Questo interessantissimo 5° capitolo della monografia di Riccardo Seremedi sullo " stato delle cose" in USA, esige un'adeguata introduzione.
In Italia, l'approvazione inarrestabile della legge elettorale ancora (per poco) in discussione, coagula la legittimazione dell'azione di governo intorno a un principio: la "governabilità". Tale locuzione, già nominalmente, rinvia al voler imperniare il processo decisionale politico sul "governo", per l'appunto. E dunque, posta naturalmente in secondo piano la dimensione e la discussione parlamentare, considerate in sè un ostacolo "inefficiente", può trovare un sinonimo (di craxiana memoria) nel "decisionismo".
Ma per decidere cosa?
Evidentemente qualcosa che l'Esecutivo non voglia eccessivamente discutere in parlamento, assoggettandolo agli strali (eventuali) delle (eventuali) opposizioni.
In breve, si tratta, come ben sappiamo, non tanto di decidere rapidamente (ché le decisioni fondamentali che hanno caratterizzato la trasformazione dell'ordinamento italiano negli ultimi decenni, sono state piuttosto rapide e puntuali: esecuzione di Maastricht, riforme conseguenti per aderire ai "criteri di convergenza", continue manovre finanziarie "emergenziali", esecuzione del fiscal compact in forma di rapidisisma revisione costituzionale ecc.), quanto di decidere su "contenuti" (della legge) valutati ed accentrati esclusivamente nel giudizio dell'Esecutivo, in modo da rendere ogni passaggio parlamentare una mera ratifica formalistica, con al più secondari "pareri", emendativi di aspetti marginalizzati. Esattamente come accade con il parlamento €uropeo, che di tale "forma di governo" è il paradigma.
I contenuti delle decisioni affidate all'attuazione autoreferenziale dell'Esecutivo, poi, sono ritratti dal "vincolo esterno", cioè dall'assolutamente prevalente quadro di obblighi, - inderogabili e caratterizzati da uno "stato di eccezione" permanente-, assunti in sede di adesione all'Unione monetaria.
In questo quadro, emerge che il ridisegno della società delineata dalla Costituzione sociale trova il suo punto di riferimento nella natura stessa dei trattati internazionali che lo impongono: il liberoscambismo dei trattati stessi, proprio nel programma europeo predisposto fin dall'inizio, culmina nel trattato di liberoscambio interatlantico, denominato TTIP, concluso autonomamente, e con espressa immediata obbligatorietà per gli Stati membri, dall'Unione Europea.
Il TTIP, cioè il futuro imminente della nostra realtà socio-economica, ha un bersaglio grosso essenziale (essendo il resto, in definitiva, un complemento conseguenziale): l'affidamento integrale dei "servizi" considerati "finanziari" alla mano dei privati, includendo in essi il sistema pensionistico e quello sanitario, oggi pubblici, devoluti ex imperio al "libero" mercato degli operatori finanziari internazionali. Ovviamente sul presupposto di un mercato del lavoro che "deve" adeguarsi al modello di quello USA, creando una situazione di "indifferenza" negli investimenti, nei modelli industriali, e nel ruolo della spesa pubblica in ogni parte delle aree di applicazione del TTIP stesso.
Questo è il quadro degli obiettivi prioritari del "decisionismo", cioè la sostanza della trasformazione sociale che si vuole sottrarre ai parlamenti e ad ogni possibile valutazione pluralista, e come tale intollerabilmente compromissoria, che questi potrebbero esprimere sindacando l'azione dell'Esecutivo.
Ora, nel quarto capitolo dell'opera di Riccardo, abbiamo visto quale sia il bench-mark di tutela sanitaria pubblica e di copertura pensionistica costituito dagli USA e che verrebbe irresistibilmente esteso all'Italia, nel quadro dei vincoli "inevitabili" che assumerà (in ogni forma prevista già ora da trattati in vigore) l'Esecutivo, unico decidente residuo per la generalità degli italiani.
La conseguente realtà sociale trova poi il suo percorso obbligato nelle vicende narrate in questo 5° capitolo. Il funzionamento del sistema socio-economico USA produce un andamento che abbiamo già esaminato in questo post, nei suoi effetti strutturali e ormai inerziali:
L'UEM, IL PETROLIO E LA "LOCOMOTIVA" USA: PRODURRE COSA E DA VENDERE A CHI?
E' di questi ultimissimi giorni, poi, una evidente conferma delle criticità e delle tendenze sistemiche illustrate nel post sopra linkato: in questo report sul dato di crescita USA nel primo trimestre 2015 (un +0,2 inferiore a tutte le stime), quello che vi invito a verificare è il trend dei consumi (in indebitamento della massa lavoratrice precarizzata), il crollo degli investimenti "non residenziali" (cioè di quelli estranei al campo dell'edilizia e...delle relative potenziali bolle speculative finanziarie da indebitamento frammentato in sub-prime), e il nuovo dato sulle esportazioni (-7,2%), legato al corso del dollaro in continuo rafforzamento.
