domenica 30 agosto 2015

LA SINDROME CINESE: KEYNESIANI "EMPIRICI" IN CINA, ORDOLIBERISTI "PROFETICI" IN €UROPA



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 © ANSA

"Il problema è che il passaggio da un'economia basata su export e investimenti ad una alimentata dai consumi interni si sta rivelando più complicato del previsto. Anche perchè il contesto non aiuta. Sono in affanno i paesi in cui la Cina esportava ed, all'interno, sono aumentati i costi: un saldatore che qualche anno fa a Shangai costava 150 dollari al mese oggi ne costa 800
Poi c'è lo yuan che nel corso dell'anno si era rivalutato di oltre il 15% rispetto alla media delle valute con cui la Cina commercia.
In questa situazione già varie imprese stavano muovendosi per delocalizzare in Paesi dove il costo della manodopera è più basso: Myanmar, Viet-nam, Bangladesh, Pakistan.
Insomma la crisi dell'export è arrivata troppo presto, in un momento in cui non è ancora possibile rimpiazzare questa componente con la domanda interna, sia per la fase di bolla immobIliare sia per la mancata costruzione di sistemi sanitari e pensionistici, senza i quali è difficile convincere la gente a spendere".

2. Dunque, ora lo sappiamo, anzi, ce lo dicono proprio: se non prevedo, - o riduco, continuamente e sensibilmente-, i sistemi sanitario e pensionistico, non posso aspettarmi che la domanda interna, e in particolare i consumi di quanto produco (all'interno, visto che ho costruito un sistema manifatturiero tra i maggiori del mondo e piuttosto differenziato, se non "universale"), possano incrementarsi e sostenere la crescita
E chissà perchè, ciò vale per i cinesi, ma non vale in €uropa: non vale in Grecia, non vale in Italia, non vale in Germania e via dicendo.

3. Su Cina e...corruzione:
"Certamente ci sono anche nodi politici. La necessaria lotta alla corruzione ha creato tensioni anche perchè questa è molto diffusa: per molti funzionari che hanno una bassa retribuzione, le tangenti di fatto erano un modo per integrare il reddito..."
In proposito, vale la pena di rammentare un parallelismo inquietante, di quelli che i media si guardano bene dal porre in connessione:
Il parallelismo riguarda il problemino dell'immigrazione in €uropa
"Ci vorrebbe anche un coordinamento fra polizie che non c’è mai stato: finora, che importava ai serbi di chi sbarcava a Lampedusa? O agli spagnoli di chi entrava in Macedonia?». La corruzione: nel prezzo del passaggio è spesso compresa la mazzetta a doganieri bulgari o serbi che guadagnano 500 euro al mese e «più è grande il gruppo, più sale il prezzo: 500 euro per dieci persone»."

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Poichè neanche Hayek arrivava a pensare che certe funzioni potessero essere totalmente e incondizionatamente privatizzate, mettiamo la funzione pubblica (doganale-fiscale e di ordine pubblico) di controllo dei confini (quelli, i confini, che peraltro, sono "brutti" perchè perpetuano e testimoniano l'esistenza degli Stati-sovrani che tanto male provocano al governo dei mercati, no-limits), si scopre che Statobrutto= spesa pubblica improduttiva= impiegati fannulloni e parassiti=deflazione salariale, contro i "privilegi" di questi parassiti (per stimolare la crescita!), alla fine fa andare in tilt il sistema stesso di pacifica e ordinata convivenza sul territorio (dice il capo della polizia serba, ma potrebbe essere, a maggior ragione, quello di un qualsiasi paese UEM da riformare: "...Per colpire questa gente, ci serve più personale: noi abbiamo solo trenta poliziotti in tutta la Serbia, e solo cinque che conoscono l’arabo, per controllare 100 mila migranti.").
Ma non solo, questo allegro atteggiamento della "austerity espansiva", - proprio messo a contatto col mercato globalizzato che, a dispetto delle teorie ordo-iper-liberista, fa emergere e misura l'utilità-produttività di quelle funzioni pubbliche che viene radicalmente negata-, diviene generatore di corruzione.

4. Lo abbiamo già visto, nel debunking dell'emerita stupidaggine di voler misurare la "produttività" del sistema pubblico col metro di un output che gli austeroespansivi non sono capaci di determinare (ad essere benevoli, cioè a tacciarli di mera scarsa conoscenza e competenza):
"Misurare la costosità relativa dei consumi collettivi rispetto ai consumi privati è ambizione di tutti i sistemi statistici, anche se si tratta di una ambizione non facile da realizzare perché dei servizi collettivi si conoscono le spese sostenute dalle amministrazioni pubbliche, ma si hanno solo informazioni limitate sul volume fisico dei beni prodotti con quelle spese: nell’istruzione si conosce il numero degli studenti, ma non quanto è aumentato il valore del capitale umano; nella sanità si conosce il numero degli assistiti, ma non il valore della vita salvata; nella giustizia e nella sicurezza si conosce il numero dei giudicati o dei tutelati, ma poco di più.
Difficoltà di computo a parte, l’ISTAT annualmente rileva l’importo dei consumi collettivi a prezzi correnti e stima i loro valori a prezzi costanti; il rapporto tra le due serie definisce il deflatore, ovvero l’indice di prezzo dei beni di consumo collettivo, che trasforma i valori di spesa monetaria in valori di produzione. Tale indice di prezzo può essere messo a confronto, nella sua dinamica, con l’indice dei prezzi dei beni di consumo privati. Il rapporto tra le due grandezze definisce l’indice di costosità relativa."

4. Comunque la si voglia mettere, l'Istat misura l'output pubblico solo in termini di spesa (pubblica: effettuata per produrre più ampie e NON misurate utilità collettive e individuali), facendo coincidere la spesa pubblica (cioè i costi di produzione) con il "prodotto" dell'esercizio delle funzioni pubbliche; ma non può, e comunque non dice, di misurare altro che queste "informazioni limitate sul volume fisico dei beni prodotti con quelle spese". Il "valore della vita salvata", dal sistema sanitario pubblico, e "il valore del capitale umano" creato dalla pubblica istruzione, ovviamente a certi livelli di costo (e di investimento) pubblici, non entrano in questi conteggi, che tanta schiuma fanno venire alla bocca dei livorosi austero-espansivi.
Sottoposti alla più destabilizzante delle pressioni, quella della grande migrazione (cioè, l'occupazione, comunque la si metta, del territorio abitato da una precedente popolazione), il valore "esterno" delle utilità indivisibili create dall'esercizio delle funzioni pubbliche (teoricamente) essenziali, si prende la sua rivincita: tenere sani e in vita i cittadini, renderli in grado di avere un livello elevato di istruzione e, quindi, di partecipazione politica prima ancora che al lavoro, difendere le condizioni minime di pacifica coesistenza demografica sul territorio, non paiono, forse, tutte queste orrende forme di collettivismo e di spreco intollerabile che ci raccontano i liberisti di lotta e di governo...

5. Ma torniamo alle ammissioni più salienti che abbiamo visto sulle iniziali dichiarazioni virgolettate:  
a) "la mancata costruzione di sistemi sanitari e pensionistici, senza i quali è difficile convincere la gente a spendere" e  
b) "per molti funzionari che hanno una bassa retribuzione, le tangenti di fatto erano un modo per integrare il reddito".
Come si fa a considerare questi ragionamenti, che individuano le cause di una stagnazione economica che trascende in ambiente generatore di corruzione, validi per la Cina e assolutamente trascurabili per l'Europa

6. Anche perchè, a livelli salariali, più o meno ormai ci siamo: il saldatore cinese a 800 dollari al mese, mi pare "fare scopa", - incontrandosi da due direzioni opposte-, con la situazione di un operaio dell'Elecrolux ("Per salvare la produzione in Italia gli svedesi di Electrolux vogliono che gli stipendi calino da 1.400 a 800 euro al mese"), ricontrattualizzato e transitato nella deflazione salariale previo adeguato periodo di "contratto di salidarietà", per farlo abituare alla "nuova realtà competitiva".
Sempre di una equalizzazione irresistibile - sul versante €uropeo-, in funzione della competizione esportativa si tratta. Pare proprio che l'equalizzazione sia stata raggiunta: ma non è un problema per una crescita equilibratamente sorretta dalla domanda interna. Lo è solo in Cina (e lo è perché provoca la "delocalizzazione": brutti saldatori cinesi divenuti esosi e, probabilmente, fannulloni, se paragonati agli schiavi del Myanmar e del Pakistan...).

