Questo importante post di Arturo ripercorre, sul piano dell'indagine comparata di filoni di pensiero apparentemente distinti, le convergenze pragmatiche che guidano, in un'alternanza tra facciata idealistica (strumentale) e decisioni autoritarie filo-oligarchiche, il federalismo internazionalista nell'orientare la società umana.
Rammentiamo un'analoga trattazione, con un approccio più fenomenologico, in questo post.
Il punto è che, comune a entrambe le versioni di tale pensiero, è la negazione di ogni valore della sovranità democratica costituzionale.
Una suggestione risalente e datata, che viene portata avanti nell'inerzia "critica", perseguendo simultaneamente, per via mediatica, l'eliminazione dalla memoria collettiva del progresso (ben tangibile quanto osteggiato) costituito dal costituzionalismo democratico, e così, rendendo le comunità sociali incapaci di rendersi conto e quindi di reagire.
Ma una suggestione di cui oggi, all'apice del suo tentativo di imporsi, paghiamo le dure conseguenze, peraltro deliberatamente o, dissimulatamente (a seconda del filone che si dichiara di seguire), programmate fin dall'inizio.
La risposta a tutto ciò, per chi ancora non fosse consapevole, è dunque il ripristino della legalità costituzionale.
E non mi stancherò mai di ripeterlo. Specialmente in vista del 1° maggio.
1. La litania dei più banali argomenti pro-euro la conosciamo (L'Espresso ce ne ha fornito un piccolo campionario di recente). Quello che alla fine rispunta sempre è però che l'Europa e l'euro difenderebbero la “pace”.
Un valore su cui tutti concordiamo: chi mai potrebbe dirsi “per la guerra”?
E in effetti è un fatto reale che stiamo assistendo a forme di ostilità più o meno evidente fra i popoli europei che non si vedevano da molto tempo.
Dunque “più Europa”?
E in effetti è un fatto reale che stiamo assistendo a forme di ostilità più o meno evidente fra i popoli europei che non si vedevano da molto tempo.
Dunque “più Europa”?
Ma perché l'Europa, per non parlare dell'euro, dovrebbero essere strumenti efficaci nella difesa pace?
Se perfino un autorevole sostenitore del federalismo europeo come Sergio Pistone ammette tranquillamente che le “spinte disgregative” “di tipo nazionalistico” attualmente in corso sarebbero causate dai “deficit di efficienza e di democrazia che da sempre caratterizzano il processo di integrazione europea e che si sono accentuati con l'istituzione dell'unione monetaria ed esasperati con la crisi finanziaria ed economico-sociale iniziata nel 2008”, in grazia di quale acrobatico salto logico dovremmo concludere che dosi maggiori della medicina che ha provocato quei sintomi, che in teoria era chiamata a curare, costituirebbero la giusta terapia?
Chi si produce in simili contorsioni evidentemente “sa” che la federazione è lo strumento adatto allo scopo. In base a quale ragionamento, fondato su quali presupposti? E' raro vederli esplicitati, tanto meno discussi.
Ho provato quindi a scavare un pochino nella storia dell'idea di unificazione europea per vedere di scoprirli. La (ovviamente provvisoria) conclusione a cui sono arrivato è che tali presupposti sono costituiti da visioni e giudizi sulla società e lo Stato che o sono incoerenti con le ricette proposte oppure infondati (e spaventosamente reazionari). Vediamo un po' di cosa si tratta.
Se perfino un autorevole sostenitore del federalismo europeo come Sergio Pistone ammette tranquillamente che le “spinte disgregative” “di tipo nazionalistico” attualmente in corso sarebbero causate dai “deficit di efficienza e di democrazia che da sempre caratterizzano il processo di integrazione europea e che si sono accentuati con l'istituzione dell'unione monetaria ed esasperati con la crisi finanziaria ed economico-sociale iniziata nel 2008”, in grazia di quale acrobatico salto logico dovremmo concludere che dosi maggiori della medicina che ha provocato quei sintomi, che in teoria era chiamata a curare, costituirebbero la giusta terapia?
Chi si produce in simili contorsioni evidentemente “sa” che la federazione è lo strumento adatto allo scopo. In base a quale ragionamento, fondato su quali presupposti? E' raro vederli esplicitati, tanto meno discussi.
Ho provato quindi a scavare un pochino nella storia dell'idea di unificazione europea per vedere di scoprirli. La (ovviamente provvisoria) conclusione a cui sono arrivato è che tali presupposti sono costituiti da visioni e giudizi sulla società e lo Stato che o sono incoerenti con le ricette proposte oppure infondati (e spaventosamente reazionari). Vediamo un po' di cosa si tratta.
2. Innanzitutto che la protezione della “pace” costituisca la ragion d'essere prima ed essenziale dei progetti di federazione europea è proclamato in continuazione dai suoi stessi teorici. Iniziamo con Hayek: “Senza dubbio lo scopo principale di una federazione interstatale è assicurare la pace [...]” (Friedrich A. Hayek, “The Economic Conditions of Interstate Federalism,” New Commonwealth Quarterly, V, No.2 (September, 1939), ristampato in F. A Hayek, Individualism and Economic Order, Chicago, Chicago Press University, 1948, pp. 255–72. La traduzione è mia).
Qui bisogna aprire una breve parentesi: Hayek non è citato spesso fra i “padri nobili” dell'Europa; qui, e in molti altri post (per non parlare del libro), è stato ampiamente spiegato perché Europa ed euro assolvano efficacemente agli obiettivi che il noto economista si proponeva.
Ad ulteriore conforto di tale ricostruzione, oltre al nominato Streeck, si possono citare due storici, dall'orientamento opposto, come Bernard Moss e John Gillingham [un sentito grazie a Bazaar per la segnalazione di quest'ultimo]:
“Based primarily on ordo-liberal principles of market competition and sound money, the EC acted as regional enforcer of labor subordination and wage discipline much as Friedrich Hayek, the Austrian-born economist-philosopher, had advocated.
After the Second World War Hayek had rallied liberal economists and policy makers to challenge Keynesianism and the welfare state in his elite Mont Pelerin Society (Hartwell, 1995).
Unlike social democrats, who supported the welfare state as a barrier to Communism, Hayek perceived the danger of communism arising from within, from the spiraling inflationary demands of labor backed by the democratic state. He was a neo-liberal because he recognized the difference that laws and political institutions could make to market outcomes.” (B. H. Moss (a cura di), Monetary Union in Crisis. The Europea Union as a Neo-liberal Construction, N. Y., Palgrave MacMillan, pag. 12).
“Hayek developed the theory that is at the very core of the liberal project for Europe, but he remained vague about how the process of European integration could be set in motion.
He did not delve deeply into specifics of implementation. Instead, one finds among the leading figures (ORDO-liberals) of the Freiburg School – men infuenced by yet distinct from the “Austrians” – the clearest understanding of the fact that, in order to operate satisfactorily, the damaged economy of the war-torn continent had to be nested in a new set of “market-conforming” (Marktkonform) institutions that
(a) guaranteed respect for property and contract,
(b) was anchored in monetary stability, and
(c) was designed to protect the competition principle.