Questa è, nel combinato degli elementi che stanno maturando in questi giorni, la prospettiva "decisionista" che ci viene imposta e che, però, risulterà "trasposta" in pejus alla realtà italiana: quella di un paese che non dispone di bombe atomiche, è geopoliticamente a sovranità limitata, ed è caratterizzato da una via di sviluppo manifatturiera ed esportativa che può sopravvivere solo in concomitanza con la vivacità della domanda interna e dell'accumulo di risparmio-investimento produttivo. Una "via" italiana (ma non solo) allo sviluppo che fa a pugni con la finanziarizzazione "a debito" (privato) imposta dal nuovo mercato del lavoro e dalle prospettive internazionaliste di competitività deflazionista che si stanno, ora e ancor più in futuro, perseguendo.
Pil Usa delude: solo +0,2% nel 1° trimestre 2015 ...
Leggi tutto: http://www.soldionline.it/notizie/macroeconomia/pil-usa-primo-trimestre-2015?cp=1
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Pil Usa delude: solo +0,2% nel 1° trimestre 2015 ...
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Il prodotto interno lordo
degli Stati Uniti è cresciuto dello 0,2% nel primo trimestre del 2015.
Lo ha comunicato oggi il dipartimento del commercio. LEGGI ANCHE: Macro
Usa, prodotto interno lordoIl dato è inferiore alle attese degli
analisti che erano per un incremento dell1,1%, comunque in calo ri ...
Leggi tutto: http://www.soldionline.it/notizie/macroeconomia/pil-usa-primo-trimestre-2015?cp=1
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1. L'americano indebitato: “Millennials” ed altre storie
La combinazione tra lavori a basso salario e alta
disoccupazione reale ha portato ad una mistura esplosiva con livelli di debito
privato che danno le vertigini; a dicembre 2014, i consumatori americani avevano un debito totale
di 11,74 trilioni di dollari (+ 3,3% rispetto al 2013), con 1,13 trilioni di
dollari (+ 8% rispetto al 2013) in prestiti a studenti, 8,14 trilioni di
dollari in mutui, 882,6 bilioni di dollari in carte di credito: proprio l'esame dei dati sulle carte di
credito fa ritenere che molte famiglie americane stiano
prendendo denari in prestito per far quadrare il bilancio, piuttosto che per un
aumento di fiducia nell'economia.
E'
invece un'ipoteca sul futuro quella che gli Stati Uniti hanno contratto con i
loro giovani – i “Millennials” - schiacciati dal peso del debito ancor prima di
trovare un impiego, incerto anzichenò; una ricerca della NY Fed, mostra che più della
metà di tutti gli studenti mutuatari sono ora morosi nei loro pagamenti, e coloro i quali hanno lasciato la scuola nel 2005 hanno
saldato solo il 38% del loro debito
iniziale.
Una delle cause principali di questo de profundis è da
attribuirsi alla crescita indiscriminata delle rette di iscrizione che, dal 1970,
sono aumentate più del 1.000% - mentre il finanziamento statale delle
università è diminuito del 40% - portando la percentuale di giovani americani
con “student loans debt” a più che quadruplicarsi, dal 5% al 22%.
La potente industria dei prestiti scolastici ha fatto pressioni per ottenere
leggi draconiane che penalizzano gli studenti debitori ancor più delle persone
in possesso di mutui, prestiti auto o carte di credito, affinché nemmeno il
fallimento possa annullare questi
finanziamenti ; in
alcuni Stati, gli studenti che dichiarano default possono perdere
le loro certificazioni professionali e anche la patente di guida. Tutta questa
concatenazione di fattori, le difficoltà nel trovare un impiego che dia un
reddito sufficiente ad estinguere il debito e un mercato immobiliare “super hot”, rendono
impossibile l'autosufficienza economica (che siano “bamboccioni” e “choosy” pure loro?):
e, difatti, lo scorso anno, nello scaglione che va
dai 25 ai 34 anni di età, il tasso di coloro che vivono a casa dei genitori è
salito al 17,7% per gli uomini e all'11,7% per le donne, un livello record per entrambi i sessi.
Com'è facilmente intuibile, la capacità del debitore di onorare i propri
impegni deriva dalla possibilità di generare risorse economiche sufficienti al
soddisfacimento di tale scopo, e condizioni lavorative stabili e
contrattualmente oneste sono la conditio sine qua non per far sì che ciò accada: tutto il contrario di
quanto visto finora. Com'è anche parimenti intuibile la pressante necessità
del capitalismo americano di trovare uno sbocco alla propria produzione di
merci e servizi che, stante l'attuale clima di incertezza e la cronica
debolezza dei salari, sarebbe già frustrato in partenza.
Diventa quindi indispensabile permettere l'indebitamento di individui
che altrimenti, data la precarietà ed esiguità dei loro salari, sarebbero
impossibilitati a partecipare al festino consumistico, e poco importa se il
loro incerto status sociale li renda dei soggetti – in termini di
garanzie – “subprime”, ossia debitori ad alto rischio di insolvenza.
