Con questa quarta puntata giunge a compimento l'excursus di Arturo e Bazaar sulla connessione (sarebbe meglio dire "strategia di neutralizzazione") che intercorre tra federalismo e democrazia sostanziale, nel senso, come risulterà evidente, di "effettiva" e non di mera forma cosmetica di oligarchia, a suffragio universale ma "idraulico".
Mi limito a richiamare le precedenti introduzioni al tema linkando, per una più utile lettura completa, i post contenenti le precedenti puntate:
DEMOCRAZIA. FEDERALISMO. INDIPENDENTISMO. E ORDINE INTERNAZIONALE DEI MERCATI - 1
DEMOCRAZIA. FEDERALISMO. INDIPENDENTISMO- 2. INTERESSI INDIPENDENTISTI: DEMOCRATICI O IMPERIALISTI?
DEMOCRAZIA. FEDERALISMO. INDIPENDENTISMO- 3. IL FALO' (federalista) DELLA DEMOCRAZIA COSTITUZIONALE.
PREMESSA- In quest’ultima puntata, si vorrebbe
provare a collocare il federalismo fra quell’armamentario di “modi”, come
diceva Pareto (cfr. l’intestazione del primo post della serie), volti a
scongiurare il peso politico delle classi popolari a vantaggio di un’élite
“oggettivamente” migliore.
L’intento è quello di sostenere che si
tratta di una variante tattica rispetto a precedenti forme di autoritarismo
antidemocratico. I lettori valuteranno la persuasività dell’argomentazione.
1 – Popolo, nazione e Stato
1.1. Per iniziare, proviamo a focalizzare
l’obiettivo sulla storia italiana, con l’aiuto del solito Albertini (op. cit.,
pag. 183-4):
“Secondo le previsioni dei moderati
[con l’unificazione italiana] l’unità europea era destinata addirittura a rafforzarsi. Essi avevano
infatti fiducia nella definitiva affermazione del liberismo internazionale, già
valutato dal Conciliatore come
il mezzo per la «santa fratellanza dei
popoli». Tale fiducia li induceva a pensare che nel futuro gli impedimenti
che ostacolavano i rapporti fra gli europei, a qualunque Stato appartenessero,
sarebbero diminuiti e non aumentati. In sostanza i moderati si attendevano
dalla futura Europa delle nazioni la continuazione di certi aspetti della vita
del passato e di quella del presente.
Dato il loro atteggiamento mentale la cosa non può stupire.
Sul piano metafisico e religioso Gioberti cercò di accordare gli ideali
e gli interessi della Chiesa cattolica — eminentemente supernazionali — con
quelli nazionali senza prendere in considerazione, e forse celando
intenzionalmente, il loro contrasto, che in seguito, venuto alla luce, divise i
fedeli della Chiesa e quelli della nazione. Sul piano più specificamente
politico i moderati concepirono l’unità nazionale come un mezzo per
rinvigorire l ’Italia e unirla più attivamente all’Europa, da cui si era
piuttosto estraniata nei secoli della decadenza. Essi misero infatti l’accento
sul «diritto europeo» e sul liberismo
internazionale, cioè su concezioni che subordinavano le nazioni, sia nel
campo politico che in quello economico, ad un ordine unitario supernazionale.
In conclusione, anche nella corrente moderata i valori supernazionali
ebbero gran parte nella formazione del programma nazionale.”
1.2. Non deve quindi
stupire, in prospettiva storica, che il primo socialismo italiano considerasse
la nazione una trappola (ivi, pag. 208):
“La teoria socialista, che definiva la nazione come un trucco ideologico
della borghesia per dividere e battere il proletariato, coincideva nel fatto
con il modo di sentire nazionale delle masse lavoratrici (e poteva inoltre non
sembrare campata in aria, stante il fatto che la borghesia, nazionale nella concezione dello Stato, era
internazionale nella sfera degli affari.”
E una trappola in
effetti si rivelò, ma non per il proletariato (ivi, pag. 184):
“Naturalmente si potrebbe rilevare l’utopismo dei moderati, che fu
perlomeno pari a quello dei mazziniani. Nonostante il loro «realismo», essi non
tenevano conto del fatto che le nazioni
avrebbero sconvolto la situazione di potere sulla quale reggevano l’equilibrio
europeo ed il liberismo internazionale. Una critica indiretta del loro
europeismo la si trova nel pensiero di Cattaneo, e nella sua affermazione: «Avremo pace vera, quando avremo gli Stati
Uniti d’Europa», affermazione che divenne sempre più esatta a grado a
grado che il nazionalismo favorì in tutta Europa la diffusione della formula
politica dello Stato unitario ed accentrato.”
(En passant, si osservi come riviva qui sotto spoglie federaliste il mito liberale
della “cospirazione collettivista” –
di cui l’orrenda nazione costituirebbe la giustificazione ideologica – come la
chiamava Polanyi e di cui si è accennato qui. L’abilità retorica consiste nel prendere a bersaglio lo stato
interventista chiamandolo “unitario ed accentrato”).
1.3. Come arginare dunque l’avanzata delle classi popolari?
1.3. Come arginare dunque l’avanzata delle classi popolari?
Si è
parlato del federalismo, ma per comprenderne il significato credo sia
indispensabile allargare un po’ il quadro.
(Presteremo un’attenzione particolare
all’Italia ma il fenomeno è di portata europea).
Le classi dirigenti, e gli intellettuali ad esse legati, a questo
proposito hanno dato prova di un ricco
armamentario.
Sul piano della dottrina giuridica, come s’è accennato nella
scorsa puntata, la mossa consistette nel privare
di qualsiasi concretezza sociale i
concetti di “popolo” e “nazione”, riassorbendoli in
quello di Stato: la sovranità venne attribuita “direttamente allo stato-persona, cioè alla macchina (presentata come
anonima e obiettivamente necessaria) monopolizzatrice della forza. In ogni
caso, comunque, il concreto legame
intercorrente tra questo soggetto artificiale e il popolo “vero” è tenuto nascosto. Il suo rapporto
con i “sudditi” in carne ed ossa (con quel popolo che costituisce “l’elemento
personale dello stato”, come dicevano i vecchi manuali) è un legame vago, un
postulato che resta sullo sfondo, privo di rilevanza costituzionale concreta.
