1. Dato che mi serve per il libro e che mia capacità di "resistenza" a stare lontano da qui (per ora) è bassissima, provo a commentare sinteticamente un interessante articolo di Enrico De Mita, illustre professore di diritto tributario, quale segnalatomi da Lorenzo Carnimeo in questo commento (con prima risposta).
Vi preannunzio che l'articolo, al di là delle precisazioni a commento che seguiranno, conferma che il "redde rationem" italiano rispetto all'€uro-costruzione passa inevitabilmente per quella potente cartina di tornasole che è la Corte costituzionale; questo perchè non solo anche il prof. De Mita coglie la polarizzazione "da ultima spiaggia" tra le due sentenze n.10 (quella sulla Robin tax che non consente la restituzione "retroattiva", conseguente alla declaratoria di illegittimità costituzionale del tributo) e n.75 del 2015 (quella "famosa" oggi sull'adeguamento pensionistico), ma inevitabilmente anche il suo ragionamento si imbatte, (per quanto cautamente, circa la soluzione), nella conseguenza del conflitto insanabile tra Costituzione e trattati.
2. Qua, nel post sul 1° maggio, avevamo anticipato i corni del dilemma, come pure la strada su cui la Corte, anche "tornando indietro" sui suoi passi, si troverà comunque, in un senso o nell'altro, a segnare il destino della Costituzione come fonte di diritti fondamentali che caratterizzano la sovranità nazionale:
"...invito i più attenti lettori di questo blog a riflettere su un "trovate le differenze" tra la sentenza in questione (n.70/2015) e quella sulla Robin Tax, n.10 dell'11 febbraio 2015.
Mi limito a suggerire una direzione di indagine:
- è più "equo" accorgersi degli effetti di restituzione retroattiva delle sentenze della Corte in vigenza dell'art.81 Cost.- cioè del pareggio di bilancio- per impedire una successiva redistribuzione punitiva derivante dalle esigenze di costante copertura appunto in pareggio di bilancio (caso della sentenza n.10), ovvero "ignorare" che, vigendo l'art.81 Cost. attuale, e il fiscal compact, qualcuno dovrà comunque pagare quella apparente restituzione e, dunque, l'intero sistema economico subire (per via fiscale) una equivalente contrazione (esattamente compensativa di quella dichiarata incostituzionale) di consumi, investimenti e occupazione?"
3. Evidentemente, messa in questi termini, il nodo che la Corte deve inevitabilmente sciogliere è un altro, dovendosi logicamente e giuridicamente ritenere inaccettabile una continua riduzione dei diritti costituzionali, ancorati a norme inderogabili (in teoria, fino ad oggi), a mere pretese a tutela eventuale (se non "casuale"); vale a dire, a posizioni soggettive organicamente affievolite dall'adesione all'Unione monetaria europea, in quanto aventi una tutela effettiva che sia soggetta;
a) nel suo complesso alla prevalenza del pareggio di bilancio stabilito dal "nuovo" art.81 Cost. (che equivale a dire alla prevalenza del c.d. fiscal compact), secondo un automatismo che svuota praticamente di contenuto tutelabile (cioè reintegrabile) l'intera gamma dei diritti costituzionali;
b) in alternativa, ad una discrezionalità della Corte, non prevista dalla Costituzione (intesa in senso sistematico), nel riscontrare i presupposti di questa prevalenza: una discrezionalità giuridicamente "imprevidibile", perchè operante su una molto opinabile gerachia fra i diritti costituzionali non più interpretati, appunto, sistematicamente, ma isolatamente considerati, e perciò ben difficilmente motivabile con coerenza.