2. I
“subprime” legati ai prestiti auto: vecchi vizi per nuovi problemi
Nella montagna di
debito privato che compone l'ampio panorama dei nuovi subprime, quello del
settore automobilistico è uno dei più preoccupanti (come abbiamo già visto qui); l'importo complessivo dei prestiti per le auto nuove e usate eclisserà a breve
la soglia del trilione di dollari, e intanto le insolvenze sui tali prestiti
sono ai massimi dal 2008 (sia per tutti i mutuatari che per i mutuatari subprime, con il 9%
di questi ultimi che ormai manca un pagamento entro i primi 8 mesi dalla
stipula), con il tasso dei pignoramenti salito al 70,2% nel 2° trimestre 2014.
Quasi
1/3 di tutti i prestiti auto nel 2013 sono stati concessi a mutuatari subprime (la
stessa percentuale del 2006) e, allo stesso tempo,
gli istituti di credito mostrano l'originaria propensione alla vendita dei
prestiti, trasmettendoli alla macchina della cartolarizzazione di Wall Street, e
questo spiega il motivo per cui - nonostante un crollo delle emissioni di ABS (Asset Backed Securities), sostenuti dai prestiti per la casa negli anni post crisi -
l'emissione totale di ABS negli Stati Uniti abbia raggiunto lo scorso anno il
suo livello più alto dal 2008, e come nel precedente boom
immobiliare, gli investitori alla ricerca di rendimenti più elevati – ad
esempio, compagnie di assicurazione e hedge
funds - stanno comprando
imprudentemente miliardi di dollari in investimenti garantiti da prestiti auto subprime.
3. Illusionismi finanziari
Questo è forse il segno più evidente di come gli americani non abbiano
imparato nulla dagli avvenimenti del 2008, se constatiamo anche gli escamotages sempre
più fantasiosi che sono estratti dal cilindro del “perfetto illusionista
finanziario”; così scopriamo che società sostenute dai banchieri di Wall
Street – come “Invitation Homes” (detenuta da Blackstone), “American
Homes 4 Rent”, “Colony American Homes” - sono piombate nei mercati immobiliari deprezzati (ad esempio, Phoenix, Atlanta e Memphis) per acquistare edifici a prezzo di saldo per poi affittarli a canoni
elevati, cosa interessante ma non particolarmente originale. L'originalità risiede invece nell'utilizzo di
una nuova forma di collaterale che sostenga l'emissione di bonds: Blackstone ha annunciato nel mese di ottobre che avrebbe
venduto le sue prime obbligazioni garantite dagli affitti derivanti da immobili di sua proprietà per un valore di 479 milioni di dollari, imitata da American Homes 4 Rent che ha
incaricato Goldman Sachs di condurre l'operazione da 500 milioni di
dollari.
Il
rappresentante democratico californiano Mark Takano ha richiesto l'audizione
del Congresso per esaminare le conseguenze che avrebbe una futura recessione
economica sulla capacità degli inquilini di pagare gli affitti; nel quartiere
di Takano - a Riverside, in California - quasi
1/3 degli inquilini spende più della metà del proprio reddito per l'affitto,
secondo un recente rapporto commissionato dal suo ufficio. Il politico
californiano ha detto che gli standard di prestito più severi hanno costretto molte persone
a scegliere di vivere in affitto,
provocando l'aumento dei canoni di locazione.
4. Più
di 46 milioni di americani vivono con buoni alimentari, ma è tutto OK
Solo un visionario o un turlupinatore può dichiarare la “crisi finita” di fronte alla cornucopia di dati appena visti,
numeri che farebbero tremare i polsi a politici di ben altra tempra e che,
quantunque tragici, sono niente di fronte alla moltitudine di persone che
ricorrono quotidianamente ai “food stamps” per sopravvivere.
Il “Supplemental Nutrition Assistance
Program” (SNAP) o “food stamps” è un
programma federale che permette l'acquisto di generi alimentari a famiglie
disagiate per mezzo di buoni (food stamps)
erogati attraverso una carta di debito elettronica (EBT) ed
usufruibili in oltre 238.000 supermercati e negozi di alimentari convenzionati; orbene, secondo il Dipartimento dell'Agricoltura (USDA), lo scorso
ottobre ben 46.674.364 americani (22.867.248 famiglie , il 19,7% del totale)
hanno beneficiato dei buoni alimentari, un aumento di 214.434 unità rispetto al
mese precedente che equivale al 14,6% della popolazione totale: è il 38mo mese di fila che viene superato il picco dei 46 milioni.
Circa 3/4 dei buoni vengono erogati a nuclei familiari che includono un
bambino, un anziano o un disabile, più del 40% dei destinatari sono donne con
figli; ma il nuovo elemento caratterizzante - e allo stesso tempo inaccettabile
- è stato il progressivo ingresso dei cosiddetti “working poor” - oramai i maggiori beneficiari - ovvero coloro che lavorano ma hanno stipendi così bassi o
irregolari da non riuscire a raggiungere una soglia adeguata di sostentamento.
