venerdì 31 gennaio 2014

OGGI A FANO, ORE 18.00


Per chi fosse interessato e ne avesse la possibilità logistica, questa sera alle 18,00, sarò, insieme con Antonio M. Rinaldi, a un convegno a Fano, Teatro Comunale, Sala Verdi, sul tema delle alternative democratiche alla crisi.
Se riusciremo a superare le intemperie lungo la strada, sarà una interessante kermesse in cui si potranno esprimere senza particolari limiti di tempo le analisi e le soluzioni per una possibile "via d'uscita". 
Intanto, per una più completa e complessiva percezione di insieme, vi segnalo che il blog "Scenari Economici" riporta la versione integrale (e non suddivisa in due parti) dell'intervista già rilasciata all'Antidiplomatico.

giovedì 30 gennaio 2014

ECONOMIA, DIRITTO E ROVESCI (il misterio trinitario dell'economia della grazia)



Alle volte Alberto Bagnai ci fa piegare in due dalle risate.
Certo che se si chiede prima un euro forte per "evitare la crisi" e poi lo si vuole debole - quando proprio questa grande penZata ("economico-scientifica" dell'euro forte) la crisi l'ha invece aggravata- emerge prepotente la comicità (involontaria) del pensiero. Quando poi si arriva sostanzialmente a "confondere" l'euro con la lira (dato che si ignorano i differenziali di inflazione dei vari paesi, come criterio dei divergenti riallineamenti necessari), invocando un deprezzamento sul dollaro assolutamente irrealistico rispetto alla situazione dei tassi, dei cambi e delle bilance commerciali intra-UEM e mondiali, ci si ascrive nel novero dei wishful thinker in perenne contraddizione con se stessi.

Un uomo tormentato, dunque, nelle sue singolarissime convizioni, politiche, nel campo dell'economia.
Ma anche nel campo del diritto pubblico - quello che dovrebbe essere il pane quotidiano di chi sta al governo e, prima ancora, conclude dei trattati che incidono sulla Costituzione-, come abbiamo più volte visto, non scherza!
Dico solo: una volta che stravolgo la Costituzione italiana, in un modo che era stato evidenziato da Carli, Maiocchi, Luigi Spaventa, Graziani, Sarcinelli (id est: grandi economisti se ne erano accorti), almeno, dopo tanti anni, bisognerebbe aver compreso qualche principio elementare della democrazia costituzionale. Nella sua sostanza. O forse l' ha compresa benissimo.

COORDINAMENTO DELLE POLITICHE ECONOMICHE, FISCALI E DEL LAVORO? NO GRAZIE: LA "CURIOSA" LEGALITA' SETTORIALE "EUROPEAN STYLE"





Questo post propone una interessante ricostruzione, compiuta da Sofia, circa il vero quadro della legalità €uropean style. Una legalità che, intrecciata con la fumosità dei trattati e l'inattuazione di un vero e "proporzionato" coordinamento delle politiche economiche e fiscali, costituisce un fenomeno "curioso" di contraddittorietà in termini.
Il problema è che un autentico coordinamento delle politiche economiche, fiscali e del lavoro, è il presupposto in assenza del quale, quantomeno all'interno dell'area euro, non sarebbe ragionevole imporre standards e direttive su settori determinati, cioè imposizioni che prescindono completamente dalla considerazione delle diverse condizioni economiche e sociali che si vanno instaurando nei diversi paesi (o che comunque preesistevano in ragione già dell'applicazione dello SME). 
La draconiana applicazione di competenze europee settoriali e simultaneamente "avulse" (dagli effetti della moneta unica), finisce per premiare chi è in situazione di vantaggio niente affatto meritevole, quanto semmai imputabile ai difetti strutturali della moneta unica ed al loro astuto sfruttamento
Insomma, in nome di tante belle enunciazioni (sull'ambiente e sulla concorrenza, sicuramente), si finisce, per intenzionale omissione delle Istituzioni europee, per avallare pratiche di ingiustificata alterazione dei tassi di cambio reale mediante politiche sociali non coordinate, alterazioni della concorrenza commerciale tra paesi membri, e lo stesso dumping fiscale.

