Da Francesco Maimone e Bazaar riceviamo, e volentieri pubblichiamo, questo post: ci pare che esso contribuisca a una riflessione necessaria proprio in questo momento, nel quale la "via stretta" di una resistenza democratica deve procedere, più che mai, evitando l'interpretazione "inerziale" (rispetto a tendenze che nel presente risultano inattuali) degli elementi strutturali della realtà.
Ci pare cioè importante prevenire "scostamenti ideologici" da un corretto percorso dialettico, scostamenti destinati pericolosamente ad amplificarsi nel proseguire delle traiettorie prescelte. Ovvero, scostamenti destinati ad accentuare un "cul de sac", pur quando reso evidente dai duri fatti della realtà socio-economica dell'eurozona. Una realtà ormai decisamente orwelliana.
La cosa di cui dovremmo essere coscienti è che siamo in un momento eccezionale di travolgimento delle istituzioni costituzionali senza precedenti nella storia delle Repubblica: lo sforzo resistenziale dovrebbe indirizzarsi a neutralizzare il trascinamento di steccati ideologici, superabili con un realistico dialogo in nome della forza unificante del comune interesse costituzional-democratico (ovviamente, la disponibilità al superamento deve essere bilaterale: cioè vale per qualunque parte in causa). Ho aggiunto qualche "nota di Quarantotto" [NdQ].
1. Questo intervento prende
le mosse dal post, a firma dell’amico Mimmo Porcaro, pubblicato il 10 maggio
2017 su “Sollevazione” ed intitolato “Strategia
e tattica: le lezioni che ci vengono dalla Francia”. Le argomentazioni ivi addotte
da Porcaro, ed in gran parte condivisibili, rappresentano allo stesso tempo
l’occasione per alcune riflessioni su taluni passaggi del suo ragionamento che,
di contro, non ci vede del tutto in sintonia.
In tal senso, Porcaro ha sottolineato
con efficacia che il successo elettorale di Macron è stato determinato dalla “Union
Sacrée” dell’oligarchia eurocratica
dipinta, tuttavia, come forza democratica contrapposta al Front National
propagandato, per converso, come forza dagli spiccati connotati fascisti.
L’evidente
dissonanza cognitiva di massa evidenziata da Porcaro ci pare corretta, dal
momento che – come lo stesso sottolinea – la mera autoreferenzialità
democratica ed antifascista, supportata ad arte dal clero mediatico, non può predicarsi
per un “europeismo padronale di cui Macron è al momento l’eroe riconosciuto”
e che ha “da tempo messo in atto con
efficacia una precisa strategia di dissoluzione de iure e de facto
delle Costituzioni”. Pertanto, quell’europeismo “antifascista” (l’Union Sacrée), cosmeticamente acconciato da democrazia – prosegue
Porcaro – sarebbe in realtà solo “il miglior sostituto funzionale del fascismo
stesso” che, tuttavia, al momento
“semplicemente
non c’è”.
2. Quest’ultimo
passaggio rappresenta il primo punto sul quale riteniamo di non convenire con
il pensiero di Porcaro, per come testualmente dallo stesso espresso.
In
proposito, bisogna preliminarmente intendersi su cosa debba intendersi per “fascismo” (almeno nella tradizionale elaborazione
della teoria marxiana) termine quantomai equivoco e foriero di fraintendimenti
più di quanto si possa immaginare. Volendo definire il fenomeno in relazione a quelli
che Lelio Basso assumeva fossero i suoi “caratteri permanenti” e non
contingenti, è possibile sostenere che lo stesso è “… la tendenza del capitale ad
esercitare una totale manomissione sul pubblico potere, assicurandosi in pari tempo una base di massa nel paese, qualunque
siano poi le forme che questo regime reazionario di massa riveste di volta in
volta” [L. BASSO,
Fascismo ed antifascismo oggi, in Problemi del socialismo, marzo 1960,
n. 3, 285].
