Sofia, con questo post, ci fa un riassunto ("non autorizzato") delle analisi di Cesare Pozzi. Nell'attesa (ormai mitologica...) che arrivi un suo scritto, da tanto tempo promesso, dobbiamo ringraziare Sofia che, almeno, ci consente di "conservare", a livello divulgativo, una parte importante del Pozzi-pensiero...
Mi permetto di riportare, una sintesi di
alcuni concetti espressi da Cesare Pozzi (integrata da un po’ di dati) in
alcuni convegni tenuti con Riscossa Italiana (e non solo) e che, almeno in
parte, è possibile trovare su youtube.
Non
si tratta soltanto della descrizione di situazioni di fatto, ma l’esposizione
di una teoria, di una prospettiva, di un possibile modello di crescita e
sviluppo.
Un modello che se per certi aspetti sembra rasentare una utopia, in
verità richiederebbe soltanto il recupero della memoria storica e la rivalorizzazione
di un modello culturale ormai dimenticato o cancellato dall’irruenza delle
leggi di mercato e dal modello europeo.
Il modello culturale europeo tende ad essere
sovrapposto ai molteplici modelli culturali dei singoli Stati, annullandoli o
sgretolandoli, senza tenere conto del fatto che ciò che prima di ogni cosa ha
distinto gli Stati che costituiscono l’Europa dal resto del mondo sono state
proprio le caratteristiche peculiari di ciascuno e la storia che li ha
accumunati, ma anche tenuti divisi.
La necessità di unificazione, invece, è spesso
giustificata dalla necessità di arrivare ad un modello più funzionale, che si
sostituisca ai particolarismi e alle inefficienze gestionali dei singoli paesi,
come se questi fossero obsoleti e non al passo coi tempi della globalizzazione.
Eppure l’Italia col proprio modello culturale
è riuscita, col grande sorpasso del 1987, a divenire la quinta potenza economica del mondo
dopo Stati Uniti, Giappone, Germania e Francia, diventando
la quarta nel 1991, e nel 2009, - nonostante diversi anni nell’area Euro e
nonostante l’Italia fosse già il terzo contributore dell’Unione Europea-, era
ancora la sesta nazione più ricca del mondo e la terza in Europa (gli italiani
producevano ben 35.390 euro a testa).
Nel
rapporto "Scenari industriali", pubblicato nel giugno 2013 dal Centro Studi
Confindustria, emerge che tra i primi dieci Paesi per produzione manifatturiera
mondiale, l'Italia risulta essere in settima posizione, essendo responsabile
per il 3,1% dell'intera produzione, mentre è seconda in Europa.
I
dati rispecchiano innanzitutto una realtà inquietante. Una notevole riduzione
del settore manifatturiero in favore di quello dei servizi.
Ma
non si tratta soltanto di questo. L’imposizione del modello europeo sta
determinando la distruzione dei modelli adottati dai singoli Paesi.
In Italia
il tessuto industriale e il sistema economico basato sulle PMI è stato quasi
completamente smantellato e lo dimostrano alcuni dati.
La
diminuzione degli investimenti privati nel periodo di crisi è stata di circa il
22,5%. Una percentuale più che
doppia rispetto al calo della domanda interna (-9%) e quasi quadrupla rispetto
al calo dei consumi delle famiglie (-6,1%).
Un’ecatombe che si è
ripercossa sull’occupazione, con 138mila posti di lavoro persi tra il 2008 e il
2014, il 5% sul totale. Una diminuzione che è figlia, peraltro, dell’aumento
dei posti di lavoro nei servizi (+42mila circa) e della diminuzione nelle
costruzioni (-44mila) e, soprattutto, nella manifattura (-138mila).
A
questo occorre aggiungere il calo di investimenti pubblici.
Nello stesso periodo la spesa pubblica
complessiva è comunque cresciuta di 12,8 miliardi (fino agli 817,5 del 2013),
con un aumento attribuibile solo in parte all’incremento degli interessi sul
debito pubblico (+8,7 miliardi).
Tradotto su basi relative, l’Italia spende ora
solo il 2,4% del PIL per investimenti pubblici (il calo rispetto al 2009 è di
un intero punto di PIL), mentre è salita la spesa per interessi (+0,4% in
rapporto al PIL) e le altre voci di spesa (pari al 43,3% del PIL) hanno seguito
l’andamento dell’economia italiana.
