lunedì 7 ottobre 2019

L'ITALIA CRESCE MENO? CERTO, ESSENZIALMENTE A CAUSA DEL GAP DELLA SPESA CORRENTE. Sì CORRENTE: QUELLA CHE INCIDE DI PIU' SULLE VOSTRE VITE (anche se ogni giorno vi dicono il contrario, da decenni)


Premessa (che dovrebbe essere ovvia ma ovvia non è, per cui pare opportuno ripeterla; qui, p.1 che risale al 2013, purtroppo):
La crisi italiana è una crisi da domanda, innescata da un vincolo monetario che, tra tassi di cambio reale e dottrina della banca centrale indipendente, ha cumulato i suoi effetti per anni, portando alla attuale incapacità italiana di reggere qualsiasi crisi esterna tra quelle che un mondo, complessivamente in mano al capitalismo finanziario, avrebbe inevitabilmente prodotto (aggiungiamo: oggi ne abbiamo la conferma ancora più eclatante, tanto che Larry Summers parla di stagnazione secolare, legata ad una caduta permanente della domanda, diffusa in tutto il mondo, ma particolarmente e, soprattutto, strutturalmente e "istituzionalmente" più acuta nei paesi dell'Unione monetaria). Coinvolge tutta l'UEM, e con essa il mondo, perchè l'Italia non è il paesello che il PUD€ ci propina a reti unificate, terrorizzandoci con la storiella della "liretta" e altre oscene inesattezze. Dobbiamo ancora dimostrare che è una crisi da domanda, che deriva dall'applicazione delle teorie monetariste e neo-classiche che sulla repressione della domanda, in termini di deflazione salariale e di banca centrale volta esclusivamente al controllo della stabilità dei prezzi, impera incontrastata (ormai solo) in Europa? 

Fate voi, a me parrebbe persino eccessivo ritornarci sopra. Abbiamo più volte analizzato come della domanda aggregata, cioè del PIL, non solo la spesa pubblica sia una componente positiva fondamentale, ma addirittura "centrale", per la sua capacità, unica, di attivare il moltiplicatore in funzione anti-ciclica. Molto più dei pretesi sgravi tributari che ci riportano...ad Haavelmo.
1. Nell'affrontare il tema indicato nel titolo, che è poi quello del ruolo e del "livello" della spesa pubblica, muoverei da una "ammissione" che, a suo tempo, apparve in qualche modo "epocale", come infatti a suo tempo riportammo in questi termini
"Anche se la notizia è passata senza che le fosse dato un particolare risalto, - considerando che le TV a reti unificate continuano a spiegarci che il male dell'Italia è l'enorme spesa pubblica, chiamando puntualmente espertologi, sedicenti economisti, a spiegarcelouna specie di clamoroso "contrordine" è arrivato.
Venerdì 18 marzo, tornando da Milano, mi imbatto, su vari quotidiani, in un "annuncio a sorpresa" di Padoan; "La Repubblica" gli dedica un trafiletto, ma su "Il Messaggero", (pag.13), c'è un vero e proprio articolo con tanto di commento.
Padoan, mentre starebbe per essere approvata la "flessibilità" di bilancio per il 2016, si arma di dati, che sono sempre stati disponibili, per dare "una risposta alla lettera con la quale l'Unione europea ha messo sotto osservazione l'Italia, sottolineando, tra i punti a sfavore, proprio i risultati poco brillanti della spending review".

...Di questo argomento, in realtà abbiamo parlato, da anni, in lungo e in largo: citando Haveelmoil moltiplicatore, l'incidenza della spesa pubblica corrente sul PIL; la causazione effettiva, per via di interessi cumulati conseguenti a divorzio e "vincolo esterno", dell'innalzamento del rapporto debito pubblico su PIL, e via dicendo.
Ma è estremamente interessante vedere le argomentazioni e i dati richiamati da Padoan a sostegno della propria risposta.
Anzitutto: "Sui tagli alla spesa l'Italia non ha fatto poco, ma tanto. Anzi troppo. Al punto che oggi potrebbe non essere più possibile effettuare nuove profonde sforbiciate al bilancio dello Stato".
I dati forniti dal Ministero dell'economia sono eloquenti: 
"tra il 2009 e il 2014, secondo le tabelle del Tesoro, l'Italia ha contenuto l'incremento della spesa primaria corrente all'1,4%, l'aumento più basso tra tutte le economie del mondoIn Germania e in Francia, nello stesso periodo, la spesa è salita del 12%, con una media nell'Unione europea del 9%. Tra il 2014 e il 2016, come evidenzia un'altra tabella, i risparmi, grazie alla revisione della spesa, sono stati di 25 miliardi di euro".