Such an institutional emphasis can be said to typify even liberal German economic thinking. ORDO-liberalism is also characterized by a profound moral revulsion to national socialism, deep ethical concerns and commitments, and a quite specific engagement with the problems of economic reconstruction in the remnants of the broken and occupied German nation. On the German issue, Hayek’s Freiburg associates would “pick up the ball and run with it.” (J. Gillingham, European Integration, 1950-2003. Superstate or New Market Economy?, N.Y., Cambridge University Press, 2003, pag. 10).
3. Chiusa parentesi.
Proseguiamo avvicinando forse il massimo teorico italiano del federalismo europeo, vale a dire Mario Albertini, che proprio nel perseguimento della pace ravvisava il fondamento specifico del federalismo.
A questo proposito è utile un suo breve scritto, in cui – ci informano i curatori dell'Istituto di studi federalisti Altiero Spinelli – Albertini conduce un'analisi del federalismo “nei suoi tre aspetti (di valore, di struttura e storico-sociale)” “con un'ampiezza che non trova riscontro in altri” suoi “scritti” (la mostruosa mole dei quali ci induce a tenerci caro quello qui linkato :-)).
Vediamo i passaggi essenziali del ragionamento: della pace si dà una definizione kantiana, che valga a distinguerla da “tregua”. Albertini, op. cit. pag. 9:
“Bisogna stabilire bene la linea di demarcazione tra queste due situazioni.
La prima è contrassegnata dalla mancanza del rischio di essere aggrediti, ossia dal fatto che tutti sono sicuri senza armi.
La seconda è contrassegnata dal rischio permanente di essere aggrediti, ossia dal fatto che nessuno è sicuro senza armi.
Naturalmente nella seconda situazione si distinguono due casi: quello nel quale gli uomini si stanno battendo e quelle nel quale sono semplicemente in stato di vigilanza perché aspettano di battersi o di difendersi.
Non c'è dubbio che qualunque persona, messa con chiarezza di fronte ai tre casi di queste due situazioni, riserverebbe il termine di “pace” alla prima situazione, chiamerebbe “guerra” il primo caso della seconda situazione, e parrebbe di un istante di “tregua” nel secondo caso.
E non c'è dubbio nemmeno sul fatto che la prima situazione è contraddistinta dall'obbligo per tutti di comportarsi secondo un ordine legale, ossia dall'esistenza dello Stato, mentre i due casi della seconda situazione sono contraddistinti proprio dalla mancanza di tale obbligo, ossia dalla mancanza di uno stato comune a tutte le persone che entrano in rapporto tra loro”. Cioè la pace consiste nell'estensione pura e semplice del ruolo pacificatore dello Stato (pag. 12: “Si può quindi affermare che i vari conflitti psicologici, economici, etnici possono essere l'occasione dello scoppio della guerra, quando la guerra è possibile, ma se esiste un ordine statale in grado di risolverli pacificamente essi cessano di essere causa di guerra: la vera causa della guerra è dunque l'assenza di un ordine statale”).
4. Detto con brutale sintesi, Stato mondiale = pace mondiale.
Anche nel Manifesto di Ventotene la federazione europea è vista in effetti come “preludio di una federazione mondiale”.
Insomma, il fogno.
Questa funzione escatologica che il federalismo viene chiamato ad assolvere, per quanto possa sembrare (ed essere) ridicola, non va sottovalutata.
Introduce quello che è un elemento importante del discorso sulla pace: il ricatto morale. “Ma come? Volete forse mettervi sul cammino del Bene, della Giustizia, della Civiltà alimentando guerra e inimicizia fra i popoli?”
Il che evidentemente implica che questi profeti di pace siano convinti di aver trovato l'infallibile ricetta in grado di procurarla.
Scrive Popper (On The Sources of Knowledge and of Ignorance, London, Oxford University Press, 1966, pag. 177) “The theory that truth is manifest – that it is there for everyone to see, if only he wants to see it – this theory is the basis of almost every kind of fanaticism. For only the most depraved wickedness can refuse to see the manifest truth: only those who have every reason to fear the truth can deny it, and conspire to suppress it.
Proseguiamo avvicinando forse il massimo teorico italiano del federalismo europeo, vale a dire Mario Albertini, che proprio nel perseguimento della pace ravvisava il fondamento specifico del federalismo.
A questo proposito è utile un suo breve scritto, in cui – ci informano i curatori dell'Istituto di studi federalisti Altiero Spinelli – Albertini conduce un'analisi del federalismo “nei suoi tre aspetti (di valore, di struttura e storico-sociale)” “con un'ampiezza che non trova riscontro in altri” suoi “scritti” (la mostruosa mole dei quali ci induce a tenerci caro quello qui linkato :-)).
Vediamo i passaggi essenziali del ragionamento: della pace si dà una definizione kantiana, che valga a distinguerla da “tregua”. Albertini, op. cit. pag. 9:
“Bisogna stabilire bene la linea di demarcazione tra queste due situazioni.
La prima è contrassegnata dalla mancanza del rischio di essere aggrediti, ossia dal fatto che tutti sono sicuri senza armi.
La seconda è contrassegnata dal rischio permanente di essere aggrediti, ossia dal fatto che nessuno è sicuro senza armi.
Naturalmente nella seconda situazione si distinguono due casi: quello nel quale gli uomini si stanno battendo e quelle nel quale sono semplicemente in stato di vigilanza perché aspettano di battersi o di difendersi.
Non c'è dubbio che qualunque persona, messa con chiarezza di fronte ai tre casi di queste due situazioni, riserverebbe il termine di “pace” alla prima situazione, chiamerebbe “guerra” il primo caso della seconda situazione, e parrebbe di un istante di “tregua” nel secondo caso.
E non c'è dubbio nemmeno sul fatto che la prima situazione è contraddistinta dall'obbligo per tutti di comportarsi secondo un ordine legale, ossia dall'esistenza dello Stato, mentre i due casi della seconda situazione sono contraddistinti proprio dalla mancanza di tale obbligo, ossia dalla mancanza di uno stato comune a tutte le persone che entrano in rapporto tra loro”. Cioè la pace consiste nell'estensione pura e semplice del ruolo pacificatore dello Stato (pag. 12: “Si può quindi affermare che i vari conflitti psicologici, economici, etnici possono essere l'occasione dello scoppio della guerra, quando la guerra è possibile, ma se esiste un ordine statale in grado di risolverli pacificamente essi cessano di essere causa di guerra: la vera causa della guerra è dunque l'assenza di un ordine statale”).
4. Detto con brutale sintesi, Stato mondiale = pace mondiale.
Anche nel Manifesto di Ventotene la federazione europea è vista in effetti come “preludio di una federazione mondiale”.
Insomma, il fogno.
Questa funzione escatologica che il federalismo viene chiamato ad assolvere, per quanto possa sembrare (ed essere) ridicola, non va sottovalutata.
