"...Fornire agli indigenti e agli affamati qualche forma di aiuto, ma solo nell’interesse di coloro che devono essere protetti da eventuali atti di disperazione da parte dei bisognosi."
Mariof pone questa questione, commentando un passaggio del precedente post sulla wanna-be "pseudo-ripresa" auspicata dai nostri governanti:
"- siccome non sanno PERCHE' E DOVE SBAGLIANO, di fronte alla caduta della domanda (interna e estera), e quindi di gettito fiscale (e persino con innalzamento di spesa per disoccupazione), non sapranno far altro che tassare ancora e tagliare la spesa comprimibile (che si allargherà a dismisura, con acclamazione mediatico-livorosa). Nel tentativo di arrivare prima o poi al "pareggio di bilancio".
Mi permetto di dissentire: non esiste ignoranza, non dopo gli ultimi due anni di diffusione, è cinica politica reazionaria per conto terzi mascherata da dabbenaggine. Pietà l'è morta!"
Salvatore Genovese si aggiunge:
Mi permetto di dissentire: non esiste ignoranza, non dopo gli ultimi due anni di diffusione, è cinica politica reazionaria per conto terzi mascherata da dabbenaggine. Pietà l'è morta!"
Salvatore Genovese si aggiunge:
"Concordo pienamente.
Non si può credere che sia ignoranza a questi livelli.
E' cinica politica reazionaria !"
Rispondo:
Non si può credere che sia ignoranza a questi livelli.
E' cinica politica reazionaria !"
Rispondo:
"Il punto è "strano": loro "vogliono" fare politiche deflattive salariali per la competitività e sanno che ciò occorre per correggere gli squilibri di bdp e di conseguenza l'indebitamento estero.
Ma al tempo stesso sono pure convinti che il moltiplicatore non si applichi alla spesa pubblica e che le correzioni di deficit-bilancio abbiano effetti puramente contabili. Perchè non dubitano delle teorie neoclassiche per le quali abbassamento dell'inflazione e spiazzamento di risorse dal pubblico (riducendo lo Stato) al privato inducono "aspettative razionali" di ripresa e quindi nuovi investimenti e assunzioni. C'è "anche" cosmesi (cioè coscienza di interventi di mera bandiera per volume), ma Saccomanni e Giovannini, come più volte qui evidenziato, alle sole "supply side" ci credono veramente.
La domanda aggregata per loro non è una dinamica di fattori interdipendenti, ma solo registrazione descrittiva di volumi che dipendono solo dall'offerta e dagli investimenti privati: ritenendo ancora valida la legge di Say"
Ma al tempo stesso sono pure convinti che il moltiplicatore non si applichi alla spesa pubblica e che le correzioni di deficit-bilancio abbiano effetti puramente contabili. Perchè non dubitano delle teorie neoclassiche per le quali abbassamento dell'inflazione e spiazzamento di risorse dal pubblico (riducendo lo Stato) al privato inducono "aspettative razionali" di ripresa e quindi nuovi investimenti e assunzioni. C'è "anche" cosmesi (cioè coscienza di interventi di mera bandiera per volume), ma Saccomanni e Giovannini, come più volte qui evidenziato, alle sole "supply side" ci credono veramente.
La domanda aggregata per loro non è una dinamica di fattori interdipendenti, ma solo registrazione descrittiva di volumi che dipendono solo dall'offerta e dagli investimenti privati: ritenendo ancora valida la legge di Say"
Mi rendo conto che per conciliare le intenzioni e gli effetti (in concreto divergenti rispetto alle prime) delle politiche oggi unanimemente seguite e condivise da governi, commissione UE e BCE, occorra comprendere il panorama scientifico, il background teorico, che tutti questi attori seguono. In un processo riduzionistico essenziale (fenomenologico), si tratta in effetti del profondo recepimento, convinto, privo di dubbi, delle teorie, o meglio ideologie, economiche di von Hayek.
Insomma, piuttosto che inseguire, dichiarazione dopo dichiarazione, i preannunzi di misure economiche in gestazione, le giustificazioni e i DEF relativi agli "effetti attesi" delle manovre, basta sapere come si sia espresso von Hayek.
L'analisi completa di un autore così ricco di produzione e prese di posizione nel corso di gran parte del secolo scorso sarebbe, com'è stato già fatto, il naturale oggetto di un autentico trattato.
Ma alla fine, le idee di von Hayek, seppure giustificate da lunghe premesse di ordine filosofico e antropologico, attento com'era a giustificare in termini di "istinti naturali", di conoscenze individuali incomplete, (colmate da forze che gli individui trovano nella stessa realtà biologica che li contraddistingue), la stessa creazione della "grande società" e tutti i fenomeni e gli equilibri economici che possono derivarne, le sue idee, dicevamo, si esprimono in una gamma di tematiche alquanto limitate e ossessivamente reiterate.
Per una strana necessità simmetrica, la sua stessa critica instancabile a Keynes si impernia sull'attribuzione a questi di un'equivalente limitatezza di temi e di idee-guida (tipico fenomeno proiettivo segno di alterazione emotiva dell'individuo, paludata di logica ma dettata dalle stesse pulsioni inconscie che egli esamina, in un ennesima semplificazione della realtà evolutiva umana, come spinta pre-culturale dell'individuo).
Ma qui si vede la fallacità della costruzione hayekkiana, dato che Keynes non escluse affatto il ruolo creatore di ricchezza delle iniziative individuali, cui anzi assegnava la piena libertà di iniziativa riconoscendo la funzione propulsiva degli "animal spirits", la complessità-ricchezza delle componenti della "propensione agli investimenti", la funzione coadiuvatrice, semmai correttiva delle fasi di crisi, e non esclusivamente determinante, dell'intervento pubblico rispetto ad essa.
Non certo un "credo" basato sulle sole funzioni di spesa statale- con i suoi, tra l'altro, denegati, effetti monetari- e di programmazione pubblica; questi assunti, nella forma schematizzata che egli critica, non si trovano mai enunciati nelle riflessioni di Keynes, attente, a differenza di Hayek, alla registrazione dei fenomeni della realtà sociale nella loro effettiva manifestazione e varietà storica.
Sospinta da una tecnica polemica para-razionale, basata sulla sistematica estrapolazione di segmenti isolati di un pensiero ricco, flessibile e articolato nei suoi oggetti e nei fenomeni fattuali presi in esame, Hayek è in definitiva l'iniziatore della "critica a un Keynes inesistente" che trova il suo punto di forza, solo apparentemente solido, nella famosa questione della stagflazione degli anni '70 (la cui contigenza dovuta a fattori attinenti al petrolio e alle materie prime, viene dilatata strumentalmente per criticare, alla fine, esclusivamente l'assetto sindacale e le dinamiche salariali, mentre invece trovò soluzione nell'autocorrezione, sempre in uno scenario globale di equilibri geopolitici).
Sulla universalizzazione di una critica economica fondata su tali basi contingenti, - la cui "eccentricità", rispetto alla realtà del fenomeno, sarebbe emersa se solo si fosse compiuto un sereno esame e della correzione avutasi nel lungo periodo e degli effetti della isterica instaurazione dei regimi monetaristi che, frettolosamente, si sono attribuiti meriti correttivi che alla prova dei fatti, scientificamente osservati, non hanno avuto-, manca tutt'ora una reazione scientifica "funditus", capace cioè di ristabilire la verità dei fatti e, più ancora di raggiungere la stessa fortuna culturale che hanno avuto la teoria Hayekkiana e i suoi allievi ed epigoni, a cominciare da Friedman.
Una prima acuta serie di osservazioni riequilibratici della verità dei fatti (in base a dati diffilmente confutabili), in Italia, la si deve a Bagnai, che passa in rassegna quelle vicende anche nel libro "Il tramonto dell'euro".
Sta di fatto, però, che il mainstream, figlio e "nipotino" di von Hayek, è ancora solidamente al comando, e, come abbiamo detto, il suo apparato di idee-guida risulta interiorizzato, forse al di là di quanto non sia cosciente, dai protagonisti della c.d. "governance" economica europea e naturalmente italiana.
Insoma, tutto quello che questi possono esprimere, posti di fronte ai frangenti di qualsiasi congiuntura ed esigenza di politica economica, finisce per essere solo una citazione o un montaggio e rimontaggio di qualche frase o formula di von Hayek. Basta conoscerne le proposizioni fondamentali e data una certa "issue" sul tappeto, si può prevedere con puntuale e sconcertante esattezza quale posizione e quali soluzioni adotteranno gli esponenti di questa governance.
A titolo esemplificativo ma altamente indicativo riportiamo alcuni passaggi del von Hayek pensiero, quali divulgati dalla Fondazione Bruno Leoni, che tra le sue missioni pare aver adottato anche quella di esaltare quella hayekkiana come teoria economica ottimale, salvifica e provvidamente anti-keynesiana (essendo visto Keynes come uno dei mali retaggio del XX secolo, al pari del comunismo sovietico). Basti al riguardo questo passaggio tratto da una delle loro pubblicazioni:
<Come superare le crisi?
Murray Rothbard (1926-1995), l’ultimo grande rappresentante della scuola austriaca ha scritto:
Fino a che non avremo ripudiato Keynes allo stesso modo di come lo sono stati Marx e Lenin nell’Europa dell’Est e nell’Unione Sovietica, non usciremo mai dalle periodiche stagnazioni e cicli economici. Dobbiamo gettare definitivamente queste tre icone del XX secolo nel cestino della storia. (
Making Economic Sense, Mises Institute, pag.224).