Il risultato è che non solo il dumping fiscale di un paese viene doppiamente premiato, cioè diviene vantaggioso anche sul piano della diversa convenienza a violare le norme antitrust comunitarie, ma che lo stesso dumping fiscale, causa di generali distorsioni nella competizione tra paesi, viene ulteriormente ignorato in sede di coordinamento delle politiche economiche e fiscali (artt. 5. 119 -121 TFUE). 
Queste inattuate politiche (come ammesso dalla stessa Commissione in più occasioni) sono  volte teoricamente ad instaurare condizioni omogenee di concorrenza in ogni parte del mercato unico proprio in quanto "enfaticamente" (ancora una volta) finalizzate ai comuni obiettivi dell'Unione
Un mercato unico presuppone che lo stesso trattamento fiscale dei diversi operatori nazionali non sia tale da determinare condizioni territoriali ingiustificate e generalizzate di vantaggio: tra l'altro, consentendosi implicitamente obiettivi del tutto "nazionali" e distorsivi della concorrenza che possono in pratica essere perseguiti soltanto da parte dei paesi che abbiano in partenza (Olanda, Germania, Austria, Lussemburgo) o desiderino (Irlanda), nell'ambito degli effetti asimmetrici della moneta unica (che si esclude di voler effettivamente correggere), quella situazione di vantaggio commerciale che porta ad una crescente divaricazione di condizioni fiscali...e sociali: base imponibile nel tempo, diverso onere degli interessi sul debito pubblico, livello conseguente della spesa legittimamente sostenibile nel rispetto dei limiti di bilancio imposti dai trattati. 
Ovviamente, il tutto sarebbe "pareggiabile" solo in via di fatto: cioè procedendo a radicali forme di deflazione salariale e a drastici tagli della spesa pubblica non correlata con le politiche imposte dall'Europa - in definitiva volte a consentire una spesa pubblica concentrata su alcune tipologie di attività corrispondenti a gruppi economici che impongono gli standards-  e che, perciò siano direttamente incidenti sul welfare
Il "lassez faire" sul coordinamento delle politiche economiche, fiscali e del lavoro, e l'assenza intenzionale di un sistema di "trasferimenti" fiscali europei, implica un'unica ed occulta politica sociale: la distruzione del welfare come unica via d'uscita

E in questo quadro, va inclusa la spesa pubblica e gli investimenti privati imposti dagli stessi standards europei, scoordinati dalla considerazione degli effetti asimmetrici della moneta unica, il cui mancato recepimento - quand'anche per motivi di bilancio che li rendono praticamente inattuabili- è soggetto a procedura di infrazione e conseguenti sanzioni.  
E queste ultime aggravano perciò la stessa situazione fiscale che aveva condotto al mancato recepimento: insomma c'è solo da scegliere quale tipo di sanzione debba pagarsi per gli inevitabili inadempimenti connessi alle distorsioni della moneta unica. 
E, aggravandosi inevitabilmente queste distorsioni, alla fine, un paese come l'Italia finisce per pagare sotto tutti i profili sanzionatori, cumulati tra loro: 
1- sanzioni per deficit eccessivo;
2- compressione inevitabile della domanda e degli investimenti pubblici e privati per evitarle;
3- instaurazione di crescenti condizioni fiscali di consolidamento che rendono impraticabile "pareggiare" l'altrui dumping fiscale;
4- più costose infrazioni antitrust per le imprese nazionali;
5- più frequenti, per gli stessi motivi, "infrazioni"  e più costose sanzioni per mancato recepimento di direttive e standards, che implicherebbero oneri di bilancio - e condizioni di liquidità delle stesse imprese nazionali-  che si rivelano insostenibili per via dei parametri fiscali stessi e, a monte, per via del carattere asimmetrico della moneta unica. 
E poi, senza ben riflettere su questo drammatico quadro complessivo ci lamentiamo della rivalutazione delle quote di Bankitalia volta a premiare inesistenti apporti di capitale di un sistema bancario (stremato da ciò che esso stesso vuole difendere a oltranza: l'euro) che si era ritrovato in casa le quote dell'Istituto senza aver mai tirato fuori una "lira"! Ma potendo poi fruire di profitti, economicamente e finanziariamente del tutto ingiustificati e a danno del bilancio pubblico, il cui livello sarà esso stesso (sistema bancario) a concorrere a determinare in base allo Statuto bankitalia!
Un "sogno" non c'è che dire!.