Introduce quello che è un elemento importante del discorso sulla pace: il ricatto morale. “Ma come? Volete forse mettervi sul cammino del Bene, della Giustizia, della Civiltà alimentando guerra e inimicizia fra i popoli?”
Il che evidentemente implica che questi profeti di pace siano convinti di aver trovato l'infallibile ricetta in grado di procurarla.
Scrive Popper (On The Sources of Knowledge and of Ignorance, London, Oxford University Press, 1966, pag. 177) “The theory that truth is manifest – that it is there for everyone to see, if only he wants to see it – this theory is the basis of almost every kind of fanaticism. For only the most depraved wickedness can refuse to see the manifest truth: only those who have every reason to fear the truth can deny it, and conspire to suppress it.
Yet the theory that truth is manifest not only breeds fanatics – men possessed by the conviction that all who do not see the manifest truth must be possessed by the devil – but it may also lead […] to authoritarianism”.
Io della ringhiosità di qualche piddino trovo spiegazione in queste righe; non so voi...
Io della ringhiosità di qualche piddino trovo spiegazione in queste righe; non so voi...
Insomma, per tornare al punto, questa salvifica ricetta, in cosa consiste?
Quali caratteristiche dovrebbe avere il vagheggiato Stato federale di cui stiamo parlando?
Albertini, op. cit., pag. 14:
“La pace deve sì essere ricercata per sé stessa: essa è un valore specifico universale ma un ordine giuridico universale non può essere raggiunto senza che siano state realizzate la libertà, la democrazia, la giustizia sociale ovunque.” Che meraviglia. A Ventotene si arriva addirittura a promettere una rivoluzione federalista “socialista”.
5. Tutti convinti, dunque? Un momento, facciamo un passo indietro e torniamo al nostro amico Hayek...
Quali caratteristiche dovrebbe avere il vagheggiato Stato federale di cui stiamo parlando?
Albertini, op. cit., pag. 14:
“La pace deve sì essere ricercata per sé stessa: essa è un valore specifico universale ma un ordine giuridico universale non può essere raggiunto senza che siano state realizzate la libertà, la democrazia, la giustizia sociale ovunque.” Che meraviglia. A Ventotene si arriva addirittura a promettere una rivoluzione federalista “socialista”.
5. Tutti convinti, dunque? Un momento, facciamo un passo indietro e torniamo al nostro amico Hayek...
Che in The Road to Serfdom (The Collected Works of F. A. von Hayek, Vol. II, Londra, The University of Chicago Press, 2007, pag. 312) ci racconta che l'idea di una federazione mondiale non è certo il parto originale delle elucubrazioni dei federalisti nostrani:
“It is worth recalling that the idea of the world at last finding peace through the absorption of the separate states in large federated groups and ultimately perhaps in one single federation, far from being new, was indeed the ideal of almost all the liberal thinkers of the nineteenth century. From Tennyson, whose much-quoted vision of the “battle of the air” is followed by a vision of the federation of the people which will follow their last great fight, right down to the end of the century the final achievement of a federal organization remained the ever recurring hope of a next great step in the advance of civilization.
Nineteenth-century liberals may not have been fully aware how essential a complement of their principles a federal organization of the different states formed; but there were few among them who did not express their belief in it as an ultimate goal.”
Cioè la federazione mondiale era considerata sì uno strumento di pace, ma solo in quanto lo garantivano quei principi – del liberalismo ottocentesco – rispetto a cui la federazione era “essential a complement”.
Siamo sicuri che tra questi principi vi fosse la “giustizia sociale” o, niente meno, il socialismo? Proviamo a vedere...
“It is worth recalling that the idea of the world at last finding peace through the absorption of the separate states in large federated groups and ultimately perhaps in one single federation, far from being new, was indeed the ideal of almost all the liberal thinkers of the nineteenth century. From Tennyson, whose much-quoted vision of the “battle of the air” is followed by a vision of the federation of the people which will follow their last great fight, right down to the end of the century the final achievement of a federal organization remained the ever recurring hope of a next great step in the advance of civilization.
Nineteenth-century liberals may not have been fully aware how essential a complement of their principles a federal organization of the different states formed; but there were few among them who did not express their belief in it as an ultimate goal.”
Cioè la federazione mondiale era considerata sì uno strumento di pace, ma solo in quanto lo garantivano quei principi – del liberalismo ottocentesco – rispetto a cui la federazione era “essential a complement”.
Siamo sicuri che tra questi principi vi fosse la “giustizia sociale” o, niente meno, il socialismo? Proviamo a vedere...
6. Prima di tutto, basandosi su questi loro principi, dov'è che i liberali à la Hayek vedono l'origine di una minaccia per la pace a cui la federazione può essere antidoto?
Ce lo dice Hayek stesso in The Road (pag. 301):
“The part of the lesson of the recent past which is slowly and gradually being appreciated is that many kinds of economic planning, conducted independently on a national scale, are bound in their aggregate effect to be harmful even from a purely economic point of view and, in addition, to produce serious international friction. That there is little hope of international order or lasting peace so long as every country is free to employ whatever measures it thinks desirable in its own immediate interest, however damaging they may be to others, needs little emphasis now. Many kinds of economic planning are indeed practicable only if the planning authority can effectively shut out all extraneous influences; the result of such planning is therefore inevitably the piling-up of restrictions on the movements of men and goods.”
E qui finalmente cominciamo a uscire dalla nebbia: la regolamentazione degli scambi con l'estero conduce alla guerra; la terapia sta nella diagnosi stessa: il free trade porta alla pace.
Un'idea non precisamente nuova ("world peace through world trade" è diventato addirittura uno slogan della IBM...) e poco resistente a un esame storico.
Come scrive Ian Fletcher in un interessante libretto - Free Trade Doesn't Work, Washington, U.S. Business & Industry Council, 2010, pag. 44:
“Free traders since 19th-century classical liberals like the English Richard Cobden and the French Frederic Bastiat have promised that free trade would bring world peace. Even the World Trade Organization (WTO) has been known to make this sunny claim, which does not survive historical scrutiny.
Britain, the most freely trading major nation of the 19th century, fought more wars than any other power, sometimes openly with the aim of imposing free trade on reluctant nations. (That’s how Hong Kong became British.) Post-WWII Japan has been blatantly protectionist, but has had a more peaceful foreign policy than free-trading America.”.
7. Questa idea, dunque (com'è constatabile da molte altre fonti storiografiche) è basata su una visione immaginaria della Storia, ma, soprattutto il suo legame coi nostri amici federalisti non è chiaro: c'entra?
C'entra, c'entra...
Prima di tornare a loro però completiamo il quadro dell'analisi hayekiana: la tendenza a regolare gli scambi con l'estero, e quindi al bellicismo, secondo il nostro deriva dall'economic planning, cioè nell'intervento pubblico nell'economia che, disturbando il funzionamento di quelle che lui chiama “regole di pura condotta”, uniche garanti degli interessi generali, altera il mercato a favore di interessi particolari.
