La ormai nota uscita di Sapin, come già suggerito da Antonio Rinaldi,
pone la Francia di fronte ad un percorso praticamente obbligato.
Consideriamo
che il suo debito pubblico è con ogni probabilità destinato a sfondare la
soglia "psicologica" del 100% del PIL (effetto praticamente sicuro anche
evitando la recessione, a fronte di deficit mantenuti ben oltre il 3% e
in assenza di un saldo primario di bilancio), e che alla fine
dell'ipotetico percorso rivendicato da Sapin (cioè nell'esercizio 2019)
l'attenderebbe inevitabilmente, in tutta la sua insostenibile
pesantezza, un'ancor più dolorosa applicazione del fiscal compact (dato
il livello della correzione sul debito pubblico divenuta necessaria).
Tra l'altro, ben oltre il 50% del debito pubblico francese è in mani
straniere, il che, in un paese normalmente attento all'interesse
nazionale, ne fa un'arma (s)valutaria "potenziale" di tutto rispetto.
Riassumiamo
in pillole: la Francia con deficit oltre il limite del 3% rifiuta la
deflazione e la recessione, ma non corregge i tassi di cambio reale a
tappe distruttive come ha accettato supinamente l'Italia. Evidentemente
lo considera inutile: e questo qualcosa di importante ce lo preannunzia sul futuro dell'euro. Accetta di peggiorare la propria bilancia dei pagamenti e la propria posizione netta sull'estero (che come ci insegna
Francesco Lenzi non coincide del tutto col cumulo dei deficit CAB).
Dunque,
per la Francia, questa posizione significa lasciare alla Germania la
"battuta" su una sua reflazione con aumento della domanda interna e per
di più accelerata: il termine del 2019 farebbe saltare tutti i piani
mercantilistici egemonici tedeschi perseguiti finora. Quattro anni di
disapplicazione delle politiche deflattive "no matter what" sono una prospettiva contronatura per i tedeschi; e già le "mosse" di Draghi stanno mettendo in crisi lo stesso fronte interno della Merkel, come abbiamo visto qui, stretta tra le tensioni dell'AFD e le rivendicazioni espansive
socialdemocratiche.
E abbiamo visto come questa direzione sia implicita anche nelle misure adottate dalla BCE,
che tendono a mettere la Germania nell'alternativa tra un rischio bolle
speculative immobiliari e finanziarie e uns crescita della domanda
interna via "effetto ricchezza" (una nemesi della situazione italiana
post introduzione dell'euro). E QUESTO VUOL DIRE CHE L'USCITA DI SAPIN
PUO' RISULTARE GRADITA ANCHE OLTREOCEANO...
La Germania
ha dunque due alternative: andare allo scontro o adeguarsi e
reflazionare. Sceglierà la prima perchè è...scritto nella Storia, e ciò difficilmente eviterà alla
Commissione di dover agire contro la Francia in base alla procedura di disavanzo
eccessivo, dato che Moscovici,
come già formalmente si affretta a precisare, non potrà avallare le
manovre finanziarie presenti e future del governo francese.
Tanto
più che lo stesso Moscovici è stato messo sotto tutela dalla Merkel,
tramite il placet vincolante sulle sue valutazioni, dal popolare lettone
Valdis Dombrovskis.
Dal punto di vista degli equilibri
politici è impensabile che la Francia, che aveva ritenuto ai tempi di
Mitterand (sbagliando e concedendo un assetto negoziale di Maastricht
imprudente, pensato sulla liquidazione dell'Italia, ma poi rivelatosi un
boomerang) di controllare la Germania tirandola nella moneta unica,
accetti questo duplice affronto: commissariamento dei suoi esponenti
nelle istituzioni UE tramite interposta...Lettonia e plurime sanzioni
per deficit eccessivo. La vittoria tedesca su Parigi risulterebbe
semplicemente inaccettabile.
Per i socialisti francesi, poi,
ratificare questo andamento equivale alla scomparsa elettorale: è
ragionevole pensare che non vogliano affondare firmando l'onta di una
nuova Sedan e che l'attuale presa di posizione sia stata meditata per
ridarsi una ragione sociale ed affrontare le prossime elezioni
presidenziali con un candidato che dia un senso non solo all'interesse
nazionale ma alla stessa esistenza di un partito alternativo alla
destra neo e post-gollista. Le grandi intese infatti, in paesi che rispettano se stessi e la logica costituzionale democratica, uccidono la rappresentatività delle istanze dei settori economicamente più deboli della società, che sono una maggioranza schiacciante che solo l'euro-ubriacatura ha messo in quarantena e reso moralisticamente esecrabile.
La destra euro-istituzionale francese infatti - come tutti i partiti €-tea-party- si troverebbe a far emergere le sue sfacciate aspirazioni neo-liberiste
proprio sulla questione del valore strumentale dei trattati europei nel
restaurare un assetto sociale che per i francesi appare indigeribile; e
che solo l'asfissiante retorica del pacifismo sovranazionale europeo poteva far accettare, in una mistificazione "culturale" che la spocchiosa ed autoritaria superiorità tedesca sta invece smascherando.
Ovviamente in Italia non si guarda alla sostanza, cioè a quanto viene invece smascherato (cioè
la natura restauratrice gold-standard e anti-labor dell'euro), ma solo
ad un'esteriore e presunta mancanza di buon senso tedesca. Che tale non
è: i tedeschi reclamano delle politiche che il congegno e gli intenzionali "buchi" dei trattati rendono
legittime.
Insomma, in Italia, a differenza della Francia, si continua
(mediaticamente) a imporre l'idea che l'euro è buono, pacifista e
democratico e che i tedeschi sono sì un modello superiore da imitare,
ma...senza esagerare e nella gradualità, e senza voler comprendere, o
meglio AMMETTERE, la effettiva sostanza dei trattati!
Ma questo è un altro discorso.
riguardo la chiusa del post verrebbe da citare le ultime uscite di Mineo....che dopo essersi opposto alle derive antidemocratiche sul senato e essersi schierato a "difesa" dei rimasugli dell'articolo 18....se ne esce dicendo che l'euro porta pace e prosperità.
RispondiEliminachiamate il Cottolengo perfavore....
Il punto è che di fronte ad una situazione, di distruzione del welfare e della tutela del lavoro, così omogeneamente diffusa in tutta l'area UEM, è molto grave rifiutare ogni analisi dei dati economici ed attribuire tutto alla corruzione ed al clientelismo come fa il "nostro".
EliminaSenza avere la più pallida idea del fondamento e delle reali dimensioni di questi problemi e se abbiano una definibilità e una efficienza causale sulla crisi spaventosa che stiamo passando.
ma qui secondo me andiamo oltre il punto di vista ideologico...siamo proprio all'irrazionalità pura e semplice. non solo economica.
Eliminail Cottolengo andrebbe chiamato lo stesso perchè, anche volendo testardamente restare dell'idea che la causa scatenante la crisi sia la corruzione, seguendo un filo logico sensato toccherebbe poi ammettere che proprio con l'avvento dell'euro essa è aumentata a dismisura.
cioè non si scappa con l'avvento dell'euro l'italia è collassata. e in buona compagnia. che sia perchè l'eurosistema favorisce la corruzione o per i motivi reali poco importa perchè cmq sia questi personaggi non seguono la loro stessa logica.
quando arrivano al punto salta il collegamento neuronale, si cancella la memoria a breve termine e si riparte da capo.
pari a quelli che scrivono un libro sull' "uscire dalla crisi senza uscire dall'euro". sono in contraddizione con sè stessi sulla base della semplice logica deduttiva anche dando per buoni i loro stessi assunti di base.
(PARTE 1)
RispondiEliminaProvo ad abbozzare una mia (sommaria) interpretazione del problema.
In Italia, a partire dal famoso "dibattito" parlamentare del 1978, è stata probabilmente fatta una scelta: buttare alle ortiche i saggi avvertimenti di Spaventa (finiremo in un'area di bassa pressione e di deflazione), per intraprendere un percorso di reazione liberista verso i cedimenti concessi alle classi subalterne in quel decennio.
A differenza della leadership inglese, che cercò di coniugare questo percorso liberista rimanendo dell'alveo della democrazia sostanziale, ossia non infrangendo il principio (teorico) della reversibilità di qualsiasi scelta politica (rileva al riguardo la lettera con la quale la Tatcher rispose a V.Hayek), la classe dirigente italiana (all'epoca destra DC) optò per il cosiddetto "vincolo esterno": vale a dire far assurgere quegli stessi indirizzi liberisti a base tecnicamente e politicamente vincolante per qualsiasi scelta politica (con conseguente, automatica, "neutralizzazione" di qualsiasi politica a sfondo sociale). La duplice direttrice di attuazione consisté (e consiste tutt'ora), nel conferire piena attendibilità alle sole teorie neoclassiche (base vincolante tecnica), e nell'elevare qualsiasi limitazione alla sovranità, anche e soprattutto economica, a principio superiore da accettare a prescindere, pena essere contrari a quella "pax europea" che pretendeva di riscattare il continente dal sangue versato negli ultimi secoli a causa dei ciechi "particolarismi" dei suoi Stati sovrani, culminati nel massacro del secondo conflitto mondiale (base vincolante politica).