Il popolo appare in tutte queste teorie come una unità indifferenziata e
neutra. Le tensioni politiche che lo dividono […] non entrano nel concetto di costituzione, ma pongono solo problemi
“discendenti” di ordine pubblico (di
polizia e di carceri, ed eventualmente di stato d’assedio e di cannoni). Le teorie della sovranità (soprattutto, per
quel che ci interessa, della nazione o dello stato) operano dunque prima di
tutto una sostituzione e poi un
occultamento del “popolo” come realtà politica concreta”. (M.
Dogliani, Introduzione al diritto costituzionale, Bologna, Il Mulino, 1994, p.
237).
1.4. Questa sostituzione/rimozione costituiva il tacito presupposto su
cui poggiava la (oggi perduta) razionalità
dello Stato borghese di diritto (che per la cronaca è un’espressione di
Carl Schmitt, non di Marx) verso cui tanta nostalgia manifestava il povero
Hayek e che, in quanto poggiante su una realtà politico-sociale, non
aveva certo bisogno della garanzia offerta da una costituzione rigida (che,
anzi, le sarebbe stata d’impaccio). Per dirla con Zagrebelsky (che quando scrive di storia costituzionale si ricorda
di essere mortatiano :-)):
“il monopolio politico-legislativo di una
classe sociale relativamente omogenea determinava di per sé le condizioni
dell’unità della legislazione. La sua coerenza era assicurata fondamentalmente
dalla coerenza della forza politica che la esprimeva, senza bisogno di strumenti
costituzionali ad hoc. Essa era un presupposto
che la scienza giuridica poteva considerare come un carattere logico dell’ordinamento, compattamente costruito sulla
base di alcuni principi e valori essenziali e non contestati all’interno della
classe politica, i principi e i valori dello stato nazional-liberale. […]
La legge per eccellenza era
allora il codice, il cui modello
storico, per tutto l’Ottocento, sarà rappresentato dal Codice civile
napoleonico. Nei codici si trovavano riunite ed esaltate tutte le
caratteristiche della legge. Riassumiamole: la volontà positiva del legislatore
capace di imporsi indifferenziatamente su tutto il territorio dello Stato e
operante per la realizzazione di un progetto giuridico di ragione (la ragione
della borghesia liberale, assunta come punto di partenza); il carattere
deduttivo dello svolgimento delle norme, ex principiis derivationes; la
generalità e l’astrattezza, la sistematicità e la completezza. […]
Non che i regimi liberali non
conoscessero altro diritto che questo. Soprattutto nei confronti degli strati sociali esclusi, le costituzioni
flessibili consentivano interventi
d’eccezione (stato d’assedio, bandi militari, leggi eccezionali, ecc.) per
contenere la contestazione politica e così salvaguardare il fondamento di
omogeneità sostanziale del regime costituzionale liberale. Tali interventi,
consistenti in misure ad hoc, irriducibili ai principi, temporanee e concrete –
in contrasto quindi con i caratteri essenziali della legge, secondo i canoni
giuridici liberali – si consideravano fuori
dall’ordinamento, come atti episodici incapaci di contraddirne la
fondamentale omogeneità di ispirazione”. (Il diritto mite, Torino,
Einaudi, 1992, pp. 36-38).
1.5. Insomma, quella che Polanyi chiamava la “sostanza della società”, impossibilità
a trovare uno sbocco politico per uscire dalla gabbia del mercato, veniva in
primo luogo semplicemente repressa con
la forza.
Se tonnellate di attenzione sono state dedicate all’autoritarismo
collettivista, assai minore attenzione ha ricevuto, soprattutto in tempi
recenti, l’autoritarismo “individualista”, cioè la repressione e la
carcerazione di massa, che non a caso costituiscono una cifra caratteristica dell’odierna società americana. Come ha detto Richard Posner, «“major function of
criminal law in a capitalist society” is to prevent “market-bypassing"».
Questo ovviamente non risolveva il problema rispetto a forme
organizzative ampiamente partecipate nell’ambito di quello che non era un
regime totalitario. Il punctum dolens diventava quindi l’accesso al parlamento, la cui
attività avrebbe potuto costituire un’inaccettabile interferenza nelle grandi
categorie ordinanti:
“Oggi tutto ciò
che stabilisce il Parlamento, o il suo equivalente, ha finito per chiamarsi
legge.”, come diceva con raccapriccio il povero von Hayek al
Mercurio.
Einaudi, nell’ambito della
polemica con Croce (Tema per gli storici dell’economia: dell’anacoretismo
economico, già in Rivista di storia economica, a. II, n. 2 (giugno 1937), ora
in B. Croce, L. Einaudi, Liberismo e liberalismo, Milano, RCS, 2011, pag. 121)
si esprime in termini altrettanto deprecatori, proponendo un fantasioso
parallelismo tra democrazia parlamentare e stalinismo:
“A far più vicino l’ideale di una società nella quale il massimo numero
di uomini si senta o sia libero, ogni uomo entro i limiti stabiliti da vari
gradi di perfezione della mente e della coscienza sua, non oserei dire, come
pare affermare Benedetto Croce, che sia strumento di per sé efficace l’istituto
parlamentare. Questo è davvero mero strumento privo di vita autonoma. In una
società comunista “coercitiva”, il parlamento è l’espressione della burocrazia
dominante organizzata, del piccolo segretario di Stalin, che ha saputo porsi al
centro dei dominanti burocrati, ognuno dei quali è potente in virtù della forza
che riceve dalla carica, non di quella che egli dà ad essa; ed ognuno perciò
trema di sé e fa tremare altrui. In una società
capitalistica “chiusa” [no, non è stato Popper a inventare la
contrapposizione chiuso/aperto, tanto gradita a Blair e Renzi], il parlamento è la borsa nella quale gli avvocati dei grandi capi
dell’industria, della finanza, del commercio, della navigazione,
dell’agricoltura contrattano i privilegi
rispettivi [mentre la banca centrale indipendente sì che è al riparo
delle pressioni delle lobby :-)]. In ambo
i tipi di assemblee le contrattazioni avvengono al suono di parole che Mosca
chiamò formule politiche e Pareto disse miti o derivazioni, e tutte conducono alla schiavitù dei molti. [The Road
to Serfdom, per dirla in parole povere].”
1.6. Il moltiplicarsi di questi “privilegi”, che era banalmente
il frutto della “conversione" dello Stato "da struttura semplicissima a struttura
complessa per il peso progressivo di forze sociali prima conculcate o,
comunque, ignorate" (P. Grossi, Scienza giuridica italiana, Milano,
Giuffrè, 2000, pag. 149), veniva interpretato dalla cultura
giuridica, e non solo giuridica, liberale come decadenza, crisi dello Stato e della sua “autorità”.