Insomma, si tratta di quel liberalismo ristretto di cui abbiamo già parlato. Detto più empiricamente, pressioni interne hanno vieppiù spinto gli Stati ad anteporre obiettivi di politica interna all'equilibrio degli scambi commerciali, arrivando a mettere in discussione quella che ne era la suprema garanzia, ovvero il gold standard.
Ciò ha offuscato quella “visione che, prima della prima guerra mondiale, offriva un terreno comune a quasi tutti i cittadini delle democrazie occidentali e che è la base del governo democratico.” (Hayek, Le condizioni economiche cit.).
Sarebbe il caso di precisare: di tutti quei pochi cittadini che da quell'assetto traevano immediato beneficio e non erano chiamati a pagarne i costi.
8. Per dare uno sguardo alla realtà dietro le formule ideologiche, apriamo la più autorevole storia del sistema monetario internazionale, vale a dire Globalizing Capital (Princeton University Press, New Jersey, 2008, pag. 2), opera di uno studioso della stazza di Barry Eichengreen e leggiamo un po' qual è il passato-gold standard che Hayek tanto rimpiange:
"What was critical for the maintenance of pegged exchange rates, I argue in this book, was protection for governments from pressure to trade exchange rate stability for other goals. Under the nineteenth-century gold standard the source of such protection was insulation from domestic politics. The pressure brought to bear on twentieth-century governments to subordinate currency stability to other objectives was not a feature of the nineteenth-century world.
Because the right to vote was limited, the common laborers who suffered most from hard times were poorly positioned to object to increases in central bank interest rates adopted to defend the currency peg. Neither trade unions nor parliamentary labor parties had developed to the point where workers could insist that defense of the exchange rate be tempered by the pursuit of other objectives. The priority attached by central banks to defending the pegged exchange rates of the gold standard remained basically unchallenged. Governments were therefore free to take whatever steps were needed to defend their currency pegs."
Ce lo dice Hayek stesso in The Road (pag. 301):
“The part of the lesson of the recent past which is slowly and gradually being appreciated is that many kinds of economic planning, conducted independently on a national scale, are bound in their aggregate effect to be harmful even from a purely economic point of view and, in addition, to produce serious international friction. That there is little hope of international order or lasting peace so long as every country is free to employ whatever measures it thinks desirable in its own immediate interest, however damaging they may be to others, needs little emphasis now. Many kinds of economic planning are indeed practicable only if the planning authority can effectively shut out all extraneous influences; the result of such planning is therefore inevitably the piling-up of restrictions on the movements of men and goods.”
E qui finalmente cominciamo a uscire dalla nebbia: la regolamentazione degli scambi con l'estero conduce alla guerra; la terapia sta nella diagnosi stessa: il free trade porta alla pace.
Un'idea non precisamente nuova ("world peace through world trade" è diventato addirittura uno slogan della IBM...) e poco resistente a un esame storico.
Come scrive Ian Fletcher in un interessante libretto - Free Trade Doesn't Work, Washington, U.S. Business & Industry Council, 2010, pag. 44:
“Free traders since 19th-century classical liberals like the English Richard Cobden and the French Frederic Bastiat have promised that free trade would bring world peace. Even the World Trade Organization (WTO) has been known to make this sunny claim, which does not survive historical scrutiny.
Britain, the most freely trading major nation of the 19th century, fought more wars than any other power, sometimes openly with the aim of imposing free trade on reluctant nations. (That’s how Hong Kong became British.) Post-WWII Japan has been blatantly protectionist, but has had a more peaceful foreign policy than free-trading America.”.
7. Questa idea, dunque (com'è constatabile da molte altre fonti storiografiche) è basata su una visione immaginaria della Storia, ma, soprattutto il suo legame coi nostri amici federalisti non è chiaro: c'entra?
C'entra, c'entra...
Prima di tornare a loro però completiamo il quadro dell'analisi hayekiana: la tendenza a regolare gli scambi con l'estero, e quindi al bellicismo, secondo il nostro deriva dall'economic planning, cioè nell'intervento pubblico nell'economia che, disturbando il funzionamento di quelle che lui chiama “regole di pura condotta”, uniche garanti degli interessi generali, altera il mercato a favore di interessi particolari.
Insomma, si tratta di quel liberalismo ristretto di cui abbiamo già parlato. Detto più empiricamente, pressioni interne hanno vieppiù spinto gli Stati ad anteporre obiettivi di politica interna all'equilibrio degli scambi commerciali, arrivando a mettere in discussione quella che ne era la suprema garanzia, ovvero il gold standard.
Ciò ha offuscato quella “visione che, prima della prima guerra mondiale, offriva un terreno comune a quasi tutti i cittadini delle democrazie occidentali e che è la base del governo democratico.” (Hayek, Le condizioni economiche cit.).
Sarebbe il caso di precisare: di tutti quei pochi cittadini che da quell'assetto traevano immediato beneficio e non erano chiamati a pagarne i costi.
8. Per dare uno sguardo alla realtà dietro le formule ideologiche, apriamo la più autorevole storia del sistema monetario internazionale, vale a dire Globalizing Capital (Princeton University Press, New Jersey, 2008, pag. 2), opera di uno studioso della stazza di Barry Eichengreen e leggiamo un po' qual è il passato-gold standard che Hayek tanto rimpiange:
"What was critical for the maintenance of pegged exchange rates, I argue in this book, was protection for governments from pressure to trade exchange rate stability for other goals. Under the nineteenth-century gold standard the source of such protection was insulation from domestic politics. The pressure brought to bear on twentieth-century governments to subordinate currency stability to other objectives was not a feature of the nineteenth-century world.
Because the right to vote was limited, the common laborers who suffered most from hard times were poorly positioned to object to increases in central bank interest rates adopted to defend the currency peg. Neither trade unions nor parliamentary labor parties had developed to the point where workers could insist that defense of the exchange rate be tempered by the pursuit of other objectives. The priority attached by central banks to defending the pegged exchange rates of the gold standard remained basically unchallenged. Governments were therefore free to take whatever steps were needed to defend their currency pegs."
9. Qual è l'obiettivo, dunque?
La restaurazione di quello che M.S. Giannini definiva “lo Stato monoclasse”, caratterizzato cioè dalla concentrazione del potere nelle mani di una ristrettissima oligarchia che poteva scaricare sulla maggioranza della popolazione, lavoratori in primis, i costi dell'instabilità che il regime economico più conforme ai loro interessi provocava.
La restaurazione di quello che M.S. Giannini definiva “lo Stato monoclasse”, caratterizzato cioè dalla concentrazione del potere nelle mani di una ristrettissima oligarchia che poteva scaricare sulla maggioranza della popolazione, lavoratori in primis, i costi dell'instabilità che il regime economico più conforme ai loro interessi provocava.