2. Il "contrordine" (epocale?) per quel governo, durò tuttavia, come evidenziano le circostanze in cui quei "dati" vennero ufficialmente utilizzati, lo spazio di una trattativa annuale, con la Commissione Ue (nell'ambito delle procedure di sorveglianza rafforzata del bilancio dei singoli stati, note come two packs). 
E tale dialettica, in cui il governo italiano risulta sistematicamente "perdente", poiché qualunque suo sforzo prolungato, se non permanente, viene considerato insufficiente e/o irrilevante dalla Commissione, vale in realtà per qualsiasi governo succedutosi a partire dai primi anni '90 del secolo scorso, come attesta l'accurato "studio Giarda" del 2011-2012, in cui si svolse un'analisi che attestava come la dinamica della crescita nominale della spesa primaria (cioè al netto degli interessi) italiana, fosse da decenni sotto la media europea (v. pp. 6-8 dove si spiega come motivi strutturali di benessere e sussistenza "minima", garantiti dagli Stati democratici, siano alla base del costante aumento della spesa pubblica, quantomeno in termini assoluti, se non rispetto al Pil, in tutti i paesei che potremmo definire "progrediti"); anzi tale crescita della spesa, già allora, risultava una delle più basse in assoluto entro i paesi OCSE, e certamente inferiore a quella di paesi strettamente comparabili, per dimensioni demografiche e produttive, nonché per assetto istituzionale (cioè: appartenenza all'eurozona). 

2.1. Vale la pena di rammentare, come significativo precedente alla "svolta" di Padoan, la polemica che fu sollevata, al tempo della (seconda) grande recessione italiana 2011-2014, determinata dalle politiche di austerità perseguite in sequenza dai governi Monti e Letta; ciò allorché Saccomanni era il ministro dell'Economia; parliamo del giugno del 2013 (cfr. p.2). 
Anche allora la questione sollevata era quanto sforzo di riduzione della spesa pubblica fosse richiedibile durante una recessione e, comunque, imprimendo una forte spinta pro-ciclica, col consueto atteggiamento intransigente e paternalistico, da parte della Commissione, insensibile alle conseguenze recessive, ma soprattutto di tenuta sociale (ben prevedibili ma costantemente ignorate in sede Ue), di quelle politiche di consolidamento fiscale (che sono esattamente le stesse di oggi).

2.2. E' un articolo del 2013 de La Stampa a rivelarci un retroscena, o meglio uno scenario costante, riguardo alle attitudini, diciamo culturali e psicologiche, che orientano la "sorveglianza" della Commissione. Citiamo quanto allora riportato dalla prestigiosa testata:
"Partiamo da questo articolo de La Stampa. Dove,..,ci si interroga: "E l'intero stato maggiore berlusconiano manifesta sorpresa che un fior di tecnico come Saccomanni non sia ancora riuscito a raschiare dal fondo del barile le coperture necessarie per scongiurare l'aumento Iva (2 miliardi nel 2013, 4 miliardi a regime). Quasi una briciola, protestano scandalizzati, a fronte di una spesa pubblica monstre: possibile che non se ne venga a capo?" Aggiungendo "«Saccomanni prenda personalmente in mano le leve», lo incalzano nel Pdl, «e soprattutto punti con decisione i piedi in Europa».
Dove il cerbero occhiuto da combattere, quello che ci vieta di sforare i conti o anche solo di provarci, viene additato nel direttore generale degli Affari Economici e Finanziari della Commissione europea, l'uomo che materialmente stila le raccomandazioni ai vari Paesi, dà o leva le patenti di affidabilità finanziaria. Germanico come Frau Merkel? Niente affatto.
È Marco Buti, italianissimo. Ma, se possibile, ancora più inflessibile di un tedesco. Gli viene rimproverato da destra (e anche un po' da sinistra) di essere troppo «europeo», insomma di non muovere un dito per la Patria in pericolo, diversamente dai super-funzionari francofoni e anglofoni.
Anzi, nel timore di non apparire equanime, di trattarci con una severità che sconfinerebbe nel sadismo... Per cui Saccomanni, sempre nella visione barricadera del Pdl, dovrebbe affrettarsi a mettere in riga Buti e tutti quelli che un profetico Giorgio Gaber, nel '73, già bollava come «i tecnocrati italiani».

