Personalmente vi consiglio di rileggerlo 3 volte. Così, per attività cognitiva "numerologica" (e, più seriamente, data l'importanza e delicatezza del tema). Francesco Lenzi ci dà un altro saggio della sua bravura divulgativa, pur affrontando uno dei temi economici più tecnici e sdrucciolevoli che ci sia.
Anzi, direi, attualmente, il più "scottante".
A lui va il nostro ringraziamento collettivo.
Al netto del percorso di comprensione dello sviluppo delle premesse, magistrale nella sua invidiabile chiarezza, rimane quell'interrogativo finale.
Ho il "sentore" che una delle migliori risposte-soluzioni (e chiedo in proposito il conforto dello stesso Francesco) sia la formula che Cesare Pozzi indica nel "facciamoci buttare fuori": finanziare investimenti diretti esteri dei residenti (essenzialmente "pubblici") con spesa pubblica programmata per rafforzare il controllo nazionale di filiere "internazionalizzate", ma rigorosamente strategiche. (A cui accoppiare investimenti industriali pubblici, legati al territorio, in settori altrettanto strategici ad alta tecnologia, ovviamente non aperti all'investimento di controllo estero, quanto semmai in più dignitose e paritarie joint venture di scambio delle utilità raggiungibili nella R&S congiunta).
E ciò sia per il valuation effect legato (potenzialmente e...pericolosamente) al recupero della flessibilità del cambio, che per stimolare l'effetto "sostituzione" (dei prodotti italiani rispetto a quelli esteri ora importati) sul flusso delle partite correnti.
Ma su questo, lascio volentieri il campo alle ipotesi ed ai commenti di chi è ben più "ferrato" del sottoscritto...
Avrei voluto chiudere la trattazione
della evoluzione della posizione patrimoniale sull’estero in un unico post,
cercando di dare un visione organica di come essa si sia formata, o almeno di
come partendo da poco più di 50 miliardi, sia passata nel giro di 16 anni ad
oltre 465 (per la verità, con i recenti dati diffusi siamo già oltre 500
miliardi). Però, sia gli interessanti commenti al post, sia alcune discussioni
intraprese su twitter mi hanno stimolato verso altri elementi di analisi che
prendono in considerazione l’altro lato della bilancia dei pagamenti, il conto
finanziario.
Credo sia però importante
innanzitutto indicare brevemente cosa si intenda per conto corrente, conto
capitale e conto finanziario della bilancia dei pagamenti.
Nella bilancia dei pagamenti trovano quindi registrazione tutte
quelle attività che determinano il cambiamento di proprietà di un bene o di
un’attività finanziaria.
Le transazioni di beni, servizi, redditi e
trasferimenti unilaterali si registrano nel conto corrente, il cui saldo è
chiamato saldo di partite correnti.
Le transazioni che riguardano la parte
residua dei trasferimenti unilaterali e le cessioni di attività non prodotte
e/o non finanziarie (brevetti, marchi, licenze) si registrano nel conto
capitale.
Le transazioni aventi per oggetto attività e passività finanziarie
sono registrate nel conto finanziario.
Volendo semplificare se per esempio un
soggetto residente compra un’auto straniera, l’acquisto viene registrato con
segno negativo nella sezione commercio di beni del conto corrente. Quest’auto
dovrà essere però anche pagata (o almeno di regola dovrebbe esserlo) e fino al
momento del pagamento sarà indicato nel conto finanziario (col segno positivo)
il debito del soggetto residente che l’ha acquistata con il soggetto estero che
gliel’ha venduta. Al momento del pagamento poi, se il soggetto residente si è
procurato (attraverso un’esportazione o attraverso un altro prestito) la valuta
stabilita per onorare il proprio debito, pagherà come convenuto estinguendolo,
altrimenti chiederà una nuova dilazione, oppure avrà sempre l'alternativa di
lasciare il chiodo. Questo che vale come
esempio per il singolo soggetto residente, vale allo stesso modo per una
categoria di soggetti, o per la
Nazione intera. Se un Paese nel suo complesso ha acquistato
dall’estero, in un determinato periodo, più beni di quanti ne ha invece
esportati avrà un conto corrente negativo, e corrispondentemente un conto
finanziario positivo (espressione del debito che il Paese ha verso l’estero). A
meno di errori ed omissioni quindi, al termine di ciascun periodo, la somma del
saldo di partite correnti e del conto capitale corrisponde al saldo del conto
finanziario cambiato di segno.
