1. La confusione mentale regna sovrana nelle dichiarazioni degli €uropeisti, istituzionali e "culturalizzati", ovverosia, ideologizzati a quella forma di mondialismo, sedicente progressista (ma che ha in sommo odio le Costituzioni democratiche dei diritti del lavoro), che finisce invariabilmente per predicare la...carità del gold standard mondializzato, come forma di promozione, addirittura, dell'etica cristiana.
Perchè di questo si tratta quando si teorizza l'assoluta priorità del mantenimento dell'euro in quanto tappa fondamentale di un percorso verso una moneta unica mondiale, indubbiamente sottratta alla sovranità dei singoli Stati (democratici e regolati da Costituzioni) e, di conseguenza, necessariamente affidata al sistema bancario liberalizzato e altrettanto mondializzato: questo assume così la forma di una governance "de facto", ma guardandosi bene dal chiarirlo ai cittadini che, a un certo punto, si trovano esposti al bail-in.
Ed infatti, allorchè un trattato istituzionalizza tale assetto monetario (dove l'erogazione del credito diviene l'unica forma di emissione della moneta lecitamente praticabile), questo risulta l'effetto per il benessere e la democrazia dei cittadini degli Stati assoggettati al trattato stesso. Cioè un assetto che sottomette ogni tipo di istituzione "pubblica", sia statale, in via di "liquidazione" (perché obsoleta), che pseudo-internazionale; dunque governance rispondente a interessi economico-finanziari "privatizzati" e resi "sovrani" da trattati che si intendono superiori alle Costituzioni.
In versione cristiana, ecco la non nascosta teorizzazione che ne fece Beniamino Andreatta tra un "inevitabile" "movimento per l'unificazione monetaria" mondiale, essendo la moneta nazionale "uno strumento sempre più obsoleto", e lo sviluppo, non a caso anticipatorio di Padoa-Schioppa, "in modo duro austero e forte" del "senso della cittadinanza universale":
2. Presupposto, come direttiva principale, questo scenario, - che non bisogna mai dimenticare, dato che non è nè lo stato di eccezione derivante dall'immigrazione nè quello, ancor più "eccettuante", creato dal terrorismo, che lo pongono in discussione (anzi, lo rafforzano e ad esso occorre tendere con ogni mezzo: propagandistico, mediatico, accademico, e anche militare, ormai)-, dicevamo della confusione che regna sovrana negli enunciati e nelle decisioni preannunciate (come TINA) dall'€uropeismo in crisi (wanna be) di espansione.
Infatti, da un lato, dichiarano che il problema dell'immigrazione di massa nel territorio dell'Unione è qualcosa con cui dovremmo convivere a lungo, perché, a dire dell'UE e di tutte le organizzazioni mondialiste (in testa il Dipartimento di Affari Sociali ed Economici dell'ONU), esso è un fattore benefico di trasformazione e riequilibrio demografico, indispensabile per la sostenibilità sociale (certamente dello Stato minimo hayekian-mondialista).
Dall'altro lato, in varie versioni, che spesso si rincorrono e si contraddicono tra di loro, ci dicono che siamo in guerra con l'Islam, o coi terroristi antidemocratici: come se la democrazia fosse una preoccupazione dell'UE, che teorizza senza mezzi termini l'esautorazione dei parlamenti nazionali, e l'instaurazione di una governance tecnocratica modellata, secondo la versione esplicita della Venice Commission, su quella della World Bank.
3. Insomma, sia come sia, saremmo in guerra e bisogna costituire un esercito europeo; naturalmente supportato da "riforme strutturali" che includono la riduzione del personale pubblico dipendente della difesa, l'operatività auspicata dei contingenti armati di contractors privati, la creazione di gruppi industriali privati, super-oligopolistici, accorpati a livello €uropeo (cioè l'acquisizione dell'industria della difesa dei paesi "debitori" da parte dell'industria privata dei paesi "forti"), e, però, investimenti in ricerca e sviluppo a carico dei bilanci degli Stati (senza tuttavia rinunciare al pareggio di bilancio, non sia mai!), perchè si sa, il "ritorno" di tali investimenti può essere gravemente incerto e non possono i privati perdere tempo visto che sono così cristiani e caritetevoli da fare gli interessi della "difesa comune".