Ma all’orizzonte non ci sono segnali che ci facciano sperare in un tale cambiamento. Almeno fino a quando nelle facoltà universitarie di economia si continuerà ad insegnare Keynes, ignorando Hayek.>
Nell'illustrare le esemplificazioni del (reiterato) pensiero di von Hayek, partiamo dalla arcinota querelle con Keynes originata da una lettera di quest'ultimo del 17 ottobre 1932. Le risposte di Von Hayek (unitamente ad altri economisti) sono indicative di un pensiero che può dirsi già allora condensato e rigorosamente trasmesso e "fissato" come paradigma omogeneo e dogmatizzato in un blocco praticamente non più messo in discussione al giorno d'oggi.
"Due giorni dopo, il 19 ottobre, quattro docenti dell’Università di Londra replicarono alla lettera di Keynes. Uno dei firmatari era Friedrich von Hayek che, cinquant’anni più tardi, avrebbe vinto il Premio Nobel per l’economia.
Hayek e gli altri economisti evidenziavano tre punti discutibili nella lettera di Keynes: in primo luogo facevano giustamente notare che la tesi keynesiana relativa alla futilità del risparmio equivaleva in realtà al classico tema economico del pericolo rappresentato dalla tesaurizzazione, vale a dire alle conseguenze potenzialmente perniciose di un aumento generalizzato della domanda di moneta al quale non corrisponda una crescita adeguata dell’offerta di moneta stessa. «Concordiamo sul fatto che accumulare il denaro, in liquidità o in saldi inattivi, produce effetti deflattivi. Nessuno pensa che la deflazione sia qualcosa di auspicabile».
In secondo luogo, i professori di Londra trovavano discutibile l’asserzione che la forma assunta dalla spesa (consumo o investimento) non contasse. Essi ritenevano che fosse «particolarmente auspicabile una ripresa degli investimenti», prefigurando così la posizione dei supply-siders di oggi. Hayek e i suoi colleghi distinguevano tra l’accumulo di denaro e i risparmi destinati all'acquisto di titoli e riaffermavano l’importanza del mercato dei titoli mobiliari, che permette la conversione del risparmio in investimenti.
Il terzo, e più importante, elemento di dissidio con Keynes verteva sui benefici apportati dalla spesa pubblica in disavanzo. Hayek protestava che «l'esistenza di un debito pubblico di grandi proporzioni impone attriti e ostacoli al riassestamento dell’economia che sono molto maggiori di quelli imposti dall'esistenza del debito privato». Non era il momento (per menzionare l’esempio fatto da Keynes) di mettersi a costruire nuove piscine comunali e simili cose. Per traslare questa affermazione nel nostro contesto odierno, non è il momento di mettersi a lanciare “stimoli economici”.
Per finire, è importante osservare che Hayek e gli altri firmatari della lettera offrivano una via d’uscita. I governi di tutto il mondo, guidati dagli Stati Uniti delle nefaste tariffe introdotte nel 1930 dalla legge Smoot-Hawley, avevano adottato politiche protezionistiche e restrizioni ai flussi di capitale. Hayek sosteneva invece che fosse il momento di «abolire quelle restrizioni agli scambi e al libero movimento dei capitali».
Passiamo poi a una "traccia" un pò più consistente di illustrazione del pensiero, finale e maturo, del "nostro".
"Possiamo ancora evitare l’inflazione?di Friedrich A. von Hayek
...Quando nel 1970 Hayek tiene questa sua lezione sulla questione monetaria, l’economia occidentale si trova in una situazione assai particolare. Dopo la crescita che aveva caratterizzato la ricostruzione post-bellica, su entrambi i lati dell’Atlantico la situazione economica era contrassegnata da una sovrapposizione di inflazione e sostanziale stagnazione economica.
La forte penetrazione delle idee socialiste aveva progressivamente logorato le basi dell’economia libera: l’affermarsi del
welfare state, con il conseguente costante aumento della spesa e dell’indebitamento, aveva determinato la necessità di una politica monetaria discrezionale e inflazionistica.
Solo l’anno successivo a questa conferenza di Hayek sul tema dell’inflazione, tanto carica di preoccupazioni e tristi presagi, il presidente americano Richard Nixon deciderà il definitivo abbandono del gold standard, ponendo fine al sistema dei cambi fissi uscito dagli accordi di Bretton Woods del 1944. In tal modo, la convertibilità delle valute in dollari e dei dollari in oro (gold exchange standard) veniva abbandonata e quella statunitense diventava compiutamente una valuta "fiduciaria", sganciata da ogni rapporto con l’oro o con qualunque altro bene.
A livello internazionale stanno per acuirsi sempre più le contrapposizioni tra Occidente e mondo arabo, soprattutto a seguito delle tensioni connesse alla questione arabo-israeliana. Nel 1973 la vittoria di Israele nella guerra del Kippur spingerà l’Opec a penalizzare i Paesi occidentali importatori di petrolio, causando una grave crisi energetica. Un’altra grave crisi si avrà qualche anno dopo, nel 1979, a seguito della rivoluzione khomeinista in Iran.
In questo quadro, le stesse società europee vedono moltiplicarsi le tensioni politiche e sociali, soprattutto a causa di una crescente conflittualità sindacale e di un ribellismo studentesco che in qualche caso genererà gruppi terroristici. Sul piano economico, l’Occidente è entrato in una spirale inflazionistica durante la quale si utilizza la politica monetaria per rispondere più facilmente alle crescenti richieste di aumenti retributivi.
È questo il contesto nel quale si situa il profondo pessimismo delle pagine hayekiane che seguono, che appare profondamente diverso dalla grande fiducia nella buona discussione intellettuale come viatico per la buona politica così tipica di tanti lavori di Hayek. Tuttavia, proprio nel buio di quegli anni, comincia a vedersi una luce nel buio. Dopo che per anni – seguendo la lezione della Teoria generale – si era ritenuto di poter evitare ogni rischio di stagnazione tramite un’espansione monetaria e quindi una certa dose di inflazione, quello che negli anni Settanta apparirà sulla scena è un fenomeno nuovo, che verrà detto stagflazione. In una medesima economia si assiste, infatti, a un progressivo innalzamento dei prezzi e a una mancata crescita. "Tutti gli errori di Keynes", per citare il titolo di un recente saggio di Hunter Lewis pubblicato dal nostro Istituto,1 diventano materia di discussione – e, piano piano, riprende vigore un pensiero diverso.
Sarà anche grazie a tutto ciò che le tesi di Hayek, premiato nel 1974 con il premio Nobel per l’economia, torneranno a essere prese seriamente in considerazione. E sarà grazie al sovrapporsi dell’evidenza di un fallimento politico, e del rinato entusiasmo per una prospettiva intellettuale diversa, che gli anni immediatamente successivi vedranno imporsi idee ben diversie: l’attenzione per l’indipendenza delle banche centrali dalla politica come problema istituzionale, l’ambizione a diminuire i margini di discrezionalità dei banchieri centrali, l’abolizione dei controlli valutari, l’abbassamento della pressione fiscale, la parziale
deregulation avvenuta ad opera di Margaret Thatcher in Inghilterra e di Ronald Reagan negli Stati Uniti.
Ma questo intervento per la Foundation for Economic Education precede tale (parziale) inversione di rotta. Esso si colloca quindi in uno dei momenti di maggior depressione conosciuti della cultura liberale: e non è un caso se proprio in tale situazione Hayek torna a riflettere su un tema che a più riprese aveva studiato con grande attenzione: quello della moneta.
L’analisi hayekiana muove dalla convinzione che l’inflazione andrebbe combattuta ed evitata, ma anche dalla lucida consapevolezza che manchino le condizioni politiche (e pure culturali) in grado di spingere le autorità economiche e monetarie a difendere la moneta. E anche se è consapevole che la situazione sia disastrosa e che lo sarà ancor più negli anni a venire, pure egli non rinuncia a riprendere le sue passate analisi e a ricordare la lezione del maestro, Ludwig von Mises (1881-1973).
D’altra parte, proprio alla questione della moneta Hayek – di lì a pochissimi anni – dedicherà una delle sue riflessioni più ardite e "inattuali": quelle pagine sulla necessità di denazionalizzare la moneta con cui egli prendeva atto definitivamente dell’impossibilità di conciliare sound money e banca centrale, la lotta all’inflazione e il monopolio della moneta.
Questa lezione di Tarrytown è utile a comprendere come l’ultimo e più visionario Hayek sviluppi quelle tesi proprio nello sforzo di dare risposte veramente legittime e razionali di fronte a questioni cruciali: a partire dal tema della determinazione dei salari. In particolare, egli aveva compreso che solo una restituzione della moneta al mercato poteva collocare su binari nuovi il rapporto tra imprese e lavoratori, destinato diversamente a generare ogni forma di populismo e tensione. Ma questa lezione deve essere anche una lezione di ottimismo. A pochi anni da momenti così bui, a un passo da quella che poteva apparire come una tragedia incipiente, le idee davvero riescono a sparigliare e a rifare le carte alla storia politica. Ripubblicare questa conferenza di Hayek è per noi, non solo un modo per rendere nuovamente disponibile un saggio così bello ed istruttivo. È anche un auspicio, per l’anno nuovo. (Carlo Lottieri)
In un certo senso, la domanda posta nel titolo è puramente retorica. Spero infatti che nessuno pensi che io possa aver dubitato, anche solo per un momento, che, dal punto di vista tecnico, fermare l’inflazione costituisca un problema. Se le autorità monetarie lo vogliono realmente e sono disposte ad accettare le conseguenze della loro decisione, l’inflazione può essere fermata praticamente da un giorno all’altro. Esse controllano la base della piramide del credito e un annuncio credibile che esse non accresceranno la quantità di banconote in circolazione e depositi bancari, ma che, semmai, ne ridurranno il volume basterà a compiere il gioco. Su questo, fra gli economisti, non ci sono dubbi.