Diversi economisti sostengono che avere un lavoro
potrebbe non essere più sufficiente per mantenere l'indipendenza economica nel
contesto attuale, e il professor Timothy Smeeding - docente di economia presso
l'”University of Wisconsin-Madison”, specializzato nelle analisi nella disparità di
reddito – ha reso evidente una verità che troppi a Capitol Hill fingono
di non vedere: “Un lavoro a basso salario
integrato con buoni pasto sta diventando sempre più comune per i lavoratori
poveri (…) molti dei lavori che vengono creati adesso negli Stati Uniti sono a
basso salario – oppure a minimo salariale - part-time o in aree quali la
vendita al dettaglio o fast food (…) ciò significa che l'uso dei “food stamps” rimarrà elevato
per qualche tempo, anche dopo un aumento dell'occupazione".
Non si scappa... senza una politica che privilegi l'aumento dei salari reali, le cose peggioreranno prima di migliorare: "Non ci aspettiamo un
declino o una stabilizzazione delle disparità di reddito in assenza di crescita
dei salari reali o una significativa riduzione dei problemi di disoccupazione e
sottoccupazione" ha
dichiarato Ishwar Khatiwada, economista del “Center for Labor Market Studies” alla “Northeastern
University”, che ha
rivisto i dati sui salari dei Dipartimenti del Lavoro e del Commercio.
5.
Senza pudore
Come spesso accade, sulla pelle di “Main Street” si
combattono finte battaglie ideologiche tra Democratici e Repubblicani, che –
come abbiamo visto in precedenza – danno sempre il medesimo risultato e
cambiano poco la situazione di chi già vive in condizioni precarie; il
programma - il cui costo stimato è di circa 80 miliardi di dollari l'anno - ha
visto anche i senatori Democratici farsi
promotori di una riduzione dello stesso per 4 miliardi di dollari in 10 anni -
un piccolo taglio, certo - ma sommamente inopportuno. Per converso, i
Repubblicani vogliono dimezzare il budget e portarlo a 40 miliardi in 10 anni perché ritengono,
con “grande sprezzo del ridicolo”, che il programma crei “una cultura di dipendenza
permanente": se pensiamo che il beneficio individuale mensile medio è di 133 dollari, che diventano meno di4,50 dollari al giorno , è ampiamente comprensibile che - con tutto questo
ben di Dio – quasi 50 milioni di americani preferiscano umiliarsi per
elemosinare questi pochi dollari e darsi così alle gozzoviglie e agli stravizi
più scapigliati.
E, in ogni caso, è bene ribadire che le risorse destinate a questi
presunti “pasti gratis” non si rivelano soldi buttati perché, oltre ad essere
un atto umanamente responsabile, si risolvono in un aumento della ricchezza
nazionale, con un “effetto moltiplicatore” di 1,76 volte la spesa, come ha testimoniato al Congresso Mark Zandi, capo economista di Moody's.
In uno scenario sociale instabile e potenzialmente esplosivo, la feroce
acrimonia dei Repubblicani verso l'erogazione di buoni alimentari a famiglie in
difficoltà sembrerebbe - a prima vista – incomprensibile, ma dopo avere
analizzato alcuni punti sottotraccia la vera ragione del contendere si
manifesterà in tutta la sua evidenza.
6.
Piccoli Savonarola crescono
E' un fatto noto che l'agricoltura americana goda di ampi e generosi
sussidi governativi che si concretano nel “Farm Bill”, un complesso elefantiaco di leggi e regolamenti a
rinnovo quinquennale pensato per supportare gli agricoltori ma che - viste le
enormi quantità di denaro e le attività di lobbying coinvolte – è
diventato il bancomat di multinazionali e grandi proprietari: un 10% che
nel periodo 1995-2010 ha
ricevuto il 74% del totale (166 miliardi di dollari), lasciando il 62% dei
piccoli produttori senza il becco di un quattrino e sotto una montagna di
disperazione.
Si dà il caso
che il programma SNAP venga
gestito proprio dal Dipartimento dell'Agricoltura attraverso il “Farm Bill”, e pertanto un maggiore stanziamento di fondi a favore dei buoni
alimentari va ad impattare sulla quantità di denaro che i big sono
soliti spartirsi, tra i quali, coincidenza vuole, ci sono almeno 10 Repubblicani – portavoci dei grandi interessi corporativistici - che hanno
ricevuto forti sussidi per l'agricoltura, per un totale di 6.7 milioni di
dollari a partire dagli anni '90.
Tra i vari “personaggi“ riportati
nell'articolo allegato, ci pare doveroso spendere due parole su colui che – in
virtù dei 3.483.824 dollari – risulta essere il maggior beneficiario, ossia il congressman Stephen Fincher, una singolare figura che - narrano le cronache -
ama infarcire le proprie orazioni con brani della
Bibbia, anche quando ha qualificato implicitamente come “scrocconi” gli
sventurati che non hanno di che sostentarsi citando, in maniera impropria, un
passo dal Libro dei Tessalonicesi: "Chi non
vuole lavorare, neppure mangi".
Nel febbraio dello scorso anno, proprio “come i ladri di Pisa”, le due parti
hanno trovato un accordo e Obama ha firmato e reso
esecutivo il nuovo “Farm Bill” H.R. 2642 da 1 trilione di dollari che,
tra la selva di sovvenzioni e benefits per i soliti noti, rende
effettivo un taglio di 8 miliardi di dollari al programma SNAP, una
decisione che riguarderà 850.000 famiglie americane – quasi 2 milioni di persone
in 15 stati - che perderanno circa 90 dollari al mese a seguito dei tagli.