Naturalmente l'imbroglio di Hayek è quello di tentare, secondo una linea fatta propria dall'ordoliberismo (cfr. Moss (a cura di), op. cit., pag. 106: “The ordo-liberals, close to Hayek, blamed the past catastrophes of war, revolution, runaway inflation, and Nazism on state intervention and labor and industrial monopoly”), un'equivalenza fra l'interventismo democratico e quello nazista: insomma, i sindacati, bersaglio ossessivamente additato dal nostro, antesignani delle SS (per quanto non palesemente assurdo di questa lettura, rinvio ovviamente all'analisi di Kalecki).
Va bene (diciamo così). E i nostri amici federalisti? Non ce li siamo dimenticati...
Il federalismo europeo ci darà la pace: sempre lì siamo. Ma perché gli Stati lasciati a sé stessi dovrebbero essere guerrafondai?
10. Per quando già ben leggibili nel Manifesto, le questioni chiave si si presentano nella forma più chiara in un saggio di Altiero Spinelli, Politica marxista e politica federalista (scritto fra il '42 e il '43, quindi dopo il Manifesto di Ventotene, che è del '41) che purtroppo non sono riuscito a reperire on-line.
Citerò quindi dall'edizione cartacea in mio possesso (I classici del pensiero libero, vol. 25, Milano, RCS Quotidiani S.p.A. su licenza Mondadori, pp. 73 e ss.), con tanto di commossa introduzione di Tommaso Padoa Schioppa (siete invidiosi, lo so...). Dunque, a noi.
Secondo Spinelli (op. cit., pag. 80) il male che travaglia lo Stato contemporaneo sarebbe il “sezionalismo”, “caratteristica predominante della nostra epoca”.
“Il sezionalismo sorge dal fatto che non esiste una armonia automatica e spontanea fra gli interessi particolari e le esigenze generali di un certo tipo di civiltà. Perché queste esigenze possano farsi valere, occorre sempre stabilire delle regole generali che fissino i limiti entro cui gli interessi particolari possano esplicarsi, e che sieno [sic!] accompagnate da una forza sufficiente per essere rispettate. Se le forze particolaristiche di individui o gruppi riescono a spezzare queste regole generali e ad imporre di fatto altre, in cui si tenga esclusivamente conto dei particolari interessi di quegli individui o gruppi, sopraffacendo il resto della società, danneggiando e svuotando così la forma di civiltà, si ha il fenomeno del “sezionalismo””.
E qui un campanellino forse comincia a suonare. Vediamo un po' cos'ha da dire Spinelli sui sindacati (pag. 86):
“Per la soluzione sindacalista, basterà dire che, comunque si ridistribuisca nell'interno dei sindacati il reddito, essa non fa altro che esasperare tutti i contrasti sezionali della società odierna, la quale è già in buona parte sindacalista. Il sindacalismo è una mezza idea, che dal punto di vista nazionale val meno che nulla. Essa sorge ed incontra favore per due motivi diversi, che però indicano entrambi la fiacchezza mentale di chi la propone.
10. Per quando già ben leggibili nel Manifesto, le questioni chiave si si presentano nella forma più chiara in un saggio di Altiero Spinelli, Politica marxista e politica federalista (scritto fra il '42 e il '43, quindi dopo il Manifesto di Ventotene, che è del '41) che purtroppo non sono riuscito a reperire on-line.
Citerò quindi dall'edizione cartacea in mio possesso (I classici del pensiero libero, vol. 25, Milano, RCS Quotidiani S.p.A. su licenza Mondadori, pp. 73 e ss.), con tanto di commossa introduzione di Tommaso Padoa Schioppa (siete invidiosi, lo so...). Dunque, a noi.
Secondo Spinelli (op. cit., pag. 80) il male che travaglia lo Stato contemporaneo sarebbe il “sezionalismo”, “caratteristica predominante della nostra epoca”.
“Il sezionalismo sorge dal fatto che non esiste una armonia automatica e spontanea fra gli interessi particolari e le esigenze generali di un certo tipo di civiltà. Perché queste esigenze possano farsi valere, occorre sempre stabilire delle regole generali che fissino i limiti entro cui gli interessi particolari possano esplicarsi, e che sieno [sic!] accompagnate da una forza sufficiente per essere rispettate. Se le forze particolaristiche di individui o gruppi riescono a spezzare queste regole generali e ad imporre di fatto altre, in cui si tenga esclusivamente conto dei particolari interessi di quegli individui o gruppi, sopraffacendo il resto della società, danneggiando e svuotando così la forma di civiltà, si ha il fenomeno del “sezionalismo””.
E qui un campanellino forse comincia a suonare. Vediamo un po' cos'ha da dire Spinelli sui sindacati (pag. 86):
“Per la soluzione sindacalista, basterà dire che, comunque si ridistribuisca nell'interno dei sindacati il reddito, essa non fa altro che esasperare tutti i contrasti sezionali della società odierna, la quale è già in buona parte sindacalista. Il sindacalismo è una mezza idea, che dal punto di vista nazionale val meno che nulla. Essa sorge ed incontra favore per due motivi diversi, che però indicano entrambi la fiacchezza mentale di chi la propone.
Sindacalisti sono innanzitutto molti, i quali vedono che la società attuale è già tutta irta di baronie sindacaliste, e si lasciano trascinare dalla corrente, sperando misticamente che, quando si fosse giunti alle estreme conseguenze, si approderebbe ad una situazione idilliaca.
Questo sindacalismo è messo avanti specialmente da coloro che cercano di esaltare la combattività delle forze già impegnate in lotte di carattere sezionale. I capi che lo coltivano fanno semplice opera di demagogia. Il sindacalismo non è una soluzione, è un processo di disintegrazione sociale, ruzzolando il quale si giunge infine alla statizzazione di tutta la vita economica.
L'equilibrio è [sic. Credo sia “e”] l'armonizzazione fra i vari sindacati, deve alla fine essere imposta dallo Stato, il quale assume dispoticamente tutta la gestione dell'economia, lasciando agli organismi sindacali semplici funzioni tecniche, o sopprimendoli senz'altro come superflui.”
“Il collettivismo è la segreta tendenza dello stato moderno sovrano” (pag. 89).
Vogliamo chiamarla “via verso la schiavitù”?
“La lotta di classe è essenzialmente lotta sindacale; non è altro che la lotta per interessi sezionali” (pag. 97).
E dove starebbero gli interessi generali? Presto detto (pp. 81-82):
“Marx aveva visto nello stato il rappresentante ed esecutore degli interessi collettivi della borghesia. Ciò poteva forse sostenersi con un'apparenza di ragione un secolo fa. Ma da un pezzo lo stato ha cessato di essere questo comitato esecutivo, sia pur solo della borghesia, ma comunque dei suoi interessi generali. Questi interessi consisterebbero nella garanzia in un mercato quanto più libero, quanto più ampio e quanto più esenta da situazioni monopolistiche fosse possibile. Lo stato moderno è divenuto invece sempre più il rappresentante e l'esecutore di quei determinati interessi sezionali che sono abbastanza forti o abbastanza insidiosi da costringerlo a piegarsi alla loro volontà e mettere al loro servigio particolare il suo potere. E questi interessi possono essere tanto di particolari gruppi borghesi (cosa che si vede ad esempio quando viene deliberatamente svalutata la moneta) o di particolari gruppi di operai (politica contro l'immigrazione) o di gruppi borghesi alleati a gruppi operai (politica protezionista)”.