3. Il problema sempre più drammatico è che l'insufficiente dinamica della spesa pubblica, ovvero sua sostanziale stagnazione in termini nominali e diminuzione in termini reali (cioè al netto dell'inflazione) è proseguita e anzi si è aggravata: appunto a causa della cogenza, fortemente sanzionatoria, di questo scenario della sorveglianza di bilancio, e delle regole macroeconomiche fondate, com'è noto, sul fiscal compact e, com'è meno noto,  sui modelli macroeconomici che disciplinano l'eurozona, incentrati sulla funzione della produzione e che misurano l'output-gap. 
Si tratta cioè, di modelli "supply side" che imputano invariabilmente i problemi di crescita alla mancata innovazione tecnologica e al sempre insufficiente taglio del costo del lavoro e della spesa pubblica, non riuscendo però a spiegare come mai l'Italia sia sotto la media dell'inflazione dell'eurozona che già, nel suo complesso, è ben lontana dal target "prossimo e al di sotto al 2% che sembra preoccupare la BCE e la Commissione...ma forse non tanto (v. qui, pp.4 e seguenti e link relativi nonché qui, circa il clima politico rigido e puntiglioso che contrappone gli Stati-membri dell'Ue che hanno problemi di crescita nel mantenere la "sostenibilità fiscale" austera, a quelli che vogliono mutamenti ancor più aspri delle regole deflazioniste che governano l'eurozona e che, oggettivamente, controllano la Commissione e le istituzioni attuali e future dell'EZ stessa).

4. Di questa prosecuzione in aggravamento dell'eccessiva compressione della spesa pubblica, soprattutto corrente (ovviamente sono coinvolti anche gli investimenti pubblici, ma per questi il problema è condiviso in tutti i paesi dell'eurozona, come vedremo), ci dà conto questo diffuso studio pubblicato a luglio 2019 su di cui consigliamo la lettura per esteso. Sebbene, non ne condividiamo del tutto la "consueta" conclusione: cioè che tutto si risolva con l'incremento degli investimenti pubblici, data, invece, la congiuntura attuale e le esigenze a breve termine di stimolare un'adeguata crescita per scongiurare l'applicazione fortemente punitiva, se non disastrosa, del nuovo assetto dell'eurozona che deriverà, presto, dall'applicazione della "riforma dell'ESM".

Nello studio in questione, manca l'aggiornamento del dato relativo alla spesa pubblica primaria pro-capite in termini reali, quale risultava dal grafico sottostante (più volte qui riportato, su dati AMECO), fermo ai primi mesi del 2014, ma descrivente una dinamica che, traendo dal complesso degli andamenti complessivi, non può che aver registrato un trend di ulteriore flessione:
http://www.genitoritosti.it/wp-content/uploads/2015/02/perri-realfonzo.jpg
Ed infatti, tra i molti punti di vista descrittivi dell'andamento della spesa pubblica in Italia, vi sottoponiamo i principali grafici, appunto aggiornati, pertinenti al discorso qui svolto (nel caso, delimitati al confronto tra Italia e Germania). Tutti dati tratti da Eurostat, e dunque ufficiali.

4.1. Abbiamo anzitutto il paragone tra l'ammontare assoluto della spesa "primaria" (cioè al netto degli interessi corrisposti sul rispettivo debito pubblico) in termini assoluti. 

Come si evince, dopo il 2014, la piattezza della crescita, cioè della "variazione", della spesa pubblica italiana è appena mitigata, mentre in Germania è risultata decisamente superiore. In termini assoluti e di variazione: ergo, già qui si ha un'immediata spiegabilità dei differenziali di crescita del PIL tra i due paesi che ben poco ha a che fare con presunte diverse efficienze derivanti dall'investimento in nuove tecnologie.
E questo considerando, rammentiamolo ancora, che la spesa primaria è una componente positiva del PIL; e quindi ne spiega la variazione positiva, secondo un impatto misurabile con un "moltiplicatore fiscale" che è, peraltro, differenziabile per i vari tipi di spesa pubblica ma che è comunque largamente superiore al moltiplicatore dello sgravio fiscale. Cosa da tenere sempre a mente, specialmente in fasi di stagnazione-recessione.

4.2. Riportiamo anche il grafico relativo alla spesa pubblica primaria "pro capite", sempre in termini assoluti (e non in percentuale al PIL), e peraltro nominale, cioè non al netto dell'inflazione:


La spesa pubblica pro-capite assoluta ci rende una dato comparabile al netto della differente consistenza demografica dei due rispettivi paesi, cioè ci dice quanto il singolo cittadino, o residente (legale), nel paese possa attendersi come volume quantitativo e livello qualitativo di servizi e utilità erogate dall'apparato pubblico. E notare che la Germania, è storicamente nota per la sua "sobrietà" nella spesa pubblica e per la sua ossessione di realizzare un alto risparmio, cioè un alto livello di reddito non speso, pubblico e privato (preferibilmente grazie alle esportazioni). Se un'analoga comparazione fosse compiuta con la spesa pro-capite primaria nominale, in termini assoluti, essa risulterebbe ancor più impietosa, nello spiegare differenziali di crescita e, peraltro, di volume e livello delle prestazioni pubbliche erogate ai rispettivi cittadini.