Il capitalismo, a causa
delle sue contraddizioni, nei suoi momenti di crisi (che per Marx costituiscono
la normalità) si trova nelle condizioni di non riuscire a superarla e deve
allora cominciare ad utilizzare lo Stato.
Da questo punto di vista, il fascismo
storico in Italia – innescato dalla crisi del primo dopoguerra, ma
non solo - non ha fatto altro che anticipare “… un processo che poi si generalizzerà: cioè la simbiosi tra Stato e capitalismo, fra economia e politica.
A un certo momento per non tenere in movimento - in quel caso per rimettere in
movimento il meccanismo del profitto che si era fermato, e oggi viceversa per
mantenere costantemente in movimento il meccanismo del profitto - è necessario che ci sia questa simbiosi fra
Capitale e Stato. Lo Stato diventa
l’ausiliario quotidiano del capitalismo…” [L. BASSO, Le origini
del fascismo, Savona, Centro giovanile, cicl., 10-45].
3. Ciò che costituisce la “forza determinante”, il carattere permanente del fenomeno fascista come
storicamente rivelatosi è quindi la costante “tendenza del … capitale
oligopolistico all’appropriazione del potere statale” [L. BASSO,
Le origini del fascismo, in Fascismo e antifascismo (1918-1936) – Milano, 12].
Nel fascismo storico la concentrazione del capitale oligopolistico aveva
sembianze nazionali; negli odierni sviluppi (v. p.5) tale concentrazione, trainata
dall’ideologia neo-liberista, si presenta in versione allargata e
transnazionale, ovvero europea nonché a vocazione (naturalmente) globalizzata.
“Appropriazione del potere statale” significa
sostanziale privatizzazione dell’interesse pubblico attraverso desovranizzazione degli Stati e
manomissione definitiva dei processi democratici che continuano a permanere
come mera vernice per coprire la restaurazione del vecchio ordine capitalistico
(ante 1929, per intenderci), con le
conseguenti manifestazioni che Porcaro bene elenca, cioè: dissoluzione della democrazia parlamentare, sottrazione di potere ai
parlamenti nazionali e traslazione del medesimo potere “ad organismi non-parlamentari posti scientemente “al riparo dal
processo elettorale” (le oligarchie economiche, rappresentanti del governo
sopranazionale dei mercati).
4. Nel caso specifico del
fenomeno €urounitario, gli strumenti utilizzati dalle oligarchie economiche transnazionali
sono i trattati ordoliberisti, compiuta realizzazione di quella “terza via” dal carattere mimetico, convintamente
messa alla porta, in Italia, in sede di Assemblea Costituente e poi “gioiosamente”
rientrata dalla finestra grazie ad una sedicente “sinistra”, paludata di quel
federalismo irenico e del benessere il cui suggello massimo si identifica con
la moneta unica (novella versione dello storico gold standard) e la teoria della Banca Centrale Indipendente, teleologicamente
orientata al mantenimento della stabilità dei prezzi (obiettivo cui sono preordinati principlalmente il
divieto per la BCE e per le banche centrali nazionali di finanziare i deficit
del bilancio pubblico nonché il divieto statutario di adottare azioni solidali interstatali, all'interno dell'eurozona, qui p.7, che possano
perseguire o tentare di ripristinare la piena occupazione).
Orbene, se, mutuando ancora
le parole di Gramsci a completamento di quanto poc’anzi detto, il fascismo “… è l'espressione organica della classe
proprietaria in lotta contro le esigenze vitali della classe lavoratrice, della
classe proprietaria che vuole, con la fame e con la morte dei lavoratori ricostruire
il sistema economico rovinato dalla guerra imperialista (appunto il
capitalismo ante 1929)…” [A. GRAMSCI,
Il carnefice e la vittima, Ordine nuovo, 17 luglio 1921], allora l’attuale
assetto eurounitario non può considerarsi un mero “sostituto funzionale del fascismo”,
ma incarna la quintessenza stessa del fascismo, ontologicamente presente (pur essendo necessariamente diverso dal fascismo storico, appunto nelle contingenti forme sovrastrutturali e ideologiche, nel senso inteso da Marx).