A dir la verità, la "sinistra" all'epoca era anche critica (vedi Napolitano, sempre nel 1978), laddove invece i liberisti annidati nella DC (i vari Andreatta, Prodi & C.) sapevano bene a che gioco si giocava e dove si voleva arrivare.
Personalmente credo che l'europeismo "tout court" sia diventato il "salvagente" politico dei sinistroidi solo dopo la caduta del muro di Berlino. Un salvagente nel quale, peraltro, far confluire pezzi incoerenti della passata ideologia (fiducia nel dogma della futura scontata "implosione" del capitalismo, diritti cosmetici, tutela "a prescindere" del diverso, odio ideologico contro la piccola borghesia, considerata più dannosa del padronato, smodata affezione per quello che potremmo definire "metodo sovietico", che sacrifica i particolarismi dei pochi "cattivi" al grande ideale -ma quale?- generale). Insomma, la sensazione è che, come ci fu, dopo le elezioni del 1948, un forte investimento politico nell'esperimento del socialismo reale, dopo il 1989 c'è stato analogo investimento politico "alla cieca" nel dogma europeista. La cosa curiosa è che l'Europa stessa, nel perseguire la sua trasformazione in chiave liberista, sembra aver puntato molto sui diritti cosmetici, per potersi presentare come socialmente accettabile, favorendo questo connubio ed invogliando ancora di più i sinistroidi ad investire politicamente su di lei.
(segue)
direi sedicente sinistra dc
Elimina(PARTE 2)
RispondiEliminaSenza dilungarsi. Vuoi perché la destra faceva il suo lavoro di destra, vuoi perché la sinistra spaesata dal crollo del muro ha preferito buttare i diritti sociali alle ortiche in favore di quanto sopra, ritenendolo politicamente più conveniente, vuoi perché il "ce lo chiede l'europa" era comodo anche ad una classe politica sempre più restia ad assumersi responsabilità e volta a (soprav)vivere di solo consenso, a partire da Maasrticht, tutto ciò che avesse sopra l'etichetta di "europeo" è stato supinamente recepito nell'ordinamento senza alcuna riflessione critica, nè formale nè sostanziale. Il tutto condito da una crescente campagna mediatica che incitava all'auto-razzismo, e all'individuazione del vincolo economico europeo come vincolo morale per purificare eticamente noi italiani "Mafia Spaghetti e Baffi neri".....
Il risultato non poteva quello che è stato. Abbiamo dato retta a Monti, abbiamo "fatto come Menem". E con i medesimi effetti: corruzione e bancarotta, ossia ciò di cui il liberismo di rapina vive e respira da quando è nato. La sinistra si è fatta progressivamente "inquinare" dalla camaleontica ma sempre presente (e governante!), "destra DC", che nel 2011 ha abbandonato il bozzolo esausto (e politicamente indifendibile) di Forza italia per confluire in quello politicamente corretto del PD, con lo stesso obiettivo che aveva nel 1978: reazione. Soltanto che adesso la corda è stata tirata forse troppo.
Certo non siamo adeguati ad affrontare la sfida politica che si sta profilando in europa. Rischiamo di essere i soliti "alleati di uno e cobelligeranti dell'altro", o forse nemmeno quello, dimentichi che questa politica del va dove ti porta il vento non ha mai pagato. Ma se non hai un'idea politica "vera" da proporre al tuo popolo, come puoi adottare un coerente indirizzo estero? Non puoi........
E non finisce qui (ti incorporo nel prossimo post) :-)
EliminaTutto bene, ma pur non volendo fare il difensore d'ufficio del PCI, PDS, ecc., devo ricordare che il decennio culminato con la stazione di Bologna ha finito di ammorbidire le durezze dei compagni, passati dalle riunioni alle merende.
Elimina(pubblico questo intervento di luigi spaventa perchè non voglio scompaia dalla rete il link originale è cambiato , sintetizza e epitomizza il cambio di visione degli ex-pci
Eliminada parte di una persona estremamente compente
ricordiamo quanto diceva delle sme nel '78
http://gondrano.blogspot.it/search/label/Luigi%20Spaventa%20%281978%29%20Intervento%20alla%20Camera%20dei%20Deputati%20del%2012%20dicembre
non sono per nulla d'accordo con la seconda parte dell'analisi di Lorenzo C ma non è il post adatto per parlarne , e non ho una vera esperianza diretta su quello ma solo indiretta e inferita dal ruolo che ebbero nelle 'riforme' del mercato del lavoro e nelle privatizzazione
riforme e privatizzazioni di cui 'garanti' e protagonisti )
[credits to gustavo ^ordoliberista ^ piga]
L'euro, lo shock asimmetrico e la clemenza dei mercati
Di Luigi Spaventa Martedì 01 Novembre 2005 02:00 Stampa
L’Unione monetaria europea è la storia di un successo senza precedenti: politico nelle decisioni che ne furono all’origine, tecnico nella rapida ed efficiente realizzazione del progetto di sostituire una moneta unica a undici (e poi dodici) monete nazionali. Fu un successo particolare per l’Italia, che, con un inconsueto scatto di reni, riuscì all’ultimo momento a salire sul treno in partenza. Ma alle primavere radiose degli anni di decisione e di preparazione seguirono inverni di scontento: perfino, e forse ancor più, nel nostro paese. Nino Andreatta ne sarebbe rimasto costernato: con sarcasmo avrebbe liquidato l’analfabetismo di alcune argomentazioni; con convinzione avrebbe elencato i lucri emergenti e i danni cessanti offerti all’Italia dalla moneta unica. Mi chiedo tuttavia se, da studioso, si sarebbe fermato qua. Un economista che non cada nella trappola della polemica politica, un paio di questioni sulle conseguenze dell’euro se le deve porre: non certo per argomentare che per l’Italia fosse preferibile restar fuori, ma per comprendere piuttosto perché l’euro, lungi dall’essere una panacea, pone obblighi maggiori alla politica economica.
L’Unione monetaria europea è la storia di un successo senza precedenti: politico nelle decisioni che ne furono all’origine, tecnico nella rapida ed efficiente realizzazione del progetto di sostituire una moneta unica a undici (e poi dodici) monete nazionali. Fu un successo particolare per l’Italia, che, con un inconsueto scatto di reni, riuscì all’ultimo momento a salire sul treno in partenza. Ma alle primavere radiose degli anni di decisione e di preparazione seguirono inverni di scontento: perfino, e forse ancor più, nel nostro paese. Nino Andreatta1 ne sarebbe rimasto costernato: con sarcasmo avrebbe liquidato l’analfabetismo di alcune argomentazioni; con convinzione avrebbe elencato i lucri emergenti e i danni cessanti offerti all’Italia dalla moneta unica. Mi chiedo tuttavia se, da studioso, si sarebbe fermato qua. Un economista che non cada nella trappola della polemica politica, un paio di questioni sulle conseguenze dell’euro se le deve porre: non certo per argomentare che per l’Italia fosse preferibile restar fuori, ma per comprendere piuttosto perché l’euro, lungi dall’essere una panacea, pone obblighi maggiori alla politica economica.
Shock asimmetrico o asimmetria di un paese?
EliminaLa prima questione che ci si deve porre è illustrata sommariamente da qualsiasi fotografia della performance macroeconomica dell’Italia negli ultimi anni, drammaticamente peggiorata relativamente a quella media (già non entusiasmante) sia dell’Unione europea sia dell’area dell’euro. Nei primi anni Novanta il vigoroso aumento delle esportazioni aveva compensato la debolezza della domanda interna. Negli anni successivi quel sostegno, diversamente che in altri paesi, è venuto meno: dal massimo del 1995, la quota (a prezzi costanti) delle esportazioni italiane su quelle mondiali è caduta di oltre un punto e mezzo. La fiscal fatigue dell’aggiustamento di finanza pubblica richiesto per l’ammissione alla moneta unica può forse spiegare l’andamento della domanda interna nel quinquennio 1996-2000; ma non la stagnazione del periodo successivo.