4.3. Al riguardo, basti verificare l'attuale ammontare della spesa pubblica pro-capite, complessiva (inclusi gli interessi sul debito, cosa che ci svantaggia nelle "classifiche" di questo tipo, come dovrebbe essere chiaro a tutti) redatta dall'OCSE per gli Stati ad essa aderenti (i dati sono in dollari e per il 2015; nella pagina linkata c'è un'apposita tendina con cui ottenere il dato della spesa pubblica pro-capite, graduato in una "classifica" paese per paese).
Come può verificare il lettore paziente, la Francia (che, appunto, sostiene un onere degli interessi sul debito pubblico nettamente inferiore al nostro) ha una spesa pubblica pro-capite ancora superiore a quella tedesca e, quindi, ben superiore a quella italiana; mentre ai vertici assoluti mondiali ci sono paesi pretesamente "virtuosi" come il Lussemburgo, l'Austria, la Finlandia...nonché la stessa Olanda, la cui spesa pro-capite è (sorpresa!) di poco inferiore a quella francese e ampiamente superiore a quella tedesca; e quindi a fortiori a quella italiana.  

5. Ma detto questo, cerchiamo, nella spiegazione dei differenziali di crescita coi paesi più "simili" dell'eurozona, di andare oltre alla mera quantificazione della spesa pubblica assoluta, generale o primaria che sia, e di distinguere all'interno del dato per tipologie di spesa pubblica.
Qui sotto abbiamo un'analisi per grandi aggregati della spesa pubblica e delle componenti del PIL, comparata con Francia e Germania, cumulati nel periodo 2015-2018 (fino al III° trimestre, che coincide con la parte finale e "attenuata" del QE): e questo avendo riguardo all'andamento della variazione di ciascun componente e all'incidenza consequenziale sulla crescita del PIL stesso, (correlata all'articolo linkato nel tweet con cui inizia questo post).

Immagine

Il risultato che scaturisce dalla comparazione con Francia e Germania, - ed è limitato al periodo 2015-2018, in cui si verifica la "proclamata" ripresa dell'economia dell'eurozona, in costanza di QE -, è particolarmente interessante.
Infatti stiamo considerando un periodo di presunte politiche "espansive" (monetarie e, si supponeva, per conseguenza fiscali) che, pure, come abbiamo visto sopra, hanno visto una minor stagnazione della spesa primaria italiana. 
Cioè, la deduzione che se ne può trarre circa le ragioni del differenziale (negativo) di crescita italiana rispetto agli altri principali paesi dell'EZ (in realtà rispetto a tutti..), risulta ancora più logica proprio perché ciò significa che in periodi non emergenziali di austerità, quando la spesa pubblica primaria italiana prova timidamente a crescere in termini nominali, anziché rimanere costante (e quindi diminuire in termini reali), la crescita da "fanalino di coda" si accompagna a una minor variazione della spesa pubblica, ancor più divaricata rispetto agli altri paesi.
La conclusione che ne è tratta, però va circostanziata ponendo attenzione non tanto alla spesa per investimenti pubblici, in cui il differenziale - sia in termini di variazione che di contributo alla crescita rispettiva -, è modesto, quanto su quella corrente, in "consumi".

5.1. In questi termini maggiormente analitici emerge che la determinante del differenziale di crescita tra Italia e i paesi approssimativamente più comparabili dell'EZ (per struttura industriale e, principalmente, per grandezza demografica) non sta nel volume degli investimenti, in particolare pubblici (che risultano altrettanto "scarsi" in Germania e in Francia, in termini di contributo alla variazione del Pil), come è ipotizzato nello studio linkato più sopra esaminato. 
Si può dire, anzi, che questa dell'incremento dell'investimento pubblico come unica soluzione "dicibile" alla crescita del Pil sia una "vulgata" che si trascina almeno dalla fine degli anni '90, e certamente accentuatasi fortemente nella fase finale della doppia recessione seguita alla crisi finanziaria globale del 2008.

6. Per contro, la più evidente soluzione al "giallo", auto-colpevolizzante per noi (spendiamo troppo in pensioni, sprechiamo troppo in spesa corrente, magari a causa della corruzione...percepita, v. qui e qui, pp. 1-2), è esattamente l'opposto di tale vulgata: il differenziale di crescita rispetto a Francia e Germania, che gioca un ruolo decisivo nel mancato abbassamento del rapporto debito/PIL (a sua volta alla base del costante e minaccioso monitoraggio della Commissione nei confronti dell'Italia), è dato dal differenziale nella varazione in aumento della spesa corrente.
I consumi della p.a. (italiana) non solo ristagnano (ovvero diminuiscono vistosamente in termini reali, se si applicasse il deflatore), mentre invece negli altri paesi, contemporaneamente, aumentano; ma, com'è evidente, il loro contributo alla variazione del PIL è praticamente nullo.
Il differenziale di crescita del PIL nel suo insieme, obiettivamente rapportato ai rispettivi contributi alla crescita di Francia e Germania dati dalla variazione della spesa corrente, è quasi esattamente corrispondente, al differenziale della spesa corrente. 