Il conto finanziario viene presentato
attraverso la stessa classificazione utilizzata per la posizione patrimoniale
sull’estero. In esso, infatti, sono distinti i flussi in base alle macro-categorie
dei soggetti residenti (Governo, Banca d’Italia, Istituti finanziari, altri –
privati) e alla tipologia di attività/passività (investimenti diretti esteri,
investimenti di portafoglio, altri investimenti, derivati, riserve).
La
posizione patrimoniale sull’estero è quindi, sia per soggetti che per tipologia
finanziaria, facilmente raccordabile con il conto finanziario. Nell’esempio di
prima il debito commerciale sorto nel periodo a carico del settore privato a
seguito dell’acquisto dell’auto, viene rilevato nel conto finanziario nella
voce altri investimenti e quindi posto in aumento del corrispondente stock
della posizione patrimoniale sull’estero.
Nel conto finanziario però non sono
registrati solo i corrispondenti debiti/crediti sorti a seguito di operazioni
di conto corrente, ma vengono registrati tutti i movimenti di capitali in
entrata/uscita dal Paese. I capitali possono certamente affluire per finanziare
un deficit di partite correnti, ma possono anche affluire per sfruttare
maggiori rendimenti offerti all’interno del Paese piuttosto che in altre aree,
oppure per sfruttare particolari opportunità di investimenti, o per altri
svariati motivi.
In generale, comunque, nelle passività vi saranno indicati
tutti i movimenti che i soggetti non residenti hanno effettuato su attività
domestiche. Nelle attività tutti i movimenti che i soggetti residenti hanno
eseguito su attività estere. La differenza tra le attività e le passività
determina il saldo del conto finanziario. Si può avere lo stesso saldo di conto
finanziario (e quindi di conto corrente cambiato di segno) con afflussi di
capitali per 100 e deflussi per 90, oppure con afflussi 100.000.000 e deflussi
per 99.999.990. Sembra una banalità, ma
è importante capire che mentre dal punto di vista contabile la posizione è
esattamente la stessa, dal punto di vista di solidità finanziaria, resistenza
agli shock e rischio sistemico, maggiori
sono gli importi assoluti e maggiore è la fragilità, la cosiddetta sistematicità,
dell’economia domestica.
Sperando che a questo punto la gran
parte di voi abbia sopportato questa breve infarinatura di contabilità
internazionale, vorrei proseguire l’analisi svolta nel post precedente,
completandola con l’esame di come si è evoluto il conto finanziario
dell’Italia.
Questo ci servirà innanzitutto per verificare ed analizzare l’entità
dei flussi finanziari in ingresso e in uscita dall’Italia. Poi, comparandoli
con le voci della posizione patrimoniale sull’estero sarà possibile ricavare le
variazioni di valore subite sia dalle attività estere degli italiani che dalle
attività italiane dei soggetti esteri. Verificare cioè il valuation effect non solo in termini quantitativi, come si può fare
partendo dal saldo di partite correnti, ma anche qualitativi (quali settori e
su quali strumenti si sono avute variazioni di valore). I dati, analogamente a
quanto fatto nel post precedente, sono ricavati esclusivamente dal database
Banca d’Italia.
Partiamo cominciando ad analizzare
l’evoluzione della sezione passività (quindi relativa agli investimenti che i
soggetti esteri hanno fatto in Italia, i cosiddetti capitali in ingresso) del
conto finanziario, che ho preferito raggruppare per movimenti semestrali in
modo da eliminare la volatilità presente nei dati mensili.
Si possono distinguere cinque periodi
principali. Innanzitutto quello che dal 1988 arriva fino alla metà del 1992,
quello dello SME credibile, quello dei primi grandi flussi finanziari in
ingresso in Italia.
Con la crisi della lira del 1992 termina questo periodo e
passati pochi mesi ne avvia uno nuovo e breve nel quale gli afflussi sono quasi
esclusivamente sottoforma di investimenti di portafogli che dureranno per circa
due anni. Nel 1994 gli afflussi, probabilmente a causa delle tensioni sui mercati internazionali (http://en.wikipedia.org/wiki/Mexican_peso_crisis
), si arrestano ed, in misura contenuta, cambiano anche di segno trasformandosi
in rimpatri di capitali (reversal).
Dopo un periodo di circa un anno di volatilità, da agosto 1995 si assiste ad un
periodo di importanti flussi di capitali esteri in entrata che fino al 2000
continuano in modo ininterrotto.
