1. Con una clamorosa riunificazione di intenti, la May si aggiunge a Merkel e Macron nell'ammonire Trump, diffidandolo dall'imporre dazi all'Ue.
Questa presa di posizione in cui i tre leaders nazionali si autoinvestono della diretta gestione diplomatica della crisi potenzialmente più grave del dopoguerra nei rapporti con l'America, è corredata di una minaccia di ritorsione: "Angela Merkel, Emmanuel Macron e Theresa May ammoniscono gli Usa: non
impongano dazi alle merci dell'Ue o l'Unione si difenderà, a tutela dei
propri interessi".
Uno degli aspetti più curiosi, ma non casuali, è che il portavoce dell'altisonante dichiarazione congiunta sia un "tedesco", a conferma del detto popolare per cui "la gallina che canta per prima è quella che ha fatto l'uovo".
Insomma, non solo, quando si giunge al dunque nelle questioni di espansionismo mercantilista, la Germania fa quello che costantemente si guarda bene dal fare, - cioè assumere la leadership attiva e, soprattutto, cooperativa dell'€uropa -, ma si scopre particolarmente attenta (!) alle regole dei trattati internazionali (liberoscambisti), specificando, via "portavoce": "... altrimenti l'Ue sarà pronta a difendere i propri interessi nel quadro delle regole del commercio multilaterale".
Si enfatizza che ciò che esattamente ha chiesto l'amministrazione Trump, come precisa il ministro del commercio USA Wilbur Ross, è che, per protrarre l'esenzione dalle super-tariffe su acciaio e alluminio, nonché, per la verità, anche su "lavatrici" e "pannelli solari", oltre la soglia del 1° maggio, l'UE accetti delle "quote" (massime) di esportazioni.
La richiesta è sostanzialmente di tagliare le esportazioni al livello del 90% di quelle medie dei precedenti due anni.
2.1. I punti nevralgici, nell'ambito di questo complessivo accordo alternativo all'imposizione dei dazi richiesto da Trump, sono sostanzialmente due:
a) il primo è "di diritto", in quanto le regole WTO vietano le limitazioni alle esportazioni volontariamente autoimposte; il che non pare riguardare la controversia attuale, poiché è evidentemente riferito a accordi di cartello (tra imprese esportatrici o tra Stati esportatori di una certa merce) finalizzati a tenere i prezzi più alti;
b) il secondo, è "di fatto", perché Trump avrebbe preso spunto dalle tariffe su "generi" limitati in questione per cercare di imporre anche una quota sulle esportazioni europee di autoveicoli verso gli USA. Il che tira dentro la Germania in primissima fila, su un settore industriale in cui è assoluta protagonista (come ben sanno, d'altra parte, a proprie spese nei conti con l'estero, tutti gli Stati dell'Ue).
3. Macron in persona si sbilancia, poche ore dopo il meeting-show con Trump alla Casa Bianca (pare che l'alberello, donato dal francese, che i due hanno piantato insieme sia già stato eliminato dal prato della residenza presidenziale) "non discuteremo di nulla con una pistola puntata alla tempia".
La Merkel, per parte sua, ha ammesso di aver fallito, nel suo recentissimo incontro con Trump alla Casa Bianca, nel cercare di ottenere un impegno a dimezzare, nei confronti delle merci UE, le tariffe applicate alla Cina.
E, peraltro, la cancelliera non aveva offerto alcuna contropartita che non fosse una prevedibile lezioncina sull'irrinunciabile beneficio generale (...sic) del liberoscambio mondiale, come "unica" via alla crescita sostenibile (...per la Germania certamente), condita dalla consueta idea che in una guerra commerciale, alla fine, tutti sono perdenti.
3.1. Addirittura il ministro francese dell'economia, Bruone Le Maire, nell'incontro di Sofia sulla tassazione in €uropa, si lascia andare ad una dichiarazione che, da sola, avrebbe l'effetto di vanificare ogni utilità del clima cordiale del vertice Macron-Trump: "Ho imparato una cosa dalla settimana trascorsa negli USA al seguito del presidente Macron: gli USA rispetteranno soltanto una dimostrazione di forza".
E infatti, l'articolo di Zerohedge sopra linkato, conclude: "E ora la vera questione è vedere chi ha più da perdere nell'imminente trade war tra le due sponde dell'Atlantico, e chi si arrenderà per primo".
4. Per verificare questa prospettiva ci serviamo di alcuni eloquenti dati.
In una guerra commerciale, normalmente, si tende a correggere uno squilibrio nei conti con l'estero, determinato da un eccesso di importazioni verso il resto del mondo o verso alcuni specifici Stati. Questa vicenda, che corrisponde agli interessi economici e sociali più elementari, e fondamentali, del paese "vincolato" dai suoi squilibri esterni, la si può definire "guerra" solo se questa correzione avvenga a fronte di regole internazionali, pretesamente generali (come cercavano di imporre le potenze occidentali ottocentesche al tempo delle guerre delle cannoniere) o convenzionali (come avviene oggi attraverso la menzionata WTO), che considerino il free-trade come un sistema globalizzato giuridicamente prioritario.
4.1. Sappiamo anche che il paese "vincolato" dal suo deficit con l'estero viene normalmente incolpato di aver vissuto al di sopra delle sue possibilità e assoggettato a misure di correzione (mediante legislazione, fiscale e politico-economica, interna) imposte con "condizionalità" funzionali a linee di credito (in valuta accettata per il pagamento del debito estero, di cui evidentemente il paese indebitato non dispone in misura sufficiente) che, per lo più, attualmente, vengono (appunto, condizionalmente) concesse dal FMI (qui, p.9).