Il post hoc è evidente. Pur se l’euro viene in esistenza alla fine del 1999, i rapporti di cambio scelti per fissare i tassi di conversione preesistevano: dopo il recupero del cambio dall’improvvisa e drastica caduta del marzo 1995, la parità di riferimento della lira venne fissata, ne varietur, nel novembre 1996, all’atto del rientro nel Sistema monetario europeo (SME). Dal 1996, dunque, l’Italia si colloca con cambi fissi e non aggiustabili rispetto agli altri partner europei. Il propter hoc è altra questione, ma non tale da poter essere liquidata sbrigativamente.
Nel dibattito sulle unioni monetarie, e soprattutto nella sovrabbondante letteratura che accompagnò la progettazione di quella europea, si parlò a lungo degli effetti di shock asimmetrici in un’area monetaria. In rozza sintesi: se l’area non è ottimale, perché le economie non sono sufficientemente integrate e non vi è pertanto fra esse mobilità dei fattori, un paese colpito, esso solo, da uno shock sfavorevole, ne sopporta per intero le conseguenze negative, poiché è privato dalla possibilità di stimolare la domanda con un deprezzamento del cambio.
Si può ritenere che l’Italia sia stata colpita da uno shock, dal quale gli altri paesi dell’Unione sono rimasti immuni? In senso stretto, la risposta è negativa. I numerosi shock o, più precisamente, la somma di disturbi di breve e di cambiamenti di lungo periodo che si sono verificati nell’ultimo decennio hanno riguardato indistintamente tutti i paesi dell’Unione. Così l’accelerazione nell’innovazione dei prodotti e delle tecnologie (soprattutto nell’informatica e nelle comunicazioni) e, ancor più, il prepotente ingresso sulla scena mondiale dei paesi in via di sviluppo e segnatamente di quelli dell’Asia Sud-Orientale e della Cina. Così, nel breve periodo, le vicende del dollaro, gli aumenti del prezzo del petrolio e i ricorrenti episodi terroristici. La circostanza che tutti siano stati esposti a questi eventi non basta tuttavia ad escludere un’asimmetria di effetti: se un paese è asimmetrico, o se si preferisce anomalo, nella sua struttura rispetto agli altri, gli effetti di uno shock comune saranno probabilmente diversi.
Che l’Italia presenti anomalie numerosissime rispetto alla gran parte degli altri membri dell’area dell’euro è cosa ormai troppo nota, e illustrata dalla dilagante letteratura sulla «crisi italiana». È anomala la struttura dimensionale delle imprese, caratterizzata da un eccesso di imprese piccole e da una carenza di quelle grandi. In parziale correlazione, è soprattutto anomala la specializzazione produttiva dell’industria, concentrata in settori di prodotti tradizionali e a bassa tecnologia. Sono particolarmente bassi la spesa privata in ricerca e sviluppo e il tasso di innovazione nelle imprese piccole e grandi. È insufficiente la dotazione di capitale umano, misurata dal grado di istruzione della forza lavoro, ma è anche insufficiente la domanda di mano d’opera qualificata. È insufficiente la dotazione di infrastrutture fisiche, ed è anche carente la dotazione delle infrastrutture immateriali (servizi collettivi, pubblica amministrazione, garanzia dei diritti e sistema giudiziario).
EliminaQuesto lungo elenco tuttavia non basterebbe di per sé a configurare una spiegazione accettabile del «declino». Dopo tutto, negli ultimi 15-20 anni la situazione non è peggiorata: semmai in numerosi casi è migliorata. Per completare la spiegazione, occorre coniugare la struttura che quell’elenco descrive con i cambiamenti (epocali, è il caso di dire) verificatisi sia nelle tecnologie sia nella distribuzione geografica della produzione e dei commerci mondiali. Con la sua specializzazione settoriale, con le sue micro-imprese, con il suo capitalismo senescente senza mai essere stato giovane, con la bassa qualificazione di sistema, il nostro paese poteva vivere – o vivacchiare – prima; ma non dopo che i cambiamenti richiamati si dispiegassero in tutta la loro forza. Le antiche asimmetrie hanno reso asimmetrici gli effetti di uno shock comune: nella nuova situazione l’Italia è diventata unfit to compete.
Si potrebbe sensatamente osservare che i cambiamenti già si cominciavano a manifestare in quel periodo degli anni Novanta in cui ci battevamo con buoni risultati sui mercati mondiali. È ben vero: ma allora il cambio si muoveva, deprezzandosi, a volte per decisione delle autorità, a volte per costrizione dei mercati. Si sostiene che i movimenti dei cambi nominali sono privi di effetti reali, perché ad essi si accompagnano analoghi movimenti di costi e prezzi. Vera in periodi assai lunghi, quella proposizione non lo è sempre in periodi più brevi: nel caso dell’Italia trova conforto nell’esperienza degli anni Settanta, ma non in quella del primo lustro degli anni Novanta, quando gli episodi di svalutazione nominale, anche grazie alla moderazione salariale sancita con il Patto del 1993, produssero variazioni nello stesso senso del cambio reale, stimolando una crescita notevole e un aumento di quota delle esportazioni. Per converso, nell’ultimo quinquennio, con un cambio nominale fisso, l’aumento dei costi, imputabile alla stagnazione della produttività, si è tradotto in un forte apprezzamento del cambio reale: negli ultimi tre anni le esportazioni si sono fermate. Pare dunque configurarsi il caso di un paese che, appartenente a un’Unione monetaria, ma anomalo nella sua struttura, a motivo di questa sua anomalia subisce effetti asimmetrici negativi di uno shock comune senza poterli alleviare con l’ammortizzatore del cambio.
Questa diagnosi, se vale, deve in primo luogo sopportare un interrogativo: se, data la nostra struttura produttiva, il cambio non sia divenuto un’arma spuntata nella nuova configurazione del commercio mondiale. In parte probabilmente sì, considerando il vantaggio comparato dei nuovi esportatori nei prodotti tradizionali; ma non del tutto, quando si abbia riguardo a una disaggregazione più fine delle nostre esportazioni.
EliminaQuella diagnosi, comunque, non consente di rovesciare la conclusione che l’entrata nell’euro è stata benefica per l’Italia. Mette tuttavia in rilievo che i guadagni non sono stati immuni da costi che le politiche economiche non hanno saputo valutare.
Per apprezzare l’assenza di alternative alla nostra partecipazione, occorre abbandonare l’ottica della desiderabilità di un’Unione monetaria europea «per sé», e chiedersi piuttosto quali sarebbero state le conseguenze di una situazione in cui il progetto si fosse avviato e l’Italia ne fosse rimasta fuori. L’Italia non era nella situazione del Regno Unito o della Svezia o della Danimarca: ancora nel 1996 aveva un debito pubblico pari al 123% del prodotto; pur con un avanzo primario elevato, l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni era di oltre il 7%, a motivo di un onere di interessi dell’11,5, con un costo medio del debito del 9,3%. A un paese escluso i mercati non avrebbero fatto sconti. Per evitare ricorrenti crisi finanziarie e di cambio e un aumento del costo del debito, l’aggiustamento complessivo di bilancio negli anni a venire avrebbe dovuto essere più vigoroso di quello intrapreso per entrare in prima battuta. La scelta era dunque obbligata. Ma pur sempre di scelta si trattava, con benefici e costi di ciascuno dei due esiti: rischio di ricorrente instabilità macroeconomica e di peso schiacciante degli interessi sul debito pubblico, in un caso; esposizione di un’economia debole ai rigori del cambio fisso, nell’altro.
La scelta non fu percepita come tale né dalle politiche economiche né dal settore privato. Forse perché il lento tsunami delle nuove tecnologie e soprattutto dell’entrata sulla scena di temibili concorrenti non si era manifestato ancora in tutta la sua potenza, si apprezzarono solo i benefici macroeconomici dell’euro, ma furono trascurati i costi che ne sarebbero derivati in mancanza di un’opera paziente volta a ridurre le anomalie italiane. L’attenzione si concentrò sulla politica di bilancio: le poche riforme che si attuarono furono timide e non si collocarono in un disegno coerente di modernizzazione; negli ultimi anni sono mancate anche quelle. Se la miopia dell’intervento pubblico poté trovare allora – ma non dopo – qualche (parziale) spiegazione nell’instabilità politica, è più difficile, allora come oggi, rinvenire attenuanti alla miopia manifesta nelle scelte (o, piuttosto, nella mancanza di scelte) del settore privato. Ma questa è un’altra storia, che meriterebbe un’analisi più attenta sulle caratteristiche del capitalismo italiano.
Con gli anni, gli effetti delle persistenti e non sanate debolezze di un paese asimmetrico collocato in un’Unione monetaria si sono aggravati, rendendo sempre più oneroso il compito di una politica economica che voglia restituire vitalità e competitività al sistema.