In questo post si è evidenziato come i Trattati siano intenzionalmente composti da una miriade di enunciazioni e di termini "enfatici" e non sorretti da una vera volontà normativa, ma tesi a dissimulare gli autentici concetti operativi. 
Una verbosità che, quando si viene al "dunque", evidenzia l’intenzione di incentivare la "forte competizione" in un'economia "sociale" di mercato (unico) e la  "stabilità dei prezzi”, mentre ogni altro aspetto è subordinato e ridotto a "intenzioni programmatiche" da procedure complesse, i cui contenuti sono del tutto aleatori, se non addirittura inapplicabili e comunque praticamente svuotati. 
Quelle che vengono spacciate come  "riforme" non sono altro che una metonimia che dissimula l'accelerata esigenza di mutare irreversibilmente il modello socio-economico delle Costituzioni sociali per instaurare il modello Maastricht; quest'ultimo ab origine, programmaticamente e strategicamente, esclude ogni forma di solidarietà (tra le classi sociali, tra i paesi aderenti, e nella stessa più ampia comunità internazionale) a scapito della forte competizione.
Considerato, poi, come i Paesi dell’Eurozona si siano privati della propria sovranità per metterla nelle mani di una entità sovranazionale che si è prefissata lo scopo di incentivare e mantenere la forte competizione, non ci sono limiti a quanto questa entità possa fare, soprattutto se i Trattati – che dovrebbero essere lo strumento di questo potere ma anche lo strumento per poter controllare il corretto esercizio di tale potere ed i limiti dello stesso-  sono stati redatti per essere appositamente confusi ed indecifrabili.
Si è parlato in vari post di come l’Unione europea utilizzi diversi modi per modificare i modelli socio economici ed ottenere nel contempo il mantenimento di un sistema fortemente  competitivo.

mercoledì 29 gennaio 2014

LE CONTROMOSSE-3: LA VIA ITALIANA ALLE RIFORME STRUTTURALI "TOMBALI" TRA ELECTROLUX E "JOB ACT".



Sono tempi strani, come abbiamo visto.
Persino una rubrica di "arguto commento" su Dagospia sembra aver metabolizzato certi concetti che, mettiamo solo un paio di anni fa, sarebbero stati eretici se non impopolari (la cultura "livorosa pop" pareva molto più saldamente in sella):
"Per salvare la produzione in Italia gli svedesi di Electrolux vogliono che gli stipendi calino da 1.400 a 800 euro al mese. Il costo del lavoro negli stabilimenti del Nord Est deve allinearsi il più possibile a quello di Polonia e Ungheria. Il Sole 24 Ore commenta serafico: "le multinazionali mirano sempre di più al taglio dei costi e all'aumento della produttività" e la colpa è tutta nostra che "non abbiamo fatto le riforme" per offrire migliori "condizioni di costo del lavoro, burocrazia e infrastrutture" (p. 35).
Sarà, ma ci sono altre due notizie che dovrebbero far riflettere: aumentano i poveri e un italiano su sei vive ormai con meno di 640 euro al mese, mentre la Bundesbank tedesca vorrebbe imporre una patrimoniale ai cittadini dei paesi che rischiano il default.
Queste tre notizie, se messe insieme, spiegano molto. Siamo un paese che si è svenato, si sta svenando e si svenerà sempre di più per restare nella moneta unica. Abbiamo accettato l'idea tedesca che il debito pubblico sia il male assoluto e ci siamo incaprettati con il pareggio di bilancio in Costituzione e il fiscal compact. Non ci possiamo salvare perché non abbiamo sovranità monetaria, non possiamo applicare dazi, non possiamo fare dumping fiscale (anzi, dobbiamo subirlo), non abbiamo più la struttura industriale per vivere di esportazioni.
Siamo un paese profondamente impoverito, dove milioni di cittadine e cittadini accetterebbero di corsa quegli 800 euro al mese dell'Electrolux perché almeno non sono in nero e nei loro stabilimenti non ‘è il rischio di morire bruciati. Chi vuole un posto di lavoro deve lavorare di più ed essere pagato meno.
Se vogliamo mantenere una quota di produzione industriale - visto che non possiamo vivere tutti di turismo e agricoltura se non altro perché abbiamo devastato mezzo paese - il nostro posto è con Polonia, Ungheria, Bulgaria e Serbia. E dobbiamo anche rincorrere, nel campionato del dumping sociale. Per questo oggi bisognerebbe ringraziare i manager di Electrolux: con la loro durezza ci stanno solo dicendo chi siamo e dove stiamo andando. Loro hanno una politica industriale. I nostri governi neppure quella."