Scriveva ad esempio
Orlando nel 1910: "Individui e
collettività premono, spingono, urgono"; individui follemente ribelli
"collettività che pur di conseguire un proprio interesse, non esitano a
ferire a morte quelle che sono condizioni essenziali per la salute e la vita
dello Stato". (Sul concetto di Stato, in Pietro Costa, Lo Stato
immaginario. Milano, Giuffrè, 1986, pag. 183).
Mi auguro
non sfugga l’analogia con la crisi di “autorità” che avrebbe colpito lo Stato a
causa dell’eccesso di domanda e partecipazione democratica (The Democratic
Challenge to Authority, si intitola appunto un paragrafo del lavoro di Huntington)
diagnosticata dalla Trilaterale nel
celebre rapporto Crisis of Democracy.
Il logico rimedio a
questa minaccia è un “alleggerimento”
della domanda democratica. Come? Riporto qui una citazione di Basso
(Il principe senza scettro, Milano, Feltrinelli, 1998 [1958], pag. 284) che fa
da perfetto pendant a quella di Pareto presente all’inizio del primo
post della serie (si parla dell’Italia, ma il discorso, in generale, vale per
tutti i paesi democratici):
“Si può dire che ogni generazione abbia dovuto lottare per
riconquistare, non diciamo un ordinamento democratico, ma le premesse di uno
Stato liberale. La reazione umbertina nell’ultimo decennio del secolo scorso,
il fascismo all’indomani della prima guerra mondiale e l’involuzione
anticostituzionale che abbiamo illustrato nel corso delle precedenti pagine,
rappresentano tre momenti di uno stesso processo storico: la resistenza delle
classi dominanti all’avanzata delle classi popolari, la volontà di respingerle
ai margini della vita sociale (miseria, disoccupazione, analfabetismo,
arretratezza di intere regioni ecc.) e della vita politica (diniego delle
fondamentali libertà), ricorrendo di volta in volta agli strumenti e alle tecniche consigliate dal momento storico.”
1.7. Un catalogo esaustivo di queste tecniche sarebbe
impossibile. Mi limiterò a qualche esempio, che mi pare particolarmente
rilevante e utile per il nostro discorso:
a) la polemica antiparlamentare;
b) restrizioni
e manipolazioni dei suffragio;
c) attacchi legislativi e ideologici alle
organizzazioni popolari, cioè sindacati e partiti;
d) manipolazione mediatica del consenso.
Anche per una selezione così
limitata c’è solo l’imbarazzo della scelta delle fonti: sceglierò fior da
fiore.
a) Polemica antiparlamentare:
“Prima di Mosca, altri teorici,
quali Rocco De Zerbi, Giorgio Arcoleo, Camillo De Meis, si distinguono in
affondi contro parlamenti e parlamentari, e dunque, contro il parlamentarismo,
magari riprendendo le prime invettive del simpatico reazionario Petruccelli
della Gattina che, con “I moribondi di
Palazzo Carignano”, all’indomani dell’Unità, quando ancora la capitale
del Regno d’Italia era la stessa del Ducato di Savoia, aveva fornito se non un
modello, certo un eccellente impulso ad ogni futura polemica contro il poltronismo e la fannullaggine dei
«rappresentanti del popolo».
Non si parla di «casta», all’epoca, ma il livore contro i privilegiati, i «fannulloni», i «chiacchieroni», diventa merce corrente, nel discorso pubblico; e
nasce anche una produzione letteraria in cui si condensano «umori deprecatori»
del Parlamento. Nihil sub sole novi,
si sarebbe tentati di aggiungere, sfogliando i giornali di oggi.”
(A. D’Orsi, L’Italia delle idee, Milano-Torino, Pearson Italia, 2011, pag.
22). Nihil davvero.
La tirannia della maggioranza per Alexis de Tocqueville. Civiltà tra i "pericoli della Democrazia" e dell’accentramento politico
La tirannia della maggioranza per Alexis de Tocqueville. Civiltà tra i "pericoli della Democrazia" e dell’accentramento politico
b) Suffragio ristretto:
“Il
liberale francese [de Tocqueville] è così lontano dall’idea di suffragio universale e di partecipazione
democratica delle larghe masse alla vita politica che, in polemica trasparente
contro l’agitazione dei banchetti, dichiara: «Non bisogna corteggiare il popolo
e non bisogna conferirgli, con prodigalità e temerarietà, più diritti politici
di quelli che è capace di esercitare».
In compenso, nei confronti dei «bisogni
del povero», gli organi legislativi, eletti su base censitaria, devono mostrare
una sollecitudine «filantropica»
tale che leghi il popolo alle istituzioni e «lo consoli del fatto di non fare la legge [chiamiamolo reddito
di sudditanza?], facendogli
incessantemente vedere che il legislatore pensa a lui» (Tocqueville, 1951
, vol. 3 , II, p. 727).
Sia chiaro: continua a essere
considerato intollerabile, come sappiamo, ogni intervento legislativo nella
sfera dell’economia e della proprietà privata. Non a caso si parla di
«filantropia» ovvero di carità, sia pure di «carità pubblica» o di «carità
cristiana applicata alla politica» (ibid. e. Tocqueville, 1864-67, vol. 9, pp. 337 e 551): se Robespierre
sussume diritto di suffragio e diritto alla vita sotto la categoria generale di
diritti dell’uomo, per il filosofo liberale il primo è una questione di
opportunità politica e il secondo è semplicemente impensabile, dato che le
«miserie umane» sono opera della «Provvidenza» e non già delle «leggi», per cui
è assurdo pensare «che si potrebbe
sopprimere la povertà cambiando l ’ordinamento sociale» [qualcuno
pensava che Tina fosse figlia di Margareth Thatcher?] (Tocqueville, 1951, vol. 12, p.
84).” (D. Losurdo, Democrazia o bonapartismo, Torino,
Bollati Boringhieri, 1993, pag. 17).
c) Quanto all’atteggiamento verso le organizzazioni popolari,
valga quanto accaduto in Italia in occasione dell’ondata di scioperi di inizio
anni ’70 (dell’Ottocento. Dopo la crisi finanziaria del ’66, il governo era
impegnato al raggiungimento del pareggio di bilancio conseguito nel ’75, in un
contesto in cui lo sciopero era un reato. Tale rimase fino al 1889, per tornare
ad esserlo con la L.