Contrariamente a quanto si pensi, e
soprattutto contrariamente al pensiero unico dominante, - secondo il quale
funziona solo ciò che è grande e la frammentazione del tessuto imprenditoriale rappresenta
un limite alla formazione di un sistema coordinato-, questa stessa
frammentazione, se ben orchestrata a
livello sistemico, rappresenta un vantaggio, perché crea flessibilità e diversifica il panorama
produttivo. E questo è proprio ciò che ha sempre caratterizzato il modello
italiano. L’Italia è il paese con il maggior numero di
aziende registrate fra quelli europei (in ogni settore la grande
maggioranza delle aziende conta meno di 10 dipendenti e con una
frammentazione anche geografica, con 101 distretti industriali).
Oltre al fatto, quindi, che il modello europeo è stato imposto al nostro
paese forzosamente, subdolamente e facendo terra bruciata di ogni diritto
costituzionalmente garantito, questo non solo non è compatibile con la nostra
Costituzione, ma non lo è neppure con la nostra storia.
La riduzione del settore manifatturiero e l’aumento dei servizi, è palese:
le maggiori attività si concentrano su
Roma e Milano dove si focalizzano la maggior parte delle persone finendo
per svuotare ancor di più il territorio e facendo venir meno, in questo
territorio, il lavoro, l’impresa, la produzione e tutto ciò che vi ruota
attorno.
Sostanzialmente queste forme di concentrazione non fanno altro che
distruggere valore.
E questo valore può essere ricostruito solo attraverso un
progetto che sia un progetto per città e territorio, capace di invertire questa tendenza.
Diversamente, se pure ci fossero le risorse da
investire, queste non avrebbero alcun effetto, perché non ha alcun senso
ricostruire un territorio ben sapendo che questo, comunque, tra qualche anno
sarà spopolato.
Altro caposaldo della pervicacia europea è che
sono bravi solo i Paesi che riescono ad esportare di più, piuttosto che quelli
che riescono a distribuire (e bene) sul proprio territorio.
Eppure esportare oltre il 30% è un suicidio.
Non che l’esportazione non sia anche indice di
benessere; tuttavia, l’Italia esportava cultura, stili di vita e, soprattutto,
manifattura fine e di qualità elevata.
Ora esportiamo e diventiamo una piattaforma
logistica in cui produciamo su scala più grande.
Ma questo non è retaggio del
nostro modello culturale; noi producevamo manifattura di alta qualità ma in scala ridotta, con
incredibile varietà; non siamo abituati
tradizionalmente a produrre manifattura
in larghe scala, perché questo non è mai stato il nostro vantaggio
competitivo.
Invece ci hanno spinto e continuano a
spingerci sempre di più verso modelli a larga scala, al fine di ingrandire le nostre imprese, per produrre
pezzi e componenti di una filiera su cui non
abbiamo alcun controllo o possibilità di intervento.
Sostanzialmente l’Italia è sempre più
una semplice fabbrica-cacciavite (su
questo aspetto vedere anche qui e qui).
E questo è anche il motivo delle continue
spinte all’abbassamento dei salari; per avere un prodotto che su scala
internazionale sia più competitivo.
Se proprio l’Italia deve mantenere alto il
livello delle esportazioni, deve farlo senza perdere di vista il proprio
modello di esportazione, basato su competenze uniche.
Ma questo richiede, a monte, un modello insediativo specifico, una rete di
territori e città di dimensioni non rilevanti (i tedeschi hanno una rete di
città tra 100 e 200 mila abitati) perché non è possibile realizzare un
manifattura di alta qualità se l’impresa non è fortemente collegata al suo
territorio.
Non è possibile costringere i lavoratori al
pendolarismo, stando sui mezzi di
trasporto per due ore, quando invece
quel tempo, con una rete imprenditoriale più sviluppata sul territorio, sarebbe
dedicato ad altro.
Senza contare che questo sistema determina
come ulteriore effetto una grossa perdita di competenze; ed inoltre, la loro cattiva distribuzione residuale, perchè le poche che restano
sono concentrate solo in poche aree.
Inoltre si assiste, quanto ai flussi migratori
di competenze, ad un fenomeno per cui lavoratori molto qualificati, che non
riescono a trovare lavoro nelle poche città italiane ancora produttive,
finiscono per spostarsi in Paesi industrialmente più evoluti; e per converso, in Italia,
alla scarsità di manodopera, si supplisce con il ricorso a stranieri, spesso non
altrettanto qualificati.
Con l’ulteriore conseguenza, quindi, che
questo processo accelera la formazione di Paesi di serie A e di serie B.
L'eccessiva concentrazione
di lavoratori solo in alcune grosse città, inoltre, tende a limitare
le possibilità di occupazione o, quantomeno, di occupazioni desiderabili, e
nello stesso tempo determina un peggioramento delle condizioni di vita (degrado
ambientale, degrado fisico legato a inquinamento e traffico, degrado sociale
legato alla crescente diffusione della droga, della violenza e della
criminalità).