In questa evidente contraddittorietà non c'è spazio per alcun ragionamento razionale, essendo l'emotività su cui si basa il controllo totalitario neo-ordo-liberista (anche Sapelli ce lo conferma), completamente intollerante verso qualsiasi ragione che la contraddica.
4. Ma val bene la pena di rammentare qualche precedente storico: movimenti migratori interni all'Europa ci sono stati in passato e, con tutta evidenza, non furono regolati nel modo in cui si vorrebbe attualmente imporre il flusso di coloro che "fuggono dalla guerra, dalla miseria e dalla fame".
Certamente, il periodo successivo alla seconda guerra mondiale, determinò in Europa problemi anche più gravi di quelli causati dalle crisi mediorientali e africane attuali. Negli anni e, anzi, nei decenni immediatamente successivi, infatti, in attesa degli effetti sociali ed occupazionali delle varie "ricostruzioni" (industriali e degli Stati di diritto) di un continente devastato, i flussi migratori tra Stati europei furono certamente imponenti. E gli italiani ne furono, purtroppo, protagonisti.
Come furono affrontati?
5. Seguendo un modello di risoluzione che oggi si è stranamente dimenticato:
a) naturali carenze di manodopera e di base demografica erano certamente presenti (i morti, i disabili al lavoro e i deportati erano decine di milioni) e costituivano un problema per la ripartenza industriale, specie in attesa di poter ricostituire, con adeguati investimenti, gli impianti distrutti o, comunque, resi obsoleti dall'arresto delle attività economiche non strumentali all'apparato bellico. (Dapprima, va detto, furono utilizzati come lavoratori in stato di semi-schiavitù, i prigionieri tedeschi, ma questa fase, procedendo l'applicazione dei vari trattati di pace, finì entro il 1947-46);
b) Stati come il Belgio e la Germania (ma anche la stessa Francia), risolsero il problema stipulando trattati bilaterali con gli Stati che, come l'Italia, avevano un'incompiuta (quanto ad efficienza) base agricola e un'insufficiente base industriale, financo da ricostituire, per poter assorbire l'eccesso di manodopera determinato dal simultaneo ritorno dei vari combattenti e dalla carenza di investimenti praticabili (in attesa della riforma agraria - che, comunque, a dire di Caffè, rimase incompiuta nella sua dimensione programmatica "a tappe" che, pure, era stata elaborata dalla Commissione economica per la Costituzione-, e della ripresa industriale);
c) questi trattati bilaterali prevedevano una selezione della manodopera potenzialmente ammissibile alla emigrazione operata, sulla base di procedure di richiesta dello Stato "ricevente", dagli stessi uffici competenti dello Stato di origine. Questo modulo fu poi piegato alle esigenze della parte economicamente più forte, in quanto dapprima si volevano essenzialmente lavoratori italiani provenienti dalle aree già industrializzate e che non fossero comunque stati coinvolti in rivolte contadine e "occupazioni" delle terre: insomma, nei centri di raccolta (sotterranei della stazione di Milano o di Verona, non molto dissimili da lager) in territorio italiano, i funzionari belgi e tedeschi riselezionavano i cittadini italiani considerati più adatti e meno politicamente compromessi col "comunismo";
d) nel paese di destinazione, i lavoratori italiani venivano trasportati, dai treni-merce su cui avevano viaggiato, in appositi carri-bestiame, a della baraccopoli per essere allogiati. Generalmente si trattava degli stessi campi di prigionia usati dai tedeschi o dagli alleati durante il conflitto. Qui avveniva un'ulteriore selezione, dove i politicamente sgraditi e quelli fisicamente e psicologicamente inadatti al lavoro, in miniera, o nel facchinaggio più pesante, erano individuati sbrigativamente e rimpatriati;
e) dopo alcuni anni di applicazione di questi trattati, l'indirizzo di selezione mutò, perché ci si accorse che i meridionali italiani, essendo più privi di alternative e più disperati, erano meno portati all'abbandono e al rimpatrio di quelli del nord, che, a loro volta, venivano richiamati in patria dai parenti che, nel frattempo, avevano constatato la ripresa economica e dell'occupazione nelle aree industriali italiane, dove le condizioni di lavoro erano meno disumane di quelle imposte da begli o tedeschi;
f) nondimeno, i meridionali italiani, una volta stabilizzati, perché ritenuti affidabili e "produttivi" (naturalmente a livelli retributivi, e di condizione abitativa, più bassi di quelli che qualsiasi autoctono avrebbe mai accettato), e ritenuti perciò "preferibili", venivano incentivati a richiamare anche i parenti; ciò da un lato consentì ai paesi "riceventi" di evitare la straniazione e la potenziale destabilizzazione sociale legata alla presenza degli immigrati, dall'altro li rifornì di un ulteriore stabile flusso di manodopera a bassa retribuzione, che veniva socialmente emarginata e rinchiusa in enclaves chiuse nella memoria e nella nostalgia della terra di provenienza (dunque, l'assimilazione fu convenientemente molto lenta e completata dalla discriminazione selettiva nell'accesso ai livelli superiori di istruzione dei figli dei nostri emigrati: fenomeno, che dato il sistema istituzionale scolastico tedesco, è sostanzialmente ancora in atto).