7. Dunque: la stagnazione (ovvero diminuzione in termini reali) nella spesa pubblica per acquisti di beni e servizi sul mercato (anche del lavoro: parliamo anche di variazione complessiva delle retribuzioni del personale pubblico e del continuo diminuire delle unità falcidiate dal blocco del turn over), è il motivo, quasi interamente in sé autoevidente e autoesplicativo, della minor crescita italiana. 
Ma questo fatto (non esclusivamente contabile), avuto riguardo alla realtà del fenomeno nell'economia reale, non deve affatto sorprendere: la spesa corrente non è altro che stipendi per forze dell'ordine, vigili del fuoco, insegnanti, medici e infermieri, nonché, si tende a dimenticare, forniture di beni e servizi, o esecuzione di lavori pubblici di elementare manutenzione di strade, fognature, argini e segnaletica (per dire il minimo) funzionali a tali compiti e altrettanto indispensabili.
Naturalmente ciò include la manutenzione, la salubrità e il riscaldamento di scuole e ospedali, e delle sedi delle forze dell'ordine e dei vigili del fuoco, il rifornimento di carburante e la manutenzione dei mezzi indispensabili per lo svolgimento dei loro compiti, e via dicendo. Fino ad arrivare alle unità di personale e ai mezzi materiali a disposizione di chi debba effettuare i controlli, ma anche gli eventuali affidamenti di forniture e lavori pubblici, sulle grandi infrastrutture del paese; da quella ferroviarie a quelle della rete stradale e autostradale. 
Quindi, l'austerità fiscale, imposta dalla logica dei "conti in ordine", che,  quando si arriva a considerare la spesa corrente, si tende a considerare quasi illimitatamente effettuabile senza effetti negativi per l'economia reale, (e in ogni fase del ciclo economico!), implica contemporanemente sia il deterioramento delle funzioni pubbliche e dei servizi più essenziali erogati ai cittadini, che la mancata crescita a causa della quale, in sostanza (anche se finge di non capirlo) la Commissione, ci imputa la violazione della regola del debito.

8. Quanto  finora "svelato" relativamente alla crescita italiana, sempre colpevolizzata come "fanalino di coda", nonché al livello di benessere dei singoli cittadini e residenti in Italia, non è privo di un altro risvolto che, senza alcun stupore (ormai), è del tutto trascurato.
E tale risvolto risponde alla consueta domanda: questo impoverimento, questa crescita fiscalmente compressa dall'esigenza di ottemperarare alla "sorveglianza" di bilancio effettuata dalle autorità preposte all'eurozona, è costituzionalmente legittima
E' costituzionalmente compatibile con il concetto sostanziale, - oggi coperto da una fitta coltre di biasimo e di indignata "censura" morale e politica -, di sovranità popolare del lavoro assunto dalle norme fondamentali della nostra Costituzione?
Di questo argomento, così cruciale e radicalmente costituzional-legalitario rispetto "agli obblighi derivanti dall'adesione all'Unione economica e monetaria europea", abbiamo ampiamente parlato, nel corso degli anni; mi limito a rinviare ai due links posti nel periodo che precede e ad aggiungere l'analisi di come, a questo fondamentalissimo profilo di costituzionalità, la Corte costituzionale, abbia dato risposte sempre più evasive e contraddittorie, in derivazione di uno storico errore di comprensione macroeconomica della realtà "politica" del liberoscambismo, che affonda le sue radici in una cultura "giudiziaria" sopravvenuta che risulta, evidentemente, dissonante da quella, raffinatamente economica, dei Costituenti. 