7. Insomma, sulla Cina, l'autore delle dichiarazioni può ben dirsi, come fa in altra occasione della sua recente (e significativa) campagna di esternazioni, “Brutalmente empirico e keynesiano.
Invece, su quanto accade in €uropa, in perfetta coerenza con le politiche che per decenni ha auspicato e realizzato, siamo invece all'ordoliberismo più classico. 
Lo schema è ormai noto, e della sua coerenza logico-economica, non bisogna curarsi troppo.
Bisogna essere competitivi (questo non è contestabile), c'è la Cina (e si va "in automatico"), ci vuole la solidarietà €uropea, ma nei limiti dei parametri fiscali voluti dall'€uropa; o forse non basta (cioè bisogna rivedere i trattati? magari perchè "un giorno verrà una crisi?" Ma allora c'era o non c'era sotto la "magagna"?), perchè il "patto di stabilità è stupido". Perchè non consente la solidarietà, in €uropa: cioè quella solidarietà (fiscale e interstatale!) che i trattati, ben prima che si formulassero i "patti di stabilità", vietano espressamente, coi più forti dei loro divieti: anzi, in linea con l'autodefinizione data prima, "brutalmente". 

8. Ma, invece, i trattati, (l'idea, il "sogno", è questo che conta), non sono da mettere in discussione in sè, dopo averli accettati e averne predicato la natura cooperativa e portatrice di pace: i trattati (Maastricht e Lisbona) sono belli e solidali, anche se non li si è letti o compresi bene....
Tant'è che, come soluzione "keynesiana" (o forse "empirica?"), si richiama, anzi si evoca, l'avvento di "qualche politico profetico, come i De Gasperi e gli Adenauer". Ordoliberisti appunto.

L'autore delle dichiarazioni inizialmente riportate e dell'autodefinizione empirico-keynesiana, per chi non lo avesse capito ancora, è Romano Prodi...
He's back: isn't he?


giovedì 27 agosto 2015

LE GERARCHIE CONTANO...

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Le gerarchie contano.
Ma non quelle formali, regolate dalle leggi (Hayek direbbe dalla "legislazione", regolazione statale strettamente asservita alla Legge, naturale, fenomeno biologico - per lui- che riduce l'essere umano al "mercato"): quando le leggi stabiliscono una gerarchia, infatti, devono esplicitare, in qualche modo, per quale interesse generale, o quantomeno pubblico e collettivo, siano dettate.
Un compito estremamente fastidioso, specialmente in democrazia: e non tanto e non solo perchè poi occorre fare i conti con il consenso legato a questa scelta (se non prometto meno tasse per tutti-tutti, avrò inevitabilmente privilegiato qualcuno a scapito di altri), quanto perchè dalla scelta trapelano obiettivi e valori che vuole realizzare chi la compie. 
E questo, se valori e obiettivi possono essere comparati con quelli legalmente superiori, cioè quelli scritti una volta per tutte, nelle Costituzioni, risulta evidentemente pericoloso.
Almeno finchè esista un sistema costituzionale e la sua gerarchia delle fonti (che è l'unica gerarchia garantista dei valori costituzionali e che dunque limita le gerarchie fra gli uomini, stemperandole nell'obbigo di realizzare solo gli interessi del popolo sovrano).

Le gerarchie che contano veramente, quindi, sono quelle che stanno scritte dentro i cuori (rassegnati e intimoriti) degli uomini: più precisamente, quelle che riescono a imporsi in base al timore che suscita chi le stabilisce, senza dover ricorrere a regole formali, preferibilmente. O peggio ancora, aggiustando le regole secondo la propria convenienza nel conservare la propria posizione di potere.
Questa sì è una prospettiva terrificante, per i "sottoposti", un elemento portatore di disperazione.

Insomma, sono il costume e l'ambiente culturale che favoriscono le gerarchie: quindi chi controlla costume e ambiente culturale è, in realtà, il vero vertice della gerarchia (che conta).

Una vera posizione di supremazia all'interno del rapporto gerarchico, implica connaturalmente la irresponsabilità del "superiore": una irresponsabilità non tanto funzionale, perchè il singolo superiore, come individuo, in qualche modo sa che se le cose non funzionano, la colpa verrà attribuita, in un inevatabile processo sociale, a chi impartisce l'ordine.
L'irresponsabilità di cui parliamo è "di genere": cioè, complessivamente, coloro che sono posti, come classe di individui, in posizione di comando gerarchico, sono considerati collettivamente fuori da un giudizio di merito, dal dover rendere conto. 
Questo garantisce una forma di irresponsabilità che veramente, nei fatti della vita, rende esente da rimproveri di colpa ogni singolo "superiore": i subordinati sanno infatti che se anche fosse individuato come colpevole un singolo esponente della classe dominante, un altro, esattamente con le stesse attitudini, prenderebbe il suo posto.

Quindi il timore su cui si basa la gerarchia, e che la rende effettivamente capace di ordinare, conformare, i sottoposti, è legato alla rassegnazione di chi si trova a subirla. Il senso dell'inevitabilità prevale; e da questa nasce l'indifferenza, l'idea che nulla possa mai veramente cambiare.

Come direbbe Funari-Guzzanti ("Onorevole Broda") sapete perchè vi dico tutto questo?
Perchè, dal caso Tsipras al "battiamo i pugni sul tavolo", passando per "tagliamo le tasse tagliando la spesa pubblica", tutto dimostra che la possibile alternanza di assetti di potere su cui si basa la democrazia costituzionale, è venuta meno.

A questo punto del discorso fatto su questo blog, questa parrebbe quasi, anzi "proprio", un'ovvietà.
Ma il punto è un altro: il "costume" di accettazione come inevitabile di questo stato di cose è mutabile?
Di sicuro non lo è se non si vota. 
Di sicuro non lo è se chi è in posizione, di fatto, di supremazia gerarchica, riesce a far passare l'idea che votare sia segno di instabilità, piuttosto che di irresponsabilità di chi detiene il potere. 
Ma è ancora peggio se chi dovrebbe contestare le cose, e che chiede di svolgere le elezioni, per "cambiare le cose" su cui si basa la gerarchia irresponsabile attuale, in fondo persegue gli stessi obiettivi e le stesse convinzioni: tagliare la spesa pubblica per tagliare le tasse.
Cioè un "altro" esattamente con le stesse attitudini avrebbe preso il posto del precedente "superiore".
Alla fine, questa è la rassegnazione. Questa è la vera sconfitta di un intero popolo.

martedì 25 agosto 2015

'STA CINA: I MERCATI INTERNI E IL FRANCHISING "WALL STREET"



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1. Qualcuno si affretta a dire: ma dov'è il problema?
Consideriamo che le esportazioni in Cina costituiscono rispettivamente il 3.7% e il 5.4% delle esportazioni totali dell'eurozona e della Germania.
Poi arriva qualche espertone e ci dice che le difficoltà di crescita della Cina pongono in pericolo il settore del lusso "made in Italy": un settore che pesa relativamente poco sull'export italiano, a rigore, e che, in ogni modo, è ormai quasi tutto a controllo estero