La clemenza dei mercati
EliminaLa seconda questione prende le mosse dai dati di finanza pubblica. Dopo lo sforzo di risanamento fiscale compiuto fra il 1992 e la fine del secolo, e dopo l’ammissione all’euro, le condizioni della finanza pubblica italiana sono inequivocabilmente peggiorate. Aumenta dal 2000 la spesa delle amministrazioni pubbliche al netto degli interessi; si riduce rapidamente l’avanzo primario; aumenta l’indebitamento netto, nonostante la diminuzione della spesa per interessi. Il segno negativo di questa tendenza si accentua quando si depurino i saldi dall’effetto di entrate straordinarie e non ripetibili; persiste anche quando li si corregga per le conseguenze del ciclo economico; si consolida quando il periodo si estenda alle previsioni ufficiali del 2005. Il rapporto fra debito e prodotto torna a crescere nel 2005.
Il timore di un rilassamento della disciplina di bilancio dopo la (irrevocabile) ammissione di paesi, come l’Italia, con gravi precedenti di squilibri finanziari aveva indotto il ministro delle finanze tedesco a ottenere, con il Patto di stabilità, un inasprimento nella attuazione della procedura per disavanzi eccessivi prevista dal Trattato. Sappiamo come è andata a finire: con i guardiacaccia trasformati in bracconieri. Nel triennio 2001-2004 l’indebitamento netto è aumentato in Francia e in Germania, dove ha superato di molto il 3%. In entrambi quei paesi il rapporto fra debito pubblico e prodotto è aumentato rapidamente. Un peggioramento (più moderato) si è verificato per l’Unione a 15 e per l’area dell’euro. Poiché i dettami del Patto di stabilità facevano ora scomodi a chi li aveva proposti, si è deciso svuotarli di efficacia operativa. La peer tolerance avendo sostituito la peer pressure, si è consentito anche all’Italia, con un rapporto fra debito pubblico e prodotto massimo nell’area dell’euro, non solo di eccedere il limite di’indebitamento, ma – quel che più conta – di ridurre drasticamente l’avanzo primario proprio quando si arrestava la riduzione del costo del debito.
Venendo meno una disciplina pubblica, ci si chiede se non possano i mercati imporne una con un aumento dei tassi di interesse. Il problema non si pone per l’area dell’euro nel suo complesso, e neppure per i suoi due maggiori paesi. In regime di piena libertà dei movimenti internazionali di capitale è difficile rinvenire una relazione di natura macroeconomica fra disavanzi o debito e tassi di interesse. I rendimenti dei titoli pubblici di Francia e Germania rappresentano il riferimento rispetto al quale il mercato esprime la sua valutazione del rischio di un investimento nei titoli pubblici degli altri paesi. Prima dell’inizio dell’euro, per quelli considerati meno affidabili gli spreads erano significativi e molto volatili, in relazione sia alle news sulle prospettive finanziarie del paese sia a shock esterni, che modificavano la propensione al rischio: per l’Italia nel periodo 1990-1996 furono in media di oltre 450 punti base, con varianza assai elevata. Ma dal momento in cui furono ragionevolmente certi sia l’inizio dell’euro sia l’ammissione di tutti i paesi candidati si è verificata una rapidissima convergenza verso i livelli dei tassi tedeschi, con spreads italiani di una ventina di centesimi di punto. Si è parimenti ridotta la sensibilità dei differenziali sia all’annuncio di mutamenti imprevisti della situazione finanziaria sia ad eventi esterni. Nel 2004 la Grecia svelò che la situazione della sua finanza pubblica era assai peggiore di quanto pretendessero i dati ufficiali; nella primavera del 2005 i conti pubblici italiani hanno subito correzioni negative con previsioni di disavanzi più elevati e di debito in crescita; un’agenzia di rating ha rivisto al ribasso l’outlook per l’Italia; nel 2002 fu annunciato il default del debito dell’Argentina: ebbene, in tutte queste occasioni i differenziali dei tassi hanno subito variazioni minime. Pare dunque che la «disciplina dei mercati» non si eserciti.
Questi sviluppi sono in parte spiegati dalla denominazione di tutti i titoli pubblici dell’area nella stessa valuta comune, con la scomparsa del rischio di cambio, che negli anni pre-euro spiegava la parte prevalente del differenziale dei tassi italiani. Ma esisteva allora anche una componente significativa di rischio di credito. Ebbene, il rischio di credito allora misurato eccede di qualche decina di punti base il differenziale attuale. Se ne può concludere che oggi i mercati assegnano una probabilità minore (e meno variabile) che in passato a eventi di insolvenza o di «crisi da debito». Esistono buone ragioni per questa mutata valutazione.
EliminaAnzitutto, la riduzione del costo del debito dovuta alla scomparsa del rischio di cambio è stata di per sé sufficiente a cambiare il segno della dinamica del debito in condizioni di crescita normale e in presenza di un pur modesto avanzo primario: tanto è bastato per migliorare drasticamente la percezione di sostenibilità della finanza pubblica e abbassare anche il premio per il rischio di credito. In secondo luogo, l’euro ha stimolato una rapida integrazione del mercato dei titoli pubblici dell’area, favorita anche dall’impiego di quei titoli come collaterale per le operazioni di rifinanziamento della BCE: l’aumento di liquidità nelle negoziazioni all’ingrosso ha certamente contribuito a ridurre volatilità e spreads. Progressi ulteriori nell’integrazione, tali da rimuovere gli ostacoli alle negoziazioni transfrontaliere e da estendere l’ampiezza dei mercati dei futures sui titoli di Stato, consentirebbero una maggiore convergenza dei rendimenti.
In definitiva, nell’imposizione di una disciplina fiscale la mano di Bruxelles si è indebolita, mentre quella dei mercati si è fatta inerte, per noncuranza favorita dall’euro. Questa constatazione esaspera molti osservatori. Per ovviare alla indifferenza dei mercati, si propone financo di affidare un ruolo di supplenza alla BCE: questa, accettando titoli pubblici in garanzia nelle operazioni di rifinanziamento, dovrebbe, anziché valutarli tutti al valore di mercato, operare uno sconto in caso di giudizio negativo sulle condizioni di finanza pubblica dell’emittente. È una proposta inaccettabile, sia perché il mandato della BCE è la politica monetaria, e non l’imposizione di una disciplina fiscale, sia perché una valutazione discrezionale del valore dei titoli accettati in garanzia influenzerebbe i prezzi di mercato in modi che assomigliano alla manipolazione.
Dell’allentamento della disciplina, in parte connesso all’euro, si compiacciono invece quei responsabili delle politiche nazionali che ritengono di trarre beneficio dalla restituzione di qualche grado di libertà nella gestione del bilancio pubblico. Se così pensano, essi danno prova di considerevole miopia. Il rischio per paesi come l’Italia di tornare a condizioni di potenziale insostenibilità, le quali, se percepite, provocherebbero un aumento del costo del debito, non è, per le ragioni sopra richiamate, l’argomento principale per mettere in guardia contro una nuova stagione di negligenza fiscale. Altri argomenti, più rilevanti, dovrebbe considerare un governo lungimirante: gli effetti negativi sulla crescita, quando disavanzi alti e imprevisti suscitano l’aspettativa di futuri tagli di spesa e, ancor più, di aumenti di imposte; l’opportunità di ridurre un alto debito per ridurre la spesa per interessi e dedicare le risorse così risparmiate alla diminuzione della pressione fiscale o a impieghi produttivi, se non a un’ulteriore diminuzione del disavanzo; la necessità di imporsi un vincolo di bilancio per meglio resistere alle pressioni delle svariate lobbies.
Anche in questo caso, l’euro, se ha risolto molti problemi, ne ha creati di nuovi, restituendo una libertà non sempre desiderabile ai governi nazionali.
Conclusioni
EliminaL’euro ha assicurato all’Italia stabilità finanziaria: con la diminuzione dei tassi d’interesse ha reso sostenibile la finanza pubblica; ha rimosso il rischio di crisi improvvise, come quelle che avevano afflitto l’economia nei primi anni novanta. È un vantaggio che vale la decisione del 1996 di entrare a ogni costo nell’unione monetaria. Ma il mondo dell’euro non è solo felicità: infligge costi e, soprattutto, impone nuovi obblighi. A motivo delle sue debolezze pregresse, delle sue anomalie mai corrette, l’Italia era particolarmente esposta ai mutamenti delle tecnologie e del commercio mondiale: privata dello strumento del cambio, ne ha subito effetti negativi più pesanti. La politica economica riuscì a osservare le condizioni per l’ammissione; ma né allora né dopo seppe preparare il sistema ad affrontare i rigori di una moneta unica.