In un certo senso si sta verificando
nell’ambito del territorio italiano rapportato a quello degli altri paesi della
UE, ciò che in passato si è verificato all’interno del territorio italiano tra
zone rurali e sviluppo delle città. I prodotti
industriali delle città, anche per la loro economicità, portavano alla
decadenza l’artigianato locale facendo perdere una importante possibilità di
sviluppo di quei territori. Lo spopolamento locale era conseguenza del
passaggio dall’austera economia di sussistenza a quella di mercato. La prima
era caratterizzata dalla chiusura delle comunità in piccole cellule che
vivevano quasi esclusivamente della produzione famigliare; la seconda invece è
fondata sull’apertura a mercati vicini e lontani, sulla circolazione delle
merci, sugli scambi commerciali incrementati da una larga espansione dei
consumi.
Da un punto di vista
economico produce un generale impoverimento, privando le piccole aree locali
delle necessarie risorse (sempre locali) di imprenditorialità e di forza-lavoro
e determinando la cessazione di attività commerciali e di servizi; inoltre
impoverisce il tessuto umano facendo svanire a poco a poco il senso
dell’appartenenza ad una tipica identità e ai valori della cultura
tradizionale.
Fenomeno a cui è seguito
l’invecchiamento della popolazione rimasta e la correlata drastica riduzione
del tasso di natalità.
Ovviamente, a semplificare la concentrazione
in poche aree, ha contribuito anche l’Alta Velocità.
La crescente diffusione
delle migrazioni ricorrenti e in particolare di quelle periodiche è certo
conseguenza delle sempre maggiori facilità di spostamento anche a distanze
notevoli.
Con la differenza che, se
fino a qualche anno fa era più diffusa la migrazione periodica (pensiamo allo
studente che da Napoli si stabiliva a Roma per il periodo di studio, prendendo
un appartamento in affitto per tutto l’anno o quasi), adesso è molto diffusa
anche quella ricorrente (le Università, in base alle richieste degli studenti
riescono a fornire programmi didattici e date di esami che consentono agli
studenti di venire solo per alcuni giorni a settimana) con la conseguenza
che il migrante non riesce a costruirsi una dimensione sociale completa in
nessun luogo.
In sintesi, l’Europa non ha alcun futuro se
impone a delle comunità un modello che non hanno scelto.
Non si risolve il problema delle migrazioni di
lavoranti e di manodopera fuori del territorio se non si creano le condizioni
perché questi rimangano a lavorare nella propria Nazione, nel proprio paese o
nella propria città, nel proprio territorio.
Né è possibile continuare ad ignorare il
problema a fronte del gravissimo problema demografico.
La popolazione sta invecchiando senza che si
stia ponendo alcun rimedio al calo demografico e alla necessità di
precostituire un ricambio generazionale.
Così, tra circa 50 anni, di questo Paese non
rimarrà nulla se questo sistema spinge i giovani, i lavoratori, i laureati, i
soggetti altamente qualificati ad andarsene.
Solo un progetto concreto che abbia come punto
di riferimento il rilancio del territorio potrà spingere questi stessi soggetti
a rimanere.
Grazie per il prezioso lavoro di sintesi.
RispondiEliminale baron de Cantel
Eccellente post.
RispondiEliminaMi permetto solo di aggiungere che una Europa che impone a delle comunità un modello che non hanno scelto, per quanto possa sopravvivere, non potrà che finire come la Jugoslavia. Perché come una Jugoslavia è stata costruita.
Manca il ruolo della grande impresa pubblica. Quella che "dava il lavoro" alla PMI.
RispondiEliminaPensateci.
Fino a 30 anni fa, non lo sapevamo, non ci facevamo caso, ma lavoravamo praticamente tutti per lo Stato, considerando le sue aziende.
Porto l' esempio della Nuovo Pignone. La cui privatizzazione fu uno scandalo a mio modo di vedere, e, pensate, fu quella fatta meglio.
Io, come circa un quarto della popolazione toscana (altro che turismo e vino!) Campo su quella.
Andatevi a vedere cosa sarebbe successo se non fosse intervenuto quel catto-comunista di La Pira e il suo amico, quel "boiardo" incolto di Mattei, a suo tempo.
La cosa incredibile e' che Renzi dice di ispirarsi a La Pira solo perche' anche quello e' stato sindaco della stessa citta' che lui ha amministrato.
Voglio dire, parliamo di concezioni economico-politiche esattamente agli antipodi!