La mappa del nuovo Made in Italy

http://www.madeinitalyfor.me/wp-content/uploads/2013/06/grafico.png
"Non è un caso, insomma, se la crescita dell’export italiano sta esplorando e sempre più esplorerà le nuove geografie dello sviluppo. Quella dei Paesi Iets (Indonesia, Egitto, Turchia, Sudafrica) realtà dove la popolazione ha un’età media inferiore a 30 anni e nei quali è prevista, nei prossimi anni, una rapida crescita dei consumi interni, le previsioni di crescita dell’export italiano tra il 2014 e il 2016, viaggiano attorno a una media del 10%, così come quella dei Next-7 (Corea del Sud, Egitto, Filippine, Indonesia, Messico, Nigeria, Turchia). O ancora quella dei Rapid-Growth Market (Arabia Saudita, Argentina, Brasile, Cile, Cina, Corea del Sud, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Hong Kong, India, Indonesia, Malesia, Messico, Nigeria, Polonia, Qatar, Repubblica Ceca, Russia, Sudafrica, Thailandia, Turchia e Ucraina), Paesi ricchi di materie prime e con basso costo della manodopera. Qui la crescita delle esportazioni italiane è stimata attorno al 9,6%, con un peso sul totale che passerà dal 21,7% nel 2011 al 24% nel 2016. La stessa Africa subsahariana potrebbe essere in un futuro prossimo un’importante bacino di sviluppo per questo nuovo made in Italy, visto che già ora le importazioni dei Paesi dell’area sono trainate da progetti infrastrutturali e da investimenti nel settore petrolifero, che vedono coinvolte alcune grandi imprese italiane."


2. E poi arriva qualche altro espertone e ci dice pure che la Cina mette in crisi il Brasile (che esporta in Cina soia e altre materie prime), che mette in crisi le grandi multinazionali (tipo Siemens e Caterpillar) che producono o esportano in Brasile e, ovviamente, in tutto il resto del mondo che non...potrebbe più esportare in Cina.

Insomma, messa così, si capisce che è tutto un fatto di contrazione delle esportazioni e di modello free-trade arrembante e, come vedremo, finanziarizzato e senza ripensamenti; come avevamo già detto.
La potremmo mettere anche in questi termini: si aspettava da tanto questo momento, per compiere la revenge sulla Cina, e pareggiare i conti dell'export, dopo che per tanti anni si era subita la sua "aggressività", e invece la Cina che ti fa? Ti va in crisi.

4. Forse, l'ha fatto apposta, suggeriscono alcuni.
In un certo senso è vero: come dice Sapelli su "Il Messaggero" di oggi, la Cina intende, comunque, "passare da un modello fondato sull'esportazione (del manifatturiero mondiale accentrato presso il suo territorio), a un modello fondato su un mix di esportazioni e di creazione di mercato interno, per porre l'Impero di Mezzo al sicuro dalle fluttuazioni del commercio mondiale. Solo che la creazione di un mercato interno sta andando incontro a ripetuti fallimenti. La condizione per crearlo è staccare i contadini dalle campagne e gettarli nelle città dove non c'è spazio per l'autoconsumo e l'autoproduzione, non solo del cibo". 
Invece, si ritrovano, oggi, con "decine di città programmate e costruite che sono vuote: i contadini non abbandonano le campagne in misura sufficiente per introdurre il mercato" Dopo averci illustrato gli eccessi repressivi per realizzare manu militari questo disegno, Sapelli conclude: "la crisi è di natura strutturale ed è tipica di un ersatz (surrogato) dell'economia capitalista simile a quella del nazismo: una sorta di capitalismo monopolista di Stato a dominazione militare e non politica, come dimostrano le recenti vicende dove emerge chiaramente come l'esercito sempre più prevalga sul partito".

In tutto questo sarebbero "compassionevoli e allarmanti...le idee di coloro (FMI compreso) che si cullano nell'ipotesi che l'abbassamento di valore dello yuan abbia di mira l'entrata nel mercato sia della moneta sia dell'economia cinese tutta..."
E dunque: "la prima conseguenza della situazione cinese è la moltiplicazione delle tendenze in atto verso una deflazione mondiale tipica dell'avvento di una terribile stagnazione planetaria...
Occorre invertire il passo e capire che l'unica salvezza è fare ciò che la Cina non riesce a fare. Ossia abbandonare la via della crescita fondata sulle esportazioni e i bassi salari. Essa è fallita.  
Solo i mercati interni e la creazione del capitale umano, ossia di persone ben preparate e ben pagate che lavorano sicure tutta la vita, solo una nuova economia di piena occupazione può garantire lo sviluppo e la crescita. Altrimenti faremo tutti la fine della Cina".

5. Vi ho riportato questa analisi di Sapelli e le sue conclusioni perchè ci portano dritti a un altro interrogativo, quello vero: ma quali sono le condizioni in cui si realizza la piena occupazione e la valorizzazione del capitale umano, nella sicurezza del posto di lavoro?
Noi lo sappiamo; lo abbiamo visto tante volte. Ci piacerebbe che Sapelli sviluppasse il discorso esplicitamente.

6. E lo stesso vale per Krugman che sul NY Times di oggi, ci racconta: "Cosa sta causando la contrazione globale? Probabilmente un misto di fattori. La crescita demografica sta rallentando in tutto il mondo (...!) e nonostante tutto i clamore sulle nuove tecnologie, non pare si stia creando nè un innalzamento della produttività nè la domadna per investimenti nelle imprese. L'ideologia dellìasuterità, che ha condotto a una debolezza senza precedenti nella spesa pubblica, si è aggiunta al problema. E la bassa inflazione in tutto il mondo, che singifica bassi interessi anche quando le economie sono in espansione, ha ridotto lo spazio per tagliare i tassi quando le economie sono indebolite....I "policy makers" dovrebbero seriamente prendere in esame la possibilità che l'eccesso di risparmio (ndr: figlio delle logiche export-oriented, della finanziarizzazione e della redistribuzione verso l'alto della ricchezza, in una frase, figlie di questo mercato del lavoro - Draghi dixit- dove il salario segue la produttività reale e non quella nominale), la persistente debolezza globale è la nuova normalità"

7. E allora?
Per Krugman: "La mia sensazione è che ci sia una profonda mancanza di volontà, anche tra i più sofisticati responsabili delle politiche economiche, di accettare questa realtà". 
E Krugman ci pare eccessivamente cauto e, anzi, "eufemistico", quando aggiunge: 
"Ciò è in parte (?!) dovuto a "special interests": Wall Street non vuole sentire che un mondo instabile esiga una forte regolazione finanziaria, e politicamente chi vuole distruggere il welfare State non vuole sentire che la spesa pubblica e l'ndebitamento non siano problemi nella situazione attuale".
Krugman, dunque, fa un passo in più, rispetto alla diagnosi senza terapia di Sapelli. Come al solito, il problema è la democrazia in senso sostanziale. Quella "lavoristica" che si rivela, più che mai, il vero motore dello sviluppo sostenibile.

7. La democrazia costituzionale italiana, per dire...
Speriamo che, visto che l'€uropa è quanto di più lontano e anzi di opposto a questo modello, qualcuno se ne ricordi e lo rivendichi. Magari la Corte costituzionale, anche se è molto improbabile ormai.
Magari qualche rinascente partito di massa: ma senza finanziamento pubblico ai partiti, - cioè senza la garanzia che non siano i gruppi finanziari più forti ad indirizzare il gioco elettorale nella "finzione idraulica" -, la Wall Street di turno (è un marchio "politico" di frande suggestione e diffusione) ci può sempre trascinare sempre più nel baratro.
Con nuove riforme strutturali e privatizzazioni...

sabato 22 agosto 2015

L'ESTATE DEL 2011 NON E' MAI FINITA (IL CLIENTE HA FAME: MOLTA...)