Prontamente, dalla Cisl ci arriva invece il concetto che la trattativa è aperta, che i "notiziari" riportano "inesattezze" e che si può arrivare al modello "Indesit", invocando un intervento del governo che eviti che gli svedesi perdano 30 euro per ogni lavatrice: si potrebbero applicare i "contratti di solidarietà" in cambio di un piano di nuovi investimenti su prodotti innnovativi e della flessibilità dell'orario. Insomma, quello che non va nella questione Electrolux è che ci sia un piano di disimpegno dall'Italia (!), mentre sarebbe prioritario mantenere il manifatturiero (a qualsiasi costo e senza menzionare l'euro).
Ora i contratti di solidarietà essenzialmente introducono una riduzione di orario e di retribuzione in cambio del mantenimento dell'occupazione, evitando di disperdere competenze e know how,: lo Stato, questo parassita, (tramite il Ministero del lavoro- direzione generale per gli ammortizzatori sociali e per gli incentivi del lavoro) garantisce, nel caso della imprese maggiori, rientranti nel campo di applicazione della CIGS, un'integrazione salariale pari all'80% (misura aumentata dalla manovra tremontiana dell'estate 2009) della retribuzione persa.
Notare che l'integrazione non spetta a:
  • dirigenti;
  • apprendisti;
  • lavoratori a domicilio;
  • lavoratori con anzianità aziendale inferiore a 90 giorni;
  • lavoratori assunti a tempo determinato per attività stagionali.
I lavoratori part-time sono ammessi nel solo caso in cui l’azienda dimostri “il carattere strutturale del part-time nella preesistente organizzazione del lavoro”.

Dunque, il contratto con la sua durata biennale, prorogabile per altri due, e rinnovabile con un nuovo "patto" trascorsi 12 mesi dalla fine del primo periodo, introduce un bench mark di settore, per un periodo significativo, sul mercato del lavoro, che è tanto più indicativo quanto più si riduce il complesso del manifatturiero nazionale: e non a caso si vuole estendere il modello "Indesit".
L'effetto complessivo, dunque, è di rendere accettabile, grazie alla gradualità, una deflazione salariale nominale, lasciando comunque invariati per quattro anni (circa) i salari reali (tagliati); ma, al tempo stesso, richiede la spesa pubblica. Non si scappa. 
GLi espertologi dela Confindustria escludono che possa esservi, in questo quadro drammaticamente mutato, un ritorno alla indicizzazione salariale, - ma "generosamente" per tutelare il potere d'acqisto dei lavoratori dall'inflazione ('ziamai ci fosse un domani la ripresa!)-, e che la parola "euro" possa essere pronunziata
E questa mi pare una scelta (suicida) che non lascia adito ad equivoci ed incertezze.
Anzi, poichè l'euro, proprio l'euro (what else?), crea una situazione emergenziale che, come vediamo, fa presentare questa come la migliore delle ipotesi, una specie di salvezza in extremis, il problema che si pone è come guidare un processo di irresistibile deflazione salariale ulteriore, finanziandolo col crescente intervento finanziario pubblico, rigorosamente supply side e volto in definitiva all'esportazione prevalente del prodotto.
In queste condizioni come può calare la pressione fiscale (dato che sicuramente cala la base imponibile)?
Come può non pensarsi che, per finanziare questi "oneri imprevisti", non si ricorra alla logica emergenziale delle entrate straordinarie e al taglio massiccio di altra spesa pubblica?