5. Questo riscontro dei "caratteri permanenti" indicati da Basso e Gramsci, semplicemente c’è, ed i dati in Italia
sulla disoccupazione strutturale, il livello ingravescente della povertà e
l’immiserimento generalizzato (del tutto incompatibili con il dettato della nostra
Costituzione keynesiana) stanno a testimoniarlo.
Non dovrebbe destare
stupore, peraltro, che il fascismo new
style come sopra inteso difficilmente, nei suoi caratteri contingenti,
esteriori ed equivoci (per esempio, lo squadrismo), possa ripresentarsi con le
stesse forme del ventennio.
Già nel ’60, al riguardo, Lelio Basso avvertiva:
“… Da
molti anni io mi sforzo di richiamare l’attenzione della sinistra italiana su
questi equivoci e su questo problema,
sulla necessità cioè di individuare la
vera natura del fascismo e le sue radici strutturali; ciò è necessario anche a
fini pratici perché compito della sinistra è precisamente quello di attaccare e
distruggere quelle radici senza di che non sarà mai spianata la via alla
democrazia.
Non solo ma se non sappiamo distinguere gli aspetti permanenti
e quelli contingenti del pericolo fascista,
rischiamo di continuare ad attendere una minaccia fascista nelle stesse forme
del 1922 e a non vedere il fascismo
che si avanza per altre vie… Sotto questo profilo la posizione della destra socialista è tipica: agitando lo
spauracchio di un fascismo vecchio stile, essa rinuncia a combattere a fondo il fascismo nuovo stile…” [L. BASSO,
Fascismo ed antifascismo, cit.].
6. Gli stessi moniti ci
venivano rivolti nel 1950 da Piero Calamandrei (che pure non era marxista) il
quale, nel rivendicare e difendere la sovranità democratica, avvertiva
che
“… le forme di limitazione di sovranità conosciute e classificate dai
giuristi non sono tutte le limitazioni che operano di fatto nella vita degli
Stati … i canali di penetrazione
attraverso i quali le imposizioni esterne riescono ad infiltrarsi nell’interno
di un ordinamento costituzionale apparentemente sovrano possono essere molto
più complicati e molto meno classificabili di quelli previsti negli schemi dei
giuristi.
Sicchè può avvenire che
in uno Stato che si afferma indipendente gli organi che lo governano si
trovino, senza accorgersene, in virtù di questi segreti canali di permeazione,
a esprimere non la volontà del proprio popolo, ma una volontà che vien dettata
dall’esterno e di fronte alla quale il popolo cosiddetto sovrano si trova in
realtà in condizione di sudditanza…” [P. CALAMANDREI, Lo Stato
siamo noi, Chiarelettere, Milano, 2016, 35-36].
Calamandrei
non sarebbe purtroppo vissuto abbastanza per constatare che, nell’attuale
frangente storico, quei “segreti canali
di permeazione” sono in verità quanto mai palesi, e che quelle “limitazioni di sovranità” si sono
concretate addirittura in cessioni di sovranità eurocertificate.
7. Alla
luce di quanto sopra esposto, su altri punti dell’analisi fornita da Porcaro ci
permettiamo di dissentire.
Egli, al riguardo, dopo aver affermato che “il fascismo semplicemente non c’è”, paventa
altresì che esso potrebbe materializzarsi in futuro sotto le sembianze del
Front National e della Lega Nord, qualificati all’uopo - in quanto
movimenti di una “destra protezionista” - come
“organismo politico della frazione
più debole del capitale” che andrebbe
incontro “alla specifica esigenza di una
parte del capitale, che non è già quella di avere una nazione priva di
immigrati… ma piuttosto quella di avere una nazione piena di immigrati clandestini, e quindi più facilmente
sfruttabili”.