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Spulciando tra i post e nei commenti che, in passato, sono affluiti ad alimentare il dibattito, mi sono imbattuto in questo (dell'11 gennaio 2014):
"Il sovraeccitato giornalista Porro ha colpito anche me facendomi pensare che la sua “insana eccitazione” sia l’anticipazione alla ormai prossima “instaurazione del "meraviglioso mondo di von Hayek".
Come hai ragione caro 48, quando affermi che
:
 
In questa chiave "progressiva" si possono comprendere anche gli elevati livelli di tassazione: si tratta di una condizione transitoria e, naturalmente strumentale, che sconta la modifica del precedente ordine costituzionale dei welfare, mirando a farlo collassare, per rigetto del corpo sociale, mediante la imposizione del vincolo monetario (ad effetti equipollenti "in parte qua" al gold standard) e dei ben noti "vincoli" di deficit e di ammontare del debito, posti rispetto ai bilanci pubblici.
I quali, naturalmente, in una fase iniziale, pazientemente durevole, debbono "rientrare", consolidarsi, aumentando l'imposizione fiscale, prima di poter procedere, verificatesi le condizioni politiche, al taglio strutturale della spesa pubblica. Alla fine, la gente, avvertendo come insopportabile il costo dei diritti sociali, cioè del welfare, invocherà il loro smantellamento, pur di vedersi sollevata da questa insopportabile tassazione.

Ti ringrazio per l’impegno e l’importante lavoro che stai facendo e, soprattutto, per avermi fatto notare le tracce di sangue seccato nelle pagine della Costituzione."

Il commento in questione cita la parte finale di questo post, ampliato e approfondito in "Euro e(o?) democrazia costituzionale".

La facile profezia compiuta in quelle sedi (e ormai da anni) si sta OGGI avverando con geometrica (pre)potenza:

"Spending review, Cottarelli: tagli possibili per altri 3-5 miliardi nella sanità

«10mld spending review nel 2016 cifra credibile»
L'obiettivo di dieci miliardi di euro per il prossimo anno messo in cantiere dal governo sul fronte della spending review è stato definito «credibile e raggiungibile» da Cottarelli. Quanto alle partecipate, il direttore esecutivo del Fmi non vede positivamente la scelta del governo di adottare lo strumento della delega legislativa, ribadendo che su questo fronte sarebbero possibili «interventi ulteriori per 2-3 miliardi».
Governo al lavoro sulla spending
Anche se alcune delle scelte strategiche saranno effettuate dal Governo soltanto a settembre, nel mosaico che sta costruendo il commissario alla spending Yoram Gutgeld insieme a Roberto, almeno tre tessere sono già state collocate: acquisti di beni e servizi, ministeri e sanità. Questi tre capitoli contribuiranno probabilmente con non meno di 5-6 miliardi di risparmi, un terzo dei quali dovrebbe essere garantito dal nuovo giro di vite sulle forniture della Pa al quale il Governo sta lavorando insieme a Consip.
"
E fin qui, quasi nulla di cui stupirsi.
Ordinaria amministrazione dell'emergenza permanente che smonta i diritti fondamentali in cui nessuno crede più e che nessuno ritiene che valga la pena di difendere...

Poi, questa lettera di Paolo Savona, - che vedremo se meriterà una risposta chiara e trasparente, com'è dovuta sull'argomento di massima importanza democratica ed istituzionale che solleva -, ci fa capire che probabilmente, anche con queste ultime "uscite", siamo di fronte a un mero "appetizer": i primi vagiti di un nuovo trattamento intensivo "FATE PRESTO"

 http://www.linkiesta.it/sites/default/files/uploads/blogs/u332/fatepresto.JPG

L'estate del 2011 non è mai finita, a quanto pare. Ha sorseggiato il suo aperitivo, assaporandolo lungamente, parendo, lì per lì, accontentarsi dei "salatini"; ma era solo l'inizio. 

Poi, con studiata nonchalance, ha ripreso a divorare la democrazia, per anni, sapendo che ogni anno, ogni mese, ogni giorno, rendeva più facile l'ATTACCO FINALE... 

I camerieri si stanno affrettando, ora: il cliente "ha fame", molta fame.




giovedì 20 agosto 2015

SCENARIO D'ESTATE: IL MOLOCH NEO-LIBERISTA GLOBALIZZATO ALLE CORDE (ma da solo sul ring).

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1. L'approccio analitico, che ci fa affrontare un tema alla volta, pur cercando di evidenziarne le connessioni generali e specifiche, può essere talvolta fuorviante.
Proviamo allora a cogliere fenomenologicamente, per flash(es) essenziali lo scenario.
Questo approccio ci consente di meglio cogliere sia la tendenza "unificante" sia il livello di bis-linguaggio che domina l'informazione nel "blocco occidentale" (se pure questa definizione ha ancora un senso) e, soprattutto, in modo sempre più tragicomico, in Italia.

2. La prima cosa che risalta, sul piano globale, è che, da un lato, tutti si agitano sulla crisi dei BRICS, le vecchie locomotive post crisi sub-prime, che avrebbero tenuto a galla il mondo con la loro crescita e con l'afflusso di capitali (ora, al 50% già rifluiti verso un dollaro sempre più forte); ma, dall'altro, non si rinuncia a discutere della (altrettanto tragicomica) pantomima del rialzo dei tassi da parte della Fed.
Sul primo punto: è abbastanza evidente, ormai, dopo 7 anni di mancata uscita dell'eurozona dalla recessione e dalla stagnazione, per manifesta "austerità credibile", cioè "espansiva" (dei debiti pubblici), che non è il mondo emergente, i BRICS,  caratterizzati dall'essere esportatori (inter alios) di materie prime e di manufatti da fabbriche "delocalizzate", a tirare giù l'€uropa. E' vero piuttosto il contrario.
Un'area euro che comprime la domanda interna, sollecita alta disoccupazione strutturale e mira solo a divenire, in massa, creditrice commerciale e finanziaria del resto del mondo, assume l'aumento di interscambio della meravigliosa globalizzazione come un fatto mercantilista. 
Lo abbiamo detto tante volte: l'universalizzazione del modello Germania a tutta l'UEM è il principale fattore di rischio sistemico dell'economia reale mondiale.
 Ma non tanto perchè sia realmente in grado di raggiungere la dimensione di colonizzazione dei mercati esteri che si propone; quanto perchè, condannandosi alla deindustrializzazione e alla flessione perenne degli investimenti netti, priva l'economia globale della vitalità trainante, un tempo, del suo maggior polo industriale e di ricerca. E, contemporaneamente, crea una dipendenza dai mercati esteri che diviene, a fronte di una miopia di medio-lungo periodo così clamorosa, il rischio di autogol più elevato della storia dell'economia mondiale.

3. In tal modo, infatti, l'€uropa si condanna alla marginalizzazione economico-politica di lungo periodo: ma non per l'invincibilità dell'ascesa dei BRICS, e quindi per effetto della globalizzazione: quanto per il modo in cui l'ha voluta concepire e tutt'ora sostenere. 
Dunque, per la miope avidità del suo sistema finanziario e industrial-oligopolista, persosi nell'idea che risistemare le cose a casa propria, - riassumendo il controllo assoluto delle ex-istituzioni democratiche, degradate a mere esecutrici delle istituzioni europee, a loro volta controllate dall'esclusivo interesse dei gruppi bancari dei paesi dominanti, - fosse sufficiente a garantire la "stabilità". 
Cioè l'accumulo indisturbato di profitti finanziari al riparo da pericoli di insolvenza e di sommovimento sociale del complesso dei debitori che mirano a creare (ovunque). 
Una logica di dominio globale (parassitario e predatorio): il debitore è colpevole, per definizione, e la sua colpa giustifica ogni misura tesa a dominarlo ed a disciplinarlo. Ovunque egli si annidi nel mondo (anzi, meglio ancora se all'interno della propria comunità nazionale).