Altrettanto sistematica, infatti, dovrebbe essere la considerazione, da parte della Corte, dell'effetto complessivo, e reiterato costantemente nel tempo, delle manovre finanziarie che includono le singole norme devolute al suo sindacato: queste manovre, infatti, rientrano complessivamente nel tipo di correzione del sistema e del ciclo economico che, imposta dai vincoli europei, tende univocamente a stabilizzare un elevato livello di disoccupazione strutturale, - pari al 10,5%- in funzione dell'inflazione considerata nell'UEM come di equilibrio "di pieno impiego" ; un obiettivo strutturale che rende ingiustificabili le stesse manovre alla luce del principio lavoristico a cui è informata l'intera Costituzione.
Una discrezionalità di questo tipo non riguarderebbe la, sempre possibile, incerta previsione sulla esatta interpretazione delle norme costituzionali nel caso concreto, cioè la naturale possibilità di scelta interpretativa in funzione delle vicende socio-economiche in evoluzione nel tempo, ma la fase successiva alla declaratoria di illegittimità costituzionale; quella conseguenziale "necessitata",- secondo l'art.136 Cost. e secondo il principio di rigidità dellaCostituzione (art.138) e persino di non revisionabilità della stessa (art.139)-, di reintegra del diritto affermato e dunque "tecnico-finanziaria a valle".
Parliamo quindi delle conseguenze ripristinatorie che la Costituzione prevede come effetto necessario della tutela costituzionale già accordata (art.136 Cost.; ciò ovviamente concerne, spero sia chiaro, l'applicabilità delle norme dichiarate illegittime nei rapporti pendenti, certamente non esauriti, e controversi di fronte ai giudici "ordinari" che hanno rimesso la questione alla Corte).
E' chiaro che la stessa Corte, di fronte al sistematico riproporsi di questa esigenza tecnico-finanziaria, si troverebbe nell'alternativa, molto pratica:
i) o, (per evitare il protrarsi di questa prolungata incertezza sulla effettività dei principi costituzionali), di rinunciare progressivamente a interpretare le norme costituzionali in senso incompatibile con la radice €uropea di questa linea di politica economico-fiscale, accettando de facto la novazione del principio fondamentale unificante della Costituzione: il che significa una novazione da quello lavoristico e quello della conservazione "ad ogni costo" della moneta unica, così come ratificato nel fiscal compact-pareggio di bilancio. Con ciò, però, rinuncerebbe al ruolo che la stessa Costituzione le ha assegnato, divenendo un giudice del tutto soggetto alla superiorità incondizionata dell'intero diritto europeo;
ii) ovvero, di prendere una posizione che ribadisca il filtro dell'art.11 e dell'art.139 Cost. - da lei stessa affermato in più pronunce- confermando il paradigma della Repubblica fondata sul lavoro (artt. 1, 3 e 4 della Costituzione); ma questo solo affrontando il "cuore del problema":
"...cioè il legame tra:
- livello del bilancio fiscale, ridotto col "consolidamento" (quantomeno nelle intenzioni dichiarate, poichè i risultati, a causa dello strutturarsi di un elevato livello di disoccupazione, sono in pratica opposti o incongruenti, come prova l'aumento del rapporto debito su PIL e il costante mancato verificarsi della riduzione del deficit annuale programmato nelle stesse manovre finanziarie);
- vincolo a monte del consolidamento, cioè il pareggio di bilancio (in tutte le sue forme, comunque riduttive dell'indebitamento annuo);
- e disoccupazione-livello delle retribuzioni (e quindi anche del successivo trattamento pensionistico);
..."dovendo" chiarire, a se stessa e alla comunità sociale intera, coinvolta nella tutela costituzionale, il perchè si sia adottato il paradigma del pareggio di bilancio, e comunque (da decenni, in un crescendo, niente affatto casuale ed estraneo al meccanismo prevedibile della moneta unica) della riduzione/compressione del deficit pubblico; cioè una politica fiscale che non promuove certo la crescita, l'occupazione e la tutela reale del reddito da lavoro".