7. Working Poors Inc.
Parlare di working
poor e parlare di Wal-Mart è un tutt'uno (anche in questo caso, rinviamo a questo post sulle più recenti vicende); nessun altro fenomeno
economico può essere assurto a paradigma per spiegare il declassamento degli standard
lavorativi americani, il peggioramento nella qualità della vita e l'influenza
culturale e sociale che ne è derivata. Vista l'importanza dell'argomento,
varrà la pena esaminarne le molteplici sfaccettature.
Wal-Mart Stores Inc. viene fondata da
Sam Walton nel 1962, quando apre il suo primo negozio a Rogers (Arkansas),
e sin dal principio la politica aziendale del suo creatore è orientata a
sottopagare i dipendenti per permettere un'espansione aggressiva dell'azienda, offrendo prezzi più bassi
rispetto alla concorrenza; in quegli anni, il governo decide di elevare il
salario minimo federale a 1,15 dollari l'ora - anche per il personale della
vendita al dettaglio - un provvedimento che non viene applicato alle piccole imprese con un
fatturato annuo sotto 1 milione di dollari, soglia che nel 1965 viene abbassata
a 250.000 dollari.
Walton - che stava pagando i dipendenti della sua catena in
rapida crescita la metà di tale importo, ossia 50 centesimi l'ora – capisce che
il suo “modello aziendale” è in pericolo e, per tutta risposta, decide di
separare i suoi negozi in singole società i cui ricavi non superino la soglia
di 250.000 dollari ma, alla fine, una corte federale stabilisce - nella causa “West
vs Wal-Mart Inc.” - che la manovra è
solo un espediente per evitare di concedere il salario minimo e, pertanto, gli
viene ordinato di pagare ai suoi lavoratori le somme accumulate più una
penalità: Wal-Mart sembra rassegnata all'inevitabile, ma ad una riunione con i dipendenti, Walton dirà che “licenzierà
chiunque incassi l'assegno”.
Da allora, tanta acqua è passata sotto i ponti ma Wal-Mart ha
continuato imperterrita a perseguire la filosofia della compressione dei
salari, che è diventata il trait d'union con il suo successivo mezzo
secolo di espansione inarrestabile; nel 1990 è divenuta il più grande
rivenditore del paese, e oggi è la maggiore corporation del pianeta per ricavi e il più grande
datore di lavoro del settore privato al mondo, una multinazionale con una
catena di 10.994 negozi in buona parte del globo, 1,4 milioni di dipendenti
negli Stati Uniti e poco meno di un milione all'estero.
8. Il lato oscuro del successo
Secondo il fondatore, il successo di Wal-Mart
è frutto di molto lavoro, valori di provincia e dedizione e, in effetti, l'arma
vincente di Walton è stata la perseveranza con la quale egli ha rivoluzionato
la distribuzione e la logistica, intuendo prima degli altri le potenzialità dei
grandi centri di distribuzione e di strumenti tecnologici come il codice a
barre - per il monitoraggio della domanda e offerta di prodotti - ed il computer
(Wal-Mart ha il secondo computer più potente al mondo dopo quello
del Pentagono).
Questi indubbi meriti non possono
tuttavia nascondere il sistematico sfruttamento del lavoro, la distruzione
delle comunità locali, le attività antisindacali e le discriminazioni contro le
dipendenti.
Un lungo servizio dell'”HuffingtonPost” mostra che un
lavoratore di basso livello alla Wal-Mart - ad esempio un movimentatore
carrelli - può guadagnare 8 dollari l'ora, con la “succosa” prospettiva di incrementarli attraverso aumenti di produttività, da 20 a 40 centesimi l'ora, che
lo porterebbero a raggiungere, in media, 10,60 dollari dopo aver lavorato
nell'azienda per 6 anni: il piano di retribuzione di Wal-Mart – che è
organizzato attorno a sette livelli di qualifica aziendale - è chiamato “Position
Pay Grades” (PPG) e si ramifica partendo appunto da movimentatori carrelli
(Livello 1) e cassieri (Livello 3), a decoratori di torte (livello 4), a manager
servizio clienti (Livello 6), dove ogni successiva “gratifica” offre da 20 a 40 centesimi in più
rispetto al livello precedente.
Le interviste a 31 impiegati e a un ex
direttore di filiale – rese in forma anonima, per paura di ritorsioni – rivelano vite afflitte da stipendi troppo bassi per
gestire le bollette, con orari part-time spesso soggetti a continui
cambiamenti e con poche speranze per un avanzamento di carriera: le testimonianze di questi lavoratori sono confermate
dalla stessa politica ufficiale di compensazione di Wal-Mart, nella
fattispecie da un documento interno ottenuto dalle giornaliste -
intitolato "Field Non-Exempt Associate Pay Plan Fiscal Year 2013"
- un piano che mostra un complesso retributivo rigido, che rende difficile
per la maggior parte dei dipendenti il raggiungimento di salari molto al di là
del livello di povertà.