Ciò che ora mi interessa non sono le possibilità tecniche, ma quelle politiche. E qui, certamente, ci troviamo di fronte a una questione così difficile che un numero sempre maggiore di persone, anche di grande competenza, si è rassegnata all’inevitabilità di un’inflazione di durata indefinita. Per quanto ne so, infatti, nessuno ha cercato di mostrare concretamente come possiamo superare gli ostacoli situati non nel campo monetario, ma in quello politico. E, del resto, neanch’io posso affermare di possedere una medicina che sia sicuramente efficace e adatta alle condizioni attuali. Ma, una volta compresa l’urgenza del problema, non mi pare neppure che la sua soluzione vada al di là delle possibilità umane. In questa sede, il mio scopo principale è fare capire chiaramente che, se vogliamo conservare una società di uomini liberi in cui abbia senso vivere,
dobbiamo fermare l’inflazione.
Se l’urgenza di questa necessità viene pienamente compresa, spero che si troverà il coraggio necessario a rimuovere gli ostacoli politici e a ripristinare un’economia di mercato.
Nei libri di scuola, e probabilmente anche nella testa della gente, viene preso in considerazione con la necessaria serietà solo uno degli effetti dannosi dell’inflazione, quello sui rapporti fra debitori e creditori. Certamente un deprezzamento imprevisto nel valore della moneta danneggia i creditori e favorisce i debitori. Questo è un effetto importante dell’inflazione, ma certamente non il più importante. E poi, dato che sono i creditori ad essere danneggiati e i debitori a guadagnarci, la gente non se ne preoccupa molto, almeno fino a quando non capisce che nella società moderna la più importante e numerosa classe di creditori è costituita dai salariati e dai piccoli risparmiatori, e i gruppi di debitori che guadagnano prima di tutti sono le imprese e gli istituti di credito.
Ma non voglio soffermarmi troppo su questo ben noto effetto dell’inflazione che, peraltro, è quello che si autocorregge più velocemente. Vent’anni fa avevo ancora qualche problema nel convincere i miei studenti che se in generale ci si attendeva un aumento dei prezzi in ragione di un tasso, poniamo, del 5 per cento, avremmo avuto tassi di interesse del 9-10 per cento, o più. E c’è qualcuno che non ha ancora capito che tassi d’interesse di quest’ordine di grandezza sono destinati a durare finché dura l’inflazione. Così, finché le cose stanno in questi termini e i creditori sanno distinguere fra ricavo lordo e netto, perlomeno i prestatori a breve termine non hanno ragione di che lamentarsi, anche se i creditori a lungo termine, come ad esempio i possessori di titoli di stato, vengono parzialmente espropriati.
Ma c’è anche un altro aspetto, più subdolo, di questo processo che merita attenzione. È l’aspetto che lede la credibilità di ogni pratica contabile e fa risultare profitti spuri considerevolmente superiori ai guadagni effettivi. Certamente, un dirigente avveduto potrebbe tenere conto anche di questo fattore, almeno in modo approssimato, e considerare un profitto solo ciò che resta dopo aver considerato il deprezzamento della moneta nella valutazione dei costi di sostituzione del capitale. Ma il fisco non glielo permetterebbe e pretenderebbe di tassare ogni pseudoprofitto. Una tassazione di questo tipo non è altro che una vera e propria confisca di parte del capitale e in periodi di inflazione galoppante può diventare un problema estremamente serio.
Tutti questi sono temi familiari – questioni che ho voluto ricordare brevemente prima di passare all’effetto dell’inflazione meno evidente ma, proprio per questo, più pericoloso. L’analisi convenzionale presentata in molti libri di testo procede come se una crescita nel livello medio dei prezzi significasse che tutti i prezzi crescono, nello stesso tempo, più o meno della stessa percentuale, o che ciò sia vero quantomeno per tutti i prezzi determinati correntemente dal mercato, con l’esclusione dei pochi prezzi fissati per decreto o dai contratti a lunga scadenza, come le tariffe dei servizi di pubblica utilità, gli affitti o altre comuni tariffe. Tuttavia questo non è vero e neanche possibile. Il punto cruciale è che, fino a quando la spesa monetaria continua a crescere trascinandosi dietro i prezzi di beni e servizi, i differenti prezzi devono salire non nello stesso tempo, ma in successione: in conseguenza di ciò, finché dura il processo, il prezzo che sale per primo deve sempre anticipare gli altri. Questa distorsione nella struttura dei prezzi relativi scomparirà solo qualche tempo dopo l’interruzione dell’inflazione. Questo è un punto fondamentale che il maestro di tutti noi, Ludwig von Mises, non si è mai stancato di mettere in evidenza negli ultimi sessant’anni. Ciò nondimeno, mi pare necessario ritornarvi sopra, non foss’altro perché di recente ho scoperto con un certo stupore che la sua importanza è stata sminuita (se non addirittura negata) da uno dei più importanti economisti viventi.
Le molte vie della moneta
Che l’ordine secondo il quale un continuo aumento nell’offerta di moneta accresce i differenti prezzi sia determinante per la comprensione degli effetti dell’inflazione, era stato già visto chiaramente, due secoli fa, da David Hume – e prima di lui da Richard Cantillon. Fu proprio per eliminare questo effetto della sua analisi che Hume assunse, in prima approssimazione, che un bel mattino tutti i cittadini di una nazione, svegliandosi, scoprissero lo stock di moneta in loro possesso miracolosamente raddoppiato. Anche così, però, non si avrebbe una crescita immediata di tutti i prezzi nella stessa percentuale, fatto che, del resto, nella realtà non si verifica mai. Il flusso aggiuntivo di moneta nell’economia, infatti, raggiunge sempre alcuni punti prima di altri. Ci sarà sempre qualcuno che disporrà della quantità aggiuntiva di moneta da spendere prima di altri. Chi siano queste persone dipende dal modo e dai canali attraverso cui l’aumento del flusso di moneta viene realizzato.
Può essere speso inizialmente dal governo, nella forma di lavori pubblici o incrementi salariali, o può essere speso per primo dagli investitori, impiegando disponibilità di cassa o ottenendo prestiti a tale scopo; può essere impiegato acquistando titoli, beni di investimento, accrescendo le paghe dei dipendenti o aumentando i consumi.
A quel punto i primi beneficiari di tali spese destineranno i loro guadagni aggiuntivi ad altri usi, e così via. Il processo assumerà le forme più diverse secondo la fonte iniziale del flusso addizionale di moneta e le sue ramificazioni saranno, di lì a poco, così complesse da essere difficilmente descrivibili. Ma una cosa, certamente, tutte queste forme avranno in comune; che i differenti prezzi non cresceranno insieme ma successivamente, e che fino a quando il processo continuerà l’aumento di alcuni prezzi anticiperà sempre gli altri e la struttura dei prezzi relativi sarà quindi molto lontana da quella che un teorico puro indicherebbe come situazione di equilibrio. Ci sarà sempre quello che potrebbe essere definito come un gradiente dei prezzi a favore di quelle merci e di quei servizi toccati per primi da un aumento del flusso di moneta e a scapito di quei beni che vengono raggiunti successivamente. Detto in altri termini, se partiamo dal sistema
di prezzi esistente prima dell’inizio dell’inflazione e che si ricostituirà approssimativamente dopo la sua cessazione, possiamo dire che in condizioni di inflazione quello che crescerà non sarà un piano orizzontale, bensì una sorta di superficie inclinata.
Se un tale cambiamento persiste per un certo tempo e entra a far parte delle aspettative dei soggetti economici, a esso prima o poi corrisponderà, nella struttura dei prezzi relativi, un analogo cambiamento dell’allocazione delle risorse: in termini relativi, verrà prodotta una maggiore quantità di quei beni e servizi i cui prezzi sono relativamente più alti e una quantità minore di quei beni e servizi che hanno subito un aumento di prezzo più modesto. È chiaro che questa redistribuzione delle risorse produttive continuerà fino a quando, e solo fino a quando, l’inflazione proseguirà a un determinato tasso. Vedremo come lo spostamento di risorse verso attività (o verso un determinato volume di attività) che possono continuare solo finché dura l’inflazione sia uno dei modi in cui essa causa un grave dilemma: porre fine all’inflazione distruggerà necessariamente alcuni dei posti di lavoro che essa stessa ha creato.