8.1. Mi pare però in un certo qual modo rilevante riportare il passaggio fondamentale di uno studio di un valente giurista, (peraltro "non costituzionalista"), dal titolo "Il costo dei diritti e della loro tutela".
Anticipiamo che tale autore pone inizialmente la questione in termini corretti, ma poi rifluisce in una lettura che, purtroppo, finisce nell'errore, (che è ormai un riflesso generalizzato dell'interpretazione giuridica, avulsa dalla comprensione macroeconomica), di considerare le norme fondamentali della Costituzione, come gerarchicamente equiparate al principio, di stretta derivazione Ue, del pareggio di bilancio.
Al costrutto del pareggio di bilancio viene con ciò, implicitamente ma necessariamente, attribuito un valore fondante di tipo "costituente" a titolo originario, come se un tale processo fosse legittimamente devoluto al costituente derivato, cioè al legislatore in sede di revisione costituzionale; e tutto ciò, al di là di ogni limite (o controlimite) ricavabile dagli artt.139 e 11 della Costituzione in tema di diritti fondamentali riconducibili all'art.3, comma 2, Cost. (quali intesi dalla stessa Corte costituzionale senza, però, mai trarne delle conseguenze concrete; v. qui, p11). 
La rimozione di questo fondamentale problema, che è quello in definitiva della "presunta" prevalenza dei trattati Ue sulle norme costituzionali qualificanti e inderogabili di un ordinamento sovrano democratico, (che persino la Corte costituzionale tedesca ritiene inaccettabile), da un lato dimostra come la Corte costituzionale stenti ad arginare quelle conseguenze di illegalità costituzionale sostanziale che, più sopra, abbiamo visto correlarsi all'idea della natura neutrale o, addirittura, "innocua" del taglio della spesa pubblica corrente, dall'altro confermano l'incapacità della Corte a collegare questo crescente e inammissibile "vulnus" (alla democrazia sostanziale costituzionale) all'ideologia economica racchiusa nei trattati Ue e nelle regole derivate che disciplinano l'eurozona
Vedremo come lo scritto si collega proprio all'art.3, comma 2, Cost, fondamento bassiano (qui, punti 7-8) della democrazia sostanziale e, secondo Mortati, "necessitata", v. p.4-4.1(una formula ormai oggetto di venerazione puramente formale, ma disattivato per via dei trattati e della giurisprudenza che li considera, nella sostanza, insindacabili):
Sia pure in modo non del tutto esplicito, dalla giurisprudenza della nostra Corte si può arguire come essa ritenga che il parametro costituzionale del livello essenziale delle prestazioni (art. 117, secondo comma, lett. m), Cost.) non debba essere inteso come una diminuzione delle potenzialità espansive del precetto di uguaglianza sostanziale contenuto nell’art. 3, secondo comma, Cost. bensì come presidio invalicabile del limite oltre il quale l’intervento legislativo non può comprimere l’erogazione delle prestazioni necessarie per il soddisfacimento dei diritti sociali. La scelta di qualificare tali prestazioni come “essenziali” anziché “minime” non è priva di conseguenze ermeneutiche. La definizione di livelli minimi sembra maggiormente attagliarsi ai livelli che il sistema pubblico riesce a garantire a fronte di una dotazione vincolata di risorse, a prescindere dai principi ispiratori dello stesso sistema di erogazione. Secondo tale interpretazione letterale della norma, la valenza di “minimo” sembrerebbe, pertanto, riferita non alla situazione di bisogno del fruitore del servizio, bensì alla capacità finanziaria del sistema di erogazione dei servizi [1]Al contrario, una volta idealmente individuate come essenziali alcune prestazioni, la politica economica e finanziaria dello Stato e delle Regioni dovrebbe essere impostata alla loro concreta erogazione, senza mai modellare le prestazioni erogabili in relazione alle risorse disponibili, così da non diminuire in alcun modo la garanzia della tutela dei diritti civili e sociali delle persone.Una lettura sistematica dell’ordinamento, che tenga conto anche delle sopravvenute modifiche all’art. 81 Cost., porta a mitigare l’assolutezza di questa affermazione. 
Alla luce dell’attuale formulazione del citato articolo, secondo parte dei commentatori, il parametro del bisogno andrebbe ricostruito tenendo in considerazione le risorse disponibili, senza per questo, ovviamente, ripudiare le esigenze proprie dell’individuo. D’altro canto, la mancata valutazione delle esigenze di bilancio potrebbe comportare la compromissione non solo dell’equilibrio macroeconomico dello Stato ma anche della capacità competitiva del sistema paese con l’impossibilità di soddisfare i bisogni complessivi della collettività [1].

Ecco: una lettura sistematica dell'ordinamento, deve tenere conto che, fra le sue premesse inderogabili, come pre-condizione alla realizzazione della legalità democratica, ci sono la gerarchia delle fonti e l'obbligo degli organi di garanzia, tutti, di comprendere il fondamento della Repubblica "nel lavoro" e nella coessenzialità dei diritti sociali fondamentali.
Nell'art.3, all'obbligo di attivazione dello Stato affinché garantisca l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese, non è aggiunto "nei limiti delle risorse disponibili adottando una moneta di cui non si ha il potere di emissione e che funziona, all'interno dell'eurozona, in modo ancor più rigido del gold standard".

E nessun obbligo derivante da trattati, conformi all'autentico senso che i Costituenti intesero dare all'art.11 Cost., avrebbe potuto aggiungere una tale condizione restrittiva del principio-cardine della nostra democrazia. 
Quello che non si può fare, a pena di far saltare il "cuore" del nostro ordinamento democratico (come evidenziava Calamandrei), non si può fare: non bastano artifici logico-giuridici che non possono che reggersi sulla dimenticanza della volontà sostanziale, inequivoca, dei Costituenti.
Ma questi sono appunto i concetti che segnano l'antica incomprensione della Corte di quella cultura economico-democratica che caratterizzò il Potere Costituente: che oggi si vorrebbe rendere un mero reperto storico, per celebrazioni di ossequio formale "alla memoria" di qualcosa che "fu": ma non è più.
In nome dell'€uropa.