Questa è la prospettiva concreta: per mantenere un sistema manifatturiero "cacciavite" (in concorrenza con Spagna, Polonia, Irlanda, Serbia et similia), strutturato essenzialmente sugli IDE (l'Electrolux è l'ex italiana Zanussi, oggetto di IDE), e cioè, in ultima analisi, per garantire un certo livello di profitti di gruppi esteri (profitti che vengono quindi esportati), si provvederà ad ampliare la tassazione, arrivando all'inevitabile intensificazione della tassazione patrimoniale (re-invocata da Bundesbank, dopo quella già pianificata da Deutschebank, su carta intestata della Commissione), straordinaria e ordinaria, su questo o quel cespite "al sole" (cioè degli italiani risparmiatori....grazie ai precedenti deficit pubblici, che ora non ci potranno essere più), amplificando il calo della domanda (certo non ci saranno nuove assunzioni di "giovani", esclusi dal beneficio) e quindi della stessa produzione dei comparti industriali inevitabilmente esclusi.
Magari si arriverà, come invoca sempre il Sole24h, alla generalizzata "fiscalizzazione degli oneri sociali", riducendo il "cuneo fiscale", altra misura supply side, che garantisce solo gli attuali livelli di (dis)occupazione (e te credo! Ci manca solo che non applichino la curva di Phillips "al contrario"); ma sempre in pareggio di bilancio, cioè giustificatrice di ulteriore taglio della spesa e tassazione patrimoniale. Cioè aggiungendo altro calo della domanda in fase depressiva. E sfoltendo, nel frattempo, così, la parte dell'industria che non rientra nel gioco dei grossi gruppi tutelati. Una vera e propria ristrutturazione-coloniale. 

Eh sì, perchè, poichè pur tosando alla morte i contribuenti o tagliando in modo prociclico la spesa pubblica, le piccole e medie imprese, italiane, non riusciranno ad arrivare in tempo per ottenere i contratti di solidarietà, nè in percentuali significative (dati i numeri), nè in ragione delle condizioni in cui versano, di sostanziale insolvenza, per calo della domanda (pubblica ed estera), che viene così accentuato dal caratterte supply side dell'intervento, e per un connesso drammatico credit crunch.

lunedì 27 gennaio 2014

FMI, OCSE, STIME, CONTROMOSSE E DISOCCUPAZIONE "NEO-TECNOLOGICA".



Ma non ci si crede. Non finiamo di enumerare le "contromosse" dell'ordoliberismo n€urotico, e ammalato di potere sfrenato, che subito ne esce fuori una nuova.
Ora non mi colpisce tanto che il FMI evidenzi come una previsione di crescita greca sia finalmente stimabile sapendo che farà spesa pubblica aggiuntiva per 2,7 punti di PIL; quello che colpisce è che in precedenza, nel prevedere la "crescita" greca, non ci azzeccava mai tanto bene. 
E comunque faceva i calcoli con un criterio e gli "auspici" sulle politiche da seguire con ben altri (pur con qualche "mezzo" pentimento rispetto agli Schauble e agli Olli, che hanno proseguito imperterriti).

E lo stesso vale per l'Italia: previsioni regolarmente sottostimate - tranne ricorreggerle quando ormai la realtà era evidente-, ma implicita, e non dichiarata, consapevolezza che la recessione era essenzialmente imputabile all'austerità, perseguita al posto delle politiche espansive di buon senso (è ben noto come poi, senza peraltro mutare radicalmente gli "auspici" avesse rivisto ufficiosamente, cioè con l'ufficio studi,  i fatidici "moltiplicatori fiscali").

Vediamo: nel 2011, a gennaio, prima dell'inizio del gran ballo del debitopubblicobrutto, e delle manovre conseguenti alla universalmente "lodata" (da media e governi poi succedutisi) lettera di Draghi, il FMI stima una crescita 2012 del PIL italiano a +1,3. Ovviamente critica la nostra debolezza economica per mancanza di...riforme.
A settembre dello stesso anno, nel World Economic Outlook, dice che la crescita italiana nel 2012, avvenuta la duplice manovra di Tremonti, e quindi applicate "un pò" delle auspicate riforme (grazie alla letterina di Draghi), sarebbe stata dello 0,3%. Un bel calo no?
Ma come? Si sarebbe dovuta chiedere la stampa italiana tanto "tecnica" e ben informata da continuare oggi a denunciare come essenziale, per agganciare la crescita, il taglio della spesa pubblica (c'è solo da scegliere gli strepitanti sostenitori). Le riforme non sono per risanare?