Ma prima di passare all’esame delle conseguenze dell’adattamento di un’economia a inflazione continua, bisogna fare i conti con una tesi che, sebbene non mi pare sia mai stata sostenuta espressamente, sta alla radice dell’idea che l’inflazione sia un fenomeno relativamente poco dannoso. Sembra infatti che se i prezzi futuri sono correttamente previsti, qualunque gamma di prezzi futuri sia compatibile con una posizione di equilibrio, perché i prezzi presenti si adatteranno ai prezzi futuri attesi. Però, perché ciò si verifichi, è evidente che non basta poter prevedere correttamente i vari livelli generali dei prezzi alle varie date future. Come abbiamo visto, i prezzi cambiano in ragione diversa. È probabile che l’ipotesi che i prezzi futuri di determinati beni possano essere correttamente previsti durante un periodo di inflazione non possa essere mai vera: perché, comunque i prezzi futuri siano previsti, quelli attuali non si adattano ai più alti prezzi attesi nel futuro da sé, ma unicamente attraverso una crescita della quantità di moneta, con tutte le variazioni nei livelli relativi dei prezzi che ciò necessariamente comporta.
Un fatto ancor più importante, d’altronde, è che se i prezzi relativi fossero previsti correttamente, l’inflazione non avrebbe nessuno degli effetti di stimolo per cui è così gradita a tante persone.
Ora, la ragione per cui l’inflazione risulta così gradita alle imprese è precisamente che i prezzi effettivi dei prodotti finiti risultano, di solito, più alti di quelli previsti. È questo che provoca quel generale stato di euforia, quel falso senso di benessere, in cui sembra che le cose vadano al meglio per tutti. Chi senza l’inflazione avrebbe realizzato profitti elevati, ne fa ancor più alti. Chi avrebbe fatto profitti normali si trova a ottenere risultati eccezionali, mentre chi era vicino al fallimento o, addirittura, chi doveva fallire, riesce a rimanere a galla grazie al boom inatteso. C’è un generale eccesso di domanda sull’offerta – si riesce a vendere di tutto e ognuno riesce a proseguire l’attività intrapresa. È questa condizione paradisiaca, in cui ci sono più posti vacanti che candidati ad occuparli, che Lord Beveridge descrisse come uno stato di pieno impiego, senza capire che il basso livello delle pensioni, di cui egli così amaramente si lamentava in vecchiaia, era l’inevitabile conseguenza della cura con cui erano state seguite le sue raccomandazioni.
Ma, e con questo vengo all’altro punto del mio discorso, il mantenimento del "pieno impiego" nel senso indicato da Beveridge richiede non solo che vi sia inflazione, ma che essa continui a un tasso crescente. Perché, come abbiamo visto, essa avrà i suoi effetti benefici immediati solo fino a quando essa – o almeno la sua entità – non sarà stata interamente prevista. Una volta però che il livello dei prezzi sia aumentato continuamente per un certo periodo di tempo, i suoi aumenti futuri cominceranno a essere attesi. Se i prezzi per un certo periodo sono aumentati del 5 per cento, la gente comincerà a pensare che continueranno a farlo anche in futuro. I prezzi attuali dei fattori produttivi salgono sotto la spinta delle aspettative sui prezzi del prodotto finito – e qualche volta, quando alcune componenti di costo sono fisse, le componenti flessibili ricevono una spinta verso l’alto anche di molto superiore all’aumento atteso del prezzo del prodotto finito – fino al punto in cui ci sarà solo un profitto normale.
Verso la depressione
Ma, non appena i prezzi smettono di crescere a un tasso superiore a quello atteso, gli extra profitti scompaiono. Benché i prezzi continuino a crescere al tasso precedente, questo non basterà più a garantire il ripetersi degli effetti miracolosi sulle vendite e sull’occupazione. I guadagni artificiali scompariranno, le perdite torneranno a palesarsi e alcune imprese verranno a scoprire che i prezzi non basteranno neanche a coprire i costi. Per continuare a ottenere i benefici che l’inflazione offriva quando non era completamente anticipata, bisognerà accettare tassi sempre più elevati. Se all’inizio bastava un tasso di crescita del 5 per cento, non appena questo livello comincia ad entrare nelle previsioni dei soggetti economici occorrerà, per continuare ad avere gli stessi effetti di stimolo, un’inflazione del 7 per cento o anche più. Inoltre, se l’inflazione dura da tempo, vi sarà un gran numero di attività economiche la cui sopravvivenza dipende unicamente dalla prosecuzione dell’inflazione a tassi sempre crescenti. Ci troveremo così in una situazione in cui, nonostante prezzi in crescita, avremo imprese in perdita e un aumento della disoccupazione. La depressione unita a prezzi crescenti è la tipica conseguenza del semplice rallentamento nella crescita del tasso di inflazione, non appena l’economia è "tarata" su un dato tasso d’inflazione.
Tutto ciò significa che se non siamo disposti ad accettare tassi di inflazione costantemente crescenti, che alla fine supererebbero ogni limite tollerabile, l’inflazione finisce per non essere altro che uno stimolo provvisorio all’economia. Non solo, quindi, essa cesserà ben presto di avere effetti di incitazione sull’economia, ma ci lascerà inevitabilmente un’eredità di aggiustamenti non più rimandabili e di nuovi squilibri, i quali renderanno i problemi molto più gravi.
Sia chiaro: io non sto dicendo che, una volta iniziata l’inflazione, siamo inevitabilmente destinati a venire trascinati in una super-inflazione galoppante. Non credo che ciò sia vero. Tutto quello che voglio dire è che, se volessimo mantenere i peculiari effetti sull’occupazione e sul benessere che pare offrire l’inflazione, dovremmo continuamente aumentarne l’entità e non potremmo mai diminuirne il tasso di incremento. Questa affermazione è convalidata empiricamente dalla grande inflazione tedesca dei primi anni Venti. Finché essa continuò a crescere in progressione geometrica praticamente non ci fu traccia di disoccupazione (eccetto forse che negli ultimi tempi). Ma fino a quel momento, ogniqualvolta il tasso d’inflazione accennava semplicemente a ridursi, la disoccupazione assumeva rapidamente proporzioni impressionanti. Non credo che seguiremo il sentiero battuto dalla Germania – perlomeno finché al timone della barca c’è gente minimamente responsabile – anche se non sono così sicuro che il proseguo delle politiche monetarie degli ultimi dieci anni non rischi, prima o poi, di portare ai posti di comando individui meno responsabili. Ma questo non è ancora il nostro problema. Per ora stiamo assistendo semplicemente a quella che in Gran Bretagna viene detta la "politica degli scossoni", in virtù della quale di tanto in tanto le autorità monetarie si spaventano per l’inflazione e cercano di frenarla, col solo risultato che, ancor prima che l’aumento dei prezzi si sia fermato, la disoccupazione inizia ad assumere proporzioni politicamente inaccettabili e si è così costretti a tirar fuori dal cassetto misure espansionistiche. Anche se questo gioco potrà
continuare ancora per un certo tempo, penso che la reale efficacia di dosi relativamente esigue di inflazione nello sviluppo dei nuovi boom stia decrescendo rapidamente. L’unica cosa che, devo confessarlo, mi ha sorpreso enormemente negli ultimi vent’anni è la durata dell’efficacia delle politiche di espansione come strumento per far partire la ripresa. Mi aspettavo che la capacità di far ripartire gli investimenti per mezzo di semplici e ridotte espansioni del credito si sarebbe esaurita da sé molto prima, e può darsi, tra l’altro, che si sia ormai arrivati a questo punto. Ma non ne sono sicuro. Di fronte a noi ci sono forse ancora dieci anni di politiche "degli scossoni", probabilmente caratterizzate da un’efficacia decrescente delle normali misure di politica monetaria e da lunghi periodi di recessione. All’interno di questo quadro politico e sotto l’influenza dell’opinione pubblica prevalente è probabile che l’attuale presidente della Federal Reserve si comporterà bene come chiunque altro. Ma i limiti imposti su di lui da circostanze completamente fuori del suo controllo (e su cui tornerò fra breve) ridurranno moltissimo la sua capacità di fare quel che vorrebbe.
In un’altra occasione ho paragonato la posizione dei responsabili della politica monetaria nei momenti successivi alla realizzazione di una politica di pieno impiego a quella di chi tiene una tigre per la coda. Temo che queste due situazioni abbiano molti più punti in comune di quanti ci piaccia pensare. Non solo la tigre tende a correre sempre più forte, sbattendo da tutte le parti il tapino appeso alla coda, ma la prospettiva di mollare la presa della coda di un felino sempre più inferocito diventa di momento in momento più agghiacciante. E il fatto che un paese finisce presto in questa scomoda posizione costituisce la maggiore obiezione a lasciare sciolte le briglie all’inflazione. Un’altra metafora che a tale proposito è stata spesso, e a ragione, proposta è quella dell’assuefazione alla droga. Il contrasto fra il piacere iniziale e la successiva necessità di una scelta dolorosa è un dilemma simile al nostro. Una volta finiti in questa situazione diventa fortissima la tentazione di affidarsi a semplici palliativi e accontentarsi di risolvere i problemi di breve periodo senza mai affrontare il problema di fondo, su cui, tra l’altro, i soli responsabili della politica monetaria possono fare ben poco. "
Inutile dire che le politiche espansive della moneta non risulteranno poi come causa dell'inflazione, come neppure la spesa pubblica, dato che come attestano poi i ravvedimenti finali di Friedman e dello stesso Paul Volcker, attestati da Galbraith e, in tempi più recenti, Munchau. Ho a tal fine sottolineato le parti in cui lo schematismo di Hayek perviene persino allo stupore del ritrovarsi in pieno "controfattuale".