[1] G. COCCO, I livelli essenziali delle prestazioni, in Studi in onore di Gianni Ferrara, Vol. II, Torino 2005; A. D’ALOIA, Diritti e stato autonomistici. Il modello dei livelli essenziali delle prestazioni, in Le Regioni n. 6/2003, 1063 ss.; O. CHESSA, Libertà fondamentali e teoria costituzionale, Milano, 2003;. R. BIN, Diritti fondamentali e fraintendimenti, in Ragion Pratica, 2000.; G. CORSO, Welfare e Stato federale: uguaglianza e diversità nelle prestazioni, in A.A. V.V., Regionalismo, federalismo, welfare State, Milano, 1997. P. RESCISGNO, Scelte tragiche, in Malattie rare: la ricerca tra etica e diritto, (a cura di) S. PANUNZIO e G. RECCHIA, Milano, 2007, 17 ss



[1] Una conferma in tal senso è rappresentata dalla legge 30 novembre 1989, n. 386, di coordinamento della finanza delle Regioni e delle Province autonome con la riforma tributaria, il cui art. 5 afferma che le Province Autonome partecipano alla ripartizione dei fondi speciali istituiti per garantire livelli minimi di prestazioni in modo uniforme su tutto il territorio nazionale: cfr. E. BALDONI, Il concetto di “livelli essenziali e uniformi” come garanzia in materia di diritti sociali”, in Le istituzioni del federalismo, 6/2001, 1103 ss.












6 commenti:

  1. Demonizzare la spesa corrente sul piano politico-ideologico del resto è coerente col proporre sul piano giuridico un’interpretazione “involutiva” del concetto di sovranità popolare, che sappiamo sostanziarsi innanzitutto proprio nell’obbligo incomprimibile delle istituzioni pubbliche di rendere effettivi i diritti sociali...che sono finanziariamente condizionati, e quindi realizzabili pienamente solo se lo Stato è libero di utilizzare tutti gli strumenti di politica fiscale e monetaria esistenti, e determinare il livello della propria spesa pubblica è uno di questi.
    Pertanto, insieme alla sottrazione delle leve di politica monetaria allo Stato, demonizzare e quindi comprimere la spesa corrente sull’altare del vincolo esterno e di una presunta moralità di bilancio è forse il modo più efficace per affermare la mera formalità della democrazia, ridotta al solo esercizio del diritto di voto (svuotato anch’esso, sempre di più, della sua efficacia). Un popolo privato di istituzioni pubbliche con piene capacità di intervento per rendere effettivi i diritti sociali non è un popolo sovrano ma una massa di persone da amministrare per conto di un sovrano, che è altrove.

    Gli effetti della disinformazione propalata da media, politici e università sono stati e sono più devastanti proprio nel mondo del diritto, specie del costituzionalismo se addirittura nell’impostare un ragionamento interpretativo si ignora totalmente la gerarchia delle fonti... non solo dal punto di vista del rapporto Costituzione - Trattati, ma persino da quello interno tra disposizioni costituzionali. Leggere l’art.3 comma 2 alla luce dell’art.81 (letto poi alla luce del diritto UE) è qualcosa di incredibile, di inconcepibile per me.
    Un problema enorme, questo, affrontato più volte qui, e di fronte al quale l’ignoranza macroeconomica dei costituzionalisti mi sembra niente, purtroppo.

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    1. Hai ragione: è qualcosa di incredibile.

      Ma la realtà effettiva, - o meglio l'effettività del diritto europeo super-costituzionalizzato de facto -, la constatiamo leggendo cosa scrivono le autorevoli voci BCE. Sono questi che legiferano de facto allo stato politico puro, libero da costrizioni legali-costituzionali (magari senza rendersene conto perché nel loro orizzonte la Costituzione e la macroeconomia keynesiana sono inesistenti, cancellate, irrilevanti: cadute nell'oblio imposto da "i mercati")
      https://www.corriere.it/economia/opinioni/19_ottobre_07/sfida-lagarde-tenere-testa-politica-1d129d38-e8e0-11e9-a351-0f862d63c352.shtml

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  2. La posta in gioco credo sia sempre quella di distruggere la quota salari e quindi- politicamente- annichilire del tutto la classe lavoratrice. In questo senso va pur detto che chi amministra la colonia-Italia ha tutto l'interesse contingente a mantenere il dominio politico su base deflazionista: a maggior ragione se consideriamo che la gigantesca riconversione industriale export-led è stata in sostanza pagata dallo Stato (e quando mai) e dai lavoratori.