4. Questo l'articolo del professor De Mita, tratto dal Sole 24 ore (in corsivo il testo, inframezzato dal commento):
"Per inquadrare correttamente nella giurisprudenza costituzionale la
sentenza della Corte 70/2015 sul blocco della rivalutazione delle
pensioni occorre partire da alcune considerazioni di carattere generale
sulle quali ha richiamato l’attenzione Sabino Cassese nel suo originale
libro «Dentro la Corte». Le questioni della Corte sono filtrate
attraverso il diritto; non si affronta direttamente il problema
politico. La Corte è davvero un organo giudiziario che riconduce i
conflitti politici o costituzionali ai criteri di razionalità logica,
alla coerenza. Molti casi hanno implicazioni politiche o costituiscono
decisioni politiche sia pure a seguito di analisi tecnico-giuridica e
sulla base di elementi di razionalità riconducibili alla ragionevolezza.
La Corte “motiva ma non spiega”.
Ecco perché le sentenze della Corte
difficilmente sono capite dall’esterno. E tuttavia il peso della Corte
dipende dalla forza con la quale i poteri dello Stato la sorreggono.
Tutte le sentenze della Corte sono fondate sul precedente. La sentenza
70/2015 è frutto di una concatenazione di precedenti, di riferimenti a
decisioni già prese sicchè non è agevole comprendere il decisum che
viene formulato alla fine della decisione. Lo sforzo delle sentenze, la
motivazione, è la dimostrazione della coerenza decisione con il
precedente.
Le sentenze vengono istruite sulla base di una collaborazione degli
assistenti dei giudici che sono giudici e professionalmente tendono a
non vedere la questione costituzioni e politiche.
I riferimenti al
diritto comune sono fatti con l’adeguamento al “diritto vivente”, alla
giurisprudenza dei giudici ordinari, il che può essere un limite alla
impostazione in termini costituzionalmente rilevanti della questione.
Complessivamente si può dire che c’è una certa autoreferenzialità, che
rende la Corte prigioniera di se stessa."
Qui si manifesta una questione generalissima di civiltà giuridica: non è a rigore corretto definire autoreferenziale un organo giurisdizionale che sia naturalmente coerente coi propri precedenti, trattandosi oltretutto di giurisdizione di legittimità costituzionale; la Costituzione, nata per durare nel tempo secondo il suo ruolo di direttrice fondamentale della vita socio-economica, esige un continuo e omogeneo svolgimento della certezza e del significato delle sue previsioni.
Se si guarda all'esperienza delle Corti giurisdizionali di tutto il mondo, specie quelle anglosassoni di common law che applicano lo "stare decisis" (cioè la vincolatività, creatrice di diritto, del precedente giurisprudenziale), e di quelle costituzionali in particolare, non ce ne sarà una che non sia, e correttamente, "autoreferenziale": lo è la stessa Corte di giustizia dell'Unione Europea, proprio perchè la prevalente esigenza di certezza del diritto, per quanto si tenga conto di una storicità adeguatrice, non dà alternative al funzionamento fisiologico di ogni organo giurisdizionale.
La verità è un'altra: la questione nasce perchè esiste una norma come il pareggio di bilancio che è estranea alla sostanza ordinatrice delle norme della Costituzione del 1948, cioè agli interessi fondamentali che questa intendeva realizzare e tutelare: tale norma, in realtà, è il portato di un modello socio-economico diverso e incompatibile con quello del 1948.
I giuristi e la Corte dovrebbero quanto prima, se non altro per poter dire senza reticenze la verità, rendersene conto.
L'art.81 Cost attuale, di per sè stesso, è norma di sistema, cioè di ridisegno della funzione dello Stato, e come tale è destinato, per sempre (almeno finchè permarrà nella Costituzione) a influire su ogni singola norma della originaria Costituzione.