563/1926, poi trasfusa nel Codice Rocco):
“Il
25 giugno 1873 il guardasigilli dirama […] ai procuratori generali (il primo e
unico caso) una circolare di cui conviene riferire il contenuto per comprendere
in quale atmosfera di vera e propria
persecuzione legale si svolgessero le azioni rivendicative e associative dei
lavoratori: “nell’indagare le cagioni degli scioperi, che frequentemente
accadono nelle diverse città del regno, si è notato che spesso hanno origine o sono
fomentati da associazioni, le quali non pure con lettere circolari consigliano
ed eccitano gli scioperi, ma compilano statuti con cui costituiscono casse di
resistenza per dare sussidi a coloro che si porranno in isciopero, ovvero, dopo
avvenuto, aprono sottoscrizioni e fanno deliberazioni a pro degli scioperanti”.
Richiamate numerose norme di legge, la circolare stabilisce: “epperò sono, a
norma dei citati articoli, soggetti ad azione penale gli statuti, le circolari,
ed altri similanti scritti e stampati, che contengono provocazioni od
eccitamento a commettere o continuare il resto di sciopero, quanto dannoso al
commercio, altrettanto pericoloso all’ordine pubblico”; così sono punibili “le
sottoscrizioni, le deliberazioni e le somministrazioni di sussidi”; contro i
colpevoli si deve procedere “ne’ termini di legge, con sollecitudine e vigore”.
(R. Zangheri, Storia del socialismo italiano, vol. I, Torino, Einaudi, 1993, p.
332)
d) Quanto alla manipolazione mediatica, di cui s’è
molto parlato in questo blog, vorrei qui proporre un piccolo tuffo nel
passato parlando di un personaggio tanto citato quanto frainteso: Gustave Le Bon. Letto e
apprezzato da Hitler e Mussolini, di solito presentato come il malefico teorico
del plebiscitarismo totalitario, la
manualistica omette spesso (direi praticamente sempre) di ricordare che il
nostro era… liberista, guarda un po’
tu.
Leggere per credere:
"Come
la tradizione liberale, ai cui rappresentanti (Tocqueville, Macaulay, Spencer)
fa spesso riferimento, Le Bon mette in connessione l’estensione del suffragio e
il diffondersi delle idee socialiste che, violando le “leggi economiche”, pretendono di “regolare le condizioni dell’impiego e del salario”, diffondendo la
“fiducia superstiziosa nello Stato
provvidenziale” e l’attesa della soluzione di una presunta questione
sociale mercé l’intervento legislativo nei rapporti di proprietà. Tutto ciò ha
già avuto e può ancora avere effetti rovinosi: “le fantasie di sovranità popolare ci costeranno di sicura ancora
più care (Le Bon, 1980, pp. 34, 125 e 224)"
E poi: "Nella denuncia
di questa «pericolosa chimera» che ha preso piede a partire dalla rivoluzione
francese e di cui «invano filosofi e storici hanno tentato di dimostrare
l'assurdità» (Le Bon, 1980, pp. 117 sg.), lo psicologo delle folle è d'accordo
con Tocqueville (cfr. supra, cap. i, § 2), da lui più volte citato. Solo che
ben diversamente si configura il rimedio
suggerito, il quale ora è da ricercare non nel sistema elettorale di
secondo grado o in qualche altro accorgimento per limitare o contenere il suffragio universale diretto.
Quest'ultimo
dev'essere, al contrario, portato a compimento perché il capo, senza essere ostacolato da barriere e diaframmi,
possa agire sulle masse ricorrendo
a strumenti di persuasione che vengono così descritti:
L'affermazione pura e semplice, svincolata da ogni ragionamento e da ogni prova, costituisce un mezzo sicuro per far penetrare un'idea nello spirito delle folle.
L'affermazione pura e semplice, svincolata da ogni ragionamento e da ogni prova, costituisce un mezzo sicuro per far penetrare un'idea nello spirito delle folle.
Quanto più l'affermazione è concisa, sprovvista
di prove e di dimostrazioni, tanto maggiore è la sua autorità. I testi sacri e
i codici d'ogni tempo hanno sempre proceduto per affermazioni. Gli uomini di
Stato chiamati a difendere una causa politica qualsiasi, gli industriali che
difendono i prodotti con la pubblicità conoscono il valore dell’affermazione.
Tuttavia quest’ultima acquista una reale influenza soltanto se viene ripetuta di continuo, il più possibile e
sempre negli stessi termini.
Napoleone
diceva che esiste una sola figura retorica seria, la ripetizione. Ciò
che si afferma finisce, grazie alla ripetizione, col penetrare nelle menti al
punto da essere accettato come verità dimostrata”.
Per un
verso, il sociologo e psicologo delle folle si richiama a Cesare o Napoleone,
ai loro «pennacchi» e ai sogni di gloria imperiale cui aveva fatto riferimento
anche Bagehot; per un altro verso, Le Bon pensa ormai sul modello della
pubblicità commerciale la propaganda considerata adatta al regime cesaristico o
bonapartistico da lui prospettato:
Così
si spiega la forza straordinaria della pubblicità.
Quando abbiamo letto cento volte che il miglior cioccolato è il cioccolato X...
ci immaginiamo di averlo sentito dire spesso e finiamo con l'averne la certezza
(...). A furia di veder ripetuto su uno stesso giornale che A... è un vero
mascalzone e B... un onest'uomo, finiamo con l'esserne convinti, a patto,
naturalmente, di non leggere spesso un altro giornale di opinione contraria, in
cui tali definizioni sono capovolte (Le Bon, 1980, p. 160).”
(Losurdo, op. ult. cit., pagg. 81 e
83-84).
1.8. Sarà chiaro a questo punto che cosa intendevano le classi
dirigenti, e intellettuali al seguito, fossero essi liberali, nazionalisti e
poi anche fascisti, quando durante l’età giolittiana e poi, con ancora più forza,
nel primo dopoguerra parlavano dell’esigenza di restaurare l’autorità dello Stato.
O cosa intendeva l’Idea Nazionale nel 1915 quando, caldeggiando
l’entrata in guerra dell’Italia, scriveva «L'urto
è mortale: o il parlamento abbatterà la Nazione... o la Nazione rovescerà il
parlamento... se il parlamento italiano è putrido, l'Italia nuova lo spazzerà
dal suo cammino». (F. Gaeta, Il nazionalismo italiano, Roma-Bari, Laterza,
1981, pag. 178).
Cosa c’entra tutto ciò col federalismo? Nazionalismo e
restaurazione dell’autorità dello Stato sembrano formule opposte a quella
federale. Eppure…
2. Einaudi, tra
nazionalismo e internazionalismo
2.1. …eppure che
si tratti di due tattiche diverse della medesima strategia antidemocratica lo
dimostra in modo inconfutabile una figura pubblica che le ha usate, e
contemporaneamente, entrambe: Luigi
Einaudi.