Ma certo le "aspettative di inflazione attesa stimate esattamente", sono un'ipotesi che regge solo attribuendo valore assoluto alla teoria quantitativa della moneta e un'efficienza causale prioritaria, come "primo prezzo" in avanscoperta, al livello salariale. Questo, nelle "dimostrazioni" di von Hayek diviene un punto ossessivo: il controllo della rigidità verso il basso dei salari e della spesa pubblica, intesa come irresponsabile causazione monetaria dell'inflazione e dei suoi presunti effetti nefasti (egli stesso ne dubita, ponendo alcune condizioni che in realtà non accertò mai attraverso analisi approfondite dei dati e degli indicatorieconomici).
La prosecuzione del brani costituisce lo sviluppo e la conferma di questa direzione "unilaterale" della sua analisi.
Da notare come da queste premesse, che fanno coincidere inflazione con politica monetaria espansiva affidata alla determinazione statale della spesa in disavanzo, passi alla esaltazione del gold standard e alla richiesta di un nuovo sistema monetario internazionale che ne possegga caratteritiche simili, cioè quella di evitare che gli aggiustamenti degli squilibri delle bilance dei pagamenti avvengano solo a carico delle "nazioni in attivo", essendo le varie nazioni politicamente legate alla, per lui, irrazionale e dannosa tensione di mantenere la "piena occupazione", favorendo l'irresponsabilità delle rivendicazioni sindacali.
E questo ci fa capire come i suoi auspici siano stati pienamente recepiti proprio con la creazione dell'euro, che risponde alla sua versione delle cause monetarie dell'inflazione, del suo legame con la spesa pubblica e dell'esigenza assoluta di rendere di nuovo il salario flessibile verso il basso. Aspetto che gli premeva così tanto da dedicargli la chiosa finale.
"Uno sviluppo squilibrato
Prima di continuare a discutere questo tema fondamentale vorrei ancora dire due parole sulla pretesa indispensabilità dell’inflazione come condizione per un rapido sviluppo. Come vedremo la piega che hanno preso le politiche dei sindacati hanno creato una situazione per cui l’inflazione è diventata il solo strumento per conciliare la crescita economica con uno stabile e accettabile livello di occupazione e per superare gli ostacoli creati da quelle stesse politiche. Ma ciò non significa assolutamente che, in condizioni normali e soprattutto nei paesi meno sviluppati, l’inflazione sia necessaria o addirittura utile allo sviluppo. Nessuna delle grandi potenze industriali ha raggiunto la sua attuale posizione in periodi di deprezzamento del valore della moneta. Per quanto possono essere significativi paragoni su periodi così lunghi, possiamo ricordare che nel 1914 i prezzi inglesi erano circa allo stesso livello di due secoli prima e nel 1939 i prezzi americani si trovavano allo stesso livello che avevano nel primo anno di cui disponiamo di dati precisi, il 1749. Benché sia vero che la storia economica di tutto il mondo è soprattutto una storia d’inflazione, è anche vero che i pochi successi che incontriamo sono tutti contraddistinti da periodi di stabilità monetaria: e che nel passato un deterioramento del valore della moneta è andato di pari passo con la decadenza dell’economia.
Ovviamente, non c’è alcun dubbio che la produzione di beni capitali possa essere accresciuta da quello che viene definito "risparmio forzato" – ovvero l’uso dell’espan
sione del credito come strumento per dirigere le risorse verso la produzione di beni capitali. Alla fine di un periodo di risparmio forzato, la quantità fisica di beni capitali esistenti sarebbe più grande di quanto sarebbe stata in condizioni normali. Parte di questo fenomeno può anche risolversi, alla fine, in un guadagno durevole – la gente, ad esempio, riceve case in cambio di quello che non ha potuto consumare. Ma non sarei così sicuro del fatto che una tale crescita della quantità di beni capitali renda un paese più ricco, ovvero che il valore del capitale sarà, alla fine, più alto – o che, grazie a questo processo, la sua produttività verrà accresciuta in misura superiore che in condizioni normali.
Se l’investimento è stato deciso e realizzato sulla base dell’aspettativa di un tasso più elevato di investimento continuato (ovvero di un tasso d’interesse minore o di un tasso più elevato dei salari reali, tutti fattori che in pratica si equivalgono), nel futuro potremmo scoprire che questo tasso di investimento più elevato ha contribuito all’aumento complessivo della produttività in misura inferiore a quanto avrebbe potuto fare un investimento minore, ma più equilibrato.
Questo mi pare un pericolo particolarmente serio per i paesi sottosviluppati che cercano di usare l’inflazione come strumento per aumentare il tasso di investimento. Ritengo che l’inevitabile effetto di queste politiche sia che una parte relativamente piccola di lavoratori di questi paesi finisce con l’essere dotata di una quantità pro capite di capitale che difficilmente, nel futuro più vicino, si può sperare di offrire a tutti i lavoratori: di conseguenza, un investimento in quantità maggiori fa meno, per elevare il livello di vita, di quanto non farebbe un investimento magari minore, ma più equamente distribuito. Per questo mi sembra che chi consiglia alle nazioni in via di sviluppo di accelerare il tasso di crescita utilizzando l’inflazione sia criminalmente irresponsabile. In questi paesi, del resto, non si verifica l’unica condizione che nell’ipotesi keynesiana rende necessaria l’inflazione per avere la piena utilizzazione delle capacità produttive, ossia la rigidità dei salari determinata dalle organizzazioni sindacali. Nessuno degli effetti di tali politiche che ho potuto osservare – che sia in Sud America, in Africa o in Asia – può modificare la mia convinzione che in questi paesi l’inflazione è interamente ed esclusivamente nociva: essa produce uno spreco di risorse e ritarda lo sviluppo di quello spirito di calcolo razionale che è condizione indispensabile per la costruzione di un’efficiente economia di mercato.
Tutta l’argomentazione keynesiana a favore di una politica creditizia espansionistica si basa interamente sull’esistenza di un livello di salari determinato dalla contrattazione sindacale e tipico dei paesi industrializzati occidentali, ma completamente insistente nei paesi del Terzo Mondo e, per motivi diversi, meno importante in altri paesi come la Germania e il Giappone. Secondo me la proposta di sostenere l’occupazione con una continua inflazione ha una qualche plausibilità solo in quei paesi dove, come si suol dire, i salari sono "rigidi verso il basso" e vengono costantemente spinti verso l’alto dalle rivendicazioni sindacali – e non dubito, infatti, che noi continueremo ad avere alti tassi di inflazione fino a quando persisteranno queste condizioni.
Quello che è accaduto nel secondo dopoguerra è che sono stati adottati (e sovente dotati di forza di legge) criteri-guida politici che di fatto sollevano le organizzazioni sindacali da ogni responsabilità per il livello di disoccupazione causato dalle loro politiche salariali e assegnano interamente il compito di garantire la piena occupazione alle autorità monetarie e fiscali. A queste ultime, infatti, si chiede di offrire al sistema una quantità di moneta sufficiente a far assorbire dal mercato tutta l’offerta di lavoro al livello di salari fissato dalle organizzazioni sindacali.
E, dato che è innegabile che per un certo numero di anni le autorità monetarie possono effettivamente garantire, mantenendo un tasso di inflazione sufficientemente alto, un elevato livello di occupazione, esse subiscono continue pressioni dell’opinione pubblica a fare uso di questo strumento. Questa è la sola causa della diffusione e della crescita dell’inflazione negli ultimi venticinque anni, e continuerà a operare fino a quando tollereremo che, da un lato, le organizzazioni sindacali spingano i salari monetari a qualunque livello riescono a strappare ai datori di lavoro e, dall’altro, che i datori di lavoro accettino un dato potere d’acquisto dei salari solo perché sanno che le autorità monetarie annulleranno parzialmente il danno abbassando il potere di acquisto della moneta e, di conseguenza, il livello reale dei salari contrattati.
Questo è il dato di fatto politico che oggi rende inevitabile l’inflazione e a cui si può rimediare non con cambiamenti nelle politiche monetarie, ma solo nelle politiche salariali.
C’è poco da farsi illusioni: finché dura questa situazione del mercato del lavoro siamo destinati ad avere un’inflazione continua.
E tuttavia non possiamo permetterci di proseguire su questa strada, non solo perché l’inflazione perde sempre più la sua efficacia contro la disoccupazione, ma anche perché, mano a mano che si perpetua, essa inizia a disgregare progressivamente l’economia e crea forti pressioni a favore dell’imposizione di un controllo dei prezzi. Un’inflazione a briglie sciolte è già un brutto male, ma un’inflazione soffocata dal controllo dei prezzi è anche peggiore: è la vera fine di un’economia di mercato.
La patata bollente che dobbiamo avere il coraggio di afferrare se vogliamo conservare il sistema di libera impresa in un’economia di mercato è, dunque, il potere dei sindacati sui salari. Fino a quando i salari, e particolarmente i salari relativi fra i differenti settori, non saranno di nuovo soggetti alle leggi del mercato e non saranno di nuovo veramente flessibili, tanto verso il basso quanto verso l’alto, non c’è nessuna possibilità di avere una politica non-inflazionistica. Una considerazione molto semplice mostra che se nessun salario può scendere, tutti i cambiamenti nei salari relativi possono prodursi unicamente attraverso una crescita di tutte le retribuzioni meno quella il cui peso relativo deve diminuire. Ciò significa che praticamente ogni volta che è necessaria una modifica nella struttura dei salari tutte le retribuzioni nominali devono salire. Del resto, al giorno d’oggi un sindacato che accetti una riduzione nelle paghe dei suoi iscritti appare come un fatto impossibile.