Orbene, chiarita in primo
luogo l’intima essenza di quel fenomeno autoritario che per comodità chiamiamo
fascismo, sia il “soggetto” che attualmente lo impersonifica (ovvero, l’assetto
eurounitario risultante nel complesso dai Trattati), a noi sembra invece
fondamentale “spulciare” il programma
della Lega Nord (lo stesso vale per il Front
Nazional francese) per capire se tale movimento assecondi o meno un tale assetto
istituzionale.
E su questo specifico aspetto si dà il caso che proprio la Lega
Nord (così come il Front National) abbia assunto come primario punto
programmatico la rivendicazione della
sovranità democratica (sia pure con una "indecisione" terminologica che, oggettivamente, riflette un conflitto al suo interno che non appare ancora del tutto risolto), opponendosi in ogni sede (nazionale ed europea) a
quest’Europa mediante la pubblica denuncia dei suoi metodi e delle sue finalità
considerate (a ragione) in netto conflitto con i principi fondamentali della
Costituzione (appunto nella sostanza, laddove, peraltro, non è solo tale partito, ma praticamente tutti, ad "accusare" un richiamo poco consapevole alla effettiva portata del modello costituzionale).
8. In tal
senso, diciamo "sostanziale" (e indubbiamente ben suscettibile di essere perfezionato in base al compimento di un intero percorso), la rivendicazione della piena sovranità democratica-costituzionale (intesa,
ex artt. 1, 3, comma II, e 4
Cost., come effettiva e necessitata
realizzazione di tutti i diritti sociali) - la quale presuppone di
necessità l’abolizione della BCE indipendente e del connesso “vincolo esterno” – deve
essere considerata tutt’altro che irrilevante ai fini della tutela della
dignità dei lavoratori e dei diritti fondamentali di tutti i cittadini italiani,
i quali di quella sovranità sono e rimangono gli esclusivi titolari.
Ciò che
semmai può rimproverarsi alla Lega Nord (meno al Front National, almeno fino ai recenti "tentennamenti", che denotano una certa qual mancanza di fiducia nella propria scommessa politica) è semmai l'enfasi largamente insufficiente
posta sui temi evidenziati (rapporto di assoluta idiosincrasia tra BCE
indipendente, mercato del lavoro flessibile e, ovviamente, parametro costituzionale di sua tutela come principale argomento di legittima opposizione al "vincolo €uropeo"), la cui propugnazione è invece essenziale, se
non assorbente, per chiudere la partita del conflitto sociale.
9. In secondo luogo, è bene
altresì intendersi in cosa consista quella “frazione
più debole del capitale” protezionista di cui la Lega Nord (e il Front
National in Francia) costituirebbe il rappresentante politico.
Se, come sembra,
la “frazione più debole del capitale” è fatta coincidere da Porcaro con la piccola
e media borghesia, cioè con quel ceto medio che Lelio Basso (ma v. qui, P.4) definiva “Terza Forza” (PMI, intellettuali, liberi
professionisti, burocrati etc.), essa - chiusa
nell’individualismo che non è affatto coscienza liberale, ma un meschino
egoismo antisociale - è in realtà una vittima del capitale oligopolistico,
esattemente come il proletariato: “… La piccola borghesia e gli
intellettuali, per la posizione che occupano nella
società e per il loro modo di esistenza, sono
portati a negare la lotta delle classi e sono condannati quindi a non
comprendere nulla dello svolgimento della storia mondiale e della storia
nazionale che è inserita nel sistema mondiale e obbedisce alle pressioni degli avvenimenti
internazionali …”
[A. GRAMSCI, Previsioni, Avanti!, ed. piemontese, 19 ottobre 1920].