Più di ogni altra, assegna un nuovo ruolo al mercato del lavoro, e quindi alla tutela del lavoro, alla moneta ed al risparmio, e quindi a tutte quelle proiezioni di risparmio e moneta che la Costituzione voleva legate a "accesso all'abitazione" in generale alla "proprietà" per "tutti" (artt.42 2 47 Cost.), allo stesso risparmio "diffuso" (art.47 Cost.), in generale alla intrapresa nell'attività agricola (art.47) e industriale-artigianale di piccola dimensione (art.46 Cost): cioè ai fondamenti di quella democrazia del lavoro, in ogni sua forma, che era voluta dai Costituenti.
5. "Le critiche alla sentenza
70/2015 sono di carattere esterno e riguardano il rapporto con gli altri
poteri dello Stato. La motivazione è semplicistica: la Corte non può
fare cose riconducibili al potere politico. E’ una tesi che prova
troppo. Allora bisogna chiedersi (come disse il presidente Ambrosini nel
1992) che cosa ci stia a fare la Corte se non può stabilire i limiti
che incontra il parlamento nella sua discrezionalità politica, che pure è
un altro punto fermo della giurisprudenza costituzionale: il parlamento
può fare tutto ciò che non viola la Costituzione. La sentenza 70/2015
non può essere capita dall’esterno se la critica è così radicale. La
ragione è che la Corte non ha saputo spiegare in termini semplici e
chiari che non esisteva il vincolo di bilancio.
Nella sentenza 10/2015 il riferimento al principio di bilancio fu un
modo come un altro per giustificare la deroga alla retroattività della
decisione presa. La sentenza 70/2015 appare un po’ frettolosa, anche se,
a parer mio, giuridicamente corretta".
Questa parte è molto interessante: la sentenza della Robin Tax (la 10 del 1975), sarebbe il frutto di un "modo come un altro" per giustificare la deroga alla retroattività; eppure, a leggere la stessa sentenza, l'enunciato della Corte non appare essere in questi termini.
La sensazione, molto forte, quindi, è che la Corte abbia inteso porre un principio "da qui in poi": proprio quello della "fine" della retroattività delle restituzioni in presenza dei vincoli di bilancio derivanti dall'appartenenza all'eurozona.
In realtà il problema si poneva in identici termini, solo quantitativamente "minori", in relazione alla misura del 3% del deficit, consentendo alla Corte di evitare affermazioni troppo decise e affidandosi alla maggior elasticità fiscale (non molto maggiore, in concreto, data la fissità del vincolo ed il modo in cui è stato intesa dalle istituzioni europee in applicazione consolidata dell'art.126 TFUE), in precedenza lasciata dall'Europa.
Solo che, data la natura espressamente non solidaristica dei trattati (artt. 123-125 Cost.), quella maggior elasticità è "morta" insieme con il manifestarsi inevitabile degli squilibri commerciali tra paesi appartenenti alla moneta unica: la conseguenza, di cui la Corte non pare ancora essersi resa conto, è che la svalutazione del lavoro mediante deflazione salariale si è resa indispensabile come strumento unico di correzione degli squilibri commerciali, e di recupero della competitività delle esportazioni.
In questi termini, appare evidente che, da un lato, il pareggio di bilancio serve solo a "salvare l'euro", dall'altro che esso è diretto a reindirizzare lo Stato verso politiche deflattive del lavoro, tradendo tutti gli articoli più importanti inseriti nei diritti fondamentali della Costituzione. Cioè, in testa, il diritto al lavoro (artt. 1 e 4 Cost.), nonchè alla stessa retribuzione adeguata ad una vita libera e dignitosa (artt.35 e 36 Cost.), corollari inscindibilmente collegati allo stesso diritto al lavoro (che è una pretesa inderogabile, - accordata ad ogni cittadino dalla Costituzione-, a politiche di pieno impiego da parte di governo e parlamento).