La caduta del livello e della volatilità dei tassi di interesse ha sì assicurato la sostenibilità finanziaria, riducendo la percezione di un rischio di credito, ma ha avuto anch’essa un costo, sia pure meno evidente: ha sottratto la finanza pubblica a una disciplina di mercato e dunque a un vincolo esterno, con il rischio di favorire atteggiamenti più accomodanti da parte dei governi.
L’euro è stato ed è ottima cosa. Ma, passata la festa dei primi giorni, occorre prendere atto che esso assegna responsabilità più pesanti alla politica economica nazionale.
Nota
1 Una versione più ampia di questo scritto uscirà in un volume, dedicato a Nino Andreatta e curato da Giorgio Basevi e Paolo Onofri.
http://www.italianieuropei.it/it/la-rivista/archivio-della-rivista/item/953-l-euro-lo-shock-asimmetrico-e-la-clemenza-dei-mercati.html
(il link di qualche mese fa non funziona piu' , cosi' ho ritenuto utile riportare per intero questa analisi 'rivelatrice'...)
Sì è vero: in parte Lorenzo sopravvaluta il ruolo "corruttivo" della DC vs. la sinistra ex marxista. In effetti aveva già strambato da un pezzo, e per una predisposizione naturale dalle radici profonde. Tra l'altro si era accorta che: a) l'alleanza con il settore finanziario assicura una stabilità di potere di cui avvertiva un estremo bisogno; b) che il mercato del lavoro si spostava sempre più nel settore dei servizi cioè trasformando il proletariato industriale in ranghi dell'odiata piccola borghesia; c) l'internazionalismo poteva favorire questa strambata senza doversi (inizialmente) contraddire troppo. La presenza di B. e di socialisti-europeisti (ordoliberisti) in entrambi i campi del PUDE ha fatto il resto
Eliminache vergogna quel pezzo....provo vergogna nel leggerlo.
Eliminanon so forse perchè cerco di pensare a come mi sarei sentito al suo posto.
quel periodo non l'ho vissuto ...e comunque lassu' sulle montagne non è che si possa 'percepire' l'ambiente politico sociale italiano....per questo ho una visione piu' distaccata
Eliminache aiuta ...
lo vedi che spaventa si era piegato alla 'visione' di andreatta ...lo trovo estremamente significativo...perchè andreatta era quella sinistra dc che ha traccciato il solco 'ideologico' ordoliberale liberista della seconda repubblica (anche galloni scrive cose interessanti al riguardo...galloni che era vicino a moro se ho capito bene che non a coso viene ucciso (per conto di...recente la spudorata 'confessione' dell'agente di influenza degli usa che ' plagio' 'cossiga...)secondo galloni per eliminare quella
parte della dc lontana dal 'liberismo' che voleva una via piu' ^indipendente^ economicamente
Faccio notare che quanto dice galloni (e i suoi libri) sono assolutamente tabu' per la cultura italiana (anche a livello universitario ...)riguardo al pci e alla sua svolta verso il liberismo
cose interessante le ho sentite da barnard (prima che perdesse lucidita' 2 anni fa con la mmt) furono usati ma si fecero usare per convenienza ovviamente ...per la mia visione di 'oggi' il ruolo degli ex pci è estremamente grave nel post'92 , hanno dato l'impronta a tutto il male che è venuto 'dopo'...come il ruolo di ciampi ...venuto dalla banca d'italia dopo quella rovinosa svalutamente che nessuno e dico nessuno spiega mai nelle sue vere dinamiche e cause e motivazioni nascoste...l'italia del post '92 è destabilizzata sia sul piano politico che economico e si realizzano operazioni che 'estraggono' valore delle partecipae statali per cifre astronomiche e fanno perdere sovranita' (reale) consegnando al mercato del fondi usa le quote di maggioranza di eni e enel e altre strategiche ..(E la golden share e il controllo statale di minoranza è sempre soggetta alla debolezza e al basso livello di sovranita' espresso dai governi tecnici prima e a quelli 'vicolati' dai trattati europei dopo...) è tutto legato e sono fatti molto rilevanti per la sovranita' economica e reale del paese (l'euro è la 'cigliegina'...)
COMBINATI DISPOSTI
EliminaMolto stimolante l’articolo di L Spaventa del 2005 proposto da R°#.
Le analisi rigorose e considerazioni proposte sembrerebbero abbracciare le tesi di T Padoa Schioppa sulla “necessità della durezza della vita” ma a mio modesto parere non considera le mutazioni genetiche della democrazia e del successivo quadro economico internazionale nel periodo 1978-2005.
Non considerano l’influenza delle politiche monetarie “affidate” ad autorità indipendenti.
Non considerano lo svuotamento degli interventi pubblici diretti nel comparto industriale che aveva prodotto eccellenze internazionali in molti settori tecnologici avanzati (Ansaldo, in primis, Fimmeccanica) svendute durante i saldi di stagione degli anni 1990.
Non considera le eccellenze tecnologiche sviluppato da piccole e medie industrie nel settore metallurgico, meccanico, meccano-tessile, lo stesso manifatturiero tessile e migrato nelle più favorevoli globalizzate ZEC (zone economiche speciali) prima di entrare nelle orbite di Blackrock o PIMCO.
Non considera la liberazione finanziaria dei capitali provocata dall’abrogazione del Glass - Steagall Act e la creazione di un "(l)ombroso sistema finanziario deregolamentato che nuota nelle "dark pools".
Non considera un dibattito politico svolto e regolato non nelle aule di Parlamenti democratici ma nelle stanze davanti alle crostate di donna Maddalena o nelle dimore estive di Clio e Claudio, all’ombra dell’ultimo sole.
IMHO, un esercizio teorico di macro-economia che considera solo “il sudore della fronte con il quale guadagnare il pane”, a dimostrazione che la vecchiaia – come la notte – non sempre porta “buoni consigli”.
Colgo l'occasione di essere OT per lanciare il sasso e nascondere la mano.
EliminaCito:
"PARTE 2)
Senza dilungarsi. Vuoi perché la destra faceva il suo lavoro di destra, vuoi perché la sinistra spaesata dal crollo del muro ha preferito buttare i diritti sociali alle ortiche in favore di quanto sopra, ritenendolo politicamente più conveniente"
Se intendi per sinistra il PCI e quasi tutto il PSI ti posso dire che li avevano già buttati alle ortiche subito dopo la guerra. Se vi va ne riparliamo.
Neri e "tu ci vuoi offendere"! Qui ne abbiamo parlato! Basta rammentare che che qui è stato rimesso in luce quanto sosteneva Lelio Basso ("Il principe senza corona") e, al contempo, quanto "l'ostruzionismo della maggioranza" non poteva che essere gradito a chi attendeva l'inevitabile collasso del capitalismo.
EliminaIn effetti è probabile che sia stato troppo sintetico, se da quanto ho scritto traspare che "l'inquinamento" democristiano sia causa primaria (se non unica) della corruzione della sinistra: sì, c'è un errore di sopravvalutazione che riconosco.
EliminaE' allora assai probabile che l'inquinamento sia più una conseguenza che una causa. Una volta preso il salvagente europeista (dove far confluire le "foghe" interanzionalistiche residue e quanto altro), ed accettato il connubio con la finanza (culminato nel: "abbiamo una banca!"), la "presentabilità ai mercati" imponeva una graduale ma costante conversione su paradigmi democristiani. Ed infatti, per dirla con Bagnai, a partire da Prodi (ma forse anche da Ciampi), la sinistra ha sostenuto "governi tecnici a guida democristiana" (credo la definizione sia nella sua analisi alle tesi della Rossanda, vado a memoria). Con la fusione tra DS e Margherita, il partito diventò unico. Renzi, credo, esprime la definitiva prevalenza dell'area democristiana, l'atto finale di questa trasformazione conseguenziale. Sulla quale, certo, incidono molti fattori.
Sarebbe interessante un'analisi storica sul punto.
La discussione è molto interessante. La massa è difficile da dipanare, perché mi pare che i fattori causali si situino a diversi livelli; mi limito quindi solo a un paio di notazioni.
EliminaMi convince poco l'idea del compromesso storico come svolta progressista mancata: indipendentemente da quelle che potevano essere le intenzioni di Moro, il possibile ingresso del PCI nell'area di governo fu sollecitato e guidato da forze conservatrici, come testimonia il segno dell'"austerità" sotto cui ebbe a svolgersi (ci fu in proposito una polemica a distanza fra Bobbio e La Malfa che poi magari vi riporto). Mi pare, ahimè, molto più credibile l'ipotesi di Brancaccio secondo cui "se la stagione della solidarietà nazionale fosse proseguita" "i comunisti non avrebbero negato il consenso" allo SME.