4. Gli USA, con la questione del rialzo dei tassi, dimostrano, ancora una volta, di essere il motore ideologico di questa revanche autodistruttiva del liberismo.
Un'economia dominata da Wall Street, e perciò spronata a riaccumulare livelli di indebitamento in tutti i settori (finanziarizzati a debito) della sua flebile "economia reale" anche superiori - nel livello di rischio sub-prime - a quelli che hanno portato alla crisi del 2007, finge di essere intimorita dal riscaldamento dell'inflazione mentre non è minimamente capace di scorgere il problema costituito dal proprio modello sociale: il mercato del lavoro super-flessibilizzato e la mancanza assoluta di veri stabilizzatori automatici, e redistributivi, della domanda

5. In altri termini come abbiamo già detto, - e come, per motivi del tutto analoghi, verificatosi in Giappone- strutturare definitivamente una società sul mercato del lavoro-merce, che  esclude istituzionalmente i salari dalla crescita del prodotto, eliminando il welfare pubblico(pensionistico e sanitario), conduce alla deflazione permanente
E quindi acuisce il rischio della insolvenza sistemica e della stagnazione irreversibile dell'economia reale. Cioè del benessere e della dignità degli esseri umani coinvolti. 
In tale situazione, aumentare il deficit pubblico, neppure sortisce più gli effetti anticiclici che, in teoria, si verificavano in passato: comunque la spesa pubblica si indirizza alla crescente emergenza disoccupazionale, con grande dispendio di inutili misure tampone, e comunque finisce in improbabili misure supply side, che includono pure i programmi di spesa per infrastrutture e di alleggerimento del costo fiscale del lavoro, una volta che il mercato dello stesso lavoro sia strutturato sulla precarietà e sulla deflazione salariale.

8. A livello europeo, l'accordo "Grecia" (cioè il memorandum avallato dal Bundestag tedesco, come esclusivo decidente, e ratificato dall'Eurogruppo), dimostra la "vittoria di Pirro" di questo metodo che, trasposto nelle linee essenziali dagli USA all'UE, significa che la Grecia, superdebitrice (indotta ad esserlo dal liberoscambismo che ha trionfato in Europa sotto le spoglie del "fogno" €uropeista), potrà tornare tranquillamente in recessione, onerata da politiche restrittive che uccideranno la pallida ripresa (peraltro registrata in UEM come un record), che aveva visto nel secondo trimestre una crescita greca di 0,8% del PIL: ma esclusivamente perchè il periodo di riferimento è stato esattamente quello della "trattativa", durante la quale Tsipras non ha rispettato i programmi di austerità ereditati dai precedenti governi
Salvo poi accettarne uno peggiore, facendo finta di non capire che dentro l'euro non c'era scelta e, dunque, preferendo farselo dire a brutto muso dai "moderati" partners €uropei in blocco: i falchi, paradossalmente, lo avevano sconsigliato dal permanere nell'euro. E lui no, duro: l'austerità violerebbe i trattati e l'uscita dall'euro sarebbe un disonore. Oggi ha avuto l'una e l'altro, rimanendo (per il momento) nell'euro e soddisfacendo il suo "fogno" progressista e di sinistra.

9. In Italia, non accorgendosi mai di nulla di quanto di accade in casa, si evidenzia (tra lo stupore dei giornalisti nostrani che registrano tali opinioni) che le privatizzazioni selvagge dell'apposito fondo creato con il nuovo accordo di salvezza per la Grecia,  finiranno in "conflitto di interessi", dato che i tedeschi, con una società pubblica (!!!) divengono gli acquirenti di 14 aeroporti di proprietà dello Stato greco: naturalmente, a prezzi di saldo non corrispondenti a corrette stime di mercato, deprivando la filiera turistica ellenica dei proventi, per di più pubblici (cioè entrate dello Stato), di uno dei principali asset di possibile ripresa dell'economia. 
In Italia, dunque dicevamo, si accorgono - ma solo per la Grecia- che privatizzando in nome del "lo vuole l'€uropa" si finisce per mettere sul mercato, nei modi e nel momento più disastrosi, proprio gli assets pubblici più preziosi e che più giovamento portano alle casse dello Stato-proprietario, e quindi alle tasche dei cittadini contribuenti.
Si dimentica, però, che la cosa non è solo greca, ma è specialmente italiana, il paese dove, dopo gli Stati Uniti (che però sono un pochino più grandicelli) si è fatto il maggior volume assoluto di privatizzazioni AL MONDO.

10. E per rimanere all'Italia, secondo le previsioni, realizzato il mercato del lavoro flessibilissimo, riportata in auge la derogabilità aziendale dei contratti collettivi nazionali e preparandosi a prodigarsi di licenziamenti nel pubblico impiego (vedrete i decreti delegati della riforma della pubblica amministrazione), si inizia inevitabilmente a parlare di "reddito di cittadinanza" e simili strumenti; per ora a integrazione dei redditi della famiglie sotto la soglia della povertà e in possibile ausilio dei disoccupati ultracinquantacinquenni, cioè dei non più "ricollocabili" tagliati fuori per 10-12 anni dalle prestazioni pensionistiche.
La mossa è geniale: il solo parlarne (d'estate) raggiunge vari scopi politico-fiscali in "illusione finanziaria" da manuale: 
a) si dà l'idea si curarsi dell'impoverimento generale;
b) si rafforza il consenso sociale, facilmente alimentato dal battage mediatico-orwelliano;
c)  si tacitano le opposizioni - che difficilmente potrebbero rifiutarsi di votare una finanziaria che contenesse una misura, anche solo in parte, aderente alla loro principale richiesta;
d) e, specialmente, si ottiene un forte clima di favore alla copertura di questa "salvifica" spesa aggiuntiva. Cioè per l'ulteriore riforma, preferibilmente retroattiva, del sistema pensionistico in senso contributivo, e l'accelerazione della revisione delle rendite catastali. Per dirne qualcuna, tra le più ambite, che mettono d'accordo tutte le forze principali presenti in parlamento (con qualche distinguo e qualche resistenza formale di facciata).

11. Ma in tutto questo quadro semi-allucinogeno, è evidente che ESSI, e i loro margravi nazionali, hanno perso il senso della realtà: nulla dei loro congegnini e calcolucci potrà reggere alla prova dei fatti. 
Il Moloch neo-liberista-globalizzato è alle corde e vacilla.

L'unico problema è che non ha avversari, sul ring, che gli possano infliggere il colpo del KO: infatti, alla fine dei conti, come dicono a Roma, "s'è imbriagato da solo".
Speriamo solo che non faccia troppo male cadendo addosso a noi (in Italia, intendo, il posto più tragicomico del mondo).

martedì 18 agosto 2015

"MA DOVE SI VA PUNTANDO SULLA DOMANDA INTERNA"? E ALLORA, PIU' GLOBALIZZAZIONE (SELETTIVA: TTIP) E RIFORME PER TUTTI

https://gailtheactuary.files.wordpress.com/2015/02/ave-gdp-increase-per-capita-other-economies-w-logo.png 

https://gailtheactuary.files.wordpress.com/2015/02/ave-increase-per-capita-advanced-economies-w-logo.png?w=640&h=383 
http://ourfiniteworld.com/2015/02/05/charts-showing-the-long-term-gdp-energy-tie-part-2-a-new-theory-of-energy-and-the-economy/

1. Oggi si stanno lamentando della crisi dei BRICS che porrebbe in pericolo il meraviglioso mondo della crescita "tumultuosa e maravigliosa" ottenibile, a quanto pare solo con la "globalizzazione"
Almeno così leggiamo: naturalmente, riponendosi somma fiducia nel paradigma liberoscambista - (liberalizzazione dei capitali, accordi tariffari e sulle barriere non tariffarie, adozione del complementare modello "universale" di banca e, naturalmente, banche centrali indipendenti dai governi eletti, si spera, democraticamente)-, si auspica che nei BRICS si facciano più "riforme". E cioè si apra ulteriormente al commercio estero (leggi importazioni in cambio di materie prime), favorendo gli investimenti esteri (leggi mercato del lavoro totalmente liberalizzato e precarizzato e privatizzazioni delle industrie e assets pubblici degli stessi BRICS).
E tutto questo, appunto, affinchè riprenda...la crescita, nei paesi emergenti come anche, appunto, grazie alle esportazioni, nei paesi dell'eurozona e in quelli esportatori di capitali a vario titolo: gli USA, infatti, fanno un gioco a sè, pur essendo importatori di ultima istanza per tutto il mondo