Privo di una coscienza di
classe, il ceto medio è incapace di rendersi conto che l’attuale concentrazione
capitalistica, trainata dall’assetto €urocratico, non può che condurlo alla
rovina: “… Il regime fascista muore
perché … ha contribuito ad accelerare la
crisi delle classi medie. L'aspetto economico di questa crisi consiste nella rovina della piccola e media azienda:
il numero dei fallimenti si è rapidamente moltiplicato in questi due anni. Il
monopolio del credito, il regime fiscale, la legislazione sugli affitti hanno
stritolato la piccola impresa commerciale e industriale: un vero e proprio passaggio di ricchezza si è verificato dalla piccola
e media alla grande borghesia, senza sviluppo dell'apparato di produzione;
il piccolo produttore non è neanche proletario, è solo un affamato in permanenza, un disperato senza previsioni per
l'avvenire…” [A. GRAMSCI, La crisi delle classi medie, L'Unità,
26 agosto 1924].
10. [NdQ] Dunque, sul piano strutturale, e non su quello sovrastrutturale-ideologico delle "illusioni" del Terzo Partito, abbiamo un'evidenza: se i ceti medio-piccolo imprenditoriali e professionali, in base ad un corretta analisi dei dati economici registrabili dagli esiti delle politiche economiche del fascismo, furono marginalizzati da esso - in nome dello stato di necessità che corrispondeva, allora, all'antioperaismo utilizzato come spauracchio sedativo-, ne dovremmo trarre un'obbligata quanto incredibilmente trascurata conclusione (che pure la storia economica di addita con grande chiarezza).
E cioè che, sul piano logico, se tale condizione passa, tra l'epoca del fascismo ed il secondo dopoguerra, dalla marginalizzazione politico-economica ideologicamente sedata, ad una rilevanza politico-economica senza precedenti, questi stessi ceti hanno goduto, forse più di tutti, della crescita del benessere legata alla (pur parziale) applicazione del modello democratico costituzionale.
Ed inoltre, il passaggio dalla condizione di operaio o contadino a quella di piccolo-medio imprenditore o di professionista, è tra l'altro, un fenomeno (generazionale) che si afferma solo dopo il 1948, come frutto della progressiva democratizzazione sociale costituzionale, e denota l'irrompere nella società italiana della c.d. "mobilità sociale" che è appunto il frutto della "eguaglianza sostanziale" e della c.d. "redistribuzione ex ante", (qui, p.4) che è la vera caratteristica della democrazia costituzionale del 1948.
I ceti "indipendenti", valorizzati politicamente e, specialmente, allargati nel numero, sono, sul piano dei riscontri consentiti dalla ricognizione dei fattori della crescita italiana del dopoguerra (v. qui, pp.5-8), i grandi beneficiari delle politiche industriali pubbliche codificate dalla c.d. "Costituzione economica", che hanno diffuso sul territorio, e pervaso in strati sociali sempre più ampi, la capacità di reddito e di spesa originata dall'incremento occupazionale e competitivo consentito dalla presenza della grande impresa pubblica.
10.1. Infatti, come negli anni ’20 per le oligarchie
nazionali, così nella situazione odierna per il capitale oligopolistico
internazionale:
“… Tutta una serie di
misure viene adottata dal fascismo per
favorire una nuova concentrazione industriale … L'accumulazione che queste
misure determinano non è un
accrescimento di ricchezza nazionale, ma è spoliazione di una classe a
favore di un'altra, e cioè delle classi
lavoratrici e medie a favore della plutocrazia.
Il disegno di favorire la
plutocrazia appare sfacciatamente nel progetto di legalizzare nel nuovo codice
di commercio il regime delle azioni privilegiate; un piccolo pugno di
finanzieri viene, in questo modo, posto in condizioni di poter disporre senza
controllo di ingenti masse di risparmio provenienti dalla media e piccola
borghesia e queste categorie sono
espropriate del diritto di disporre della loro ricchezza.
