dell'art.136, par.3, a essere parte di un distinto accordo intergovernativo previsto come facoltà (e non obbligo) dallo stesso art.136.
Il che riguarda a pieno titolo l'Italia nella sua eventuale volontà di prestare il suo consenso alla riforma: nessuno la può obbligare.