Questa configurazione della struttura
salariale di Wal-Mart riguarda - in principal modo - i lavoratori di
lunga data che, dopo avere raggiunto il cap (tetto) prefissato per il
tipo di mansione svolta, non hanno più possibilità di migliorare la loro busta
paga; secondo un ex dirigente dell'azienda ora in pensione, questo
sistema – presentato come più trasparente ed equo
per tutti i dipendenti – è diventato lo strumento per sostituire proprio gli
impiegati con gli stipendi più alti che, attraverso pratiche di mobbing,
vengono indotti a lasciare il posto di lavoro e in seguito rimpiazzati da
lavoratori part-time a basso salario: lo
stesso ex dirigente ha affermato che il 70% dei lavoratori della sua
filiale erano part-time (non più di 32 ore lavorative alla settimana), e
tale percentuale era stata imposta proprio dalla sede centrale Wal-Mart
di Bentonville (Arkansas) per risparmiare i costi su benefici
come l'assicurazione medica.
9. Chi ben comincia...
La compressione dei salari che Wal-Mart
applica viene attuata già all'interno degli “stores”, dove ai manager
vengono elargiti bonus se riescono a
mantenere i costi del personale sotto un certo livello; nel “retail
marketing”, le paghe costituiscono tra l'8% e il 12% delle vendite, ma a Wal-Mart
i manager hanno istruzioni per mantenere le spese per il personale tra
5,5% e l'8%, non pagando straordinari e riducendo – in maniera arbitraria – le
ore ai dipendenti: la testimonianza di un “assistant manager” di una
filiale dell'Oklahoma conferma quanto detto in precedenza :
“[...] Spesso
ho dovuto tagliare ore ai dipendenti per garantire che tutti i manager
stipendiati ricevessero i bonus annuali. Questa
pratica è una delle più corrotte di quelle usate da Wal-Mart – essi legano i
costi del personale ai bonus per i manager (...) La
loro retribuzione può essere raddoppiata se soddisfano determinati criteri. Una
gran parte consiste nel mantenere bassi i costi delle buste paga. Il che
significa che a poco a poco forzano all'uscita i dipendenti più anziani. E
sostituendoli con lavoratori temporanei che non hanno diritto all'assistenza
sanitaria, tempo libero, o anche ad una carta sconto. La maggior parte di
queste persone iniziano a 7,90 dollari l'ora e sono già sotto assistenza
pubblica [...]”.
Gli stessi addetti al magazzino – a cui è
affidato il compito di scaricare i containers con le merci spedite dalla
Cina, per poi rimpacchettarle per la vendita negli Stati Uniti - percepiscono
bassi salari e vengono forniti a Wal-Mart da agenzie di lavoro temporaneo, sebbene molti di loro svolgano questo lavoro già da anni.
10. “Prezzi bassi tutti i giorni”
Anche l'eccellente libro di Raj Patel -“I
Padroni del Cibo” - descrive alcune delle conseguenze legate al dogma “prezzi
bassi tutti i giorni”, il famoso slogan di Wal-Mart, e il
rapporto della famiglia Walton con la politica: “[...] La vera meta
riconosciuta dei manager Wal-Mart è in
realtà quella di garantire stipendi bassi tutti i giorni, accompagnati da multe
che fioccano se il totale delle buste paga supera una soglia rigida come
percentuale degli incassi. Uno dei modi per tenersi nei limiti consiste nel
ricorrere alle tradizionali leve di potere (…) la Wal-Mart ha molti amici
nelle alte sfere. Il settore orari e paghe del ministero del Lavoro americano
preavvisa sempre quando ci sono i controlli contro le violazioni delle norme
sul lavoro minorile e permette alla Wal-Mart di coredigere i successivi comunicati
stampa [...]”. (op. cit. ; pag. 175).
Se pensiamo che nella multinazionale
dell'Arkansas ben più della metà
dei dipendenti “full time” (525.000 persone) guadagna meno di 25.000 dollari all'anno - molto al di
sotto del valore mediano, già basso, di 28.031 dollari visto in precedenza - e
che l'abuso di lavoratori atipici si traduce in una serie di costi a carico dei
contribuenti, a questo punto, ci si pone un pressante interrogativo: gli
americani hanno davvero bisogno di Wal-Mart?
11. I sussidi alla costruzione
dei negozi
Procediamo con ordine.
“Shopping for Subsidies – How Wal-Mart uses taxpayer money to finance its never-ending growth” , studio del
2004 di Philip Mattera e Anna Purinton, ha documentato con certosina acribia
almeno 244 casi nei quali negozi al dettaglio o centri di distribuzione di Wal-Mart hanno ricevuto sussidi economici locali o
statali per la loro costruzione; benché un totale definitivo dei contributi non
sia possibile a causa del riserbo tenuto e dall'incompletezza dei dati, le
ricerche documentali certe hanno provato un flusso di denaro pubblico che passa
il miliardo di dollari (1.008, per la precisione), cifra sicuramente in difetto
perché – come scrivono gli autori – in un raro riferimento alle sovvenzioni
pubbliche un dirigente di Wal-Mart aveva dichiarato che per la compagnia
“è comune” richiedere sussidi “in circa 1/3 di tutti i progetti
retail” : questo dovrebbe suggerire che il finanziamento ha interessato più
di 1000 “stores” (pag.14).