Nello stesso
piano, ma con conseguenze politiche piú vaste, rientra il progetto di
unificazione delle banche di emissione, cioè, in pratica, di soppressione delle
due grandi banche meridionali …”. [A. GRAMSCI, Il fascismo e la sua politica, Tesi approvate dal congresso
del partito comunista a Lione (gennaio 1926)].
Nelle parole di Gramsci risuona
l’eco delle privatizzazioni che hanno investito e continuano ad interessare il
nostro Paese sull’onda di un clima di crisi permanente, della
deindustrializzazione massiccia del sistema produttivo italiano (nonché del
conseguente indotto, campo prediletto delle PMI) ormai per lo più estero-controllato,
l’acquisizione in mano straniera degli assets
strategici (da ultimo, il caso Alitalia prossimo venturo) nonché i probabili sviluppi
della crisi bancaria sottoposta alle regole del bail in europeo a danno della gran massa dei risparmiatori.
11. Ciò che risulta paradossale,
peraltro, è che il capitale oligopolistico non celi le proprie strategie di
concentrazione, ma anzi le reclami in nome del “più €uropa” e della
globalizzazione, come si ricava dalle inequivocabili parole di Vincenzo Boccia, Presidente di Confindustria, ovvero della la più
grande associazione di quella “frazione
dominante del capitale” che Porcaro pur individua essere “l’elemento che
realmente diede il via libera a
Mussolini”.
Nel
corso dell’incontro linkato, infatti, l’intervistatore ha fatto notare a Boccia
che il sistema italiano è composto in maggioranza di PMI, riferendo che un
grande imprenditore italiano avrebbe però affermato quanto segue “Le piccole e medie imprese sono microaziende. Le microaziende, in questo
mondo, non hanno più alcun significato”.
Il commento di Vincenzo Boccia è stato lapidario: “Ha ragione. Piccolo è una condizione da superare. Bisogna costruire le filiere
e le alleanze. Se vogliamo affrontare i
mercati globali, quello che dice Guerra è esattamente la verità. Non possiamo più difendere lo status quo,
ma bisogna costruire un percorso. Bisogna andare in Borsa”.
Il ceto medio – confermando
le parole di Gramsci sopra riportate - non è quindi in grado di comprendere
che nulla ha da spartire con quest’€uropa di matrice mercantilistica (cioè costruita
su misura proprio per la “frazione
dominante del capitale” votata all’export
ed alla concentrazione), dal momento che il proprio terreno di elezione è da
sempre rappresentato dal mercato interno, ormai quasi del tutto sterminato a
causa delle politiche deflattive neo-ordoliberiste e della valuta unica che
vietano ogni intervento statale in economia.
In definitiva, quella medesima piccola e media borghesia, appoggiando
il sistema eurocratico anti-Stato che la vuole “far fuori”, non è cosciente che
si autocondanna a diventare una costola del proletariato oppresso e con il
quale, a ben vedere, avrebbe quindi tutto l’interesse a solidarizzare.
12. A stretto rigor di
termini, dunque, ammettendo che la Lega Nord (stesso discorso è valido per il
Front National) sia “l’organismo politico”
della piccola e media borghesia alla quale la propria proposta politica si
rivolgerebbe (la “frazione più debole del capitale”),
allora la battaglia programmatica anti-€uro e per il recupero della piena sovranità costituzional-democratica (monetaria,
di controllo pubblico dell’economia e dei confini nazionali) non può che avvantaggiare tutte quante le classi, in teoria antagoniste
(coscienti o meno che siano) della grande borghesia capitalistica
internazionale.
Quanto detto ci porta di conseguenza a sostenere che dette
forze politiche non si scaglino affatto “contro
una parte dei lavoratori”, poiché la
rivendicazione di un’attuazione piena ed incondizionata della democrazia
costituzionale significa, per antonomasia, tutela sociale redistributiva e pluriclasse.