Sì,
perché, forse non lo sapete, ma questo maestro di pacifismo e federalismo
internazionalista fu interventista. Eh, già: “Lo scoppio della Grande guerra spinge […] Einaudi a schierarsi senza
riserve a favore dell’ingresso dell’Italia nel conflitto, sposando le tesi dell’interventismo illuminato [!] di
stampo liberal-conservatore, che
aveva allora la massima espressione nella linea editoriale del Corriere della Sera
di Luigi Albertini.”
Ohibò!
Sentite come
continua (l’autore è ricercatore di storia a La Sapienza e il sito
proprio malevolo non lo direi):
“In
qualità di autorevole opinion maker del quotidiano milanese e di altre testate
favorevoli all’intervento, Einaudi si impegnò su due direttrici: una rigorosa e
puntuale analisi degli aspetti economico-finanziari del conflitto, diretta a
influenzare e ad orientare le grandi opzioni di politica economica dei governi
di guerra; e interventi di propaganda bellica con articoli e saggi (in
particolare quelli confluiti nelle raccolte di scritti Gli ideali di un
economista e le Lettere di Junius) a carattere prevalentemente etico-morale.
Giova osservare, a tale riguardo, che tra l’Einaudi
scienziato-economista e l’intellettuale engagée [sic] al
servizio della propaganda di stato non vi era contraddizione né soluzione di
continuità.
Egli poneva infatti in tutti i suoi scritti grande enfasi sulle “virtù non economiche” della guerra,
vale a dire sulla importanza dei benefici
morali e spirituali che essa sarebbe riuscita a portare se condotta a
termine vittoriosamente. Riteneva infatti che solo la consapevolezza di tali
benefici potesse rendere sopportabili gli immensi sacrifici economici imposti
da un conflitto che aveva rivelato, nell’accezione di Ernst Jünger, una
inedita, terrificante logica di “guerra totale”.
Sia le Prediche che altri scritti einaudiani del tempo di
guerra dovettero pertanto insistere
sulla necessità che il popolo italiano prendesse parte al conflitto
sacrificando ogni interesse privato al bene della nazione; perché solo
in questo modo sarebbe riuscito a difendere e a promuovere per sé un più
elevato ideale di convivenza civile.”
2.2. Certo
che il privilegio di infallibilità di
cui godono le élite è un gran vantaggio: invochino la soppressione della
democrazia in nome della pace e contro il nazionalismo oppure la soppressione
di centinaia di migliaia di giovani italiani (in grandissima maggioranza
poveri) in nome della nazione e dei benefici morali e spirituali della guerra,
han sempre ragione loro. Sono per il meglio, oggettivamente, e infallibili guide morali di un popolo bue
sì, ma un po’ recalcitrante davanti ai sempre indispensabili sacrifici. Meno
male che ci sono loro a guidarci!
Trattenendo
un moto di repulsione, andiamo avanti.
Del federalismo di Einaudi si è già
parlato lungamente: non è necessario tornarci sopra. Vale invece la pena
segnalare come tale orientamento non solo non gli abbia impedito di essere
interventista, ma nemmeno, nel dopoguerra, di vedere, insieme a Croce e “numerosi
altri illustri leader politici e intellettuali liberali”, “con
favore l’emergere del fascismo e in seguito la sua ascesa al potere” e
appoggiare “con convinzione il governo
Mussolini da essi considerato - si badi
- non soltanto in grado di adempiere al
compito della «restaurazione dell’
autorità dello Stato» ma anche di svolgere il ruolo di una forza
autenticamente liberale riportando il paese alla «normalità costituzionale».” (Massimo
Salvadori, Liberalismo italiano, Roma, Donzelli, 2011, pag. XVI).
2.2. Parlando più specificamente degli economisti liberisti, non è certo che Einaudi fosse una mosca
bianca, naturalmente:
“La rassegna degli
economici filofascisti nel periodo 1921-1924 comprende quasi tutto l’arcipelago
marginalista, e comunque i suoi
esponenti più significativi: Pareto, Barone, Ricci[1],
Einaudi, Prato, Del Vecchio, Amoroso, Sensini e altri ancora. Se l’Ottobre
italiano fu una rivoluzione (tesi che Pantaleoni negava recisamente in polemica
con alcuni fascisti, sostenendo essere il fascismo restaurazione
capitalistica), e se questa rivoluzione ebbe una coloritura culturale, esse
furono entrambe all’insegna della scienza economica accademica, e di quella
marginalista in particolare”. (Marco E.L. Guidi e Luca
Michelini (a cura di), Marginalismo e socialismo nell’Italia liberale,
1870-1925, Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, vol. n. 35, Milano,
Feltrinelli Editore, Milano, 2001, pag. LXXXVIII).
Ecco come si
esprimeva il nostro: “Quanto allo Stato, esso aveva il dovere assoluto di
resistere alle imposizioni. All’inizio del 1920, in relazione alle
rivendicazioni dei ferrovieri, egli affermava solennemente: «Noi crediamo
che sia giunto il momento di ricordarsi che esiste uno Stato in Italia e che la sua esistenza è necessaria», uno Stato che deve anche saper
dire no”. (Salvadori, op. cit, pag. 97).
E in
novembre:
“Dietro ad un governo, dietro ad un
parlamento decisi a restaurare la
finanza e l’autorità dello stato insieme si schiererà la parte più sana e
cosciente dell’opinione pubblica ed essa avrà ragione di ogni torbida manovra
rivoluzionaria.”
Questo nello stesso anno in
cui venivano pubblicate in una raccolta le lettere a firma Junius in cui, due
anni prima sul solito “illuminato” Corrierone, aveva cantato il de profundis
del “dogma della sovranità statale.” Naturalmente in nome della pace,
all’indomani di una guerra spaventosa da lui appoggiata.
2.3. Se per Albertini s’è parlato
di stranezze, qui siamo alla scissione della personalità.
A meno ovviamente di non cercare la coerenza a un livello di lettura più
profondo. Si vedrà così che anche in
questo caso il problema non sono Stato e nazione in sé: la posta in gioco è la
democrazia.