    Un aumento, seppur minimo della spesa corrente favorirebbe l'aumento dei prezzi? Io credo che la questione decisiva sia appunto il ruolo politico dell'inflazione (cui dipende il dominio della rendita).

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    1. Sul piano strettamente economico, la questioni della natura inflattiva della spesa corrente, trova la risposta €uropea nella genesi monetarista della faccenda. Ma se vedi qui, p.3, la sua natura politico-ideologica
      http://orizzonte48.blogspot.com/2013/03/la-dottrina-delle-banche-centrali.html

      "E’ importante vedere che, in tal modo, si perfezionò un’operazione a carattere “metonimico”: si attribuì al mercato del lavoro l’inflazione dovuta agli shock petroliferi degli anni ’70, quando in effetti l’assetto del lavoro, assistito dalla linea redistributiva variamente sancita nelle Costituzioni (globalmente definite come “rigidità” contrarie all’equilibrio naturale), era soltanto responsabile della limitazione dei profitti (in situazione di ciclo negativo), cioè, in pratica, della simmetrica distribuzione delle conseguenze recessive dell’inflazione petrolifera anche sul lato del capitale.

      In effetti la restaurazione del modello neo-classico assolve a questa funzione di contro-distribuzione del rischio delle ricorrenti crisi economiche, e in generale della ricchezza, e, in definitiva, di revisione profonda del ruolo dello Stato in quanto ostacoli, con le sue proposizioni costituzionali, questa funzione."

      Come vedi (il tutto è stato riportato anche in "Euro e/o democrazia costituzionale"), son fin troppi anni che denunciamo questa restaurazione delle rendite e del deflazionismo mercantilista.

      Ma le cose, semmai, sul piano della risposta politica (persino elettorale) appaiono peggiorare...

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    2. Gli assunti della teoria quantitativa della moneta, nonostante il plateale fallimento dell’obiettivo inflattivo dichiarato del QE ad esempio, sono ancora narrati come validi e anzi incontrovertibili, e nessun politico crede sia utile andarseli a studiare e raccontarne l’infondatezza, almeno nei punti più comprensibili a tutti. Effettivamente non si può che registrare un peggioramento sul piano della risposta politica...

      In questo quadro l’indipendenza assoluta della BCE, con la protezione garantita della CGUE qualsiasi politica faccia e qualsiasi obiettivo persegua, potrebbe bastare a tenere in piedi l’eurozona e a prolungarne il funzionamento in termini di mantenimento della deflazione, del modello export-leded e quindi del progressivo impoverimento diffuso e simmetrico arricchimento di pochissimi...

      Mi sembra tutto molto ben ingessato e mi chiedo se potranno mai sorgere ostacoli effettivi al loro progetto di portarci ai livelli della Romania e della Serbia, visto che l’obiettivo è quello, come sappiamo. Al momento l’unico mi sembra il tempo, visto che ci sono ancora 10.000 miliardi di risparmio privato da depredare e che l’Italia è ancora un grande Paese nel mondo. Ci vorrà perciò ancora parecchio prima che degradi totalmente, o almeno questa è la mia speranza... nel frattempo potrebbero venir fuori un numero maggiore di risorse culturali impegnate a difendere questo Paese o succedere cose imprevedibili che mutino un corso che per ora sembra segnato.

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    3. "il neoliberismo è in primis e soprattutto una teoria su come ristrutturare lo Stato al fine di garantire il successo del mercato e dei suoi attori più importanti (…)”

      Copio e incollo dal pregevole post sulla curva di Philips dell'immenso Qurantotto. Quello che sfugge a molti- spiace dirlo, ma il mondo sovranista (sic) non manca in questo- è che per sua stessa definizione il liberismo ha bisogno dello Stato... come e più del Socialismo, nel senso che se il fine del materialismo storico è la fine della preistoria e l'inizio della storia dell'uomo (Marx giovane diceva "libertà generale dell'umanità" rispetto alla "libertà di Stato") è chiaro che l'intervento statale in ottica progressiva serve a liberare l'uomo dalle catene dello sfruttamento: il mezzo è il salario diretto e indiretto, il fine è restituire all'uomo stesso le condizioni per poter vivere dignitosamente ed essere LIBERO di autodeterminare la propria vita.

      Il fine liberale è l'esatto opposto: per difendere la rendita occorre uno Stato che, lungi dall'essere minimo, diventi un gigantesco sbirro in grado di controllare repressivamente tutti dopo aver determinato all'estremo ribasso il livello salariale per evitare qualsiasi fiammata verso l'alto dei prezzi.

      Se a ciò si aggiunge il fatto che oggi, al Capitale, non serve nemmeno più una massa di operai-consumatori perché fa tutto il fintech, arriviamo alla saldatura tra Malthus e Hayek.

      Morandi (non Gianni) aveva ben donde a dire che il Socialismo è diventato un'esigenza della civiltà.

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