6. Al di là della cronistoria di dettaglio di questi eventi, che certamente testimoniano la non novità delle grandi migrazioni di massa in Europa, e che potete trovare più o meno crudamente illustrati qui e qui (ex multis), è evidente che le soluzioni adottate, - pur quando, si badi bene specialmente nell'esperienza tedesca, erano già operanti i trattati OECE (poi OCSE) e i primi trattati europei CECA e Euratom-, erano improntate a:
a) fissazione annuale di contingenti da parte del paese di destinazione e selezione degli "aspiranti" operata essenzialmente sul territorio di provenienza, da parte di organismi e funzionari sia nazionali che del paese di destinazione, secondo procedure fissate nei trattati bilaterali (anche se poi, come abbiamo detto, in pratica "forzate" a favore della discrezionalità esercitata di fatto dai selettori stranieri operanti in territorio nazionale);
b) assicurazione dell'occupazione all'arrivo, ma sottoposta sia a un'ulteriore selezione "in loco" che ad un periodo permissivo "legale" iniziale limitato (generalmente a un anno), al cui termine, se la autorità e i dirigenti delle imprese non erano soddisfatti, si procedeva alla revoca del permesso di lavoro e al rimpatrio;
c) forte ciclicità dell'immigrazione stessa, in funzione della corrispondente ciclicità dei settori industriali interessati, con contingentamenti e rimpatri accelerati in caso di crisi occupazionale del settore. A ciò si unì poi la mitigazione delle mera importazione di forza lavoro col consentire i "ricongiugimenti", cosa che garantiva sia futura forza lavoro senza dover ricorrere all'applicazione del trattato bilaterale, sia la più sicura assimilazione dei familiari insediati, seppure segregati in condizioni di mobilità sociale, in particolare sotto il profilo dell'accesso ai livelli più alti di istruzione, istituzionalmente delimitate;
d) la successiva crescita dell'economia italiana, a complemento di ciò, indusse poi il fenomeno dei "ritorni" nei paesi di origine, contribuendo ulteriormente a calmierare i problemi di impatto socialmente destabilizzante sulle comunità sociali e politiche di destinazione.
7. In sintesi, si può dire che il sistema ebbe una certa funzionalità, pur con i suoi ovvii inconvenienti, riassumibili nella formula: non ci sono pasti gratis, meno che mai che per degli stranieri, e meno che mai ci si può aspettare che vengano stesi tappeti rossi per un'integrazione che, come evidenziano le cronache del tempo, ad es; in terra tedesca, passavano per una comunicazione politica e misure normative che rassicuravano i tedeschi sulle preferenza loro accordata per l'accesso ai lavori più appetibili.
Rimane il fatto che tale sistema aveva dei contenuti concordati essenziali, considerati connaturali: il reclutamento-collocamento e il convolgimento burocratico e istituzionale congiunto, sul territorio di "origine" dei responsabili amministrativi di entrambi gli Stati, secondo esigenze e contingenti programmabili stabilite negli accordi bilaterali, nonché la selezione ulteriore, in funzione di convenienze anche di orientamento politico e atteggiamento "cooperativo", compiuta nel paese di destinazione. Che, comunque, si riservava sia ulteriori selezioni all'arrivo in base a criteri di ulteriore "gradimento", sia l'adozione di un sistema di temporaneità dell'occupazione assicurata, che quello di misure normative studiate per tenere sotto un certo controllo l'inserimento-mobilità sociale dei nuovi arrivati (e delle loro stesse famiglie ricongiunte).