In questo periodo arrivano complessivamente dall’estero
verso attività italiane circa 640 miliardi di euro. Le turbolenze
internazionali di inizi 2000 provocano l’arresto dei flussi ed un parziale
reversal. Il periodo di pausa però, come avvenuto a metà anni novanta, è durato
solo alcuni mesi e, intorno alla metà del 2002, inizia il quarto ed ultimo
periodo di afflussi, quello che termina con la crisi Lehman Brothers. Durante
questo periodo gli afflussi sono stati molto i più importanti in termini di
valori nominali, circa 960 miliardi di euro, ed hanno riguardato non solo i
classici investimenti di portafoglio (azioni ed obbligazioni), ma anche
investimenti diretti ed altre forme finanziarie (presumibilmente crediti
commerciali e pronti contro termine).
Con la crisi del 2008 si assiste al primo
degli importanti deflussi di capitali che la nostra economia ha recentemente
sperimentato. Nei sei mesi a cavallo del fallimento Lehman Brothers, dal luglio
2008 a
dicembre 2008 i soggetti non residenti ritirano dall’Italia circa 100 miliardi
di euro. Da quel momento inizia l’ultimo
periodo, fatto di alta volatilità dei flussi sia in ingresso che in uscita, con
rimpatri di capitali che erano totalmente sconosciuti nei 20 anni precedenti.
Di particolare evidenza è la crisi del 2011, gli enormi rimpatri di capitali (i
disinvestimenti di attività di portafoglio sono stati pari a circa 180 miliardi
da luglio 2011 a
luglio 2012, oltre il 10% del Pil) ed il contestuale ampliarsi dei debiti con
l’Eurosistema TARGET2 (evidenziato tra gli “altri investimenti”). Poi, dalla
metà del 2012, grazie alle ormai famose parole di Draghi, il ritorno dei capitali e la
diminuzione dell’esposizione con l’Eurosistema. Da allora, nonostante gli
investimenti di portafoglio siano ritornati abbondanti per circa 155 miliardi,
il flusso cumulato è però ancora negativo, con un deflusso netto di capitali
per circa 24 miliardi, segno della più
che proporzionale riduzione della esposizione verso gli “altri investimenti”
(basti notare che soltanto i debiti TARGET2 sono diminuiti di 110 miliardi).
Quanto invece alla evoluzione delle
attività del conto finanziario (gli investimenti che i soggetti italiani hanno
fatto all’estero) questo è quello che si ottiene, raggruppando i flussi su base
semestrale come fatto in precedenza.
Analogamente a quanto visto in
precedenza si possono individuare anche per i capitali investiti dagli italiani
all’estero i cinque periodi visti in precedenza. Infatti, proprio per una
semplice identità contabile, se un flusso finanziario in ingresso non è
destinato a finanziare un movimento di parte corrente, verrà a finanziare
l’acquisto di attività all’estero. In qualche modo, o sotto una qualunque
forma, se i capitali in ingresso eccedono la differenza tra i consumi ed il risparmio
domestico, essi dovranno esser riciclati all’estero.
Da notare poi come la
parte di investimenti diretti verso l’estero, soprattutto nel periodo 2002-2008
sia molto più rilevante rispetto a quanto osservato fino agli anni 2000, ad
ulteriore conferma di quanto visto nel post precedente, riguardo la strategia
di internazionalizzazione del sistema economico italiano. Dicevamo infatti che:
“A differenza dei Paesi emergenti ed in
via di sviluppo (i quali investono all’estero prevalentemente in titoli di debito
e valute), il modello di espansione internazionale dei Paesi sviluppati è
quello di aumentare le passività nella forma di capitale di debito
(investimenti di portafoglio_Bonds & notes) per impiegare all’estero, in
capitale di rischio, le risorse così ottenute, che tendenzialmente dovrebbero
offrire dei rendimenti superiori a quelli pagati sul capitale di debito. Questa
dinamica si evidenzia chiaramente per l’Italia e giustifica anche il
miglioramento dei saldi nella voce redditi delle partite correnti”.
Il carattere internazionale della
nostra economia è evidente da questi due primi grafici. Inseriti in un contesto
di liberalizzazione dei flussi finanziari, la dinamica degli investimenti
italiani verso l’estero dipende dai capitali esteri che arrivano. Maggiore è la
stabilità dei flussi in entrata, più lunga la loro scadenza temporale, maggiore
è la possibilità di “programmare” progetti di investimento sia in Italia sia
all’estero.
Purtroppo negli ultimi anni questa stabilità è stata ben lontana.