“Nell'ambito della politica federalistica, sarebbero misure intese alla eliminazione di privilegi monopolistici, che si inquadrerebbero nell'opera di distruzione delle più o meno autarchiche economie programmate, e verrebbero ad inserirsi nell'opera di creazione di un libero mercato europeo sul quale solo si può fare affidamento per la fusione delle malate economie nazionali in un'unica, sana, economia europea” (pag. 109).
E credo che i campanelli che suonano cominciano ad essere più d'uno.
Proseguiamo (pag. 83): “Il sezionalismo nella vita economica dei singoli paesi, ostacolando il traffico, rende molto più gravi gli attriti fra paese e paese, e spinge con energia verso una politica di militarismo e di imperialismo gli stati sovrani, i quali già per loro natura sono portati a non occuparsi altro che dei propri interessi particolari nazionali. La soluzione totalitaria porta al culmine questa tendenza, poiché sottoponendo tutta la vita economica al potere statale, da una parte affida ad esso tutto intero il compito di ottenere con la forza, rispetto agli altri paesi, posizioni di privilegio, e dall'altro lo rende tanto più capace di prepararsi ad una guerra totale.”
11. E qui – mi auguro - la nebbia si dirada definitivamente e la lettura parallela Hayek-Spinelli dà tutti i suoi chiarificatori frutti.
In buona sostanza si tratta sempre di impedire, con un bel gold standard a suprema garanzia - la moneta unica è una rivendicazione già contenuta nel Manifesto di Ventotene-, che lo Stato intervenga negli scambi internazionali attraverso “whatever measures it thinks desirable in its own immediate interest”. Naturalmente una misura a disposizione ci sarà ancora: la deflazione, se è vero, come spiegava Joan Robinson, che il free trade, tanto più quando suggellato da un cambio fisso, non è altro che una più sottile forma di mercantilismo.
Questo sindacalismo è messo avanti specialmente da coloro che cercano di esaltare la combattività delle forze già impegnate in lotte di carattere sezionale. I capi che lo coltivano fanno semplice opera di demagogia. Il sindacalismo non è una soluzione, è un processo di disintegrazione sociale, ruzzolando il quale si giunge infine alla statizzazione di tutta la vita economica.
L'equilibrio è [sic. Credo sia “e”] l'armonizzazione fra i vari sindacati, deve alla fine essere imposta dallo Stato, il quale assume dispoticamente tutta la gestione dell'economia, lasciando agli organismi sindacali semplici funzioni tecniche, o sopprimendoli senz'altro come superflui.”
“Il collettivismo è la segreta tendenza dello stato moderno sovrano” (pag. 89).
Vogliamo chiamarla “via verso la schiavitù”?
“La lotta di classe è essenzialmente lotta sindacale; non è altro che la lotta per interessi sezionali” (pag. 97).
E dove starebbero gli interessi generali? Presto detto (pp. 81-82):
“Marx aveva visto nello stato il rappresentante ed esecutore degli interessi collettivi della borghesia. Ciò poteva forse sostenersi con un'apparenza di ragione un secolo fa. Ma da un pezzo lo stato ha cessato di essere questo comitato esecutivo, sia pur solo della borghesia, ma comunque dei suoi interessi generali. Questi interessi consisterebbero nella garanzia in un mercato quanto più libero, quanto più ampio e quanto più esenta da situazioni monopolistiche fosse possibile. Lo stato moderno è divenuto invece sempre più il rappresentante e l'esecutore di quei determinati interessi sezionali che sono abbastanza forti o abbastanza insidiosi da costringerlo a piegarsi alla loro volontà e mettere al loro servigio particolare il suo potere. E questi interessi possono essere tanto di particolari gruppi borghesi (cosa che si vede ad esempio quando viene deliberatamente svalutata la moneta) o di particolari gruppi di operai (politica contro l'immigrazione) o di gruppi borghesi alleati a gruppi operai (politica protezionista)”.
“Nell'ambito della politica federalistica, sarebbero misure intese alla eliminazione di privilegi monopolistici, che si inquadrerebbero nell'opera di distruzione delle più o meno autarchiche economie programmate, e verrebbero ad inserirsi nell'opera di creazione di un libero mercato europeo sul quale solo si può fare affidamento per la fusione delle malate economie nazionali in un'unica, sana, economia europea” (pag. 109).
E credo che i campanelli che suonano cominciano ad essere più d'uno.
Proseguiamo (pag. 83): “Il sezionalismo nella vita economica dei singoli paesi, ostacolando il traffico, rende molto più gravi gli attriti fra paese e paese, e spinge con energia verso una politica di militarismo e di imperialismo gli stati sovrani, i quali già per loro natura sono portati a non occuparsi altro che dei propri interessi particolari nazionali. La soluzione totalitaria porta al culmine questa tendenza, poiché sottoponendo tutta la vita economica al potere statale, da una parte affida ad esso tutto intero il compito di ottenere con la forza, rispetto agli altri paesi, posizioni di privilegio, e dall'altro lo rende tanto più capace di prepararsi ad una guerra totale.”
11. E qui – mi auguro - la nebbia si dirada definitivamente e la lettura parallela Hayek-Spinelli dà tutti i suoi chiarificatori frutti.
In buona sostanza si tratta sempre di impedire, con un bel gold standard a suprema garanzia - la moneta unica è una rivendicazione già contenuta nel Manifesto di Ventotene-, che lo Stato intervenga negli scambi internazionali attraverso “whatever measures it thinks desirable in its own immediate interest”. Naturalmente una misura a disposizione ci sarà ancora: la deflazione, se è vero, come spiegava Joan Robinson, che il free trade, tanto più quando suggellato da un cambio fisso, non è altro che una più sottile forma di mercantilismo.
Per riassumere, nella visione hayekian-ordo-federalista i due aspetti, interno ed esterno, si rafforzano reciprocamente: lo Stato interventista non potrà che essere autoritario e quindi militarista; la regolamentazione pubblica dell'economia rende indispensabile limitare le pressioni economiche (per esempio deflazioniste...) esterne, deteriorando i rapporti con gli altri Stati. Insomma, nemico della pace non è chi pratica la deflazione, ma chi vorrebbe resistervi (avete capito: la tutela del lavoro e la nostra Costituzione sono i veri nemici della pace; pacifista è chi vorrebbe veder lavorare anche i bambini (vd. dopo)).
La medicina a tali terribili mali non è altro che la consueta utopia ottocentesca del mercato che si autoregola e la “pace”, come inevitabile sbocco, nient'altro che l'ennesimo esercizio di deduttivismo liberista. L'Europa protegge la pace come garantisce la piena occupazione: date il liberismo, la pace verrà.