Questi sussidi possono assumere
molteplici forme, ad esempio fornendo a Wal-Mart i terreni gratis
o a prezzo ridotto, pagando i costi di assistenza per le infrastrutture (strade
d'accesso, acqua, fognature ecc.), concedendo diversi sgravi fiscali e
abbattimenti di tasse fondiarie, oppure emettendo “Industrial Revenue Bonds”
(IRB), titoli esentasse di cui i governi locali o statali si fanno carico
per aiutare il finanziamento di attività private in certe forme di sviluppo commerciale: negli anni '80, Wal-Mart ha ricevuto tali finanziamenti per diversi
centri di distribuzione e diverse dozzine di “stores”. (pag.16)
Spesso i cittadini si chiedono se sia
saggio un tale esborso di soldi pubblici per finanziare un modello economico a
dir poco discutibile, e la giustificazione addotta è che - in linea di
principio - l'idea di un grande progetto espanderà la complessiva attività
impenditoriale dell'area; tuttavia il settore al dettaglio non ha un impatto
comparabile con la funzione esercitata dal manifatturiero, poiché le fabbriche
creano nuovi posti di lavoro ed “esportano” la loro produzione al di fuori
della regione mentre, al contrario, l'apertura di un nuovo “Supercenter”
non aumenterà il reddito disponibile dei cittadini, ma prenderà i ricavi dei
commercianti esistenti, mettendoli fuori mercato, lasciando i lavoratori
disoccupati e distruggendo più posti di
lavoro di quelli effettivamente creati.
12.
Morte di una comunità locale
Sono stati condotti numerosi studi
sull'impatto che l'arrivo di un negozio di Wal-Mart ha sulla comunità
interessata, e tutti mostrano che l'economia locale – e non solo - ne esce
male; eccone alcuni : ”The Effects of Wal-Mart on Local Labor Market” -
studio di David Neumark, docente alla “University
of California, Irvine” - indica che l'apertura
di un Wal-Mart riduce
l'occupazione al dettaglio, a livello di contea, di circa 150 lavoratori, una diminuzione del
2,7%: i dati delle buste paga rivelano che l'apertura di un negozio Wal-Mart porta ad un calo dei guadagni degli addetti
al dettaglio - sempre a livello di contea - di circa 1,2 milioni di dollari,
l'1.3%.
"The Economic Impact of Wal-Mart Supercenters on Existing Businesses in Mississippi” - studio di
Kenneth E. Stone, professore di economia alla “Iowa State University” - si occupa degli
effetti che hanno i “Supercenter” di Wal-Mart (giganteschi
supermercati che combinano merci varie, alimentari e servizi differenziati) in
uno stato rurale come il Mississippi : “[...] Benché non possa essere
dimostrato in modo decisivo, vi è la forte sensazione che la teoria del 'gioco
a somma zero' si applichi nel caso dei 'Supercenter'
in Mississippi. Per ogni aumento di vendite di merci legato ai 'Supercenter',
ci sono stati corrispondenti perdite di fatturato per le imprese di questo tipo
nelle contee interessate e, in alcuni casi, nelle contee limitrofe [...]” e
pertanto “[...] l'ingresso di un nuovo 'Supercenter' in
una comunità può avere implicazioni drammatiche per i commercianti esistenti
[...]” (pagg. 25-26).
“A Downward Push: The Impact of Wal-Mart Stores on Retail Wages and Benefits” - studio curato da tre ricercatori dell'”UC
Berkeley Institute for Research on Labor and Employment” - mostra che
l'apertura di un singolo negozio Wal-Mart abbassa la media dei salari al
dettaglio – nella contea circostante - tra lo 0,5% e lo 0,9%, mentre nelle
categorie “general merchandise” e alimentari i salari medi diminuiscono
rispettivamente di circa l'1% e l'1,5%: lo studio mostra che l'apertura di
nuovi negozi produce non solo il declino dei salari medi ma anche quello dei
salari complessivi della contea, riducendo i guadagni combinati o aggregati
degli addetti al dettaglio nell'ordine dell'1,5%, che a livello nazionale
diventano 4,5 miliardi di dollari in meno per i lavoratori del settore. (pagg.
5-6)
Un rapporto redatto dallo staff
democratico della “U.S. House Committee on Education and the Workforce” ha evidenziato che, dall'analisi dei dati
demografici diffusi dal programma Medicaid del Wisconsin, un
singolo Supercenter Wal-Mart da 300 dipendenti in Wisconsin può
costare ai contribuenti da 904.542 dollari a quasi 1.75 milioni di dollari
all'anno, circa 5.815 dollari per dipendente; queste
sovvenzioni, pagate dai cittadini, comprendono anche programmi come
l'assistenza sussidiata per gli alloggi, il programma “food-stamps” ,
contributi per l'infanzia, assistenza energetica, e pasti scolastici a prezzo
ridotto: se pensiamo che nel Wisconsin ci sono 100 negozi Wal-Mart,
75 dei quali sono Wal-Mart Supercenters, è facile tirare le
somme.