Sono ormai sei anni che la nostra economia è bastonata da ingenti deflussi di
capitali che portano spesso i soggetti che li hanno ricevuti a liquidare le
proprie attività, seguiti poi da altrettanto ingenti flussi in entrata che, nel
giro di qualche mese, cambiano nuovamente di segno. E l’euro in tutto questo,
pur essendo stato pensato come elemento in grado di favorire la circolazione di
capitali a medio/lungo termine grazie all’eliminazione del rischio di cambio,
non sembra aver risolto il problema. Anzi, non solo i flussi si sono dimostrati
altamente volatili, ma con la sciagurata gestione della cosiddetta crisi
dell’eurozona, fatta di valutazioni moralistiche, annunci (http://www.businessweek.com/news/2012-05-11/schaeuble-dares-greece-exit-as-contingency-plans-begin
) e ritrattazioni (http://www.spiegel.de/international/europe/german-finance-minister-schaeuble-rules-out-athens-euro-exit-a-861335.html), lettere (http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-09-29/testo-lettera-governo-italiano-091227.shtml?uuid=Aad8ZT8D) e documenti secretati (http://online.wsj.com/public/resources/documents/Greece-IMF-2010-Bailout-Minutes.pdf
), si è data ulteriore incertezza ad un mercato dei capitali che dal 2008 non sembra
più in grado di svolgere quella funzione (se mai abbia potuto svolgerla) di
stabilizzazione dei percorsi di crescita dei Paesi e che debba essere in
qualche modo gestito, anche attraverso l’importante leva del tasso di cambio.
Una volta descritta l’evoluzione dei
flussi in entrata ed in uscita, da parte di soggetti residenti e non, è
possibile analizzare le variazioni di valore che hanno avuto le varie attività.
Avendo, infatti, ricavato i flussi periodici è possibile raccordarli con le
variazioni delle corrispondenti voci della posizione patrimoniale sull’estero
per verificare se tale variazione sia dovuta al valuation effect (differenza di valore delle attività/passività in
essere) oppure ai nuovi flussi finanziari. Si può in sostanza andare oltre la
rilevazione del valuation effect
vista nel precedente post e verificare chi ha avuto le maggiori
perdite/guadagni, su quali strumenti si sono avute queste variazioni di valore
e se esse coincidano con quelle rilevabili dal saldo di partite correnti.
Per prima cosa analizziamo il valuation effect sulle attività detenute
da soggetti italiani.
Come logico attendersi, nei momenti
di crescita internazionale le attività estere aumentano di valore (salvo che non si siano fatti investimenti in regioniparticolarmente sfortunate dal punto di vista della congiuntura internazionale ). Così, a periodi di crescita dei valori
corrispondono, negli anni 2001-2002 e 2006-2008, periodi di forte correzione
delle valutazioni. Nel complesso le attività detenute sotto forma di IDE,
investimenti di portafoglio e altri investimenti, da soggetti italiani, hanno
tutte perso valore. Gli IDE hanno avuto una diminuzione di valore di circa 50
miliardi di €, gli investimenti di portafoglio di circa 19, e gli altri
investimenti 34 miliardi. Più di 100 miliardi di euro la perdita di valore
complessiva nel periodo 1998-2013.
A
parziale compensazione di tale variazione negativa le riserve sono aumentate di
valore per circa 46 miliardi. Quanto infine all’esposizione in derivati, essa
ha subito una variazione negativa di valore di circa 66 miliardi. Non è però
possibile ricavare se essa sia dovuta ad una diminuzione del valore dei
derivati esteri detenuti da soggetti italiani oppure a un incremento del valore
delle attività italiane derivate detenute da soggetti esteri (perché a
differenza delle altre voci del conto finanziario, la voce derivatives non viene distinta in attività/passività).
Riguardo alle attività italiane
detenute da soggetti esteri si ha la seguente situazione
In maniera opposta rispetto a quanto
visto per le attività estere degli italiani, le variazioni positive della
posizione patrimoniale sull’estero italiana si hanno quando le attività
detenute dai soggetti esteri perdono valore, e a causa delle recenti crisi
hanno perso molto valore. Dal 2008 al
2011 infatti, le rettifiche in diminuzione di valore su attività finanziarie di
soggetti non residenti sono state ben 320 miliardi di euro. Poi, con la
stabilizzazione dei mercati finanziari, i valori si sono ripresi ed il
valuation effect è diminuito. Chi avesse fatto investimentiin Italia tra il 2012 ed il 2013 avrebbe così realizzato rilevanti profitti intermini di capital gain. Considerando l’intero periodo 1998-2013, le attività italiane dei non
residenti si sono deprezzate per complessivi 83 miliardi di euro, 15 negli
investimenti diretti, 32 negli investimenti di portafoglio, 36 negli altri
investimenti.