6. "Sta nascendo in Italia un
orientamento che non solo critica la Corte ma rischia di produrre come
osserva Cassese, un arretramento di due secoli nella configurazione dei
rapporti della Corte con gli altri poteri. Le Corti costituzionali
esistono in quasi tutti i paesi democratici a cominciare dalla Corte
federale degli U.S.A. I limiti alla competenza delle Corti possono essere
indagati dalla comparazione degli orientamenti delle diverse Corti e la
Corte italiana non è certo ultima nell’apprestare una giurisprudenza
soddisfacente. Ma si sostiene che la Corte e tutti gli altri giudici in
specie il TAR sono un grosso impedimento alla responsabilità politica.
Si critica “il peso sempre maggiore che le decisioni delle varie branche
della giurisdizione hanno sull’attività di governo".
E non si manca di rilevare che c’è un potere giudiziario anche in America.
E
in soccorso di tale disinvolta teoria viene aggiunto il corollario “il
modo in cui è stato esercitata l’azione penale in modo persecutorio”. Il
che la dice lunga sui limiti auspicati delle diverse giurisdizioni."
Anche qui occorre intendersi: i giudici che sindacano l'attività normativa (leggi o regolamenti) sono vincolati a farlo da norme costituzionali. Per governo e parlamento incontrare la censura giurisdizionale, prevista dalla Costituzione, alle scelte normative effettuate, non è "deresponsabilizzazione", ma esattamente parte della responsabilità che è insita nella loro legittimazione democratica: cioè si tratta della necessaria continuità dello "Stato di diritto", ormai plurisecolare conquista della civiltà occidentale. Stato di diritto è quello per cui ogni atto, di ogni pubblica autorità, è regolato da norme preventivamente note e non violabili neppure nell'esercizio della pubblica funzione normativa; la sua conseguenza inscindibile è che ci debba essere "un giudice a Berlino" che ne accerti la violazione anche nei confronti dei detentori delle massime funzioni di governo (cioè quelle normative).
Direi dunque che è piuttosto vero l'opposto: sono gli automatismi, come il pareggio di bilancio, non ben compresi dai cittadini e neanche dagli organi dello Stato, a deresponsabilizzare la "politica", consentendole di richiamarsi a un principio superiore, esterno al processo democratico costituzionale e fondativo della sovranità, per imputare la responsabilità di ogni scelta fondamentale a tale sorta di "pilota automatico" (per usare le parole di Draghi) sovranazionale.
7. "Tornando alla sentenza 70/2015 essa è sostanzialmente corretta. Forse
si poteva guadagnare tempo aspettando che la Corte fosse al completo o
ricorrere a qualche manipolazione con una sentenza additiva. Ma
l’isolamento della Corte e l’aspirazione alla vanificazione della sua
giurisprudenza, in nome del primato della politica, sono tentazioni
pericolose.
Come ha osservato giustamente Gustavo Zagrebelskj
l’equilibrio di bilancio non deve diventare un automatico lasciapassare
al libero arbitrio della politica. Il legislatore deve sempre tener
presente “l’eguaglianza nella giustizia”. Il riferimento ai conti
conformi della richiesta dell’Europa non deve diventare una super norma
costituzionale. Ma non c’è dubbio che il rispetto degli accordi nella
Comunità pone problemi che se oggi non possono essere risolti non con
accorgimenti sbrigativi, va affrontato dagli stati con normative che
ancora non esistono.
Ma all’esterno è stato rivendicato “il primato
della politica”. Sembra di sentire Togliatti quando non capiva come ci
potesse essere un altro organo dello Stato che fosse al di sopra del
parlamento. Ora la Corte non è al di sopra del parlamento, ma giudica
della costituzionalità delle leggi. I rapporti tra poteri non possono
essere configurati se non come correttezza della propria competenza. E
il parlamento ha tutti gli strumenti nella legge costituzionale per
dimostrare la costituzionalità delle leggi di spesa. Semmai la Corte può
chiedere al parlamento e al governo chiarimenti sulle questioni dubbie.
Qui diventa rilevante il ruolo dell’Avvocatura di Stato che difendendo
la legge ha l’onere di illustrare come essa non violi il principio
dell’equilibrio di bilancio".
