1. Onestà e competenza
hanno qualcosa a che vedere con la capacità (giuridica, in quanto sia
espressamente disciplinata da norme dello Stato) di essere
rappresentanti dei cittadini nelle assemblee politiche legislative (di
qualunque livello)?
Accostati i due termini la risposta non può che essere positiva, se non altro perchè risponde al senso comune,
alla ragionevolezza più elementare, che non può accettare persone,
prive di tali requisiti, che siano preposte alle più delicate funzioni
di indirizzo politico (problema che dovrebbe però altrettanto valere per la capacità di essere parte del governo, che esercita un segmento di indirizzo politico di crescente importanza).
Tralasciando le enormi complicazioni giuridico-organizzative (della stessa società) che derivano dal voler poi precisare come si debba accertare preventivamente - in termini di incapacità all'elettorato passivo, ineleggibilità, incompatibilità, o, infine, incandidabilità- il possesso di questi requisiti espressi in termini generalissimi, il problema si pone quando si diffonda, nell'opinione pubblica, l'idea che un candidato, un potenziale rappresentante del popolo nelle istituzioni elettorali, debba solo "essere onesto".
2. Cos'è l'onestà e come la si accerta?
Questa idea si accompagna alla precisazione che sarebbe la mancanza di precedenti penali, cioè di sentenze in giudicato che accertino qualunque tipo di reato, ad attestare l'onestà. Si tratta cioè di una presunzione assoluta che
avere avuto a che fare con la giustizia penale sia una qualificazione
negativa tale da privare il cittadino, avente i requisiti generali di
elettorato passivo, della possibilità di farsi eleggere.
Si porrebbero poi gli ulteriori problemi se ciò debba essere esteso non solo ad ogni tipo di reato, ma anche alla mera condizione di imputato e se questa, a tali fini, debba farsi coincidere con il momento del rinvio a giudizio; e, ancora, quanto debba durare questa incandidabilità non solo rispetto a ciascun titolo di reato per cui si è condannati, ma anche rinviati a giudizio.
Vi risparmio quindi le evidenti questioni di eguaglianza e ragionevolezza che deriverebbero da una preclusione indifferenziata e perenne,
o comunque scollegata dal titolo di reato e dalla durata della pena, e
del processo (nell'ipotesi di condanne nei vari gradi non ancora
definitive).
3. La competenza ma anche l'eguaglianza sostanziale, secondo la Costituzione. E scusate se è poco...
Col d.lgs.n.235 del 2012 (che potete provare a leggere) il problema è stato in qualche modo affrontato dal governo Monti,
portando alla soluzione di una incandidabilità (aggiuntiva a
incapacità, ineleggibilità e incompatibilità) per una durata connessa a
quella della pena (moltiplicata per due) e alla individuazione di reati
che siano considerati in sè, per tipologia o ammontare della pena
inflitta, sintomo di indegnità all'elettorato passivo.
Noterete che stiamo parlando dell'ottica in cui solo l'onestà sia requisito necessario e sufficiente per considerarsi candidabili.
Della "competenza" non abbiamo ancora parlato: mettere
insieme competenza e elezioni, cioè captazione di numerosi voti,
presuppone a sua volta l'irrisolvibile problema se ciò possa essere
stabilito preventivamente per legge.
La
Costituzione non lo prevede e, a leggere ciò che ne dicono la dottrina e
la Corte costituzionale, neppure potrebbe, a pena di precludere l'allargamento della partecipazione alla vita civile e poltica del Paese voluto dall'art.3, comma 2. Tale allargamento, in termini di capacità (generica) all'elettorato passivo, risulta fondamentale per avviare uno Stato democratico pluriclasse e, quindi, redistributivo della stesse capacità di decidere dell'interesse generale in sede politico-istituzionale.
4. La competenza come monopolio autoproclamato dei tecnocrati che dissimulano la propria ideologia.
Riassumendo sul punto, si può dire che una barriera legale in termini di "competenza" viene a prefigurare una tecnocrazia, cioè una forte limitazione della sovranità popolare esercitata nelle forme democratiche, che implicano il metodo elettorale, a favore di persone che abbiano dei requisiti che sarebbe molto difficile fissare una volta per tutte.