Salvadori (op. cit., pagg. 120 e ss.) lo chiarisce in modo
efficace, lasciando la parola allo stesso Einaudi. È quindi sufficiente
procedere ad ampie citazioni:
“Non si nega»
- osserva Einaudi esprimendo una posizione che in passato respingeva - che la volontà della maggioranza «debba
da ultimo prevalere», ma occorre che essa venga temperata e difesa dalla «sua propria intemperante frettolosità»,
dalle passioni che spingono alla sopraffazione degli avversari, che essa non
tocchi «i principi fondamentali della vita
politica e sociale».
Questi principi possono essere salvaguardati a condizione che non
si scateni la lotta tra parti estreme, prevalga lo spirito di compromesso e si
persegua il «superamento degli opposti in una unità superiore», se «la
maggioranza degli uomini», la quale «non pensa con la propria testa» e «aderisce al pensiero e
alla volontà altrui», si dispone ad essere persuasa e guidata dai «pochi
uomini» che «posseggono un proprio sistema di idee, una ferma
convinzione intorno ai problemi fondamentali della convivenza sociale».
Tirando le somme, per Einaudi la
democrazia diventa accettabile se diventa liberale respingendo
la tentazione della tirannide della maggioranza ed essa può diventare liberale
quando la sanior pars [sic!], ottenuto il riconoscimento del proprio primato politico e sociale, sappia a sua volta agire come anima e guida della major pars.
Egli
non accetta che si parli di un «nuovo liberalismo» in relazione
all’innesto prodotto dal principio elettorale democratico.
Tra il vecchio e il nuovo liberalismo - dichiara - «non esiste alcuna differenza sostanziale».
Il liberalismo «è uno e si perpetua nel tempo», anche se «ogni
generazione deve risolvere problemi suoi, che sono diversi da quelli di ieri e
saranno superati e rinnovati dai problemi di domani».
Resta sempre e dovunque il
fatto che al popolo non spetta altra funzione se non quella di scegliere i suoi
capi.”
[…]
“Tra
il 1946 e il 1947 Einaudi manifestò il suo pensiero sulla questione della
sovranità popolare con toni che possiamo considerare conclusivi della sua
parabola in tema di rapporti tra democrazia e liberalismo.
Disse che «l’argomentazione
tratta dal principio della sovranità o
volontà popolare» lo lasciava «indifferente»; che siffatto
principio, di matrice rousseauiana, «non appartiene alla categoria delle
verità scientifiche», che l’esperienza di tutti i tempi e paesi dimostra che
il governo sta necessariamente nelle mani dei pochi che guidano i più; che il principio della sovranità popolare
appartiene «all’ordine
dei miti, delle formule politiche»; che d’altra parte esso è bensì «utilissimo mito, del quale
nessun ceto politico governante in un Paese libero può fare a meno»: ma utile nella misura in cui esso si
innesti sui principi del liberalismo”
[…]
“Il «dogma»
della sovranità popolare era dunque da accettarsi in forza del suo radicamento
in quanto «formula» che «nei tempi moderni è più universalmente
compresa»: semplice formula perciò, «“strumento” di governo [Il sistema idraulico sanitario]
utile al raggiungimento di quel bene comune [in una democrazia costituzionale si parla di interessi generali]
il quale solo sta dinnanzi ai
nostri occhi», che si è infine imposta essendo cadute formule obsolete
come «il principio del diritto divino dei re, della grazia di Dio,
perché non fanno più presa sulla mente e sulla immaginazione degli uomini».
[…] Nel messaggio pronunciato dopo la sua elezione a presidente della
Repubblica, Einaudi rivolse parole rassicuranti a proposito del fatto che
appariva superato il pericolo, ispirato a pessimismo, che il suffragio
universale potesse essere incompatibile, come era parso a molti (e a lui
stesso) «con la libertà» e - aggiunse con un
lapsus concettuale - «con la democrazia».
Ma ciò non
cambiava la sostanza della sua convinzione, che ebbe modo di ribadire anche in
seguito secondo cui la sovranità popolare era e restava un mito, certo un mito
ormai necessario, insostituibile, ma che non poteva e non doveva sostituire il
dato che il buongoverno è il governo di un’élite distillata,
per così dire, dai frutti migliori della
vigna coltivata e protetta da un ceto minoritario di uomini prudenti e sapienti,
disposti al conseguimento del bene comune e capaci sia di interpretare le
esigenze di tutte le forze vive che operano fattivamente nel seno del corpo
sociale sia di guidarle.”
Mi pare
tanto eloquente da rendere superfluo ogni commento.
2.4. Vale però la pena, tanto per tirare le somme e dimostrare che
statualismo autoritario e federalismo sono due varianti tattiche della medesima
strategia, attirare l’attenzione su una parola chiave che percorre entrambe le
vicende: stabilità.
Della stabilizzazione della lira nel primo dopoguerra, si sa; è
forse meno nota la vicenda americana (T.
Bouton, Taming Democracy, N.Y., Oxford University Press, 2007, pag. 173):
«Durante gli anni '80 del '700, gli europei facoltosi dissero
che non avrebbero più investito in America, perché erano convinti che i loro
soldi non sarebbero stati al sicuro in un paese dove le questioni economiche e
giuridiche rimanevano troppo sensibili alla volontà popolare.
Un
consorzio di banchieri francesi e svizzeri lo chiarirono nel 1788, elencando le
ragioni per tenersi fuori da un mercato altrimenti promettente.
I banchieri dissero di essere preoccupati per “lo stato caotico
del debito interno” e per il fatto che la riscossione delle imposte “non era in
corso”. Si lamentavano del “dissenso”, delle “difficoltà”, e delle “agitazioni”
della resistenza popolare. Avevano
repulsione delle proteste volte ad “ostacolare l'amministrazione della
giustizia”, come quelle dei funzionari della contea e degli agricoltori che
avevano bloccato le vendite all'asta degli sceriffi.
Inoltre
deploravano le leggi che sconvolgono “il normale funzionamento del mercato” stampando
carta moneta e dando sollievo ai debitori.
[…]
In breve, questi finanzieri dicevano che l'abilità della grande
borghesia di costruire un governo d'America ed un sistema legale più simili a
quelli europei avrebbe “deciso per la fiducia
dell'Europa negli Stati Uniti.”»
Dai federalisti, al “quarto partito”, per
arrivare al Portogallo: la solfa è sempre la stessa. Saranno le
“circostanze storiche”, come diceva Basso, a decidere le tattiche da usare
Emerge così una questione tattica fondamentale che, in ragione della flessibilità degli strumenti, da adattare alle circostanze storiche ma sempre preservando l'obiettivo irrinunciabile del "buongoverno" affidato alle immancabili elites, è alla base della stessa fenomenologia vincente del neo-liberismo, costretto a prendere atto del suffragio universale e del "mito" della sovranità popolare da rendere cosmetico. E cioè:
evidentemente, presidiata dalla Costituzione la via nazionale, quella
internazionale si imponeva.