Alla luce di quanto abbiamo cercato di illustrare finora, la vanificazione delle sentenze della Corte in nome del primato della politica è in realtà una fenomenologia che non è riconoscibile nel caso concreto.
La realtà è che si vuol negare il primato della Costituzione e denominare "primato della politica" l'applicazione del pilota automatico dell'euro, senza voler dire che esso determina l'applicazione di un modello socio-economico diverso da quello costituzionale.
In tal modo, se si affermasse la prevalenza del pareggio di bilancio nei termini incondizionati sopradetti, e persino se solo la Corte si vedesse costretta a esercitare quella imprevedibile discrezionalità relativa alla fase delle restituzioni, si sarebbe al fine modificato l'art.139 Cost., ("La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale"): ma si sarebbe, per ciò solo, aperta la via alla abrogazione per incompatibilità di tutte le possibili previsioni costituzionali in nome del vincolo esterno.
Insomma, le norme che affrontano il problema del possibile rispetto degli "accordi nella Comunità" esistono già e sono necessariamente quelle della Costituzione: gli artt. 11 e 139 Cost.
Se non altro perchè la stessa adesione alla Comunità o Unione europea su di essi si fonda e sul loro rispetto va commisurata, arrivandosi altrimenti al dissolvimento, dichiarato, della stessa originaria legittimità costituzionale della scelta negoziale compiuta aderendo al trattato, che presuppone necessariamente un aderente che sia uno Stato "sovrano": e rinunciare ad esserlo, gli sottrae la stessa qualità di parte del trattato, facendo venire meno, unilateralmente, quella legittimazione indefettibile che le altre parti contraenti, invece, mantengono e fanno valere; come dimostrano le prese di posizione che paesi come la Germania, o la Francia, o il Regno Unito, costantemente assumono sull'applicazione delle norme dei trattati.
la "forma
repubblicana, considerata nel sistema della costituzione, non è solo
una soprastruttura formale, ma invece elemento coessenziale al regime (democratico ndr) che, per essere basato su una "democrazia del lavoro", non
tollera nessuna forma di privilegio nè attribuzioni di funzioni non
collegate a meriti individuali, quali sono quelle che provengono da
trasmissione ereditaria del potere...".
Lo stesso massimo costituzionalista italiano, con riguardo ai rapporti tra ordinamento (allora) comunitario e Costituzione aveva affermato - in linea con sostanziali affermazioni della Corte costituzionale nello stesso senso - , in specie sui c.d. "controlimiti" interni alla "prevalenza" del diritto europeo:
"Passando all'esame dei limiti (di questa prevalenza ndr)...è
da ritenere che essi debbano ritrovarsi in tutti i principi
fondamentali, sia organizzativi che materiali, o scritti o impliciti,
della costituzione: sicchè la sottrazione dell'esercizio di alcune
competenze costituzionalmente spettanti al parlamento, al governo, alla
giurisdizione,...deve essere tale da non indurre alterazioni del nostro
stato come stato di diritto democratico e sociale (il che renderebbe fortemente dubbia la stessa ratificabilità del trattato di Maastricht e poi di Lisbona, ndr).
Non
è possibile distinguere, fra le disposizioni costituzionali, quelle
che riguardino i diritti e i doveri dei cittadini e le altre
attinenti all'organizzazione, poichè vi è tutta una serie di diritti
rispetto a cui le norme organizzative si presentano come strumentali
alla loro tutela (rappresentatività delle assembleee legiferanti;
precostituzione del giudice, organizzazione della giurisdizione tale da
assicurare la pienezza del diritto di difesa ecc.). Pertanto il
trasferimento di competenze dagli organi interni a quelli comunitari in
tanto deve ritenersi ammissibile in quanto appaia sussistente, non già
un'identità di struttura tra gli uni e gli altri, ma il loro sostanziale
informarsi ad analoghi criteri in modo che risultino soddisfatte le
esigenze caratterizzanti il nostro tipo di stato".