Tali requisiti, in termini storici e necessitati, rifletterebbero l'orientamento ideologico di chi avesse, ancor prima che si svolga la competizione elettorale (punto importantissimo), il potere di individuarli.
Ciò attribuirebbe un potere costituente anomalo a tali soggetti
decidenti, perchè sarebbe un potere, per definizione, in contrasto con
la sovranità indifferenziata del popolo e col principio di eguaglianza
anche formale.
Non che questo porti a sostenere che la competenza sia irrilevante:
ma, certo, un medico o un fisico teorico, pur potendo essere persone di
altissimo livello intellettuale, non posseggono la competenza, ad
esempio, giuridica od economica per comprendere al meglio gli assetti
sociali su cui dovrebbero legiferare, neanche, per motivi intuitivi
(relativi ad es; alla sostenibilità finanziaria, o alla interdipendenza
tra loro delle politiche di settore,ed ai loro riflessi economici di
lungo termine), nei rispettivi settori professionali.
5- Competenza e processo elettorale. La relatività della meritocrazia se non c'è l'eguaglianza sostanziale.
E' chiaro dunque che la competenza può essere legata alla "cultura" di un individuo, intendendola come comprovata (nei fatti "curriculari") espressione di un alto livello intellettuale.
Ma questo, a sua volta, nulla può avere a che fare con l'attitudine a comunicare ed a "portare voti". E, punto anche più importante, non può misurarsi il merito in senso oggettivo, legandolo a un metro che consenta valutazioni tali da distinguere il possessore di un prestigioso curriculum da un cittadino meno titolato ma capace di testimoniare, con la sua stessa vita, un grande impegno culturale
(si pensi ad es; ad un operaio che riesca a diplomarsi o a laurearsi
come studente lavoratore; o anche soltanto a un operaio che sia
politicamente attivo e impegnato strenuamente nel cercare di conoscere
le dinamiche sociali in cui si trova a vivere).
In questo genere di valutazioni, entra infatti in gioco l'enorme importanza delle "condizioni di partenza" e della relatività della meritocrazia, la quale, se prescinde da questi aspetti, - che fissi o meno requisiti legislativi predeterminati-, diviene pericolosamente un modo per dissimulare, dietro alla "competenza", i rapporti di forza nella società.
6- I padri della Costituzione, Mortati e Basso: meritocrazia come "partecipazione pluriclasse".
Contro questa minaccia, continua, e particolarmente suggestiva, data la tendenza di ognuno di noi ad acclamare e a delegare chi "ti risolve i problemi" senza farti preoccupare troppo - il che porta dritti agli artifici di chi ha il controllo dei media, che tenderà a presentare la realizzazione dei propri interessi come perseguita da politici encomiabili e ad attaccare chi li osteggia- si è pronunciata la nostra Costituzione.
E lo ha fatto, in un'indispensabile comprensione storico-sistematica, con la formula della democrazia pluriclasse "necessitata", di cui abbiamo tante volte parlato.
Il più evoluto e raffinato interprete di questa formula, a nostro parere, è Lelio Basso, uno dei costituenti più illustri proprio per la sua "competenza", che ci ha dato la formula della "democrazia partecipante", da realizzare progressivamente (certo), ma da subito, senza ritardi frapposti da impossibilità vere o presunte agitate, ovviamente, dalle classi economicamente dominanti.
7. Rawls: la cultura della complessità e della passione civile contro la "doppia verità" e il diritto "naturale" (hayekiano) delle elites liberiste.
Chi si è occupato di "giustizia" sostanziale nell'azione delle istituzioni, evidenziando il "velo di ignoranza"
che ostacola la piena partecipazione alla vita pubblica di ogni strato
della società - ignoranza non legata solo alle condizioni di miseria e
di incultura, ma anche a quelle di "convenienza-utilità" della cultura della classe dominante, tipicamente il liberismo-, è stato John Rawls.