[NdQ-2] Come sarebbe poi (parliamo del caso, e del programma del Front National) operativamente possibile "scagliarsi contro una parte dei lavoratori" se oltre al recupero della sovranità monetaria, si considera prioritario (parlando addirittura di "sacralizzazione"), il rafforzamento dell'iniziativa industriale pubblica e la pubblicizzazione non negoziabile dei servizi pubblici, insieme con l'abolizione della loi travail?
13. [NdQ3] Semmai, a rendere implausibili queste enunciazioni, è tentennare e "reculer" sulla questione dell'euro, che, per l'appunto costituisce il vincolo istituzionale che rende impossibile ogni attuazione di politiche sociali del pieno impiego, nonché di politiche industriali pubbliche, falcidiate dal regime del divieto di aiuti di Stato e dai limiti di bilancio (che sono appunto previsioni dei trattati intenzionalmente intese a rendere irrilevanti tali politiche, proprio perché incompatibili col modello sociale gold standard abbracciato dall'Unione europea).
Ma la scarsa fiducia nella comprensione degli elettori, da parte delle forze "sovraniste", di fronte a inevitabili battute d'arresto transitorie, è il risultato (erroneo) di una presa d'atto della forza mediatica delle oligarchie finanziarie, e in nessun modo l'indicatore rivelante una recondita strategia di scagliarsi contro "una parte dei lavoratori".
E tra l'altro, tale "parte", come verrebbe selezionata dato che, abbiamo visto, quei punti programmatici avvantaggiano indistintamente tutte le classi danneggiate dai poteri timocratici filo-europeisti?
Sarebbe un'operazione (di maliziosa "riserva mentale") semplicemente irrealizzabile a posteriori, perché suicida dal punto di vista del consenso, una volta conquistata una posizione di governo da cui realizzare quei punti progammatici. (E la riconversione post-elettorale di Trump, comunque nascente da un'ambiguità originaria ben più accentuata, insegna quanto le "riserve mentali" siano una strada di perdizione verso la precarietà nel consolidamento del potere conquistato alle urne).
14. Su un ultimo punto, in
proposito, ci sembra importante porre l’attenzione.
Ci sembra innanzi tutto una
(ulteriore) contraddizione in termini qualificare, come fa l’amico Porcaro, dette forze
politiche come protezioniste e addirittura xenofobe, salvo poi sostenere che le
medesime vorrebbero “una nazione piena di
immigrati clandestini … più facilmente sfruttabili”.
A noi pare, piuttosto,
che una tale asserzione sconti una “contaminazione ideologica”, in quanto da un
lato non si fonda su reali dati fenomenologici (è anzi di dominio pubblico che
Lega Nord e Front National siano contrari all’immigrazione clandestina, e
proprio per tale motivo sono ormai identificati in modo semplicistico come
forze politiche razziste/xenofobe) e dall’altro, correlativamente, presuppone
che il protezionismo sia sempre e comunque negativo.
Il protezionismo in senso stretto, infatti, avvantaggia
l'oligopolio nazionale, che fa “da asso piglia tutto” e non consente di
certo - dato il suo panorama istituzionale e il funzionamento della
"rendita" rispetto al livello di occupazione - che esista
una "frazione debole del capitale".
15. Il grande capitale
oligopolistico, infatti, mira sempre e comunque a creare classi subalterne ed
oppresse, mantenute a livelli di mera sopravvivenza non dissimili da quelli del
medio-piccolo salariato, in linea con la previsione di Marx secondo cui la lotta suprema è combattuta tra due
classi soltanto, proletariato e
borghesia, senza alcuna distinzione - nell’ambito di quest’ultima - tra
frazione debole e dominante del capitale.
Piuttosto, un
protezionismo intelligente, una sapiente “autarchia
economica nazionale” in campo merceologico e della forza lavoro erano sostenuti
da Keynes [J.M. KEYNES, National Self-Sufficiency, The Yale Review,
Vol. 22, no. 4 (June 1933), 755-769] come da Federico Caffè (intellettuali che
non possono essere definiti propriamente imperialisti o xenofobi), ci sembrano
quanto mai necessari e conformi, in Italia, al dettato della Costituzione.