Tuttavia, la effettività delle regole impositive del free-trade istituzionalizzato (neo-consuetudinario, come nel XIX° secolo, o da trattato WTO, attualmente), sono soggette alla prevalente regola rebus sic stantibus, cioè alla precondizione (politica) di una sostanziale capacità di imporre i "rapporti di forza" politico-economici e, non secondariamente, militari.
La stessa applicabilità delle condizionalità creditizie, sancite dalle "lettere di intenti" del FMI (o, per i paesi dell'€uropa, dai memorandum della trojka), dipende dalla forza (o debolezza) "politica" della moneta e, ovviamente, prima ancora, dalla solidità della sovranità monetaria del paese debitore.
5. Rispetto ad entrambi i profili appena segnalati, gli USA non paiono essere in condizione di poter/dover soccombere in una guerra commerciale con l'Ue: i rapporti di forza politico-militari sono favorevoli agli USA in modo soverchiante, per cui non è pensabile che siano assoggettati a condizionalità (e, seriamente, enforced da parte di chi?) per effettuare un qualsiasi aggiustamento etero-imposto dei conti con l'estero.
Inoltre, gli USA stessi non avrebbero nulla da temere né da un'eventuale decisione arbitrale sfavorevole in sede WTO, praticamente ineseguibile, né (almeno nel medio periodo) da un'inconfigurabile carenza di liquidità in valuta accettata come pagamento nelle transazioni con l'estero (e parliamo ovviamente dell'esorbitante privilegio del dollaro, qui, p.7).
Il dollaro se lo "fabbricano" in casa a piacimento e, per di più, una sua svalutazione consistente è temuta dall'Ue sopra ogni altra prospettiva. Un eurone molto forte vanificherebbe il principale sforzo per tenere insieme la baracca dell'eurozona compiuto col QE di Draghi.
6. Venendo ai dati, questa è la situazione del deficit commerciale USA coi principali partners. Come si vede, l'Ue nel suo complesso è seconda solo alla Cina nel suo attivo delle esportazioni (al suo interno si distinguono la Germania e, peraltro, anche l'Italia, in quanto al traino del modello mercantilista €-tedesco conseguito all'aggiustamento conservativo della moneta unica):
7. Quello sottostante è un complessivo riassunto delle relazioni commerciali tedesche coi maggiori partners commerciali mondiali al 2014 (secondo una tendenza sostanzialmente inalterata):
L'idea che la Cina sia il maggiore esportatore mondiale verso gli USA è corretta: ma che sia l'area produttiva più mercantilista del globo è peraltro smentito dall'evoluzione più recente, come si evidenzia dalle tabelle e dai grafici sottostanti:
https://www.actionforex.com/action-insight/special-topics/84001-china-announced-tariff-on-us-soybean-exports-what-next/
8. In sostanza, il problema USA con la Cina è particolarmente evidente (e crescente), ma, data la tendenza di sviluppo che gli asiatici hanno di recente imperniato su una maggior crescita della domanda interna, cioè di retribuzioni e consumi (notare: lo studio linkato è tedesco), risulta essere più strutturale e dovuto alle delocalizzazioni industriali di importanti produzioni o fasi di produzione da parte delle più importanti imprese USA.
Un problema di politiche industriali, fiscali e, non ultimo, di mercato del lavoro (qui, p.2-4), che Trump, come abbiamo visto, cerca di risolvere attraverso un mutamento delle condizioni tariffarie ma che, nella sostanza, ha più a che vedere con la libera circolazione dei capitali e delle produzioni generate dal neo-paradigma free-trade...una volta coinvolta la Cina nel WTO, nel dicembre del 2001: una decisione che, allora, gli USA non disdegnarono di certo.
Rinviamo alla profetica intervista di Chang dell'inizio del 2017 (che indica appunto la prospettiva della "totale riscrittura delle regole globali di commercio e la ristrutturazione della cosiddetta catena globale del valore") per questo ordine di problemi.
9. Invece, con l'Ue, il problema dello squilibrio si presenta come molto più "classico": un'area mercantilista, dotata di proprie autonome imprese industriali che macinano profitti a scapito di un'altra area, gli USA, le cui imprese private non compartecipano in via principale di un'integrazione industriale vantaggiosa per entrambi i partners coinvolti.
Questo grafico di Handelsblatt rappresenta la situazione, proiettata a tutto il 2018, a dimostrazione della consapevolezza tedesca della propria posizione di vantaggio:
9.1. Il grafico sottostante lo avevamo già visto parlando del "picco" di Draghi e di come la guerra commerciale mossa dagli USA si connetta anche ad una guerra valutaria intrapresa con la svalutazione esterna dell'euro rispetto al dollaro oggetto di una recente inversione di tendenza, ma che non è l'unica contromossa politico-commerciale degli USA. Per l'appunto.
10. In definitiva: l'Ue non può vincere alcuna guerra commerciale con gli USA, contro i quali non esiste la "effettività" di alcun mezzo sostanziale di retaliation efficace, né giuridico né (geo)politico-economico.
E questo semplicemente perché l'America non può perdere nel gioco della globalizzazione, almeno nei confronti dell'€uropa.
Il gioco l'ha inventato e promosso lei stessa e ne detiene la Grund-Norm: cioè, così come ha posto le regole, volendo, le può disfare, nel momento in cui la loro applicazione le creasse uno svantaggio politico-sociale interno troppo elevato per poter indulgere ancora in un free-trade che serviva a "mondializzare" un certo assetto oligarchico del capitalismo finanziarizzato, tirando dentro l'€uropa in un progetto che era, prima di tutto, politico-istituzionale di restaurazione.
Un assetto, però, che negli stessi USA si sta rivelando insostenibile, socialmente prima ancora che nelle sue conseguenza politico-elettorali.
Come aveva segnalato Reich (qui, p.6) e avevamo anticipato e ribadito da anni (pp. V e seguenti).