2. Che, però, ora, vorrebbero legare a sè, e più esattamente al dollaro, attraverso i trattati "ultraoceanici" - TPP e TTIP+ TISA-, che servono essenzialmente a creare una dipendenza finanziaria delle intere aree coinvolte dal dollaro e dalla invasione a tappeto dei grandi istituti finanziari USA sui settori da liberalizzare, lasciando la specializzazione manifatturiera di Giappone e Germania in posizione di preminenza, mentre tutto il resto dei paesi coinvolti sarebbero grosso modo colonizzati, finanziariamente e industrialmente.
Creata questa "dipendenza", tutto ciò che sarebbe al di fuori delle macro-aree liberoscambiste e altamente riformate (con l'appiattimento dei mercati del lavoro e dei welfare sul modello USA, beninteso), sarebbe politicamente costretto a trattare da posizione di minor forza e piegabile a più miti consigli circa l'autonomia dei rispettivi sistemi di sviluppo (in particolare circa l'apertura delle rispettive economia ai grandi gruppi finanziario-industriali, veri e propri oligopoli e monopoli mondiali, rimasti in piedi nelle aree TPP e TTIP).

3. Creerebbe tutto ciò un ritorno alla crescita? 
La domanda, riferita alle prospettive future, è retorica e quasi ingenua: si creerebbe un grande sistema di debitori, indubbiamente, sia per flussi di capitali a titolo di investimento di controllo sui paesi indeboliti, dentro e fuori le aree dei nuovi trattati, sia a titolo di afflusso di finanziamento del consumo di beni importati. L'indebitamento sarebbe vieppiù inevitabile, con tutti i cicli di Minsky-Frenkel, che ciò comporta, atteso il sicuro depauperamento del livello salariale di tutte le economie del mondo, in un tale ambiente di liberoscambismo "ineguale" e con Stato inevitabilmente "minimo" (come deve rigorosamente essere fin dai tempi dei trattati imposti con le cannoniere).
Ma quello che risolve l'interrogativo è l'esame del passato della globalizzazione, cioè il concetto di ritorno alla presunta super-crescita dovuta alla globalizzazione. L'assunto è semplicemente falso, perchè questa tumultuosa crescita aggiuntiva, rispetto al passato ("ottusamente" protezionista e statalista) semplicemente non si è verificata.

4. Al riguardo, ci basterà rammentare i dati, nudi e crudi, che si offre Ha-Joon Chang, in "Bad Samaritans" (capitolo 1, "The real history of globalization", pagg.6-14).
Ebbene, già al tempo dei "misfatti" dell'Impero inglese, - che pur ammessi non portano gli storici ad ammettere altrettanto la realtà economica conseguente e induce anzi a continuare a lodare gli effetti positivi "per tutti i paesi coinvolti" della globalizzazione "imperialista" dell'800-, l'Asia, che prima dei trattati aveva paesi al vertice dei PIL mondiali (tipicamente la Cina nella prima parte del secolo) crebbe solamente dello 0,4% all'anno tra il 1870 e il 1913
L'Africa, il più vantato esempio di civilizzazione e progresso free-trade colonialista, crebbe, nello stesso periodo, dello 0,6%. 
Europa e USA crebbero invece, rispettivamente, dell'1,3 e dell1,8% in media negli stessi anni. Notare che i paesi dell'America Latina, che nello stesso periodo recuperarono autonomia tariffaria e di politica economica, crebbero allo stesso livello degli USA! (Tralasciamo gli eventi susseguenti alla crisi del '29, quando i free-traders dominanti, abbandonarono il gold-standard e aumentarono sensibilmente le tariffe alle importazioni, prima nei settori dell'agricoltura e poi in generale nell'industria manifatturiera)

5. Che accadde nel dopoguerra del 1945, quando si verificò il progressivo smantellamento del colonialismo e l'adozione degli Stati interventisti praticamente in tutto il mondo, sviluppato (e in ricostruzione) o in "via di sviluppo" (col tanto deprecato neo-protezionismo, da incentivazione pubblica all'industria nazionale e alla ricerca)?
Riassuntivamente: nei deprecati anni del protezionismo, rigettato come Satana dai vari governatori di tutte le banche centrali del mondo divenute indipendenti, in specie negli anni '60 e '70, i paesi in via di sviluppo che adottarono le "politiche "sbagliate" del protezionismo, crebbero del 3% in media all'anno: questo dato, sottolinea Chang, è il migliore che, tutt'ora, abbiano mai accumulato.
Ma gli stessi "paesi sviluppati" crebbero, negli stessi decenni, al ritmo di 3,2% medio all'anno.

6. Poi intervengono le liberalizzazioni alla circolazione dei capitali e gli accordi tariffari: i paesi sviluppati, già negli anni '80 vedono la crescita media annuale abbattersi al 2,1%. 
Anche questi facevano le riforme, e infatti gli effetti di deflazione  e rallentamento della crescita si vedono (finanziarizzazione e redistribuzione verso l'alto del reddito crescono a scapito delle invecchiate democrazie sociali). Ma le riforme più intense, sono imposte proprio ai paesi in via di sviluppo, tramite il solito FMI: è qui che si registra il calo della crescita più marcato.
I paesi emergenti, infatti, debitamente "riformati" e "aperti" nelle loro economie, vedono la crescita praticamente dimezzarsi dal 3% a circa la metà, negli anni '80-'90, cioè all'1,7 medio annuo.
Ma attenzione: la decrescita "infelice", cioè l'impoverimento neo-colonizzatore, sarebbero ancora più marcati se si escludessero Cina e India. Infatti, nota Chang, questi paesi si imposero progressivamente alla crescita, realizzando un 30% del prodotto globale dei paesi in via di sviluppo già nel 2000 (dal 12% degli anni '80): ma India e Cina rifiutarono il Washington Consensus e le "riforme" stile "golden straitjacket" tanto propugnate dal noto Thomas Friedman (che abbiamo già incontrato in questo specifico post).

7. La "growth failure" del nuovo delirio free-trade, che tanto oggi si teme possa entrare in crisi per la crescente ri-chiusura delle economie, dovuta alle assurde politiche svolte, naturalmente, a livello "nazionale" (povera Germania che si aspettava di esportare in Cina! Sicut dicunt, appunto con certezza aristotelica), si sentì proprio in Africa e in America Latina, dove le riforme FMI furono imposte molto più intensamente che in Asia: dal dimezzamento della crescita degli anni interlocutori delle riforme che abbiamo visto, si passa negli anni 2000 (a riforme essenzialmente attuate) allo 0,6 annuo in America Latina, mentre in Africa abbiamo un autentico crollo che coincide con il massiccio arrivo dei "consiglieri" economici FMI e World Bank.
Commento di Chang: "la scarsa crescita registrata sotto la globalizzazione neo-liberale a partire dagli anni '80, è particolarmente imbarazzante. Accelerare la "crescita" - se necessario a costo di aumentare l'ineguaglianza e possibilmente la stessa povertà - era lo scopo proclamato delle riforme neo-liberiste. Avevano ripetuto più volte che si deve anzitutto "creare più ricchezza" prima di poterla distribuire più ampiamente e che il neo-liberismo fosse la via per realizzare ciò. Come esito delle politiche neo-liberiste, la disuguaglianza di reddito è aumentata nella maggior parte dei paesi del mondo come previsto, ma pure la crescita ha effettivamente rallentato significativamente".