Altrettanto poco mi convince l'accusa rivolta al PCI di ostilità verso la piccola borghesia, o meglio, forse occorre distinguere ulteriormente: il PCI ha sempre manifesto, anche nelle sue componenti più dure (pure Secchia!), una grande apertura verso il c.d. "ceto medio", da alcuni giudicata perfino eccessiva. In effetti Paggi e d'Angelillo (pag. 153) rimproverano al PCI di aver mantenuto "una impostazione della politica delle allenze che evita ogni opzione chiara a favore del lavoro dipendente, continuando a immaginare un'aggregazione di molteplici figure del ceto medio imprenditoriale, sempre potenzialmente confliggenti con gli interessi della classe operaia, e quindi tali da imporre a quest'ultima ripetute autolimitazioni rivendicative e politiche". L'aumento del ceto tecnico-impiegatizio, che rappresenta comunque sempre lavoro dipendente anche se non operaio, è ostacolata, secondo i due autori, più che da settarismo classista, da eccessiva apertura: "La ricerca di questo rapporto politico con questo tipo di mutamento sociale significherebbe per il Pci l'abbandono di quello statuto privilegiato che da sempre esso concede con grande generosità, alla figura del "ceto medio" e che costituisce sicuramente uno dei più importanti elementi di diversità rispetto al quadro delle esperienze riformatrici europee".
@Quarantotto
EliminaVero! Mannaggia alle sinapsi snappate.
@arturo :(premettendo che quello che dice galloni su moro non c'entra con il tuo discorso sul progressismo del 'compromesso' storico e/o entrata del pci al governo con la dc , cosa che non era probabilmente possibile, ma sembri ignorare che la morte di moro ,per la stessa ammissione recente dell'inviato della cia/usa era necessaria-per ^loro^- ed aveva un determinato significato ^politico^ omogeneo e coerente con quanto dice galloni )
Eliminadici 'Altrettanto poco mi convince l'accusa rivolta al PCI di ostilità verso la piccola borghesia'
twitt del senatore corradino mineo (dopo un dialogo con alberto bagnai) 'la piccola boghesia fascista e berlusconiana italiana per fortuna c'è l'europa ,è un ancora '
l'ha scritto veramente (non sto' scherzando ne parafrasando) ho scritto che l'^europa^ è un ancora contro la piccola borghesia italiana fascista e berlusconiana :letteralmente
vedete voi se ha ragione Quarantotto o meno...
ps:arturo il tuo discorso non mi è piaciuto , mi sembra una posizione una po' 'stranamente' difensiva ...senz'offesa
Caro R°#, la mia posizione riflette lo stato delle conoscenze e delle riflessioni, che, con tutti i miei moltissimi limiti, sono riuscito a maturare: né più né meno. Le fonti che ho citato sono auterevoli e le argomentazioni, mi auguro, razionali e pacate: mi pare che si possa discutere allo stesso modo, confrontando punti di vista diversi, senza mettere in discussione la buona fede dell'intelocutore, no?
EliminaNon ignoro il ruolo degli USA, ma qual è il punto? Certo gli americani erano fortemente ostili all'ingresso del PCI nell'area di governo (pure i russi lo erano se per quello), ma per motivi inerenti agli equilibri della guerra fredda; ho solo detto che non vedo segni concreti nelle politiche intraprese che indichino un possibile esito più progressista del compromesso medesimo (stavo anche riprendendo vecchie discussioni: forse ho agganciato indebitamente il ragionamento a quel che scrivevi tu).
Ero al corrente del tweet di Mineo, ma questa sarebbe una fonte omogenea a Paggi e d'Angelillo circa la storia del PCI? Aggiungo che, se mai, mi pare più convincente la tesi di del Noce che vede in una adesione del PCI all'idea (che del Noce attribuisci a Gramsci, ma è questione discutibile e discussa) di un capitalismo italiano arretrato, bisognoso di modernizzazione (Badiale ha scritto di recente un paio di post molto interessanti sull'argomento) e incline al fascismo il presupposto per un'alleanza con le aree ritenute più "moderne" del medesimo e un'ostilità, che a me pare maturata in tempi relativamente recenti (ma posso sbagliarmi, beninteso...), verso la piccola impresa.
Qui sul blog c'è gente con punti di vista anche molto diversi: io la considero una ricchezza, pure quando le loro argomentazioni "non mi piacciono"...vedi tu.
Caro Arturo, l'ostitlità insanabile verso i ceti piccolo borghesi (in quanto NON borghesia in senso marxiano, beninteso) è "ortodossa" nella tradizione dei partiti marxisti, che vedono tali categorie ("bottegai", artigani, lavoratori autonomi in generale e, sopratutto, il ceto impiegatizio intermedio= i quadri, suscettibili nelle generazioni, attraverso l'istruzione, di accedere alla prima categoria) come sopravvivenze dell'ancien regime e custodi di una reazione conservativa: ipotesi che si basa moltissimo sulla visione di un capitalismo incapace di garantire la mobilità sociale e, come tale, di una società che suddivisa solo in capitale e lavoro in rapporti di forza di crescente ingiustizia, avrebbe garantito il potere a chi avesse saputo organizzare politicamente il secondo fattore.
EliminaE questa previsione errata non è mai stata veramente ammessa come tale e ha avuto bisogno della euro- restaurazione del capitalismo sfrenato per ridargli nuova linfa, dando luogo così alla "rimozione" dell'errore (e anche alla indifferenza per la violazione-congelamento del modello costituzionale, essendo in origine il costituzionalismo italiano in mano ai marxisti).
La figura di Moro era indubbiamente "pericolosa" perchè, con tutta evidenza, non consentiva la "rimozione" e impediva la piena restaurazione del capitalismo sfrenato, spingendo, anzi, verso una più avanzata realizzazione del modello costituzionale (cosa che in sè ostacolava la costruzione europea, al tempo già modulata sull'agenda del rapporto Werner).
Da qui il sorgere della "questione morale", nei termini che ben definì il rimprovero di Caffè: non a caso Berlinguer la sollevò in un'intervista del 1981. Quando ormai la via "Moro" era abbondantemente tramontata.
http://gondrano.blogspot.it/2013/07/processo-berlinguer.html
Da ciò numerosi corollari ed inferenze piuttosto agevoli che non ti sfuggiranno...
Mi pare che sia una lettura troppo monolitica di un atteggiamento comunista che è invece più oscillante, contraddittorio (pure il quadro storico del periodo era piuttosto mosso...) e su cui operano filoni di pensiero molteplici, senza dimenticare che il marxismo italiano aveva, nel bene o nel male, alcuni caratteri di originalità. Permettimi di citare ancora Paggi e d'Angelillo (pp. 155-56): "Nel decennio l'atteggiamento del Pci nei confronti del "ceto medio" conosce ripetuti tentativi di lettura delle sue componenti, sulla base di due categorie contrapposte, quali quelle di "ceto medio parassitario" (i "topi nel formaggio" di Sylos Labini) e di "ceto medio produttivo". La difficoltà, e forse proprio l'impossibilità, a dare un contenuto più preciso e disaggregato a queste due categorie astratte, condurrà il Pci a sensibili oscillazioni politiche: allorché preverrà la caratteristica "produttiva" del ceto medio emergeranno posizioni antimopolisitche [gli esempi citati in nota a pag. 175: difesa dei piccoli commercianti contro l'invadenza dei monopoli (supermercati) e contro il parassitismo dei grossisti]; quando invece prevarrà la posizione terzinternazionalista di un capitalismo perennemente minacciato dal capitalismo delle rendite, il Pci accederà alla proposta di una "alleanza dei produttori". Anche le esperienze di governo locale hanno avuto un loro peso: "Nel decennio, le regioni in cui prevale la piccola impresa (Emilia Romagna, Toscana, Marche, Umbria, Veneto), prevalentemente guidate dal Pci, si impongono all'attenzione degli economisti per i loro tassi di crescita e il loro dinamismo innovativo, superiori a quelli medi dell'industria nazionale: questo consolida nel Pci l'opzione, già evidente al convegno del Cesepe e dell'Istituto Gramsci del 1974, a favore della piccola industria che verrà riconfermata anche quando agli inizi degli anni '80, la grande impresa e le regioni del Nord-Ovest dimostreranno di avere riguadagnato una posizione di predominanza nella struttura industriale del paese mentre la "Terza Italia" accuserà vistosi segni di deceleramento delle prestazioni innovative, occupazionali e produttive". Mi pare utile anche questa osservazione (pag. 157) circa l'"atteggiamento molto cauto" del Pci "nei confronti di ogni proposta di riduzione dell'area dell'evasione attraverso l'inasprimento dei controlli su categorie del "ceto medio" quali commercianti e artigiani. In questo periodo si forma l'indirizzo che sarà confermato anche nei successivi anni di opposizione, e che nel 1984-45 emergerà in tutta evidenza durante il dibattito sul "pacchetto Visentini", in cui il Pci terrà un atteggiamento di appoggio tiepido e imbarazzato alla iniziativa del ministro repubblicano."