La medicina a tali terribili mali non è altro che la consueta utopia ottocentesca del mercato che si autoregola e la “pace”, come inevitabile sbocco, nient'altro che l'ennesimo esercizio di deduttivismo liberista. L'Europa protegge la pace come garantisce la piena occupazione: date il liberismo, la pace verrà.
12. Naturalmente è facile obiettare che, seppure vi sono indiscutibili analogie tra Hayek e i federalisti nell'analisi dei difetti dello Stato nazionale, i secondi non sono mai stati soddisfatti del processo di integrazione europea così come esso si è svolto.
Possiamo vederlo guardando all'oggi: riprendiamo il sunnominato Pistone, che dà conto del dibattito tedesco fra Streeck e Habermas:
“Questa opposizione [al neoliberismo], va sottolineato, è propria, fin dal Manifesto di Ventotene, dei federalisti, per i quali la democrazia — cioè il valore che richiede la pace per poter essere pienamente realizzato — deve essere allo stesso tempo liberale e sociale (il che significa un impegno strutturale contro le disuguaglianze fra le persone e fra i territori) per essere reale.” Nell'articolo dello stesso autore citato all'inizio: “La sfida è chiaramente il passaggio dall’integrazione economica essenzialmente negativa (cioè l’eliminazione degli ostacoli al libero movimento delle merci, delle persone, dei capitali e dei servizi) a un’integrazione economica che sia anche positiva (cioè forti politiche sopranazionali dirette ad affrontare gli squilibri inevitabilmente prodotti dal mercato non governato)”.
13. Qui la risposta ai federalisti la lasciamo dare direttamente ad Hayek: quegli strumenti di intervento economico di cui è bene che lo Stato venga privato non possono più essere ricostituiti a livello sovranazionale!
Tale lucida intuizione del nostro fornisce al suo programma federalista, se non altro, una interna coerenza.
Questo il ragionamento (tutte le citazioni sono tratte dal saggio del '39): “L'assenza di barriere doganali e la libera circolazione di persone e capitali fra gli Stati hanno alcune importanti conseguenze che spesso sfuggono: riducono notevolmente le possibilità di intervento dei singoli Stati nella politica economica. Se le merci, le persone e il denaro possono muoversi liberamente attraverso le frontiere interstatali, gli Stati membri non posso più influenzare i prezzi attraverso l'intervento pubblico. [...]
Possiamo vederlo guardando all'oggi: riprendiamo il sunnominato Pistone, che dà conto del dibattito tedesco fra Streeck e Habermas:
“Questa opposizione [al neoliberismo], va sottolineato, è propria, fin dal Manifesto di Ventotene, dei federalisti, per i quali la democrazia — cioè il valore che richiede la pace per poter essere pienamente realizzato — deve essere allo stesso tempo liberale e sociale (il che significa un impegno strutturale contro le disuguaglianze fra le persone e fra i territori) per essere reale.” Nell'articolo dello stesso autore citato all'inizio: “La sfida è chiaramente il passaggio dall’integrazione economica essenzialmente negativa (cioè l’eliminazione degli ostacoli al libero movimento delle merci, delle persone, dei capitali e dei servizi) a un’integrazione economica che sia anche positiva (cioè forti politiche sopranazionali dirette ad affrontare gli squilibri inevitabilmente prodotti dal mercato non governato)”.
13. Qui la risposta ai federalisti la lasciamo dare direttamente ad Hayek: quegli strumenti di intervento economico di cui è bene che lo Stato venga privato non possono più essere ricostituiti a livello sovranazionale!
Tale lucida intuizione del nostro fornisce al suo programma federalista, se non altro, una interna coerenza.
Questo il ragionamento (tutte le citazioni sono tratte dal saggio del '39): “L'assenza di barriere doganali e la libera circolazione di persone e capitali fra gli Stati hanno alcune importanti conseguenze che spesso sfuggono: riducono notevolmente le possibilità di intervento dei singoli Stati nella politica economica. Se le merci, le persone e il denaro possono muoversi liberamente attraverso le frontiere interstatali, gli Stati membri non posso più influenzare i prezzi attraverso l'intervento pubblico. [...]
Ora, praticamente ogni politica economica odierna volta ad assistere particolari industrie procede tentando di influenzare i prezzi: lo faccia attraverso marketing board, regimi vincolistici, “riorganizzazione” obbligatoria o distruzione di eccesso di capacità produttiva di certe industrie, lo scopo è sempre quello di limitare l'offerta e quindi aumentare i prezzi.
Tutto ciò diverrebbe chiaramente impossibile per il singolo Stato all'interno dell'unione: l'intero armamentario di marketing board e altre forme di organizzazioni monopolistiche cesserebbero di essere a disposizione dei governi degli Stati.”
Tutto ciò diverrebbe chiaramente impossibile per il singolo Stato all'interno dell'unione: l'intero armamentario di marketing board e altre forme di organizzazioni monopolistiche cesserebbero di essere a disposizione dei governi degli Stati.”
Ma anche rispetto a interferenze meno profonde nella vita economica di quelle che comporta la regolamentazione della moneta e dei prezzi, le possibilità aperte ai singoli Stati sarebbero pesantemente limitate.
Se è vero che gli Stati potrebbero ancora esercitare un controllo sulla qualità delle merci e dei metodi di produzione impiegati, non dev'essere trascurato che, posto che lo Stato non possa vietare l'ingresso di merci prodotte in altre zone dell'unione, ogni obbligo posto dalla legislazione statale su una particolare industria la svantaggerebbe seriamente rispetto alle attività simili in altre zone dell'unione.
Come è stato dimostrato dall'esperienza nelle federazioni esistenti, anche norme come la restrizione del lavoro infantile diventano difficili da imporre per i singoli Stati.”
Se è vero che gli Stati potrebbero ancora esercitare un controllo sulla qualità delle merci e dei metodi di produzione impiegati, non dev'essere trascurato che, posto che lo Stato non possa vietare l'ingresso di merci prodotte in altre zone dell'unione, ogni obbligo posto dalla legislazione statale su una particolare industria la svantaggerebbe seriamente rispetto alle attività simili in altre zone dell'unione.
Come è stato dimostrato dall'esperienza nelle federazioni esistenti, anche norme come la restrizione del lavoro infantile diventano difficili da imporre per i singoli Stati.”
“E' anche chiaro che gli stati dell'unione non saranno più in grado di perseguire una politica monetaria indipendente. Con una moneta unica, l'autonomia delle banche centrali nazionali sarà ristretta almeno quanto lo era sotto un rigido gold standard – e forse anche di più dal momento che, anche sotto il tradizionale gold standard, le fluttuazioni dei cambi tra paesi erano più ampie di quelle fra diverse parti di uno Stato o di quanto sarebbe comunque desiderabile consentire nell'unione.”
“Inoltre, nella sfera puramente finanziaria, i mezzi per raccogliere tasse sarebbero in qualche modo ridotti per i singoli Stati. Non soltanto la maggiore mobilità fra gli Stati renderebbe necessario evitare ogni sorta di tassazione che possa indurre il capitale o il lavoro a spostarsi altrove, ma insorgerebbero difficoltà anche con parecchie forme di tassazione indiretta.”