8. Ora, pur nella, molto presunta, nuova sensibilità verso i "diritti umani" dell'attuale €-clima ideologico-mediatizzato (diritti che, se escludiamo quelli di tutela del lavoro, smantellati a tappe forzate in tutta €uropa, si riducono a formule cosmetiche su accoglienza e forme di assistenza sociale, anch'esse progressivamente tagliate, come ben sappiamo), è facile avvedersi come questa soluzione sia tutt'ora e vantaggiosamente praticabile.
Va, infatti, considerato che i paesi di provenienza dell'attuale immigrazione - che furiosamente e "curiosamente" viene lasciata premere direttamente alle frontiere dei paesi di destinazione- sono statisticamente ben noti e, comunque, facilmente accertabili, e che solo una percentuale minima, in termini quantitativi, dei "disperati", ha i requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato, o persino della condizione di protezione umanitaria o sussidiaria (cfr; art.78, par.1, del TFUE: concetti non ben precisati, semplicemente perché non precisabili sul piano materiale, storico e politico, e che dunque si prestano a arbitrii e manipolazioni del tutto contingenti, cioè a una discrezionalità priva di una seria predeterminazione legale dei suoi criteri di esercizio).
Si consideri che, quanto al 2014, ad esempio, "su 36.270 stranieri richiedenti lo status
di rifugiato, il 10% (3.641) l'ha ottenuto, il 23% ha ricevuto
protezione sussidiaria, il 28% quella umanitaria. Pari al 39% le domande
respinte". E questa statistica esclude dal computo quegli immigrati
che non hanno inoltrato alcun domanda di asilo, che sono la
maggioranza, considerando che, nello stesso 2014, gli arrivi sono
ammontati a circa 170.000 persone.
NB: I dati della tabella sottostante riguardano, nei vari Stati interessati, l'esito delle pratiche attivate dai richiedenti uno status di profugo o similare, non il numero totale degli immigrati in arrivo, che è molto maggiore: quelli che non fanno richiesta, infatti, sono, per loro stessa ammissione, degli immigrati "illegali" ai sensi dell'art.79 TFUE, cioè espressione del fenomeno che tale norma imporrebbe all'Unione di contrastare:
NB: I dati della tabella sottostante riguardano, nei vari Stati interessati, l'esito delle pratiche attivate dai richiedenti uno status di profugo o similare, non il numero totale degli immigrati in arrivo, che è molto maggiore: quelli che non fanno richiesta, infatti, sono, per loro stessa ammissione, degli immigrati "illegali" ai sensi dell'art.79 TFUE, cioè espressione del fenomeno che tale norma imporrebbe all'Unione di contrastare:
9. Essendo questi i fatti, non si vede perché l'Unione europea e, più ancora, gli Stati-membri non abbiano, di fronte alla situazione emergenziale protraentesi ormai da anni, attivato gli accordi bilaterali modellati sulle precedenti esperienze, interne all'Europa, che consentirebbero di evitare il tragico spettacolo permanente della disperazione e dell'ammasso umano, sfruttando, anzi, doverosamente applicando, le stesse clausole dei trattati.
Va infatti ricordato che l'art.78 TFUE sopra citato, se letto in buona fede, si riferisce chiaramente a flussi peculiari, cioè determinati da eccezionali e imprevedibili eventi circoscritti a uno "Stato terzo" manifestamente in stato emergenziale, e non coinvolgenti in modo stabile e prolungato, data l'evidente ratio di eccezionalità della normativa, intere aree continentali o addirittura interi continenti.
Ce lo conferma lo stesso trattato: al successivo art.79, infatti, l'Unione nel configurare una "politica comune" di gestione dei flussi migratori:
a) si pone, al par.1, l'obiettivo prioritario del "contrasto rafforzato alla immigrazione illegale e alla tratta degli esseri umani".