EliminaD'altra parte l'intervista di Berlinguer arriva a epilogo di un percorso in cui il Pci ha già fatto propria l'interpretazione monetarista dell'inflazione fornita dalla Banca d'Italia, con un'accettazione, già rinvenibile in documenti del '77, del crowding out (!). Insomma (pag. 164) "La formula dell'unità nazionale, ossia l'inclusione del Pci nell'area di governo sulla base della sua cooptazione, è tutt'altro che un recipiente politico vuoto, fungibile a diversi contenuti programmatici. Storicamente essa si presenta al contrario come strettamente saldata a una visione del processo riformatore subalterna alla cultura liberista dominante. Da qui uno squilibrio profondo nell'iniziativa politica del Pci che, per usare la terminologia adottata negli anni della Solidarietà nazionale, potremmo definire come conraddizione aperta tra il "partito di lotta" e il "partito di governo". Sarà proprio sul terreno dell'accetazione del mito liberista del "buongoverno" (perché - direi - quello è il nucleo ideologico, che in Italia fa capo a Pareto ed Einaudi, su cui riposa l'equivalenza spesa/intervento pubblici=corruzione) che il Pci cercherà la propria legittimazione a governare (mi sembra sostanzialmente quel che dice pure Caffè). A determinare questo sbocco mi pare abbiano pesato diversi fattori. Senza pretese di esausitività: un atteggiamento anticonsumistico (su cui le giustificatissime proteste di Bobbio), una interpretazione neocatastrofista delle difficoltà di gestione dell'economia, un profondo pessimismo politico contingente accompagnato da una fiducia nella vittoria finale del socialismo e, a fare da mediatore rispetto al pensiero paretian-einaudiano, l'enorme peso di una tradizione peculiarmente italiana di "liberismo socialista" che fa capo a Salvemini (devo ancora citare: pag. 88): "È in fondo un paradosso del «caso italiano» il fatto che questa omologazione della lotta redistributiva al corporativismo (con la conseguente visione del sindacato operaio come portatore di logiche contrastanti con quelle dell'interesse generale) trovi una larga diffusione nella cultura della sinistra.« La lettura del Cours d'Économie politique (di Pareto)- scrive Salvemini a F. Papafava, il 20 settembre 1899 ottenne l'effetto di convincermi che fra liberismo e socialismo non c'è opposizione»"· È un'affermazione che ci riporta alle origini di quella tradizione di socialismo liberista che, sebbene in una posizione sempre dissociata, spesso apertamente polemica, con il movimento operaio organizzato (prima riformista e poi comunista) eserciterà su di esso un'influenza eccezionale." e che trova terreno fertile nel Pci grazie a una peculiare interpretazione del pensiero gramsciano (ma va ricordato che pure Einaudi all'inizio del '900 credeva di poter interloquire costruttivamente coi socialisti: vd. Asor Rosa, Storia d'Italia Einaudi, vol 9, Torino, Einaudi, 1975, pagg. 1188 e ss.). (Detto en passant: è proprio dell'illusione salveminiana, e di tutti i suoi corollari incarnati dal federalimo europeo, che a mio modo di vedere la situazione presente decreta l'inappellabile fallimento).
EliminaCi tengo solo a precisare che la mia non è un'impostazione né "difensiva" né "accusatoria": sto solo cercando di vederci chiaro, come riesco e con fatica, in un quadro che mi risulta piuttosto complicato: per questo ho bisogno di esporre liberamente le riflessioni del momento - prima di tutto perché vengano criticate, ovvio! - ma per favore senza che nessuno se ne infastidisca.
sono conento di avere aperto questa discussione anche solo per il fatto di avere portato Quarantotto ad esemprime in modo cosi' coinciso e brillante questa analisi (di cui c'è davvero bisogno)
Eliminacon Arturo siamo su posizioni indubbiamente molto ma molto distanti (ma è bello che questo distanza abbia portato ad approfondire alcuni aspetti) Aggiungo che marino badiale che ho letto e seguito dopo l'incontro con alberto bagnai mi sembra persona squisita gentile e intelligente ma il suo punto di vista politico mi sembra non solo utopistico ma una morboso
e che il blog mainstream su cui scrive sia una vera nequizia (piu' di repubblica o il sole24 ore)
in quanto a fronte di analisi veritiere sulle cause della crisi propala la bizzarra e sconclusionata 'teoria della decrescita felice' (neanche l'italia fosse la nuova cuba...) dando credito e giustificando il 'grillismo' , trandendo cosi' l'interesse sia della 'classi' che delle 'giovani generazioni' che leggono il blog ...Mi spiace dirlo ma badiale (che umanamente trovo una brava persona) politicamente è piu' dannoso di un boeri (che detesto )Lo specifico perchè non c'è animosita' nè nulla di personale ...
Quanto a cosa significhi per Arturo 'progresso' o politiche 'progressiste' sinceramente (date le premesse) non voglio saperlo nè approfondirlo . _Noto -con sconforto- una aspetto negli italiani :gli vengono a dire in faccia 'ti abbiamo fatto uccidere un leader politico , il tuo presidente da un gruppo di estremisti sciroccati infiltrati dai servizi segreti (...) perchè faceva comodo e rietrava nei nostri interessi geopolitici ,abbiamo plasmato la politica italiana affichè fosse e rientrasse nei parametri piu' confacenti ai nostri interessi... e , non solo c'è risposta non c'è indignazione ma si commenta con ' non mi pare che comunque il compromesso storico prefigurasse politiche progressiste' senza dimenticare quanto dissero del noce paggi d'angelillo mineo ..(???) (niente di personale intendiamoci , la parte di moro ha davvero perso in tutti i sensi ,globalmente ...l'euro con tutto quello che significa ha vinto ,ci domina , e Quarantotto lo spiega in modo mirabile -poi si puo' essere d'accordo o meno su quale sia e la via e l'alternativa ad esso/essi- ) Comunque è un dialogo interessante e rivelatore ed è maieutico il confronto con visioni e opinioni diverse...
precisiamo sulla teoria della decriscita (post marxismo ambietalista etc ) si puo' considerare seriamente ,non dico la sua praticabilita' ma il senso di discutere su queste cose ,se si presuppone che: l'italia (o il paese X) possa attuare una politica di autarchia similmente alla corea del nord (nulla di meno) con completa sovranita'(chiusura frontire ,commercio contingentato etc) monetaria e fiscale (quindi uscita dal mercato dei capitali fmi commercio internazionale etc) e militare (quindi uscita dalla nato indipendenza militare > missili nucleari un forte esercito pronto ad attaccare difendersi etc...) date le premesse , che ovviamente in italia ma neppure altrove vi sono , il solo parlarne è semplicemente una presa per i fondelli
Elimina(salvo che voi riteniate possibile che l'italia faccia&vinca una guerra per 'liberarsi' dal controllo 'politico+economico' degli usa ,dalle basi nato us army navy nato etc etc e ottenere una completa Sovranita' politica e militare economica...)
(non dico arrivare a discutere se essa sia una buona prospettiva politica o meno...non voglio spingermi fino a quell 'ipotetico' punto...) come è una presa per i fondelli e un utile
contenimento dello scontento popolare/giovanile l'azione politica condotta da giuseppe grillo...
ma poi tutti questi distinguo sul pci dei 70/80 a che servono ? certo che ci fu un politica consociativa in italia (c'è ancora...) sulla politica 'liberista' euroatlantista del pci diceva cose interessanti e documentate barnard (si riprendesse...) quanto fosse un politico mediocre berliguer (mediocre è un complimento) non cesso di stupirmi...e napolitano era decisamente un altro livello
EliminaQuello che vorrei sottolineare è che il pci e quello che pensasse nel '70 '80>'92 conta ben poco ma davvero poco (e il governo regionale e comunale bisogna andarci piano a sovrappesarlo considerato quanto lento sia stato il decentramento verso le regioni comuni...cosa contavono le regioni nei '70 o '80 non saprei MOLTO molto meno di oggi )
Quello che è saliente è COSA fecero gli ex-PCI dopo il '92 ...(e perchè lo fecero , anche se il cammino verso la ^via di andreatta^ era gia' stata maturata precedentemente) e cosa fanno e dicono ORA OGGI (e perchè---)
Per "progressismo" intendo semplicemente piena occupazione ed espansione del welfare (con auspicabile contorno di politiche industriali). Certo che mi indigno, ma quando analizzo provo a farlo freddamente: se lo ritieni un difetto, ti prego di non incolparne gli italiani: è tutto e solo mio. :-) Comunque sono lontanissimo anch'io dal decrescismo, che trovo sbagliato non foss'altro perché pare voler fondare una strategia politica ed economica su una categoria contabile; questo però non mi impedisce di apprezzare diverse analisi compiute da Badiale (e anche da Tringali; meno da Martini). A rileggersi.