3 – Federalismo come liberismo
3.1. A conforto di questa lettura ecco spuntare sull’ultimo numero del
Federalista, la rivista del Movimento Federalista Europeo (MFE), un importante articolo sul federalismo di
von Hayek scritto da Francesco Violi.
Si tratta di una discussione tanto più interessante in quanto
totalmente interna al campo liberale:
meglio la via nazionale o quella internazionale? Ecco dunque la risposta
dell’autore:
“Molti intellettuali liberisti amano spesso
citare autori liberali del passato per dare una base più solida alle loro tesi.
Tra i più citati figura sicuramente Friedrich Von Hayek, che viene usato
soprattutto quando si tratta di rafforzare la critica, o meglio il rifiuto,
dell’idea di Europa federale.
Generalmente questo rifiuto si accompagna
all’accusa rivolta alla pubblica amministrazione europea di essere burocratica
e pletorica, ma spesso finisce per dipingere scenari dispotici, in cui un
governo tirannico di stampo sovietico mette a repentaglio la libertà, la
democrazia e i diritti civili dei cittadini europei.
Nel condurre questa
speculazione intellettuale, questi pensatori equiparano questi principi alla
difesa della sovranità nazionale, coerentemente con l’idea che questi principi
siano difendibili esclusivamente a livello nazionale e coerentemente con un’interpretazione malintesa del
principio hayekiano di “individualismo metodologico” nelle relazioni
internazionali, che, essenzialmente, nell’interpretazione che ne viene fatta,
diventa “nazionalismo metodologico”.
Insomma,
l’autore sostiene che un eventuale liberismo antieuropeista e nazionale non può
che essere frutto di un errore di prospettiva, tanto più per chi si richiama ad
Hayek.
3.2. Un punto di
vista che sembra in effetti trovare conferma nel caso di una celebre
ammiratrice dell’economista/filosofo austriaco: la Lady di Ferro.
Infatti
secondo Glyn Morgan (Harvard University):
“[La Thatcher] era una fervente ammiratrice degli
scritti economici di Hayek, ma [...] temeva che i suoi sforzi per
distruggere la socialdemocrazia in Gran Bretagna sarebbero stati compromessi a
causa di un eventuale progetto europeo volto alla ricostituzione di una
socialdemocrazia a livello sovranazionale.”
D’altra
parte lei l’impaccio di una costituzione democratica degna di questo nome non
ce l’aveva.
Torniamo a Violi: “Conseguentemente,
si può ritenere che se Hayek fosse ancora vivo, non apprezzerebbe la BCE e il suo ruolo, ma con
molta probabilità apprezzerebbe molto di meno tutte le proposte di tornare
alle vecchie monete nazionali e tutto quanto è legato all’idea di «sovranità monetaria».”
E chi
l’avrebbe detto! Ma c’è di meglio:
“Al di là
dell’apprezzamento o meno delle sue proposte, la rilettura del federalismo
nell’opera di Von Hayek è interessante non solo dal punto di vista
intellettuale, ma per ricordare le
fondazioni liberali delle teorie federaliste, tipiche anche della scuola
britannica del periodo interbellico: la
limitazione del ruolo del governo e l’emergere degli individui come unità
indipendenti. Bisogna inoltre tenere sempre a mente che l’obiettivo ultimo
di Von Hayek era la rimozione di tutte quelle tensioni economiche che, nel
periodo in cui scriveva le prime due opere qui citate, erano state causa delle
due guerre mondiali.”
3.3. Federalismo
europeo = liberal-liberismo d’antan. Certificato sulla rivista del MFE. Che va
ringraziata per la chiarezza.
“Se osserviamo
come è evoluto il diritto internazionale dopo la Seconda guerra mondiale
fino ai giorni d’oggi, sia a livello mondiale sia a livello europeo, possiamo
notare che le istituzioni internazionali
giocano effettivamente un ruolo simile a quello auspicato da Hayek.
Il
dominio riservato degli Stati della comunità internazionale è stato
progressivamente ridotto e diverse convenzioni e nuove consuetudini del diritto
internazionale hanno teso, e tendono, a far emergere l’individuo come soggetto
di diritto internazionale.
Allo stesso modo, a livello europeo la Comunità prima e l’Unione
oggi tendono spesso ha giocare un ruolo
più “negativo” che “positivo”. Tendono cioè a limitare interventi
distorsivi degli Stati membri nell’economia, ma non hanno una vera e propria
capacità economica ed industriale.
Per quanto si possa discutere sulla
desiderabilità o non desiderabilità della cosa, è un dato di fatto che, volontariamente o non volontariamente, è stata percorsa
una “via austriaca”
all’integrazione europea che comunque continuerà
a coesistere ancora per molti anni con nuovi approcci di tipo positivo.”
Approcci positivi che però la stessa fondatezza dello schema hayekiano
rende molto poco probabili. Si tratta di valutazioni realistiche, con cui si
può concordare.
Credo sia dunque piuttosto evidente a
questo che se, come sosteneva
Pareto, “i modi per evadere le
ideologie democratiche della sovranità democratica sono infiniti”, il federalismo
interstatale è chiaramente uno di questi.
3 – Conclusioni
Che dire in conclusione? Innanzitutto è difficile non domandarsi
quanto sarà profondo il baratro in cui ci avranno trascinato questa volta le
nostre illuminate élite. A cui va riconosciuta la notevole capacità di produrre disastri di cui poi accuseranno
i popoli, così da crearsi la giustificazione per poterne fare di nuovi.
È questo circolo vizioso che bisogna riuscire a rompere.
Si può farlo
rendendosi conto che, se “infinite”, e per questo anche disorientanti, sono le
tecniche di attacco, sempre uno è il bersaglio: la democrazia sostanziale.
Ossia se le conquiste sociali “sono state possibili grazie ad una
crescente partecipazione al potere delle masse popolari, a sua volta una
maggiore ed efficace partecipazione potrà essere resa possibile solo da un
ulteriore sviluppo del contenuto sociale della democrazia. […] Il contenuto sociale e il contenuto
politico della democrazia sono per così dire interdipendenti: lo sviluppo dell’uno
è al tempo stesso condizione e condizionato, premessa e conseguenza per lo
sviluppo dell’altro, in un ritmo dialettico che costituisce appunto il motore
di un moderno sistema democratico.” (Basso, op. cit., pagg. 82-3).