Del ruolo della grande impresa pubblica abbiamo parlato anche nei due post precedenti (commenti inclusi).
EliminaQui diamo spazio a una cronaca ricostruttiva di alcune riflessioni di Cesare Pozzi che radiografano tendenze e fenomeni attuali.
Fermo restando che il problema dell'intervento pubblico, in relazione al modello industriale italiano, lo trovi affrontato nel video, (di circa due anni fa ormai), del "colloquio" con Cesare qui a fianco in homepage...
Chiedo scusa per l'ot, volevo segnalare questo articolo sul processo alle ag. di rating, stanno venendo fuori cose pazzesche (non per "noi" ovviamente) sui meccanismi delle aste btp e sulla penale a jp morgan.... http://www.ilg iornale.it/news/politica/i-titoli-stato-e-verit-nascoste-che-fanno-tremare-repubblica-1102825.html
RispondiEliminacio' fa il paio con le denunce, a suo tempo, di Nino Galloni con un suo libro, sugli effetti della privatizzazione della banca d'italia...
ora in giornata quando ho tempo guardo se trovo conferme all'interpretazione di Brunetta...
Se proprio ce ne fosse stato bisogno, questa è la conferma di cosa accade invariabilmente quando si ha una banca centrale indipendente (e anche di cosa sia il concetto di libertà applicato al capitalismo bancario liberalizzato e ordoliberista).
EliminaNon fosse coperto da prescrizione, sarebbe da indagare sugli esatti risvolti e presupposti opachi del divorzio tesoro-bankitalia.
E sicuramente sul successivo influenzamento delle banche su quest'ultima.
Il criterio rivelatore principale rimane sempre quello: da dove vengono e/o dove poi vanno a lavorare dirigenti e funzionari eminenti del tesoro...e non solo (ci sono sempre parenti stretti et similia).
Io mi permetto di osservare che in fondo non è cosi' "incredibile "La cosa incredibile e' che Renzi dice di ispirarsi a La Pira solo perche' anche quello e' stato sindaco della stessa citta' che lui ha amministrato".
RispondiEliminaBasti solo pensare a CHI "Ha fondato e presieduto l'Associazione Giorgio La Pira con cui ha promosso numerose iniziative culturali e allacciato rapporti con il Medioriente." Eccolo ( meglio dire " ECCOLI" qui)http://it.wikipedia.org/wiki/Graziano_Delrio
Quindi le nostre eccellenze manifatturiere si sgretoleranno a colpi di "globalizzazione" perdendo i nostri più grandi valori legati al territorio e alle nostre tradizioni, i lavoratori " merce " pendolari (a basso costo) si concentreranno in poli industriali e commerciali metropolitani (sempre più inquinati) , dove sarà consentito anche questo... http://www.blitzquotidiano.it/cronaca-italia/piacenza-dipendenti-obi-con-braccialetti-che-vibrano-se-il-cliente-li-cerca-2105433/
RispondiElimina...probabilmente quelli "fortunati" perché chi un lavoro non ce l'ha si iscriverà al NASPI
http://m.repubblica.it/mobile/r/sezioni/economia/2014/10/04/news/arriva_naspi_il_sussidio_universale_coprir_un_milione_300_mila_precari-97287329/
Una sorta di HARTZ IV del modello Tedesco ( 6.000.000 di schiavi in Germania).
http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-1d38c610-ca19-47df-a185-9491cd8b8b17.html
Una Germania anch'essa impoverita, che i Padri fondatori del "fogno" continuano a elevare a "modello" di virtù.
...solo per ESSI peró.
Fino a quando lo scorpione avrà sferrato l'ultimo attacco al nostro futuro.
Grazie
Colgo l'occasione per fare i miei più sinceri complimenti a Sofia per l'ottimo post. Sarebbe bello, ma soprattutto utile ed istruttivo se il Prof Pozzi potesse approfondire questo argomento." E che diamine Prof, quando parla non ha mai la possibilità di esprimersi in maniera compiuta, perchè gli danno sempre poco tempo, mentre qui nel blog avrebbe la possibilità di esprimere in modo esauriente il suo sapere e consentirebbe a noi di attingere un poco dal pozzo della sua cultura."