Egli tentò di conciliare pluralisticamente i differenti concetti di "giustizia" che possono formarsi nella società, e, quindi, il socialismo col il liberalismo; un capolavoro su una conciliazione considerata spesso impossibile, dato che i liberisti (la distinzione terminologica è in realtà più italiana che anglo-sassone e possiamo metterla da parte...per ora) sono programmaticamente e irrinunciabilmente ostili alla condivisione del potere politico (e qui si comprende pienamente Spencer: "La
funzione del liberalismo in passato fu quella di porre un limite ai
poteri del re. La funzione del vero liberalismo in futuro sarà quella di
porre un limite ai poteri del Parlamento").
La conciliazione argomentata da Rawls, spesso geniale - ma che esige una cultura della complessità che coniughi passione civile, cioè un'attitudine psicologica "umanitaria", con profondità intellettuale-, ha dato luogo ad un visione dinamica non dissimile da quella di Lelio Basso.
In entrambi i casi occorre una "tensione morale", nei perseguitori di questa visione, quale implicito presupposto il cui mantenimento è molto difficile: una rarità che contrasta con la
dura realtà storico-sociale per cui le elites economiche tenderanno
sempre a teorizzare la unicità della "giustizia" da essi propugnata. E ciò avendo per di più i mezzi, finanziari e mediatici, per prevalere, non solo contro i "nemici di classe", ma proprio nel confronto con coloro che sono i portatori di questa tensione morale alla conciliazione di interessi in lotta fra loro, in un modo democraticamente istituzionalizzato.
La "doppia verità" liberista è dunque, in realtà, un modo di proiettare sul piano politico, e quindi del governo della società, la loro supremazia pretesamente "naturale" conquistata con una (più o meno effettiva) dura lotta sul piano economico; sicchè ogni azione strumentale a ciò,
compreso il condizionamento mediatico dell'opinione pubblica e la
cooptazione di falsi rappresentanti del "popolo" in realtà asserviti ai
loro interessi in modo dissimulato (ai propri elettori), viene
considerata espressione di una sorta di nuovo "diritto naturale".
8. La meritocrazia senza eguaglianza sostanziale come vulgata di controllo sociale neo-liberista: tra privilegio per nascita e strumenti illeciti di scalata sociale.
Quello che, per ora, ci importa sottolineare, tuttavia, è che il richiamo alla "meritocrazia" è una parte essenziale della vulgata di controllo sociale liberista, una simulazione di "giustizia nella società" che nasconde e contrasta la realtà dei diversi punti di partenza per gli individui, evidenziata dai pensatori pluralisti.
Insomma,
la meritocrazia è una negazione del pluralismo ed una implicita
affermazione della giustizia basata sui rapporti di forza economica.
Non
a caso, infatti è propugnata da coloro i quali si guardano bene
dall'evidenziare i criteri di selezione (darwinista) che avrebbero
portato alla posizione personale da cui predicano tale sistema!
Mai è evidenziata l'influenza del privilegio
per nascita, e meno ancora, ovviamente, la liceità e utilità sociale
dei loro strumenti di scalata nelle gerarchie umane: tipica la posizione ereditaria o l'appartenenza a gruppi economici in posizione di monopolio o, ancor più insidiosamente, di oligopolio.
9. I mandatari dell'oligarchia meritocratico-darwinista e la dissimulazione del conflitto di interessi nella "tecnocrazia".
Nei momenti più difficili, di "sollevazione" della base sociale, si servono di appartenenti indiretti a tali posizioni di disutilità o illiceità- cioè di "loro" mandatari con rappresentanza, remunerati a tal fine- da far eleggere, o comunque preporre alle istituzioni di governo. Facendo nascere l'immenso problema del conflitto di interessi; di cui parleremo in seguito, ma la cui caratteristica è sempre quella di essere strategicamente reso non riconoscibile.
