Sulla istituzione delle due commissioni dei saggi per elaborare proposte di misure, da tradurre evidentemente in leggi, nel campo istituzionale e dell'economia, si possono fare considerazioni politiche e giuridiche.
Cominciamo dalla prime: con questa "mossa" si raggiungono vari obiettivi e si confermano vari elementi sulla struttura delle decisioni poitiche sovrane italiane.
L'obiettivo politico che risalta con maggior immediatezza è quello derivante dall'analogia col sistema seguito in Olanda nel 2010. Nell'impasse dei numeri parlamentari usciti dalle urne elettorali, la regina nominò un gruppo di "saggi" che ebbe 44 giorni per elaborare un programma di pochi ma qualificanti punti che potesse essere comune a forze che altrimenti non sarebbero state coalizzabili. Risultato il partito popolare di Mark Rutte si alleò coi cristiano democratici ed ebbe l'appoggio esterno dell'estrema destra di Geert Wilders.
A distanza di due anni si tornò alle urne e il partito più "temuto", in quanto xenofobo e ultranazionalista, è stato ridimensionato dagli elettori mentre il governo è stato poi formato dai rafforzati (ai danni proprio del partito delle libertà di Wilders) partito popolare e partito laburista.
Dunque il sistema dei "saggi mediatori" pare mirato a riassorbire e normalizzare le anomalie del voto protestatario, mostrando come il nuovo sia omologabile (arrivando a coinvolgersi con l'appoggio esterno) e il vecchio (in quel caso i laburisti) possa fare opposizione senza parere irresponsabile, ricalamitando, anzi, su di sè l'attrattiva dell'alternativa di sistema.
Avrebbe senso prefigurarsi una tale esito in Italia, rapportandolo alla funzione e collocazione delle "tre minoranze" che oggi si dividono il campo parlamentare in esito alle ultime elezioni?
Parrebbe di no: la composizione dei due gruppi di saggi è attinta, oltreche a un'apparente e non certo neutrale società civile di "tecnici" (Corte costituzionale e immancabili Bankitalia e OCSE, più che Istat, a ben vedere le credenziali di Giovannini), essenzialmente a PD e PDL (o coalizione formatasi intorno ad esso).
Cioè è un modo di rimettere in sella i partiti che appoggiarono il governo Monti, attirando nel sostegno la Lega, in modo da rendere nuovamente affidabile il tradizionale intero arco parlamentare degli ultimi 20 anni, come unica possibile scelta di governabilità.
E' chiaro che tale effetto aggregativo, di fatto, ma oggettivamente, renderebbe rilegittimato, il governo Monti consentendogli una inedita ultra-attività, al fine di fargli adottare misure ulteriori, anche in una non ben chiara indicazione delle soluzioni emergenti in itinere: cioè prima ancora delle definitiva formazione di una nuova maggioranza, dal gruppo dei saggi in materia economica.
Mentre, parrebbe naturale che le soluzioni istituzionali del relativo gruppo dovrebbero attendere l'avvenuta fiducia a tale nuovo governo, che avrebbe così una fiducia "mirata" e a tempo per l'attuazione di tali riforme.
Insomma, l'urgenza consentirebbe al governo Monti di "fare qualcosa" su esodati e crediti delle imprese.
Ma l'operazione è un mero maquillage.
Pagare 20 miliardi entro il 2013 alle imprese creditrci dello Stato per titoli già scaduti è un atto dovuto; come pure quello di trovare una soluzione emendativa della riforma pensionistica per gli esodati, la cui situazione non era stata regolata per la fretta e gli errori ed omissioni del duo Monti-Fornero.
Solo che questa serie di atti dovuti seguirà le regole UEM a cui siamo ormai irreversibilmente vincolati: tutte le nuove spese dovranno trovare copertura in nuove entrate o in risparmi di spesa, e, laddove per motivi contabili pubblici non fosse così, corrisponderebbero comunque alla nuova o anticipata emissione di debito pubblico che, negli anni seguenti, dovrà essere oggetto di manovre di consolidamento (austerity) per abbatterlo ai ritmi previsto dal Fiscal compact-pareggio di bilancio.
Prima o poi, infatti anche la parte dei debito pubblico emesso per tali misure che non gravasse sul deficit dovrebbe essere riassorbito.
Parrebbe che le cose stiano così: i crediti per prestazioni (forniture e, forse, lavori) già eseguite in favore dello Stato sarebbero già inseriti nel debito in emissione programmata e quindi nel conteggio del deficit (cioè conto di cassa previsto per fine anno), mentre le somme dovute non per controprestazioni già eseguite ma in "conto capitale" (su tutti: sussidi, aiuti, incentivi e crediti di imposta) graverebbero integralmente sul deficit e dovrebbero trovare copertura per non incorrere nello sforamento del tetto del 3%.
In ogni caso, la accelerazione dei pagamenti corrispondenti a debiti già in liquidazione e con corrispondente emissione di debito già programmata, per l'ammontare di 20 miliardi nel 2013, implica una corrispondente accelerazione anche dell'emissione del debito, che avrebbe effetti contabili tali da peggiorare il deficit atteso per il 2013 almeno di 0,5 punti di PIL, portandolo da 2,4 (ora stimato) a 2,9.