8. Naturalmente, tutto questo schema si applica perfettamente all'eurozona. Come?  
E quindi, andiamo avanti felici, perchè come dice un espertone oggi in un dotto editoriale "ma dove si va puntando sulla domanda interna?"


sabato 15 agosto 2015

LA RICRESCITA FENICE ALLA PROVA DELL'€UROPA ORDOLIBERISTA INCATTIVITA


1. La notizia ormai la sapete: il 2° trimestre del 2015 riserva all'Italia-€urofizzata una "crescita" dello 0,2% (provvisoriamente, e sottolineo provvisoriamente) e ci ha accreditato di uno 0,5 di crescita globale sul giugno 2014.
Notate che, a proposito di provvisorietà, la crescita del 1° trimestre è stata in realtà corretta dallo 0,3 allo 0,2, cosa che porta la crescita nei primi sei mesi del 2015 allo 0,4
Tutto bene, dunque, per realizzare lo 0,8 (o lo 0,7 del DEF) su cui, alla fine, -dopo roboanti previsioni di crescita sopra l'1% più volte annunziate da Confindustria- farebbe conto il governo per "agganciare" la crescita stimolata, a quanto pare, dal QE e dall'andamento ribassista del corso dell'euro rispetto al dollaro?

2. Neanche per sogno: per un'analisi dei drive della crescita rinviamo al buon Maurizio Gustinicchi che evidenzia:

CRESCITA 1 

Osservate bene, contributo positivo della componente nazionale al lordo delle scorte, con apporto negativo della componente estera netta!
Ora, noi sappiamo che la FCA (Marchionne) sta producendo a pieno regime, e questo è bene per l’Italia poiché siamo trascinati tutti quanti dalla FCA, ma sappiamo anche che, mediamente, le aziende italiane lavorano sul mercato interno nella misura del 65% e che mancando questo mercato gli imprenditori smettono di investire.
Ad un certo punto Renzi ha dato risposte a Confindustria (art. 18) pretendendo risposte da questi signori e le risposte non sono tardate ad arrivare, le scorte azzerate dal 2011 (cioè dall’arrivo di Monti in poi) hanno cominciato a ricrescere. Eppure Squinzi ieri era molto preoccupato...

Se si investe in scorte, riempiendo i magazzini, arriva il momento in cui se nessuno compra che gli imprenditori rallentano la propria spinta propulsiva (FCA a parte che piazza tutti i Renegade in USA).
CRESCITA 4
E questo è normale, in Italia non c’è più mercato per nessun bene (pensate che neanche i negozi dei cinesi vendono più); paradossalmente, la valuta forte (€) e il rallentamento del commercio mondiale, stanno mettendo in crisi anche la componente estera netta. A chi vendiamo? Ed infatti, mentre USA e UK, dove sono molto più Keynesiani che da noi nonostante Cameron sia di destra e i Repubblicani in USA siano maggioranza in parlamento contro Obama, la crescita è notevole:
CRESCITA 3
Mentre da noi, da quando Monti ha pesantemente introdotto l’austerità espansiva, la stagnazione economica la fa da padrone e ciò si trasforma poi, al massimo, in una curva del PIL piatta:
CRESCITA 2
Se non si ha un mercato a cui vendere, come pensiate sia possibile per gli Squinzi di turno investire costantemente in scorte di magazzino o investire?"

2. Il sito Bankitalia preannuncia il Bollettino relativo ai dati aggiornati della bilancia dei pagamenti al giugno 2015 (SCADENZA DEL 2° TRIMESTRE) per il 19 agosto. Intanto, prendiamo a riferimento il dato disponibile nel mese di luglio, riferito al mese di maggio del 2015.
Ebbene, il saldo del conto corrente è risultato pari a 36,120 miliardi, contro un saldo a maggio 2014 di 21,587.
Supponiamo un miglioramento del saldo di giugno 2015 in linea con quello maggio 2014-giugno 2015, cioè una differenza positiva (tutta da riscontrare nella realtà) di circa (quasi) 15 miliardi: vorrebbe dire che i conti commerciali con l'estero avrebbero apportato un +0,9 punti di PIL.
Invece, il dato che abbiamo di fronte, nel periodo maggio 2014-maggio 2015 (e che ipotizziamo grosso modo omogeneo un mese dopo, a giugno 2015), è di una crescita di +0,5.
Ergo, al netto dell'andamento dei conti con l'estero - appunto favoriti da corso dell'euro, immaginifico QE e prezzo del dollaro (e in generale delle materie prime), la politica economico-fiscale del governo ha complessivamente determinato una variazione negativa del PIL pari a -0,4 punti di PIL (cioè la domanda interna ha "mangiato" in tale misura la crescita della domanda estera).
Tradotto in termini di saldi settoriali, ciò significa che, nel periodo considerato (a cavallo di due diversi esercizi fiscali annuali), l'intervento pubblico, che poi altro non è che la politica €uroimposta, ha prodotto una riduzione del PIL per quasi 28 miliardi (1,75 punti di PIL): se infatti si sottrae al saldo delle partite correnti di maggio (sull'intero anno precedente), pari al già visto dato di 36,120 miliardi, la somma di 28 miliardi, ne risulta una crescita residua, tutta realizzata in esportazioni, di circa 0,5 punti.

In realtà, questa ipotesi potrebbe essere corrispondente al vero, come ci illustra l'analisi di Maurizio sopra riportata: investimenti e consumi interni sono al palo, anzi, proseguono in misura negativa e l'unico traino è la domanda estera.
Ancora una volta, la crescita del prodotto è essenzialmente dovuta alla crescita delle scorte, cioè all'accumulo di magazzino in vista di una futura ed eventuale vendita. 
Se questa però si realizza solo (o essenzialmente) all'estero, per condizioni valutarie e di commodities eccezionalmente favorevoli, e non durevoli in modo prolungato e consistente - come ci mostra la svalutazione a sua volta già intrapresa dalla Cina-, vorrà dire che gli investimenti lordi sono appena "di sopravvivenza dell'esistente" e che gli investimenti netti, cioè i nuovi impianti per nuovi posti di lavoro, una mera chimera fuori da ogni realtà ragionevole.

L uomo confuso di affari cerca una soluzione al labirinto

3. Il punto, che ci fornisce sufficienti certezze al riguardo, è che l'austerità proseguirà: nel precedente post, lo diciamo subito, ci eravamo sbagliati perchè troppo ottimisti.
In realtà, il target di deficit che la Commissione spulcerà a ottobre, in relazione alla legge di stabilità, non sarà sopra il 2%, con possibilità di accomodamenti per "riforme strutturali" ovvero per la presunta cumulabilità della clausola degli investimenti, prevista dall'art.126 del TFUE e rimasta praticamente disapplicata, con buona pace delle speranze di Padoan e dei giornaloni che ce la stanno rivendendo.
Il target del deficit "dovrebbe" essere di 1,4 (!), proprio 1,4: ciò è il frutto del "recupero" imposto dal primo anno di gestione dell'attuale governo, che avrebbe dovuto tagliare di circa 0,6 punti il deficit di 2,6 realizzato dal governo Letta a fine 2013 (portandolo così intorno al 2%) e che, invece, risultò (appunto alla fine del 2014, complici gli 80 euro elargiti alla vigilia delle elezioni europee), in un tondo 3%. 
La conseguenza, a considerare attentamente le regole del fiscal compact sugli obiettivi intermedi di pareggio strutturale di bilancio, è che non solo ci si trova a recuperare quel punto di PIL di sforamento, ma, ad esso, è da aggiungere la quota di un ulteriore 0,6 di taglio relativo al 2016: risultato, il deficit €uro-imposto dovrebbe a rigore essere del predetto 1,4 (il calcolo viene lo stesso se il doppio 0,6, cioè 1,2, venga sottratto al deficit previsto per il 2015, pari a 2,65 - ma grazie alla concessa flessibilità).
Ci siamo?
Ora, all'1,8 si arriverebbe proprio grazie alla fatidica riforma strutturale della preannunziata contrattazione aziendale (che completa il jobs act, ragione della tolleranza lasciata per il 2015) nonchè della maggior licenziabilità di dirigenti e dipendenti pubblici, contenuta nella legge-delega detta di "riforma della pubblica amministrazione" (approvata pochi giorni fa e da completare coi relativi decreti delegati).