16. Deve,
cioè, essere assolutamente chiaro che non sono più eludibili l’interrogativo e
le argomentazioni che proprio Caffè poneva in proposito negli anni ’80:
“… Nell’ambito di un’economia mondiale interdipendente e
soggetta, nello scorcio degli anni più recenti, a vicissitudini perturbatrici
origine di problemi tuttora aperti, è
individuabile una funzione utile per una politica economica che miri a
realizzare un adeguato dosaggio tra l’incoraggiamento delle esportazioni e
un’autonoma azione di sostegno della domanda interna? I termini adoperati evitano ogni appello emotivo alla creazione di “un
nuovo ordine internazionale”, come pure ogni atteggiamento difensivo di
orientamenti protezionistici.
Né le frasi ad effetto, ripetute sino alla
noia, né il ripudio della realtà con
aprioristiche demonizzazioni contribuiscono a dare concretezza allo sforzo
di comprensione e di immaginazione necessario per avviare a soluzione i
complessi problemi dell’economia internazionale.
La loro gravità non sembra da collegare a prospettive di
crolli finanziari o di disgregazioni involutive proprie delle vicende degli
anni trenta. Trasformazioni profonde sono intervenute rispetto a quei tempi.
Nondimeno malgrado l’enfasi che abitualmente viene posta sulle proiezioni verso
il futuro, non può sfuggire a un
osservatore attento il riaffermarsi di quella “cristallizzazione delle
disuguaglianze” che, nell’immediato secondo dopoguerra, fu di ostacolo al
conseguimento degli attesi risultati istituzionali sul piano della cooperazione
internazionale nella sfera degli scambi internazionali. Si assiste, oggi, a un succedersi di monologhi che sembrano sinora
incapaci di dar vita a un valido dialogo …” [F. CAFFE’, In difesa del
welfare – Saggi di politica economica,
Rosemberg & Sellier, 1986, 93 e ss.].
16.1. Ripudiare la realtà
attestandosi su “aprioristiche
demonizzazioni” (in particolare riassunte nella frettolosa e non scientificamente univoca locuzione "protezionismo"), e contra
Constitutionem, in nome della pace e di un benessere utopistici da decenni contrabbandati
però ad arte dal pensiero unico, significa continuare a sostenere (anche
involontariamente ed in modo equivoco) posizioni inaccettabili propugnate già
da Von Mises [L. MISES, Die
Gemeinwirtschaft - Untersuchungen über den Sozialismus, 1922,
219, nota 1, e 220] nonché da Einaudi [L. EINAUDI, Protezionismo operaio,Corriere della sera 20 novembre 1910], che francamente non ci sembrano essere
stati campioni di democrazia e di solidarietà sociale.
Recuperare, in Italia,
l’indipendenza nazionale e la sovranità democratica della dignità del lavoro costituisce
quindi la essenziale (e necessaria) pre-condizione rispetto ad ogni altra discussione;
solo in un secondo momento, quello della normalizzazione che superi lo “stato di eccezione” eterodeterminato e
la “rottura costituzionale”, sarà
possibile ritrovare lo spazio per la legittima contrapposizione politica e le
differenze programmatiche (nei limiti, s’intende, del necessitato programma
fissato dalla Costituzione repubblicana).
Sino ad allora – e senza
che ciò significhi in alcun modo “legittimare l’idea … che in fondo Le Pen e Salvini
sono “un po’ di sinistra”, o comunque “più di sinistra” dei vari Renzi,
D’Alema, Bersani e via elencando” - ci sembra autolesionistico, in nome di
una intransigente prevenzione, escludere dal novero degli “Alleati” qualunque
forza politica che dichiari di condividere l’obiettivo sopra menzionato e che
solo la storia, a posteriori, sarà quindi in grado di giudicare.