Non essendo con chiarezza divulgate le cifre relative alle varie voci di debito scaduto (e, rispettivamente, impegnato, liquidato e in ordine di pagamento) non si comprende l'attendibilità di queste obiezioni e misure, nè da parte dello Stato nè da parte della Commissione UE.
Quel che è certo, è che sia che si debba recuperare negli anni prossimi un maggior deficit sia che, invece, questo debba essere evitato da subito, mediante maggiori entrate e minori spese, il pagamento dei debiti della p.a. non attiverà nel medio periodo il moltiplicatore della spesa pubblica, inserito in un sistema come il pareggio di bilancio che lo compenserà e porterà comunque a un consolidamento che ne assorbità abbondantemente gli eventuali benefici.
Per gli "esodati", invece, si tratta di vere e proprie uscite da coprire e ciò non potrà che avvenire con nuove tasse e/o nuovi tagli di spesa (il che contrasta con l'idea di pagare i debiti con un allentamento del patto di stabilità degli enti locali, salvo non sia presa alla lettera l'esortazione della Corte dei conti di "rivedere il perimetro dei servizi sociali").
Ma il vero punto critico dell'operazione "gruppo di saggi"-revitalizzazione governo Monti, sta non in quello che è apertamente detto, bensì nel NON DETTO.
Cioè nella patrimoniale straordinaria, da effettuare come operazione che, in un prevedibile fuoco d'artificio di teorie sul crowding-out, sulla efficienza dello Stato minimo e sulla austerità espansiva, verrebbe fatta passare come pregiudiziale salvifica che sblocca tutto (crediti delle imprese, esodati), realizzando la strombazzata precondizione dell'immediato e sensibile abbattimento del debito pubblico.
Abbiamo già visto come questa cornice teorica dell'austerity espansiva sia una gigantesca bufala, priva di attendibilità scientifico-economica, e come si intenderebbe, invece, solo assicurare, a costo della grave distruzione del nostro sistema economico, piombato in una depressione in avvitamento, i crediti bancari tedeschi tosando il risparmio italiano.
Ma tutto ciò conferma che ci troveremmo di fronte a una manovra che sulla politica interna in fondo influisce poco: il vero obiettivo dell'operazione "gruppo di saggi"-revitalizzazione governo Monti, sembra essere quello di mettere in sella la diretta e immediata volontà dell'Europa-Merkel-Bundesbank, a prescindere e anzi contro ogni parvenza minima di interesse nazionale.
E questo aspetto ci riporta alle considerazioni giuridiche preannunziate all'inizio.
Il governo Monti, non ha la fiducia di questo Parlamento e, di fatto, non potrebbe neppure appellarsi a quella del precedente (comunque, di fatto, già venuta meno), la investitura del quale è, per logica della democrazia costituzionale, rebus sic stantibus, cioè viene meno non appena insediatesi le nuove Camere a seguito delle elezioni (combinato disposto degli artt.60 e94 Cost.).
La questione degli "affari correnti", cui sarebbe abilitato il governo dimissionario rispetto al neo-eletto parlamento, non può essere mai posta nei termini che si ventilano e che si stanno prospettando con la consueta prevaricazione della "urgenza" e della "gravità della crisi".
Infatti la mancanza di una qualsiasi investitura di "fiducia" da parte delle camere nell'esercizio attuale delle loro funzioni, esclude che il governo dimissionario riveniente dalla precedente legislatura, possa essere titolare di un qualsiasi indirizzo politico, e quindi di un potere di iniziativa legislativa e di emanazione di decreti legge.
E non inganni che potrebbero considerarsi atti dovuti quelli "che vuole l'Europa": quello che qui si è cercato di spiegare e ribadire è che proprio l'attuazione incondizionata di ciò che rientra negli obblighi UE-UEM è un'azione costituzionalmente illegittima, se non operata attivando costantemente i filtri apprestati obbligatoriamente dagli artt.11 e 139 Cost, e che garantiscono che nessun vincolo di diritto internazionale possa prevalere sui principi fondamentali della Costituzione.
E quindi se la normale attività legislativa del governo (iniziativa dei ddl e decreti-legge) è preclusa dallo stato di "dimissionario", a maggior ragione lo è la valutazione e la costante forzatura dei filtri (c.d. controlimiti) al diritto europeo, implicanti la massima espressione dell'indirizzo politico, addirittura nel senso della deroga e destrutturazione dell'impianto fondamentale della Costituzione.
Va aggiunto che il fatto che il nuovo art.117 Cost. (proveniente dalla riforma famigerata del Titolo V) dica che la potestà legislativa dello Stato (anche) è esercitata nel rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, non è altro che una duplicazione del pacta sunt servanda insito negli artt. 10 e 11 Cost., senza intaccare di un millimetro la prevalenza dei filtri di garanzia insiti negli artt. 11 e 139 Cost. correttamente intesi.
E va infine detto, nessuna norma della Costituzione, prevede, neppure per implicito, che una fonte legittimante per una così intensa espressione dell'indirizzo politico, a livello addirittura emendativo della Costituzione stessa, possa derivare dall'azione di un'atipico "gruppo di saggi".
Che sebbene nominato dal Presidente della Repubblica non potrebbe in nessun caso avere nè i poteri di quest'ultimo, nè, ancor meno, poteri maggiori di quelli suoi propri, quali descritti negli artt. 87 e 88 Cost.