Pertanto, il consolidamento imposto per il 2016 sarà piuttosto consistente...a meno che non sia mitigato per arrivare ad un target "solo" del 2% di deficit grazie alla suddetta "fantomatica" clausola degli investimenti. 
Un inasprimento di tasse e tagli alla spesa pubblica di tale misura, porterà una diminuzione del PIL, nonostante la "illusione finanziaria" di qualche sgravio fiscale rigorosamente finanziato con altre tassi o con tagli dei servizi (quelli sanitari in testa), di circa 1,8 punti di PIL.
Forse più, se si faranno prendere la mano da privatizzazioni, cioè da privazioni delle entrate pubbliche da "utili" realizzate dalle imprese pubbliche privatizzate (v. ad es; Poste Italiane), e dalla revisione delle rendite catastali in base a prezzi di mercato del tutto superati ed irrealistici.

Questo ci dà fin da ora la certezza che la crescita del PIL nel 2016 non sarà, come viene venduto fin da ora, di 1 punto e qualche decimale ("dicono" 1,4!). 
Anche ammettendo la tenuta dei conti con l'estero (in assenza ormai molto prolungata di investimenti netti e persino di quelli "veri" lordi che non siano riversati nelle scorte), sui ritmi attuali, cioè ipotizzando il mantenimento della svalutazione dell'euro e dei bassi prezzi del petrolio, la crescita più ottimisticamente realizzabile nel 2016 sarebbe di pochi decimali: diciamo uno 0,4%. E stiamo già facendo calcoli che sono costretti a scontare uno scenario discretamente ottimistico.

4. Ma non è finita: cosa succederà ancora nel 2015?
Allo 0,4 fin qui accumulato (provvisorio, perchè abbiamo già visto che il dato del primo trimestre è stato poi rivisto al ribasso da 0,3 a 0,2, e, pur essendo un decimale, costituisce un terzo della crescita relativa), seguirà un secondo semstre con una crescita simmetrica, raggiungendo, più o meno, lo 0,7 annuale programmatico del DEF?

Beh questo dipenderà da alcune ipotetiche condizioni:
a) che il consuntivo dei conti alla fine dell'anno, diciamo all'aggiornamento del DEF di settembre, sia in linea col dato €uro-imposto di 2,65 di deficit pubblico: se così non sarà e, come pare probabile, il dato sarà superiore, bisognerà mettere mano ad una tipica manovrina correttiva di aumenti delle accise, bolli e aliquote speciali, che prepara la vera e propria manovra per il 2016 nella seconda parte dell'anno, nelle italiche usanze di epoca €uropea;
b) che, poi, la manovra di tagli e tasse per il 2015 stesso non abbia un effetto posticipato più incidente nel secondo trimestre, nel senso che potrebbe risultare che le misure già adottate debbano ancora dispiegare i loro principali effetti, programmati per la parte dell'anno successiva a quella..in cui si è votato.  
Avevamo infatti stimato, tra mille difficoltà di individuazione delle misure di consolidamento e specialmente di "spending review" intrecciate negli ultimi anni, che l'impatto depressivo del PIL per il 2015, di origine fiscale, fosse di circa 1,9/2 punti di PIL (dovremmo già includerci l'effetto pro-rata dell'inasprimento sul fronte sanitario circa la rimborsabilità di 180 prestazioni diagnostiche e specialistiche);
c) che, infine, la domanda estera tenga nonostante tutto. Un punto non affatto scontato e che potremo vedere verificato nelle prossime settimane e che, oltretutto, ci fornirà la misura della verosimiglianza della crescita (minima) prevista per il 2016.

- l'ordoliberismo che, - per ammissione non ufficiosa degli stessi massimi organi di governance UEM, oltre che per espressa previsione delle norme fondamentali dei trattati-, è (nelle intenzioni irremovibili di tale governance) destinato a solidificarsi nell'area UEM, è una costruzione ormai altamente instabile.


- Essa, nella rigidità delle intenzioni programmatiche confermate dopo le recenti elezioni (contro ogni evidenza dei suoi risultati), implica un modello deflattivo salariale accelerato che passa per il mantenimento di un'alto tasso di disoccupazione, con una meramente formale lotta contro la deflazione - irrealisticamente curata dalle nuove misure di Draghi, volte in realtà alla difficilissima costrizione della Germania alla reflazione-, e il perseguimento prioritario delle riforme liberalizzatrici "finali" del lavoro (sostanzialmente totale liberalizzazione del licenziamento in ogni settore, voluta dagli USA anche come precondizione essenziale del futuro Ttip, cioè dell'area di liberoscambio USA-UE);


- poichè tale complesso di misure, - sempre ambiguamente rilevabili tra le righe, dovendo l'ordoliberismo per sua natura esprimersi in modo tattico e dissimulato dai media-, ha come effetto l'acuirsi nel tempo dei problemi di caduta della domanda interna nell'area UEM, e (semmai) lo stabilizzarsi di un surplus commerciale complessivo dell'area stessa, le stesse misure sono destinate ad un fallimento estremamente doloroso per i popoli europei


- Fallimento doloroso in particolare per il nostro, che essendo fortemente patrimonializzato (almeno nelle valutazioni dello "ieri") e (l'unico) super-fedele nella realizzazione dei vincoli fiscali, va sicuramente incontro a fasi di recessione alternata a stagnazione, per un lungo e insostenibile periodo, cui sarà inevitabilmente accompagnata la svendita dei suoi, sempre più svalorizzati, asset patrimoniali pubblici e privati, resi convenienti per i paesi creditori e gli investitori finanziari esteri, secondo la logica del "tacchino da spennare" (inutile sottolineare l'enfasi che, anche oggi, personaggi come Fortis o Prodi, pongono sugli IDE come presunto sistema di rilancio della nostra economia e persino dell'occupazione!);


- dovendo considerare la compatta ortodossia delle forze politiche italiane a questo modello, prima di dichiarare fallimento, c'è il rischio concreto che passino degli anni e che l'Italia sia perciò, in tale breve periodo, ridotta a "fabbrica cacciavite" e a hub turistico a controllo estero (naturalmente), subendo una deindustrializzazione irreversibile che non le consentirà più di riprendersi il suo posto tra le maggiori potenze industriali europee e mondiali.


- Nondimeno, il costo del fallimento ineluttabile del modello deflazionistico-mercantilistico imposto dall'UEM, quand'anche scontassimo le pressioni USA sulla correzione reflattiva del surplus della Germania (comunque contraddittorie rispetto alla ripresa della domanda interna, essendo affidate alla sola politica monetaria ed irremovibile sul problema del costo del lavoro), rispondendo a calcoli e terapie già rivelatesi sbagliate su entrambe le sponde dell'Atlantico, condurrà la Germania a prendere atto dell'eccessivo rischio di intervento, ancorchè indiretto, a sostegno finanziario degli altri maggiori paesi, in particolare della Francia


- Quest'ultima, a sua volta, essendo già soggetta a forti tensioni politiche interne, non potrà ancora a lungo gradire un sistema che comunque non le consentirebbe di correggere a sufficienza la propria competitività extra-UEM (dato il corso dell'euro rispetto al dollaro, non mitigabile realisticamente con le politiche intraprese dalla BCE), per finire sotto l'influenza finanziaria dominante della Germania, secondo un'inesorabile proiezione, quale ci ha evidenziato Brigitte Granville.


- Risultato: l'Italia ha la altissima probabilità di finire nella situazione sintetizzata da Churchill alla vigilia della seconda guerra mondiale ("potevate scegliere tra la guerra e il disonore: avete scelto il disonore e avrete la guerra"). Cioè sarà ridotta a manifatturiero "cacciavite", espropriata del controllo dei principali gruppi industriali, costretta a livelli di reddito irrecuperabili rispetto al periodo ante-entrata nella moneta unica, e DOVRA' COMUNQUE FRONTEGGIARE L'EURO-BREAK, innescato dalla Germania o dalla stessa Francia!
Appunto, la Francia (per dire...).