Una versione considerata accettabile (sempre mediaticamente) della meritocrazia autoproclamata e strategicamente in conflitto di interessi (occultato) è la tecnocrazia, basata appunto sull'idea che la complessità della
società moderna - cosa in parte vera, ma proiettata posticciamente
sulle dinamiche dell'invariabile conflitto sociale- possa essere governata solo dai "tecnici". E che questi possano farlo in modo più efficiente e quindi utile per l'interesse generale della democrazia.
Questa è esattamente la forma della governance dell'Unione europea, così esplicitamente teorizzata e praticata nelle parole dello stesso Barroso (The EU is an antidote to democratic governments, argues President Barroso). Che, ovviamente, non è altro che il tipico rappresentante-mandatario delle elites economiche
e del loro disegno antidemocratico. Che, condiviso tipicamente dalla
schiera degli eurocrati, rende la sua ammissione così "normale", surrogabile dalle dichiarazioni di qualunque altro componente della governance europea e dei governi dei singoli Stati che di essa fanno un punto irrinunciabile.
10- Rawls e il "consumismo senza senso" come prodotto della tecnocrazia in conflitto di interessi.
Tale è questa realtà, della meritocrazia tecnocratica, che Rawls, come abbiamo visto, riconobbe a prima lettura il disegno di Maastricht e dell'euro (Una domanda che gli Europei dovrebbero porsi, se mi è consentito
azzardare un suggerimento, è quanto vincolante dovrà diventare la loro
unione. Si perderebbe molto, credo, se l’Unione Europea diventasse un’unione federale, sul modello degli Stati Uniti. Qui esiste un linguaggio politico comune e una certa disponibilità a spostarsi da uno Stato all’altro.
Non vi è conflitto tra un mercato esteso, libero e aperto che
comprende l’intera Europa e i singoli Stati-nazione, ognuno con le
proprie istituzioni sociali e politiche separate, le proprie memorie
storiche, e le proprie forme e tradizioni di politiche sociali. Di sicuro si tratta di valori significativi per i cittadini di questi Paesi, valori che danno un senso alle loro vite.
Il mercato aperto europeo è tra gli obiettivi dei grandi gruppi bancari e dei più grandi gruppi capitalistici, il cui scopo principale non è altro che aumentare il profitto.
L’idea di una crescita economica, continua e marcata, senza alcun
obiettivo specifico all’orizzonte, si addice perfettamente a questi
gruppi. Se parlano di distribuzione, lo fanno quasi sempre in termini di
effetti a cascata o ricadute favorevoli.
Il risultato di lungo periodo di tutto questo – già manifestatosi negli Stati Uniti – è una società civile immersa in un qualche tipo di consumismo privo di senso.
Non posso credere che questo sia quello che volete).
11-
La "competenza", in democrazia (vera), è saper riconoscere il conflitto
di interessi dei tecnocrati che espropriano la democrazia.
Allora,
se la società democratica è aperta e pluriclasse, ma è resa
praticamente (utilitaristicamente) impraticabile dalla doppia verità
della tecnocrazia in uno specifico conflitto di interessi, e se
quest'ultimo agisce in quanto non sia riconoscibile programmaticamente
dai popoli, a che serve un "onesto", con la fedina penale immacolata
che sia concretamente incapace di fare tale riconoscimento, nella
complessità delle decisioni da prendere, o, peggio, che sia mandatario
delle elites portatrici del conflitto?
Questa domanda ci dà la risposta operativa al perchè sia necessaria la "competenza" e, al tempo stesso, in cosa debba consistere quest'ultima nella tensione alla realizzazione di un'effettiva democrazia.
E ci dà anche un semplice regola pratica: non votare chi non riscuota la nostra fiducia nel saper riconoscere il conflitto di interessi.
Sapendo, ovviamente, che tale conflitto esiste e quali ne siano le
radici inevitabili, finchè saremo in una società capitalista.
Dei
modi e delle multiformi ragioni e manifestazioni del conflitto di
interessi "sociale", quello che sospende la democrazia costituzionale
(che per fortuna ancora possiamo rivendicare) ci occuperemo
prossimamente.