Nessuno, ovviamente, trae beneficio da questa situazione, dato che ogni crescita nei salari nominali, se non si vuole provocare disoccupazione, deve venire annullata da una svalutazione. Tutto questo, piuttosto, sembra una necessaria conseguenza della contrattazione collettiva dei salari da parte dei sindacati e delle politiche di piena occupazione.
Penso che fino a quando non avremo risolto questo problema potremo sperare ben poco da un miglioramento degli strumenti e degli apparati di controllo monetario. Ciò, ovviamente, non significa che le istituzioni attuali siano soddisfacenti. Sono state infatti progettate proprio per venir incontro alle necessità determinate dal problema dei salari, ossia per agevolare a ciascun paese la via dell’inflazione.
Il gold standard è stato abbattuto principalmente perché era un ostacolo all’inflazione.
Quando nel 1931, pochi giorni dopo la sospensione del gold standard in Gran Bretagna, Lord Keynes scrisse su un quotidiano londinese che "ben pochi inglesi non gioiscono per il fatto che le nostre catene d’oro sono state spezzate" e quando, quindici anni più tardi, egli poté assicurare che gli accordi di Bretton Woods erano "l’opposto del gold standard", egli si riferiva al fatto che il gold standard rendeva impossibile, a un singolo paese, una prolungata politica inflazionistica. E benché non possa affermare con certezza che il gold standard sia il miglior sistema concepibile per raggiungere lo scopo, devo ammettere che è stato l’unico, fino ad ora, a riuscirci. Probabilmente aveva molti difetti, ma la sua fine non è dovuta ad essi; e comunque ciò che lo sostituisce non è un miglioramento.
Se, come ho recentemente sentito affermare da uno dei diretti partecipanti agli accordi di Bretton Woods, l’obiettivo delle trattative fu di far pesare l’onere degli aggiustamenti delle bilance dei pagamenti esclusivamente sulle nazioni in attivo, mi pare che il risultato di un simile disegno dovrebbe essere una continua inflazione internazionale.
Ma ho toccato questo punto solo per ricordare che, se vogliamo evitare una continua inflazione diffusa in tutto il mondo, abbiamo bisogno di un differente sistema monetario internazionale. È chiaro, però, che potremo cominciare a occuparci delle questioni internazionali solo quando le nazioni che guidano il sistema monetario internazionale avranno risolto i loro problemi interni. Fino a quel momento dovremo accontentarci di rimedi di fortuna e mi pare che al momento attuale, e fino a quando perdureranno le difficoltà di cui ho parlato, non vi sia alcuna possibilità di risolvere il problema dell’inflazione internazionale attraverso una reintroduzione del gold standard, quand’anche questa scelta fosse praticabile. Il problema centrale da risolvere prima di poter sperare nella nascita di un nuovo ordine monetario resta quello della determinazione dei salari."
Chissà perchè non sono stupito.
RispondiEliminaForse perché è la stessa storiella che raccontarono a noi italiani.
http://www.ansa.it/web/notizie/specializzati/europa/2013/07/04/Croazia-verso-affidamento-autostrade-gestori-privati_8976034.html
Ma mica hanno finito di raccontarcela.
EliminaPrima ancora che alle privatizzazioni (ma lo dico per la cronaca, perchè non dubito che tu lo abbia colto), poi il post mira ad evidenziare come si giunge alla ideologia della "nuova moneta" che sostituisca il gold standard nella sua funzione deflattiva e disciplinatrice dei salari.
Le privatizzazioni in fondo sono un punto debole della teoria che nella lode a von Hayek si tende ad occultare: esse evidenziano la scarsa efficienza dei privati sul piano degli investimenti e persino dei costi, rispetto al pubblico, e fanno emergere ciò che Hayek stesso pareva non considerare affatto un problema. Le rendite da monopolio e oligopolio. Qunado parla dei privilegi che devono essere tolti a tutti, infatti, si riferiva ai soli diritti sociali, tipo tutela delle donne (maternità e stabilità del posto) e accesso dei meno abbienti all'istruzione. Quelli gli parevano dei meccanismi di "eccezione" rispetto alla regola della darwinistica emersione di chi "ce la farebbe comunque a ogni costo". I privilegi di partenza dei più abbienti non gli interessavano...
Altro parallelismo fra il gold standard e l'attuale sistema Euro:
EliminaAlla fine del gold standard tutti sapevano che non avrebbe retto e gli attori economici (banche e stati) cambiavano i loro $ in oro, x poi rivenderlo sul "mercato non ufficiale" a prezzo maggiore, contribuendo via arbitraggio alla distruzione del sistema.
Oggi identicamente le banche dell'euro zona portano in bce prima di tutto a collaterale i titoli portoghesi, irlandesi ecc dove la bce concede liquidità' con uno scarto inferiore a quello visibile nell'intervancario (sistema Repo).
Quanto durerà?
Ps e' bello vedere come lo sport + popolare da 4/5 anni a questa parte sia mettere in bocca a Keynes cose mai dette e attribuitogli colpe x cose successi lustri dopo la teoria generale....
Buon libro e buona guarigione anche da parte mia
Ribadisco.
RispondiEliminaDovendo scegliere fra il far star male un gran numero di persone e sacrificare pochi rentier non hanno dubbi e salvano il loro, e purtroppo nostro, padrone.
Lo so che è un'analisi talmente grezza da sembrare un'invettiva, specialmente a fronte della documentatissima testimonianza che hai portato.
Sono parimenti convinto che l'impossibilità di vedere alternative da parte di certa sinistra nasce da un atteggiamento fideistico, oserei dire religioso: non si discuteva il vento dell'est, non si discute ora la tramontana... vedo come unico epilogo la scuffia.
Ma, come insegna Cyrano, l'invettiva può essere un'arte. :-)
EliminaNello specifico, poi, non si limitano a salvare i rentier; fanno molto di più gli hayekkiani. Eliminano il concetto di eguaglianza sostanziale e lo trasformano in un impaccio eticamente inaccettabile. Insomma, assicurano il futuro riprodursi dei privilegi negandoli; una sorta di creazione di una super razza umana, giustificata nella sua dominanza da scienza e natura.
Alla loro maniera un capolavoro. E questo la dice lunga su come ex-sfigati di scuola di partito abbiano intimamente abracciato l'idea esaltante di assurgere a questa cerchia dominatrice del futuro
Grazie 48 per l'ampia e documentata disamina.
EliminaMa quindi, possiamo dire che questi signori stanno portando avanti un progetto preciso?
Però, posso capire che tale disegno sia portato avanti dal ns. governo venduto e dall' elite finanziaria tedesca e dai grandi capitalisti del centro europa, ma la nostra confindustria, i nostri sindacati?
La CGIL non ha un Centro Studi?... L'altro giorno ho sentito desolatamente la Camusso dire che la priorità deve essere "la lotta all'evasione" !!...
Forse possiamo dire quindi che al livello più alto sono consapevoli e cinici, a livello sottostante sono babbei confusi e irretiti dal famoso "fogno europeo"..
Poveri noi !
Dopo una prima lettura veloce ho l'impressione che parecchi preminobel siano di troppo. Dà più l'idea di un caso umano che di uno scienziato (forse qualche invito a cena da parte di industriali un po' in vista, lo avrebbe rinfrancato).
RispondiEliminaE' l'essenza del comandaecontrolla. Nemmeno la natura arriva a tanto. E meno male. Se no ci potremmo scordare ogni differenza di potenziale. E' tutto e solo supply side. Per fare un esempio comprensibile : una stanza in cui la temperatura (in questa estate calda) è deciso non da chi ci vive ma da chi fornisce il freddo.
Hayek nel tempo in cui visse era stato per alcune sue idee (non tutte) un rivoluzionario, un po come Smith nel 700
RispondiEliminaMa altre idee, come l' atteggiamento da razza superiore, arrogata in passato a imperatori o sacerdoti, quella selezione darwiniana che la natura applica al regno animale e vegetale, non deve valere per forza nei confronti dell' umanità in quanto essa è dotata di intelletto e di tutte quelle sfere emozionali che sono proprie in quanto umane.
Il concetto di razza superiore o darwinismo sociale non è comunque del secolo scorso ma del 800; fu proprio un religioso in Inghilterra a tirare fuori queste idee, sfociate in degenerazioni come il KKK o il nazismo.
Ma veniamo al tema economico: Hayek non aveva capito, al contrario di Keynes, che nel sistema economico occorre equilibrio tra le varie parti che compongono la società umana (servizi pubblici, salariati,governo,imprenditori,pensionati,rentiers,ecc..)
Se questo equilibrio non è rispettato, nel senso che si avvantaggia in modo spropositato una parte della società il sistema economico tende a deflazionarsi molto o, nel peggio, crolla
Esempi eclatanti sono la UE (vantaggio per il sistema finanziario e multinazionali) e l' Argentina (politica economica troppo a vantaggio della classe lavoratrice) e ora sull' orlo di un fallimento
per l'argentina vai a dare una letta al post di bagnai,,, è illuminante!