13. La Cina è vicina
Ricorrendo ad una metafora mutuata dalla
botanica, l'esistenza di Wal-Mart ricorda quella della “Rafflesia
arnoldii”, una pianta parassita che infetta in modo subdolo i tessuti della
pianta-ospite, manifestandosi solamente – a cose fatte - come un fiore di
dimensioni enormi ma dall'odore nauseabondo di carne in decomposizione, proprio
come quelle migliaia di enormi “scatole”
disseminate per tutti gli Stati Uniti, che nascono e crescono alle
spalle dei cittadini.
Spesso i managers di “Waltonlandia” si
meravigliano della – essi dicono -
“campagna di delegittimazione” di cui è fatta oggetto la “mission” di Wal-Mart
: strano concetto di business quello dove tutta la filiera produttiva
– dall'edificazione degli iperstores fino alle provvidenze a favore dei
lavoratori sottopagati - viene sussidiata con soldi pubblici, dove la
concorrenza viene spazzata via da un competitore sleale che - proprio grazie ai
generosi contributi ricevuti, e alla valanga di mediocri prodotti sottocosto
importati dalla Cina - può offrire una competitività di prezzo fuori mercato,
dove i fornitori della stessa Wal-Mart sono costretti, per lavorare, a margini di profitto irrisori che portano inevitabilmente
a esternalizzare le produzioni e a piegarsi alle stesse logiche deflazionarie
che portano l'economia in una spirale recessiva senza vie d'uscita. Occorre
ricordare, a integrazione di quanto scritto poco sopra, che nel 2006 Wal-Mart
è stata responsabile di ben 27 miliardi di dollari in importazioni di prodotti
cinesi e della crescita dell'11% del deficit commerciale tra gli Stati
Uniti e la Cina
(periodo 2001-2006), causando la perdita di quasi 200.000 posti di lavoro.
14. Più la partecipazione è attiva, più
un lavoratore è felice: la lezione inascoltata di Elton Mayo
Ma dove Wal-Mart dà il meglio di
sé è senza dubbio nella gestione dei “rapporti umani” con gli impiegati
; l'elenco delle intemperanze del “bullo di Bentonville” è sterminato:
si va dalla chiusura di un negozio a Jonquiére nel Québec
(Canada) come ritorsione per l'avvenuta sindacalizzazione - una situazione
analoga verificatasi anche a Jacksonville (Texas) che ha portato
alla serrata di 180 reparti macelleria - passando per innumerevoli controversie
giudiziarie che hanno visto la multinazionale condannata a risarcimenti
milionari per aver negato pause pranzo a 116.000 lavoratori e preteso
straordinari non retribuiti, oppure a dipendenti chiusi a chiave all'interno
dei negozi per i turni di notte: per chi fosse curioso, l'articolo di”Bloomberg” ne offre un'ampia varietà.
La dottrina dell'iperconvenienza ha costi
sociali insostenibili e innesca un circolo perverso, poiché costringe fasce
sempre più ampie di popolazione, con scarso potere d'acquisto, ad utilizzare
proprio i servizi di coloro che sono responsabili della creazione di questa
matrice economico-culturale – la “convenienza".
Da questa formula suggestiva, essi traggono i maggiori benefici e che, in virtù di una
competitività “drogata”, diventa il mezzo per fagocitare i sistemi di
produzione tradizionali, consentendo a costoro di aumentare il “potere
contrattuale” sulla società, operazione loro concessa dal regime di sostanziale
monopolio nel quale si ritrovano ad operare; non è un caso che per definire
questo nuovo ordine socio-economico si parli di ”walmartizzazione”, un
neologismo che richiama a sua volta quella “civiltà del low-cost” continentale,
espressa da realtà come Ikea, Lidl, Ryanair ecc. , che
segna la fine del capitalismo europeo ante-Muro e la sua transizione verso
un sistema capitalistico flessibilizzato
e colpevolizzante, nel quale il cittadino/consumatore è un “peccatore” che ha
vissuto per troppo tempo “al di sopra delle sue possibilità” e l'espiazione
della pena deve avvenire accettando una precarietà umana, sociale ed esistenziale
sempre maggiore.
Ecco cosa scrive il giornalista Paolo Gila nel suo libro “Capitalesimo Il Ritorno del Feudalesimo nell'economia
mondiale”:
“[...] il modello low cost soddisfa i portafogli
delle classi meno agiate, ma contestualmente è funzionale a creare queste fasce
di popolazione di basso, se non bassissimo reddito (…) lo stile di vita di
intere generazioni slitta dalla decenza alla mera sopravvivenza (…)
all'orizzonte si profila la nascita di una nuova servitù della gleba, moderna,
che cresce all'ombra dei grattacieli e delle corporation. Le bidonville si
stanno disseminando nei quartieri popolari [...]”. (op. cit. ; pagg. 20-21)