Non è quindi
nemmeno così difficile alla fine capire quale sia il terreno da presidiare:
quello della sovranità popolare
costituzionale, là dove essa ha avuto la capacità di esprimersi. Ossia la nazione, non in un qualche fantasmatico
senso astratto, ma nel senso sociale e politico concretissimo di popolo sovrano.
Un grazie ad Arturo e Baazar per il prezioso lavoro svolto. Sicuramente il sottoscritto avrà bisogno di leggerlo più volte per interiorizzarlo.
RispondiEliminaComunque per sintetizzare al minimo diciamo che al liberismo sono prioritarie alcune cose:
1)Che la politica monetaria/economica essendo un bene prezioso sia sempre tenuta al riparo ( da una casta sacerdotale auto-nominatasi) dal processo elettorale.
2) che il popolo sia tenuto rigorosamente lontano dalle cariche elettive, almeno quelle che contano.
Per ottenere ciò l'importante è controllare il sistema legislativo, tramite nomina, il sistema accademico, ed il sistema mediatico.
Loro sono pochi ma uniti nel raggiungimento dei loro obiettivi, dei quali hanno grande consapevolezza, noi siamo una larghissima maggioranza, che non sa più riconoscere quali sono i propri interessi, divisi su tutto, affetti da Dunnik-Kruger.
Il "trattato" che hanno scritto i "due" merita infatti di essere meditato.
EliminaHai fatto bene a ringraziarli: vedremo presto quali applicazioni concrete, assolutamente importanti, se ne possono trarre :-)
Grazie a te Mauro.
EliminaPensa la sorte: un importante studioso italiano di federalismo ha donato alcuni rari volumi sul tema ad una biblioteca di paese.
...quella di Arturo.
:-)
Ahahahahah! Il diavolo fa le pentole ma...
EliminaE potremmo aggiungere "Dio c'è": ma si presterebbe ad equivoci.
Scusate mi sono dimenticato una cosa: Le Elites hanno grande stima di se stessi e disprezzo per il popolo, viceversa la maggioranza del popolo ha disprezzo per se stesso e profonda, illimitata, infinita stima per le Elites.
RispondiEliminaLECTIO MAGISTRALIS
RispondiEliminaLeggendo gli Autori della 1° puntata – Arturo e Baazar, in rigido ordine alfabetico – sorgeva spontanea l’aspettativa delle successive.
Due Grandi Cavalieri della Democrazia partecipata che hanno donato la condividisione – senza soldo – del Sapere della Verità Storica.
Quelle “verità” mistificate, manipolate per cambiare le percezioni, i comportamenti dei componenti di comunità sociali finalizzandole – con metodi di abuso e coercizione psicologica e fisica – alla prevaricazione degli interessi generali a soddisfazione di quelli individuali.
Nelle trincee di questa truce guerra – il cui quadro (“frame” per gli anglofoni , con il gusto della scienza, della cultura, della demenza “appartenente”) appare di limpidezza “strana” – s’ha da riaffermare “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”.
Ps. GRAZIE GRANDE ad Arturo e Baazar .. THIS SHUT MUST GO OUT
:-)
Un grazie ad Arturo e Bazaar per qualità e mole di lavoro.
RispondiEliminaCerto che starvi dietro è un compito assai arduo, nel mentre che si interiorizza un problema se ne presentano altri tre almeno...
Ringrazio anch’io Arturo e Bazaar per l'ottimo lavoro, che ci fa appunto incontrare perle come questa: «Il dominio riservato degli Stati della comunità internazionale è stato progressivamente ridotto e diverse convenzioni e nuove consuetudini del diritto internazionale hanno teso, e tendono, a far emergere l’individuo come soggetto di diritto internazionale». Ma che cosa vuol dire questo?
RispondiEliminaGli individui hanno diritti perché quei diritti sono elencati nelle Costituzioni degli Stati, e gli Stati si impegnano a garantirli attraverso le proprie risorse (se sono diritti sostanziali; se non richiedono risorse, si tratta di diritti cosmetici). Non è su base internazionale che i diritti possano essere garantiti. Si tratterebbe quindi di un’espressione vuota. In proposito riprendo questa spiegazione dettagliata da un importante post del blog:
«Il diritto internazionale vede come suoi soggetti solo gli Stati o le organizzazioni di Stati, e non ammette, se non in via riflessa (come considerazione del reciproco riconoscimento di “trattamento” dei rispettivi cittadini e aspetti simili) la diretta rilevanza degli individui umani, cioè la loro soggettività c.d. normativa (intesa come titolarità dei diritti e dei doveri conferiti dalle norme di diritto internazionale).
Sono le Costituzioni, perciò attualmente, le massime fonti che si occupano degli individui umani; ciò che certe organizzazioni internazionali fanno, ad es; in termini di diritti umani, è riconoscere eccezionali legittimazioni ad agire di fronte a vari organi internazionali giurisdizionali, che affermano, tendenzialmente, responsabilità e obblighi degli Stati, cioè delle parti dei trattati, e, sempre eccezionalmente, delle persone fisiche riconoscibili, secondo le regole specifiche del diritto internazionale, come “organi” degli Stati (determinando delle responsabilità “funzionali”, non estensibili al di fuori della sfera delle regole che riguardano gli Stati nella loro azione politica, cioè non riportabili alle regole puramente “etiche”, se vogliamo, e volte astrattamente alla giustizia nella comunità degli individui umani).»
(Un ringraziamento collettivo a mia volta per gli apprezzamenti: mi fa piacere se il lavoro vi ha interessato. E' vero che è lungo e denso: se ci sono dubbi, domande, obiezioni, non esitate).
EliminaSergio, per capire le radici, e il velleitarismo, del globalismo giuridico, ti consiglio il bel libro di Danilo Zolo Cosmopolis (ma anche l'articolo di Preterossi che ho linkato offre spunti acuti).
La mancanza di un minimo di concretezza di queste prospettive di cittadinanza globale garantita da diritti umani universali mi pare peraltro abbastanza evidente: "Si potrebbe poi aggiungere che nei diritti umani la dimensione di potere, che per definizione caratterizza i diritti fondamentali, è così sfuggente da restare inafferrabile (quali sono gli spazi del loro effettivo esercizio, e verso chi possono essere esercitati, almeno come veri e propri diritti umani e non come diritti costituzionali riconosciuti dall’uno o dall’altro stato del pianeta?)." (M. Luciani, L'antisovrano e la crisi delle costituzioni, in Riv. Dir. Cost., 1996, pag. 175).