EliminaL' avevo già letta, grazie
EliminaE' da li che ho saputo la situazione Argentina; sapevo che aveva dei problemi ma non riuscivo a focalizzare su cosa
Grazie allo scritto del professore Argentino ben tradotto dal professor Bagnai ho potuto fare chiarezza
L'attuale crisi argentina non è dovuta ad una politica "troppo" a favore dei lavoratori, ma al tentativo di mantenere un alto livello di crescita con politiche espansionistiche non razionalmente correttive del ciclo (che è poi il compito diogni governo). Il che certo è per mantenere anche il livello occupazionale, ma in modo fiscalmente poco oculato e, dopo, corretto falsando il livello del cambio nominale rispetto a quello reale.
EliminaCosì Bagnai: "L’inevitabile crisi valutaria che si profila all’orizzonte sarà stata causata da due errori di gestione macroeconomica: l’uso improprio della spesa pubblica, e l’uso del tasso di cambio forte come àncora dei prezzi interni. Errori simili a quelli che circa vent’anni or sono causarono nel nostro paese la crisi del 1992. L’esperienza argentina ci dimostra così ancora una volta come il “cambio forte” schiacci, invece di proteggerlo,il Paese che lo adotta. La lezione da trarre è che lo sganciamento da un cambio in sostenibile deve essere gestito con intelligenza, evitando di ricadere negli errori del passato."
Il governo Argentino ha voluto tenere la sua moneta ad un valore troppo elevato, non lasciandolo svalutare quindi,per paura dell' inflazione che in quel paese è già molto alta per gli standard di oggi.
EliminaAvrebbero dovuto trovare altri modi per agire sull' inflazione come drenare denaro circolante ad esempio
Quando ho parlato di politica a favore dei lavoratori ho usato un termine improprio, meglio affermare politica a favore del pubblico
Quali politiche attueresti per domare l' inflazione essendo concorde che tenere la propria moneta ad un livello non congruo al proprio sistema economico sia un errore ?
In Italia a suo tempo abbiamo attuato il divorzio con la BC
Anche il prof. Bagnai sull' Argentina qui:
Eliminahttp://temi.repubblica.it/micromega-online/lezioni-argentine/
scrive:
Nel 2007 la situazione è cambiata drasticamente. Dopo cinque anni di crescita all’8%, cominciavano a emergere fisiologiche tensioni sui prezzi interni, ma alle prime avvisaglie di crisi internazionale, il governo ha risposto premendo sull’acceleratore della spesa pubblica, cercando di mantenere il tasso di crescita ai livelli precedenti. Un tentativo che rispondeva a una logica di tipo populistico. Il risultato è stato un’esplosione dell’inflazione, salita al 20%-25%: dato occultato dalle statistiche ufficiali, che il governo ha tenuto sotto controllo rimuovendo, con una decisione molto criticata, i vertici dell’istituto di statistica.
Sostanzialmente stiamo dicendo la stessa cosa tutti e tre, pur,avendo io usato il termine improprio 'lavoratori'
Ecco il "nostro" (o mostro) "figliuolo prodigo"di Friedrich (certo, anche io dare del "prodigo a Monti.... :)
RispondiEliminahttp://www.youtube.com/watch?v=4qXsf6pse-0&feature=youtube_gdata_player
Ps: Auguroni per una pronta rimessa in sesto
Grazie anche a te...Pronta fisicamente ci vorrà un pò; intellettivamente, come ho già detto, lo stato febbrile paradossalmente aiuta...anche nel (tentare di) scrivere il libro :-)
EliminaIl mantenimento del valore del denaro e gli sforzi nell’evitare l’inflazione richiedono, costantemente, misure altamente impopolari al politico. Solo mostrando la necessità del governo nel prendere queste misure egli può giustificarle davanti alle persone colpite. Fintanto che la conservazione del valore esterno della moneta nazionale è considerata come una necessità incontestabile, come con i tassi di cambio fissi, i politici possono resistere alle continue richieste di crediti a basso costo, evitare un aumento dei tassi di interesse, evitare più spese per “lavori pubblici,” e così via. Con tassi di cambio fissi, una diminuzione del valore estero della valuta, o un deflusso di oro o di riserve valutarie, agisce come un segnale del bisogno di un intervento rapido del governo. Con i tassi di cambio flessibili, l’effetto di un aumento della quantità di denaro sul livello dei prezzi interno è troppo lento per essere in generale visibile o addebitabile a chi, in ultima analisi, è responsabile di esso. Inoltre, l’inflazione dei prezzi è di solito preceduta da un aumento nell’occupazione; si può quindi anche accoglierla, perché i suoi effetti nocivi non sono visibili immediatamente.
RispondiElimina(Friedrich Von Hayek)
Qualcuno ha ancora dei dubbi su chi sia il "padre" ideologico dell' euro?
E ancora:
RispondiElimina" Credo sia innegabile che la domanda di tassi di cambio flessibili sia totalmente originata da paesi come la Gran Bretagna, alcuni dei quali economisti hanno voluto un più ampio margine per l’espansione inflazionistica (chiamata “politica di piena occupazione”). Hanno poi ricevuto il sostegno, purtroppo, da altri economisti che non sono stati ispirati dal desiderio di inflazione, ma che sembrano aver trascurato l’argomento più forte a favore dei tassi di cambio fissi, i quali costituiscono il freno praticamente insostituibile di cui abbiamo bisogno per costringere i politici, nonché le autorità monetarie loro responsabili, a mantenere una moneta stabile. (Friedrich Von Hayek)
Mi permetto di consigliare la lettura del libro di Mark Blyth "Austerity:the history of a dangerous idea" per capire quanto le attuali politiche deflazionistiche che formano il dogma dell'austerity siano debitrici nei confronti del pensiero di von Hayek....
RispondiEliminaVorrei segnalare quest'articolo anche se OT, magari l'avete già visto. Mi sembra interessante.
RispondiElimina//www.huffingtonpost.it/2013/07/05/fabrizio-saccomanni-brunetta-fmi-ministero_n_3549157.html?ncid=edlinkusaolp00000003
Scusate il link è questo http://www.huffingtonpost.it/2013/07/05/fabrizio-saccomanni-brunetta-fmi-ministero_n_3549157.html?ncid=edlinkusaolp00000003
RispondiEliminaL'avevo visto. Praticamente..divertente (capita sempre più spesso di recente) :-)
Elimina48, ti consiglio vivissimamente di perderti una serata e asoltarti questo ragazzo. Ascoltalo tutto, non credo che ti annoierà. E' un marxista (il suo maestro è Costanzo Preve), ma fa una analisi veramente ben calibrata.
RispondiEliminaSono sicuro che, come me, condividerai molte cose (non tutte). Sarebbe un "input" molto interessante per te in questo momento di "gestazione" del tuo libro:
http://www.youtube.com/watch?v=BnteBbPqtoY
http://www.youtube.com/watch?v=BnteBbPqtoY
Bravo Bargazzino. Se non lo ha visto spero lo veda . Lo avevo già linkato su vari post.
EliminaSeguo il suo sito da anni.
http://www.filosofico.net/marcuseetnazismo.htm.
@48 ogni volta che si parla d Von Hayek, Hitler mi appare come uno sprovveduto. Von Hayek è più sottile raffinato. Il suo pensiero si insinua nel tessuto democratico per distruggerlo lentamente.
Sulla sua superiore raffinatezza non c'è dubbio: tanto più che egli sfruttò contro Keynes anche le (da lui certo non sollecitate) simpatie naziste per la "teoria generale", dovute essenzialmente al fatto che Keynes, nel giusto, evidenziò che le sanzioni imposte a Versailles a carico dei tedeschi erano eccessive e insostenibili.
EliminaHayek non ha bisogno del totalitarismo nazionalista: è uno smooth operator che tende piuttosto a disattivare sul piano pseudoscientifico bio-antropologico ogni possibilità di mutamento dei rapporti sociali, considerando ogni dottrina sociale come eticamente disfunzionale.
Il bello è che si lamentò per quasi tutta la vita di essere politicamente inascoltato..finchè non trovò la Thatcher e Pinochet
Hai detto nulla:) uno le cui idee continuano a far danni anche dopo la dipartita. Hitler era palesemente "cattivo" e per questo individuabile.
EliminaPotremmo dire che anche quando la supply side economics funziona fa grossi danni. La peggior offerta incontrò la relativa domanda.
Certo Heyek che accusa Keynes di simpatie naziste è mooolto credibile.
L'Hayek eco-socio-politico teoria è espressione del primo think tank che trova, internazionalmente produttivo, inascoltato per decenni, nella "società del Monte Pellegrino" la massima espressione e diffusione con la successione di 7 Nobel economici e i primi "influencers" della comunicazione tra i quali primeggia W Lippman con la sistematica diffusione della teoria della "spirale del silenzio" per il consenso "diffidente".
EliminaAffianco i think tanks "peregrini" sono però interessanti le indagini antropologiche su "sommersi e salvati".
ps: appunti "peregrini" sparsi da organizzare, se interessa 48 knight .. fammè sapè ;-)
La "spirale del silenzio", il "consenso diffidente" e W. Lippamn sembrano un argomento degno: se ti vuoi cimentare sei sempre benvenuto :-)
Eliminahttp://www.ilgiornale.it/news/interni/i-burocrati-bankitalia-che-ci-mettono-ginocchio-933470.html
RispondiElimina"Al Quirinale c'è Pertini. A Londra si celebra il Royal Wedding tra Carlo e Diana. A Roma matura il divorzio tra Banca d'Italia e Tesoro.