“Non intendiamo intrattenerci oltre su queste limitazioni che una federazione imporrebbe sulla politica economica degli Stati membri: probabilmente l'effetto generale è stato sufficientemente chiarito da quanto si è detto. In effetti è probabile che la prevenzione di elusioni della normativa fondamentale in materia di libera circolazione di persone, merci e capitali renda desiderabili restrizioni federali alla libertà degli Stati membri ancora più incisive di quanto si è fin qui ipotizzato e una ulteriore limitazione della possibilità di azioni indipendenti.”
E qui arriva il punto cruciale del ragionamento:
“La pianificazione o la direzione centrale dell'economia presuppongono l'esistenza di ideali e valori comuni; il grado in cui questa pianificazione può essere realizzata dipende dalla misura in cui è possibile ottenere o imporre un accordo su questa scala di valori comuni.”
14. Credo che questo accordo potremmo anche chiamarlo Costituzione.
“È chiaro che un simile accordo avrà un'ampiezza inversamente proporzionale all'omogeneità e somiglianza dei punti di vista e tradizioni degli abitanti di una certa area. Benché nello Stato nazione la sottomissione al volere della maggioranza sarà agevolato dal mito della nazionalità, dev'essere chiaro che la gente sarà riluttante a sottomettersi a interferenze nella loro vita quotidiana quando la maggioranza che dirige il governo è composta da persone di diverse nazionalità e tradizioni. In fondo è semplice buon senso che il governo centrale di una federazione composta da popoli diversi sarà circoscritto a un limitato campo di intervento se intende evitare resistenze crescenti da parte dei vari gruppi che lo compongono. Ma cosa può interferire più pesantemente nella sfera personale delle persone di una direzione centrale della vita economica, che inevitabilmente discrimina fra i vari gruppi? Sembrano esservi pochi dubbi che il margine d'azione per la regolamentazione della vita economica di un governo federale sarà decisamente più ridotto di quello di uno Stato nazione. E poiché, come abbiamo visto, il potere degli Stati che compongono la federazione sarà stato a sua volta molto limitato, buona parte dell'interferenza nell'economia a cui ci siamo abituati diventerà impossibile sotto un'organizzazione federale.” Chiaro, no?
“La pianificazione o la direzione centrale dell'economia presuppongono l'esistenza di ideali e valori comuni; il grado in cui questa pianificazione può essere realizzata dipende dalla misura in cui è possibile ottenere o imporre un accordo su questa scala di valori comuni.”
14. Credo che questo accordo potremmo anche chiamarlo Costituzione.
“È chiaro che un simile accordo avrà un'ampiezza inversamente proporzionale all'omogeneità e somiglianza dei punti di vista e tradizioni degli abitanti di una certa area. Benché nello Stato nazione la sottomissione al volere della maggioranza sarà agevolato dal mito della nazionalità, dev'essere chiaro che la gente sarà riluttante a sottomettersi a interferenze nella loro vita quotidiana quando la maggioranza che dirige il governo è composta da persone di diverse nazionalità e tradizioni. In fondo è semplice buon senso che il governo centrale di una federazione composta da popoli diversi sarà circoscritto a un limitato campo di intervento se intende evitare resistenze crescenti da parte dei vari gruppi che lo compongono. Ma cosa può interferire più pesantemente nella sfera personale delle persone di una direzione centrale della vita economica, che inevitabilmente discrimina fra i vari gruppi? Sembrano esservi pochi dubbi che il margine d'azione per la regolamentazione della vita economica di un governo federale sarà decisamente più ridotto di quello di uno Stato nazione. E poiché, come abbiamo visto, il potere degli Stati che compongono la federazione sarà stato a sua volta molto limitato, buona parte dell'interferenza nell'economia a cui ci siamo abituati diventerà impossibile sotto un'organizzazione federale.” Chiaro, no?
15. Concludiamo.
O ha ragione Hayek – la pace coincide con liberalizzazione, integrazione negativa e moneta unica - ma allora di quale più Europa parliamo?
Sì, certo, possiamo ancora aggiungere un esercito unico e ratificare giuridicamente un assetto di fatto, ma senza particolari cambiamenti: la distruzione a cui stiamo assistendo è il fisiologico operare del mercato e in ogni caso un ritorno alla regolamentazione pubblica dell'economia costituirebbe un'interferenza nelle regole generali di pura condotta di “un'economia sociale di mercato fortemente competitiva” se condotta a livello federale e una rivendicazione nazionalista, potenzialmente foriera di scontri e guerre se intrapresa a livello statale: “Qualunque cosa si possa desiderare circa altri fini dell'azione pubblica, sicuramente la prevenzione della guerra e del disordine civile dovrebbero avere la precedenza e se è possibile conseguirli solo limitando lo Stato a questo e pochi altri scopi, quegli altri ideali dovranno cedere il passo.”, ci dice sussiegosamente Hayek.
O ha ragione Hayek – la pace coincide con liberalizzazione, integrazione negativa e moneta unica - ma allora di quale più Europa parliamo?
Sì, certo, possiamo ancora aggiungere un esercito unico e ratificare giuridicamente un assetto di fatto, ma senza particolari cambiamenti: la distruzione a cui stiamo assistendo è il fisiologico operare del mercato e in ogni caso un ritorno alla regolamentazione pubblica dell'economia costituirebbe un'interferenza nelle regole generali di pura condotta di “un'economia sociale di mercato fortemente competitiva” se condotta a livello federale e una rivendicazione nazionalista, potenzialmente foriera di scontri e guerre se intrapresa a livello statale: “Qualunque cosa si possa desiderare circa altri fini dell'azione pubblica, sicuramente la prevenzione della guerra e del disordine civile dovrebbero avere la precedenza e se è possibile conseguirli solo limitando lo Stato a questo e pochi altri scopi, quegli altri ideali dovranno cedere il passo.”, ci dice sussiegosamente Hayek.
Oppure il liberismo non è la risposta a tutti i problemi, e anzi è stata proprio l'esistenza di “un'unione monetaria senza governo economico europeo”, come ricostruisce Pistone, a creare i terrificanti problemi economici e politici che ci troviamo davanti.
Se così è, vengono però meno i presupposti che costituiscono la ragion d'essere del federalismo europeo, cioè la critica, che in effetti non sembra avere molto riscontro nella realtà, allo Stato nazionale democratico interventista, visto come anticamera, se non realizzazione, di un concentrato di potere totalitario e militarista.
Se così è, vengono però meno i presupposti che costituiscono la ragion d'essere del federalismo europeo, cioè la critica, che in effetti non sembra avere molto riscontro nella realtà, allo Stato nazionale democratico interventista, visto come anticamera, se non realizzazione, di un concentrato di potere totalitario e militarista.
Quel che in ogni caso mi pare evidente è che i federalisti non sono portatori di magiche ricette che consentano loro di sottrarsi al dibattito nascondendosi dietro apodittiche formulette ricattatorie.