RispondiEliminaSull'argomento citato da Caposaldo sul rifinanziamento del debito pubblico, dall'articolo si evince che lo Stato Italiano, (e chissà da quanto tempo, probabilmente da subito dopo Divorzio Tesoro/BDI) ha e sta regalando fiumi di denaro alla finanza privata nazionale e internazionale, sottraendolo all'economia reale e provocando tagli in tutti i settori dell'amministrazione pubblica. Questa è la vera corruzione, la quale si è manifestata con la scelta infelice di aderire allo Sme a condizioni a noi sfavorevoli, al Divorzio, per poi passare per Maastricht, euro ecc. ecc. ecc. Insomma la vera corruzione è quella di aver svenduto lo Stato Italiano e l'interesse nazionale alla finanza privata e financo adottando scelte politiche che favoriscono altri paesi a discapito del nostro ( Germania in testa, seguita da Francia)
Ringraziando Sofia e en attendant Pozzi, segnalo un lungo pezzo di Sapir sull'argomento politica industriale e privatizzazioni, che avevo tradotto l'anno scorso per Voci. (In Italia conosciamo essenzialmente il Sapir antieuro, ma c'è parecchio di più...:-)).
RispondiEliminaGrazie anche a te per il "memo" a complemento. Da cui sottolineerei:
EliminaSapir come Pozzi che cita Taylor in «si siano sottovalutate le interazioni positive che possono esistere fra un settore di grandi imprese pubbliche e un settore di PMI e piccole medie industrie emergenti»
Tradotto: la ricchezza pubblica è fatta dalle PMI trainate dalla grande impresa pubblica.
La grande azienda "privata", come hai sottolineato ancora te poco tempo fa, è stata quella che più di tutte le altre ha fatto collaborazionismo con il potere estero: tutta la fogna che ha inzozzato la storia italica moderna arriva da lì: sostenitrici del fascismo, delle speculazioni devastanti che hanno costretto il duce a fare il "rooseveltiano", l'opposizione a Mattei e alle partecipate statali, fino a dare l'appoggio definitivo (citato da te) agli interessi esteri per far entrare l'Italia nello SME: Agnelli, Pirelli e De Benedetti....
(D'altronde poi capitava che ai "legati dell'impero" toccava visitare, dopo i Parlamentari "ufficiali", Mattei al posto di Agnelli.... non sta mica bene!)
Inutile far notare la struttura "dinastica" di questo tipo di capitale che ha collaborato da sempre con lo straniero: ha da sempre finanziato la reazione ed è stato sempre in prima linea ad opporsi al compimento degli inderogabili doveri costituzionali.
Inoltre riprendo anche Sapir che cita C. Johnson per cui «è l'indipendenza dell'impresa giapponese dai suoi proprietari la fonte della sua efficienza».
Questa è una differenza molto importante che c'è stata anche tra lo storico modello di impresa pubblica francese e quella italiana.
L'impresa pubblica italiana, a differenza di quella "tipica" francese, era "partecipata": ovvero era molto più efficiente di quella francese proprio perché i dirigenti erano operativamente "indipendenti" dalla proprietà.
Si celebravano gli artt. 41 e 42 Cost. stimolando l'energia creativa "schumpeteriana" degli individui ricondotti all'unità dei fini sociali dell'attività economica.
Ma la finanza questo non lo sa: è troppo impegnata a "generare valore" distruggendo valore....
(Per conto dei soliti cognomi... più o meno... homo homini lupus, vale anche per ESSI!)
Sono sostanzialmente d'accordo con quello che scrivi. A queste considerazioni (e a quelle di Neri nei commenti al post successivo), aggiungerei che proprio l'indipendenza di cui giustamente parli fu all'origine di un durissimo scontro con la Confindustria per le sue ricadute sindacali: mi riferisco ovviamente alla legge 22 dicembre 1956, n. 1589, istitutiva appunto del Ministero delle partecipazioni statali, "voluto dalla CISL e dalla sinistra democristiana, ma non contestato dalla CGIL", come ricorda Maria Vittoria Ballestrero. La costituzione dell'INTERSID nel 1958 e il suo "sganciamento" dalla Confindustria determinarono la rottura del fronte padronale davanti all'offensiva dei lavoratori, che per la prima volta riuscirono "decisamente" a mettere "in gioco la distribuzione del reddito [nazionale], capovolgendo una tendenza che sembrava ormai affermata e che giocava a tutto favore dei profitti." (A. Graziani, Lo sviluppo dell'economia italiana, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, pag. 83). Anche, e non secondariamente, questo credo contribuisca a spiegare parecchia della feroce ostilità del grande capitale privato verso l'impresa pubblica.
Elimina....e guarda a caso, proprio dalla fine degil anni '50 (dato che fino a quel periodo, come denunciava Basso, sugli obblighi costituzionali "fregia l'aqua e morto il föc"), comincia la lenta convergenza della politica italiana verso Dettato.
EliminaChe credo si arresti dopo la costituzione dell'SSN e... l'entrata nello SME.