EliminaChiaramente la risposta di @Quarantotto che inizia in Lelio Basso e finisce nel Il principe senza scettro sintetizza la differenza che c'è tra il mondo delle idee (le ideologie volte alla propaganda) e la "realtà senziente": ovvero il secondo comma dell'art.3 Cost.
EliminaIn una democrazia costituzionale più gruppi sociali propongono la propria ricetta politica per l'eguaglianza sostanziale: tolte le sbrodolate ideologiche rimangono i fatti. C'è chi opera per e chi no: punto. Sia nel PCI che nella DC c'erano ovviamente diversamente correnti (condivido che Galloni riporti delle analisi interessanti in tal senso) e, più che altro, "cordate". Le sintesi di questi rapporti di potere interni ai partiti (e di coloro che li “finanziavano”) sono le rispettive ideologie “manifestate” (ovvero le supposte “elaborazioni”, “interpretazioni” che venivano sottoposte al pubblico, ovvero all'elettorato, sotto forma di slogan pop - come il classico livore-anti-piccolo-borghese del Marxista dell'Illinois - mutevoli in funzione del contesto storico).
Politici che per statura intellettuale ed etica avessero, non per puri interessi egoistici, ma per forti valori umani, ben presente questo punto, erano pochissimi. Uno ce n'era di sicuro e, stante le sue memorie, moriva di solitudine: Basso.
Tolta la “forma”, ovvero “i colori”, si nota una cosa semplice in Moro: portava democrazia agli Italiani.
Cosa significa?
Che la geopolitica è un termine altisonante che mette in relazione la “geografia” con gli interessi particolari: sempre di politica si tratta ma... in condizione di “stato meramente politico”: il diritto internazionalechenonc'è.
Quando da Mattei (definito il più influente “dei politici”) a Moro, l'Italia cercava emancipazione dalla silenziosa oppressione colonialista, stante l'art.11 Cost. i nostri dirigenti stavano restituendo sovranità democratica al popolo italiano. In più con “l'aggravante”, secondo i desiderata dell'Impero, di attuare un libero commercio internazionale per cui “libero” tendeva ad essere sostanza e non vuota propaganda smithiana o, ancor meglio, ricardiana: l'Italia non aveva una politica estera colonialista. (E anche questo è ben ricordato da Galloni che, a parer mio, pecca più che altro nel descrivere il “modello renano” et al.)
Dalla sempre inestimabile erudizione “arturiana”, ci tengo a sottolineare: «[...]peso di una tradizione peculiarmente italiana di "liberismo socialista" che fa capo a Salvemini[...]»
Questo, come più volte si è fatto notare, chiude il cerchio dividendo, e mi assumo la responsabilità di questa distinzione, tra intelligenti (stimo i miei nemici): Pareto, Einaudi... fino a Draghi...e imbecilli: perché, in my humble opinion, se parlare di “liberismo socialista”, di federalismo dell'ecumene globalizzata, poteva essere ignoranza scusabile da Kant sino ai tempi di Gobetti e Rosselli, con Rossi e Spinelli che ripetono paro paro la lezioncina einaudiana del “famo lo stato grande perché fuori c'è la Cina”, si denota una demenza politica che dai sessantottini radicaloidi si arriva ai piddini odierni di qualsiasi colore e di qualsiasi nazione.
Mentre Gramsci scriveva “I quaderni dal carcere”, Spinelli maturava la keynesianissima¹ convinzione che l'internazionalismo socialista potesse benissimo coesistere con il mondialismo neoliberale: abbiamo visto.
(E questi giapponesi dell'ultima isola cercheranno di inquinare le falde fino all'ultimo: di fronte al giudizio della scienza e della Storia potranno contrapporre solo... il paranormale...)
__________
¹ Si narra che JMK avesse aperto una sua Univeristà con corsi serali in un'isola italica e che avesse tramandato segreti macroeconomici che solo due fortunati poterono imparare, elaborare e tramandare esclusivamente per via iniziatica.
Gli italiani da sempre sono i più infedeli alleati dei tedeschi. Non si smentiranno nemmeno stavolta.
RispondiElimina"Lui" è già andato a Londra a fare cerchiobottismo sul "non siamo scolaretti", eseguendo contemporaneamente quanto basta gli ordini tedeschi per poter dire sia di essersi ribellato sia di applicare trattati che ormai non rispetta più nessuno. Siamo in pieno 25 luglio. O giù di lì...
EliminaHo già commentato altrove che solo un mese fa Valls si era dimesso per far fuori Montebourg, critico dell'austerità, sostituito poi con Macron i cui trascorsi come banchiere d'affari lo rendevano più consono alla linea del primo ministro.
RispondiEliminaLa virata a U di questi giorni sembra quindi solo tattica, dettata dalle proteste e dagli ultimi rovesci elettorali. Questo fa dubitare della fermezza con cui la Francia manterrà la posizione. Molto dipenderà da chi saprà esercitare la pressione più forte: i cittadini o l'apparato eurocratico; Hollande ha già dimostrato di non essere un leone.
Confido nell'elettorato francese, tradizionalmente più incazzoso di noi.
Quello che a questo punto mi aspetterei, se fanno sul serio, sono le dimissioni (stavolta vere) di Valls, visto che la sua linea è sconfessata. Se ciò non accade ci sarà da aspettarsi un rapido rientro nei ranghi. Sbaglio?
Qui da noi intanto si parla di una clausola di salvaguardia che potrebbe portare a un aumento del costo dell'IVA pari a 50 mld in tre anni (2016-2018): "Allo scopo di rassicurare le istituzioni europee, oltretutto, si sono gettate le basi per l’introduzione della clausola che potrebbe far scattare un incremento delle aliquote Iva più basse, per un costo che potrebbe ammontare a 12,6 miliardi nel 2016, 17,8 nel 2017 e 21,4 nel 2018".
Mi chiedo quando incominceremo a incazzarci anche noi.
Sulla sconfessione di Valls non farei troppo affidamento: i calcoli elettorali hanno portato a una linea più meditata, appunto. E ormai non potranno più tornare indietro: la questione della reflazione-espansione interna tedesca è sullo sfondo e gode di appoggio USA.
EliminaSulla clausola di salvaguardia: ti rinvio a quanto risposto a Barbara...
Non ho capito questo passaggio:" Dunque, per la Francia, questa posizione significa lasciare alla Germania la "battuta" su una sua reflazione con aumento della domanda interna e per di più accelerata: il termine del 2019 farebbe saltare tutti i piani mercantilistici egemonici tedeschi perseguiti finora. Quattro anni di disapplicazione delle politiche deflattive "no matter what" sono una prospettiva contronatura per i tedeschi".
RispondiEliminaIn particolare non capisco per quale motivo e per quale via, la dichiarazione della francia (seguita dai fatti) significherebbe imporre ai tedeschi la reflazione interna della loro economia.
PS: Per la serie che noi continuiamo ad essere governati da un branco di mentecatti il Presidente Napolitano a Napoli ha confermato che la via della crescita passa necessariamente dall'austerità e dalle riforme....sigh! A proposito, sono fondate le voci che lo vedono dimissionario alla fine dell'anno?
Semplicemente perchè respingendo la Francia il sistema di correzione deflattivo-fiscale dei tassi di cambio reale, posto esclusivamente a carico di chi ha subito, andando in deficit CAB, la strategia tedesca, la Germania dovrebbe reflazionare (rivalutando il suo REER): almeno se vuole mantenere in vita l'euro. I francesi, diversamente, sono diretti verso un'uscita "annunziata" implicitamente.
EliminaIl che, se vogliamo, può ulteriormente spiegare la presa di posizione francese. Ma proprio in termini di euro-exit...(salvo ravvedimento tedesco di fronte a una minaccia più attuale delle strategie BCE)
RispondiEliminaCi ha lasciato Antonio Guarino ... http://napoli.repubblica.it/cronaca/2014/10/02/news/e_morto_il_giurista_antonio_guarino-97162363/
RispondiEliminaGiuseppe Guarino no, fortunatamente... che brutta svista :(
EliminaCosa che certamente addolora. Ma precisando che non si tratta del giuspubblicista Giuseppe, attendo e critico studioso del diritto europeo.
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