Beniamino Andreatta stabilisce che la Banca centrale (da un paio d'anni in via Nazionale c'è Ciampi) non è più obbligata ad acquistare i titoli pubblici emessi dal Tesoro. Nemesi della Storia: 32 anni dopo, la Bce - retta per di più proprio da un ex governatore di Bankitalia, Mario Draghi - ha nella faretra frecce che la autorizzano ad acquistare titoli pubblici sul mercato. Frecce, al momento, mai utilizzate."
mmmmmmmhhhhhhhhhh.......leggere queste cose su un media italiano mi provoca un senso di soddisfazione non piccolo. non piccolo. è come sentire un pezzettino del muro di gomma che scricchiola.
Sono i PUDE-dissidenti che affilano le armi...
Elimina"Chiaramente una produzione e una occupazione più elevate generano benefici non solo per i lavoratori ma anche per gli imprenditori, perchè i loro profitti aumentano. E la politica di pieno impiego delineata sopra non usurpa i profitti perchè non comporta alcuna tassazione aggiuntiva.
RispondiEliminaGli imprenditori durante una crisi economica non vedono l'ora di un nuovo boom; perchè non dovrebbero accettare con gioia quella ripresa economica 'artificiale' che il Governo è in grado di offrire loro?
E' una questione difficile e affascinante che intendo affrontare in questo articolo" (Michal Kalecki, "Political aspect of full employment)
Se uno Squinzi qualunque avesse un barlume di lucidità rivedrebbe in un secondo la validità di una delle premesse del pensiero Hayek, quella che stabilisce, come un postulato, che individuo è molto meglio dello Stato. Mentre dubito che il Nostro sia anche solo in grado di comprendere il significato della parola 'premesse', i suoi consiglieri, fascilmente identificabili nei bocconiani, considerano la cosa come un oltraggio al loro credo.
La Storia insegna continuamente che di buone intenzioni è lastricato l'inferno.
Good point. Il corto circuito tra mancanza di conoscenze (Squinzi) e conoscenze deduttivistiche alterate nelle premesse (consiglieri)
EliminaIo posso anche tranquillamente sbagliarmi, ma quello che 'sfugge' agli Hayekiani (il cui modo di 'ragionare' il sottoscritto conosce perfettamente, direi) è che il 'totale' è diverso dalla somma di singoli individui.
EliminaE' fin troppo facile, quasi semplicistico, affermarlo, perchè sembra voler dire che è 'immediato', basterebbe sostituire una teoria con un'altra. Poi rimane di rispondere alla domanda 'delle cento pistole': come si determina questo cambiamento?.
E qui la scienza si ferma, per raggiunti limiti concettuali, per lasciar posto all'alchimia (abbiamo a che fare con soggetti pensanti che si appellano alla razionalità, per giustificare le proprie decisioni, ma che raramente agiscono sulla base delle definità Razionalità).
Non c' entra molto se non per testare il livello dei consiglieri dello Squinzio.
Eliminauna accolita di argomenti piddini "sviluppati" in forma parascientifica con tanto di disegnini e numerini (rigorosamente pescati a casaccio):
http://www.confindustria.it/studiric.nsf/e5e343e6b316e614412565c5004180c2/8ddee0ec696350b6c1257a3e003421aa/$FILE/Nota%20CSC%202012_4.pdf
Il problema c'è. E anche Cesare Pozzi lo tratteggiava in termini simili.
EliminaLo studio peraltro non considera che non solo siamo produttori di beni strumentali, cosa che ci favorirebbe anche in caso di svalutazione intra-UE di partner che dovrebbero reinvestire per autoprodurre, ma che, noi, a nostra volta, siamo produttori intermedi di semilavorati...per i tedeschi...
Tutto dipende sia dalla nostra capacità di riattivare gli impianti e di reintegrare le intere filiere produttive nei nostri processi, sia dalla riespansione, del tutto taciuta nello studio, dell'export verso gli USA.
Ma certamente, dopo anni di devastazione manifatturiera euro-trainata, l'incognita c'è
i problemi sappiamo tutti che ci sono.
EliminaNessuno, penso , credo sia una passeggiata, specialmente il primo/ i primi due anni, ma bisogna considerare i costi e i benefici dei due scenari.
E, quella relazione del Centro studi confindustria, non mi sembra molto rigorosa (eufemismo) nel valutarli.
ah, ovviamente, piu' si va avanti, nell' INEVITABILE processo di deindustrializzazione , assolutamente correlato alla moneta unica, piu' sarà complicato il ritorno alla moneta nazionale. E questo -non proprio trascurabile argomento- neanche è sfiorato in quella relazione.
Si aggiunge il danno alla (auto)beffa: in effetti il destino della moneta unica è segnato. Gli industriali dovrebbero lavorare su una tempestiva e oculata assunzione di responsabilità rispetto a questo inevitabile scenario.
EliminaNon cercare di scongiurarlo dichiarandosi, in definitiva, impotenti a reagire per adottare, tempestivamente, le opportune strategie di investimento e riappropriazione di produzioni (dato che la moneta nazionale recupererebbe opportunità favorevoli oggi precluse)
leggere hayek è come sentire i discorsi sull'irreversibilità dell'euro più lo gridano e insistono , più capiamo in molti che non è vero , che uscire dallìeuro ai può. Hakek da la dimostrazione al contrario che le tesi keynesiane non sono solo ragionevoli ma altresi razionali, insomma è lui stesso a fornire la prova ontologica che Keynes esiste!!sullo sfondo rimane soloil contasto tra libertà ed uguaglianza solo che Hayek e la sua genia sono più uguali di tutti. lea sua teoria in sostanza si basa su una scelta politica di fondo quellla che i greci definivani kalos agazzos ( spero di averlo scritto bene )
RispondiEliminaMi fate fare gli straordinari (due commenti su un solo post ... :-)
RispondiEliminaIl post e i commenti rendono conto delle contrapposizioni con Keynes. Goooooglando ho trovato (anche) un articolo del Corsera che tratta della "rivalità". Citerò un breve passo : Ma il fatto più grave, ad avviso di Hayek, è che fu proprio Keynes a stimolare lo sviluppo della macroeconomia. La convinzione di Hayek è, invece, che le conclusioni cui Keynes era pervenuto erano errate e i fondamenti della macroeconomia del tutto inconsistenti. Hayek vuole dimostrare contro Keynes che era necessario un ritorno alla microeconomia.
Questo passaggio mi ha fatto pensare che, se uno dei motivi di critica a Keynes era quello di aver sviluppato la macroeconomia, poteva darsi che ce ne fosse anche per Freud? Altra gooooglata ed ecco dal Sole24ore: ... per Friedrich A. von Hayek, premio Nobel per l'economia nel 1974 -
Freud, "attraverso i suoi profondi effetti sull'istruzione (...) è forse diventato il maggiore distruttore culturale del nostro
secolo"...
Mi sembra rilevante e ora la questione mi è più chiara.
ps Ottimo : ci voleva.
Ma lo sai che il corsera scrive le stesse cose della Fondazione Leoni?
EliminaE tutti insieme trascurano...l'inconscio. Poi dice che uno si sente sempre a disagio e deve sempre far sentire gli altri in colpa (alimentatore analogico della distonia base della personalità)
E con Freud giunge Karl G Jung a dischiudere "orizzonti" quantistici tra "nostre" ancore cartesiane :-)
Elimina"Fino a che non avremo ripudiato Keynes allo stesso modo di come lo sono stati Marx e Lenin nell’Europa dell’Est e nell’Unione Sovietica, non usciremo mai dalle periodiche stagnazioni e cicli economici. Dobbiamo gettare definitivamente queste tre icone del XX secolo nel cestino della storia"
RispondiEliminaHo appena finito di leggere l'articolo di Bootle che si conclude con questo passaggio: "But those who think that the euro crisis is all over are in for a rude awakening".
Pongo in relazione le due citazioni per evidenziare come la seconda 'metta a nudo' la pochezza della struttura concettuale hayekiana. Infatti, penso, che il riferimento al voler 'eliminare' i cicli economici evidenzi la (inconsapevole?) scelta di negare la Natura e la sua caratteristica di 'circolarità': il susseguirsi delle stagioni, l'alternarsi del giorno e della notte, il salire e scendere del livello dell'acqua, ecc ecc.
It's in the name of the game, folks. Ma 'questi' sono rimasti indietro, le lezioni di matematica, di geometria e di filosofia, non le hanno mai volute capire fino in fondo. E in modo arrogante vogliono far credere che la logica intrinseca della Natura (ma anche della natura delle vicende umane, come i sistemi complessi economici) NON è quella circolare, ma lineare. Come se giocassero una perenne partita sul tavolo di biliardo: A causa B che causa C che causa......la fine della popolazione di un continente. Applausi.
Si usa spesso l'immagine del calciare un barattolo lungo la strada (to kick the can down the road) per descrivere l'incredibile inefficacia delle decisioni prese. E tale immagine è ancora un 'regalo' fatto a questi 'sempliciotti', perchè è possibile determinare in anticipo, conoscendo le caratteristiche del piede calciante, la traiettoria della lattina sulla strada: ancora la logica lineare.
Ma quello che stanno prendendo a calci non è un oggetto inanimato: si provi ad immaginare al posto della lattina, un cane (e non voglio dire un umano). Se lo prendi a calci, prima o poi questi salta su e prende a morsi il piede.
Già, prima o poi.