domenica 26 gennaio 2014

LE CONTROMOSSE DELL'ORDOLIBERISMO-2 IL FIATO CORTO DELLA GOVERNANCE FINANZIARIA E IL RIPENSAMENTO DI UNA NUOVA ERA




I. Riprendiamo il discorso del post di ieri per completarlo. Abbiamo visto quelle che, per ora, sono le "contromosse" che il regime ordoliberista europeo ha escogitato per venire in soccorso della classe politica e della classe capitalista finanziaria (o finanziarizzata) che, nella solidarietà contrattualizzata di cui "plasticamente" parla Massimo Florio, è il punto di riferimento della governance €uropea.
Le contromosse le ribadiamo qui e, per il momento, le lasciamo in premessa, per migliore focalizzazione:

1) revisione - dei criteri di calcolo del PIL a livello UE, in modo da creare un aumento sostanzialmente fittizio delle basi di calcolo e rendere formalisticamente (ma non sostanzialmente) più sostenibili le politiche di pareggio di bilancio e di riduzione del debito;
2) innalzamento degli aiuti di Stato de minimis, portati a 15 milioni di euro (sulle imprese fino a 499 dipendenti), in modo da rendere più praticabili le politiche supply-side: ma solo da parte di paesi cui viene consentito di sforare il tetto del deficit, perciò eccettuata l'Italia, con la fattiva collaborazione dei nostri governanti "proni" a questo stato di cose;
II. Ci appare utile riportare anche una seconda premessa rinvenibile nel discorso di ieri:
"L'effetto depressivo di queste dichiarazioni - adde: cioè quelle provenienti persino da ambienti finanziari "ortodossi", e persino dalla sede di Davos, e praticamente "censurate" dai media italiani, laddove sarebbero ben dovute essere oggetto di un dibattito chiaramente prioritario rispetto a quello sulla legge elettorale! - sta nella loro implicita valutazione di assoluta incapacità di autocorrezione del sistema UEM, affidato ad una governance che fa di tutto per confermare la propria incapacità. 
E si tratta di "incapaci" che trovano in Italia un ascolto incondizionato, che va ben al di là del formale ossequio ad una gerarchia ordinamentale fanaticamente esaltata in Italia: ci troviamo, piuttosto, di fronte ad un'operazione politica di antica origine, che, come ben sappiamo, trova la sua forza autonoma nella convinzione di un autentico ridisegno della società. Un obiettivo che è ormai irreversibilmente radicato nelle mire di una classe dirigente che crede, irresponsabilmente, di poter continuare a guadagnare, sia politicamente che economicamente, dalla prosecuzione dello stato delle cose attuale."

III. Il "ridisegno" della società europea, ma più di tutte di quella italiana, è in gran parte avvenuto
Tanto per evidenziare come questo fosse stato previsto con esattezza in base ad ovvie analisi economiche "bona fide", che risalgono a ben prima dell'entrata in vigore dell'euro, rinviamo ad un ulteriore fonte fortemente indicativa per la sua autorevolezza: l'intervento di Luigi Spaventa alla Camera dei Deputati in occasione della ratifica italiana del sistema monetario europeo (SME).
Da questo intervento, - che va letto integralmente per il suo enorme interesse, dovuto alla esatta individuazione dei problemi macroeconimici che avrebbero non solo portato alla successiva ingloriosa fine dell'adesione italiana al sistema, ma al disastro scontato connesso all'introduzione dell'euro-, può trarsi una triplice rilfessione:


sabato 25 gennaio 2014

LE CONTROMOSSE DELL'ORDOLIBERISMO N€UROTICO AL DISFACIMENTO DEL "FOGNO" INTERNAZIONALISTA: BEWARE OF THE "DREAMING" WATCHDOG



Avvedendomi di una certa disaffezione rassegnata delle menti migliori della "nuova generazione", mi accorgo anche che questo stesso blog risente, nella partecipazione ai commenti, del clima di quasi-disperazione che la situazione generale legata alla costruzione €uropea ha nel frattempo generato.
E, purtroppo, vedrete, in fondo a questo stesso post, come questa quasi-disperazione non sia un mero stato d'animo soggettivo. Le cose che vi accenniamo in tale parte rivestiranno un ruolo fondamentale nello sviluppo impresso alla situazione, agendo come contromisure di prolungato accanimento preventivo su un malato ormai inguaribile.