E dov'è tale azione comune di contrasto rafforzato, che è evidentemente diversa dal principio del "non respingimento" e della protezione sussidiaria e dei rifugiati, che riguarda situazioni eccezionali e imprevedibili?;
b) enuncia il seguente fondamentale principio (par.5): "Il presente articolo non incide sul diritto degli Stati membri di determinare il volume di ingresso nel territorio dei cittadini di paesi terzi, provenienti da paesi terzi, allo scopo di cercarvi un lavoro indipendente o autonomo";
c) infine, volendo attribuire alla normativa europea una certa previdenza sugli esiti emergenziali dei principi dell'art.78, lo stesso art.79, al par.3, mostra come la degenerazione, fuori dai suoi presupposti giustificativi nel trattato, di una fase emergenziale non si risolva con la permamente apertura delle frontiere che, anzi, fuori dalla condizione di imprevedibiltà, origine circoscritta ed eccezionalità, (caratteri che la dimensione e la durata attuale del fenomeno ormai smentiscono), deve considerarsi non consentita e da correggere. Ed infatti, il par.3 così prevede:
"L'Unione può concludere con i paesi terzi accordi ai fini della riammissione, nei paesi di origine o di provenienza, di cittadini di paesi terzi che non soddisfano o non soddisfano più le condizioni per l'ingresso, la presenza o il soggiorno nel territorio di uno degli Stati membri".
E dove sono, dopo anni e anni di incremento vertiginoso del fenomeno della immigrazione illegale (ce lo dicono le statistiche) questi accordi, coi ben identificabili paesi terzi, per il rimpatrio di coloro che non soddisfano ora e poi le condizioni di ingresso in €uropa?
10. In conclusione, se gli Stati, nel quadro dei trattati europei, avrebbero ben potuto impostare dei trattati bilaterali coi paesi di maggior provenienza della immigrazione economica, per regolare i flussi migratori in funzione delle proprie effettive esigenze occupazionali, se l'Unione non ha concluso gli accordi di rimpatrio con questi stessi paesi (anche di coloro che "non soddisfano più" le condizioni di entrata), ci sarà un motivo razionale?
Forse che la disoccupazione dei legalmente residenti in €uropa non è un problema attuale, eclatante, disastroso, e, alle condizioni di governance economica dell'UEM, rivelatosi in concreto irrisolvibile?
Non è dunque un problema espressamente preso in esame dati trattati con le loro esplicite previsioni?
11. Certo, qualche problemino, ORA, a trovare organi dei paesi terzi legittimati a concludere dei trattati bilaterali e con l'Unione ci sono: ma la situazione sopravvenuta della Libia, visto il suo ruolo di passaggio-vettore della migrazione africana, era ben prevedibile, una volta scatenata la guerra contro Gheddafi. Anche considerando, appunto, che dalla Libia, essenzialmente, non scappano i libici, ma coloro che, provenienti da gran parte dell'Africa, uno Stato libico legittimo secondo il diritto internazionale, piuttosto, teneva sotto un certo controllo (per quanto ricattatorio).
E destabilizzare sistematicamente il medio-oriente con crociate per la democrazia aveva lo stesso risultati molto prevedibili di medio e lungo termine.
Tra l'altro nulla impedisce di concludere, anche attualmente, accordi bilaterali con Stati come la Tunisia, il Marocco, la Nigeria e via dicendo, anche implementando presso il territorio di questi Stati, o Stati simili, centri a gestione congiunta di selezione e verifica non solo della condizione di "rifugiato" o di "protezione umanitaria", ma pure di quella della "eleggibilità" del mero migrante economico.
Almeno, dovendo prendere delle decisioni in quadro giuridico certo e predefinito, si dovrebbe ammettere, nel caso dei "migranti economici", che la situazione dell'occupazione, nella maggior parte dell'eurozona, non è, in questo (lungo) momento, tale da rendere economicamente e socialmente opportuna tale tipologia di immigrazione.
E magari, si dovrebbe pure spiegare ai cittadini europei perché le cose stanno in questo modo (ben diversamente da quello che accadde nella fase di ricostruzione che seguì alla seconda guerra mondiale).
Invece, si continua con la politica dell'ammasso e degli arrivi alle frontiere dell'Unione, che sono esattamente l'opposto dei trattati bilaterali che il trattato avrebbe previsto e anzi, nelle condizioni attuali, imposto, per regolare i flussi di immigrazione e per combattere quella illegale e la tratta degli esseri umani.
Evidentemente, prevenire il terrorismo dei disadattati "programmatici", nelle sue più ovvie cause scatenanti, non è un obiettivo razionalmente affrontabile in sede €uropea.
Evidentemente la soluzione preferita è l'esercito europeo delle multinazionali private e delle privatizzazioni sovranazionali...