Andando ancora avanti e raggruppando
per tipologia di attività/passività, senza distinzione tra soggetti detentori,
si nota come fino al 2008 siano state le variazioni di valore degli
investimenti di portafoglio ad avere avuto il principale effetto negativo sulla
PNE. In seguito, a causa della crisi dei valori italiani e il recupero delle
valutazioni nel resto del mondo, l’effetto si è rovesciato. Nel 2011 la PNE era migliore di quanto ci
si sarebbe dovuto aspettare sulla base dei flussi cumulati di conto
finanziario, il valuation effect era
quindi positivo.
Ricapitolando, le attività estere
degli italiani (incluse le riserve) hanno perso di valore per circa 58
miliardi. La variazione di valore delle attività derivate è stata negativa per
circa 65 miliardi, mentre le attività italiane di soggetti estere si sono
deprezzate di circa 83 miliardi. Il valuation
effect complessivo, rilevato sulla base dei saldi del conto finanziario, è
stato quindi pari a 41 miliardi, un valore notevolmente diverso rispetto a
quello, pari a 211 miliardi di euro, rilevato dall’analisi del saldo di partite
correnti. La differenza, a meno del saldo di conto capitale (che rimane
comunque di importi marginali), è relativa all’effetto degli errori ed omissioni.
La voce errori ed omissioni è una
voce residuale della bilancia dei pagamenti, risultato della differenza tra il
saldo di partite correnti (sommato al saldo di conto capitale) e il saldo del
conto finanziario. Tale differenza è normalmente considerata trascurabile, ma,
come appare evidente, non lo è. Per chi avesse voglia, si potrebbe approfondire
le cause di queste importanti differenze. Posso ipotizzare che gran parte delle
differenze sia da imputarsi a transazioni che sfuggono alla rilevazione delle
partite correnti. Le rilevazioni di conto finanziario, essendo maggiormente
tracciabili, dovrebbero essere molto più affidabili.
Confrontando il saldo di conto
finanziario e di partite correnti, pare che ci siano molte transazioni in
diminuzione (maggiori importazioni o
minori esportazioni di beni e servizi, maggiori trasferimenti in uscita, minori
trasferimenti in entrata, e così via) che sfuggono alla rilevazione e che hanno
fatto rilevare un saldo di partite correnti migliore - meno negativo - di quello
che effettivamente è stato. Inserendo nel grafico relativo alla differenza tra
PNE e PNE da saldo cumulato di partite correnti, presentato nel post
precedente, l’andamento della PNE da saldo cumulato di conto finanziario, le
differenze da valuation effect,
benché nell’ordine di decine di miliardi di euro, sono molto più limitate
rispetto a quelle descritte in precedenza e il valore della PNE alla fine 2013
è quasi interamente spiegato dai flussi cumulati di conto finanziario.
In conclusione, è da notare come il valuation
effect, essendo l’Italia un Paese debitore netto nei confronti dell’estero,
agisca in controtendenza rispetto alla dinamica dei valori sul mercato
domestico.
Ricordiamo che i valori nella posizione patrimoniale sull’estero
sono inseriti, ove sia possibile secondo il prezzo di mercato (mark-to-market). Pertanto, se il mercato
domestico migliora (tassi d’interesse più bassi, quotazioni azionarie più
elevate), seguendo o meno l’andamento
dei mercati esteri, la PNE
peggiorerà, anche con equilibrio del
saldo di partite correnti. Effetto opposto si ottiene quando le valutazioni
delle attività italiane si deprezzano. Effetto che è ancora più rilevante se,
come nel 2011, avviene in controtendenza con la dinamica internazionale.
In questo modo si spiega il forte
peggioramento della PNE avvenuto negli ultimi mesi. A fronte di valutazioni di
attività estere che sono aumentate, si è avuto un più che proporzionale aumento
dei valori delle attività italiane detenute da soggetti esteri. Questo
peggioramento è quindi “normale” per la nostra economia, fortemente integrata
con l’estero e con PNE negativa.
Il problema non sarà quanto nei prossimi mesi
peggiorerà la PNE
(che fino a quando continuerà, se continuerà, la bonaccia sui mercati sarà
presumibile aspettarsi), ma sarà quello di verificare se dal 2012 i capitali
che sono arrivati possano essere maggiormente stabili, più a lungo termine
rispetto a quelli che erano presenti all’inizio della crisi del 2011.
Interessante sarà analizzare la scadenza delle nuove passività emesse e chi sia
maggiormente esposto su passività di breve termine.
Con un saldo positivo di
partite correnti non abbiamo più bisogno di finanziare all’estero i nostri
(ormai pochi) consumi e importazioni, ma nel caso si verificasse un nuovo
deflusso di capitali siamo sicuri di aver le risorse (in termini di attività
estere) necessarie per fronteggiarlo autonomamente?