L'origine di tutto questo "scoramento", credo, sia da individuare in via prioriataria nella situazione italiana, che, rimaniamo dell'idea, costituisce la principale ragione sociale della prosecuzione dell'euro: almeno fino a che non sarà ridotta a un cumulo di macerie.. 
Da essa non solo non emerge traccia di reazione consapevole a questo andamento disastroso, nelle istituzioni di governo e nella stessa Confindustria, supply-sider, anti-Stato, ad oltranza (ignorando la priorità dell'elemento monetario: elemento ancor più apparentemente inspiegabile, un unicum al mondo),  ma le linee politico-economiche che si presentano in irresistibile ascesa, intendono addirittura percorrere una intensificazione massiccia dell'impostazione che porta alla crisi da domanda. Di cui non vogliono, nè possono, riconoscere l'esistenza e le cause.

Cosa che, nel resto del mondo, ormai, è invece ben chiara: e non solo da parte di autorevoli voci tradizionalmente critiche, ma nelle stesse testimonianze del mondo finanziario ortodosso
Il professore di Harvard Kenneth Rogoff ha detto che il lancio dell'euro è stato un "errore gigantesco di proporzioni storiche, realizzato troppo presto", che ora richiede un grado di unione fiscale e un fondo comune di risoluzione bancaria per poter funzionare, ma i leader dell’UEM ancora si rifiutano di intraprendere queste azioni.
"La gente non parla più del crollo dell'euro, ma la disoccupazione giovanile è davvero tremenda. Non è possibile lasciare andare questa tempesta per altri cinque anni," ha dichiarato.

Rogoff ha detto che l’Europa sta sperperando la "risorsa scarsa" della sua gioventù, che sarebbe estremamente necessaria per dare forza a una società che invecchia a causa della crisi demografica.

 
Mentre l'Europa ha ancora grandi competenze tecnologiche e un ordinamento giuridico che è l'invidia di molti mercati emergenti, ora rischia di perdere terreno come primo attore dell'economia globale.

"Se queste potenzialità tecnologiche non vengono realizzate, l’Europa si sveglierà, come Rip Van Winkel, da un lungo sonno di tipo giapponese, ritrovandosi ad essere una parte molto più ridotta e molto meno importante dell'economia mondiale."
A sua volta, Axel Weber, l'ex capo della Bundesbank tedesca ed ora presidente di UBS, ha detto che il disordine di fondo continua a fare danni e che quest'anno probabilmente l’eurozona dovrà affrontare un nuovo attacco dei mercati. Weber, che si è dimesso dalla Bundesbank e dalla BCE per una divergenza riguardo alla strategia sulla crisi del debito dell’eurozona, ha detto che le nuove regole di "bail-in" per gli obbligazionisti delle banche dell'eurozona porteranno gli investitori ad agire in via preventiva con l'obiettivo di evitare grandi perdite, prima che la BCE renda pubblici i risultati dei test: "Potrebbe accadere che gli speculatori non aspettino fino a novembre, ma scommettano prima su chi vince e chi perde".
Il pericolo è che i guai delle banche riaccendano i riflettori su quegli Stati sovrani che non possono facilmente permettersi di sostenere i loro sistemi bancari. Anche se non si nomina esplicitamente nessun paese, quelli
considerati vulnerabili sono Spagna, Italia e Portogallo. Anche l’Irlanda può essere nuovamente a rischio, con un rapporto debito/PIL del 125%. "Questa è la questione chiave di quest'anno", ha detto.
Weber ha avvertito i leader dell'UE di non farsi "pericolose illusioni" o di indulgere in autocompiacimenti sulla ripresa. "La situazione sembra migliore di quella che è. La ripresa è troppo debole per generare posti di lavoro. Il punto non è se le cose stanno migliorando: i livelli di crescita, occupazione e PIL sono molto peggiori rispetto a prima della crisi," ha dichiarato.
Ha detto che stare a guardare se la Germania fa meglio della Francia è in realtà una distrazione, poiché tutta l'UEM sta andando male. "Il vento tira nella direzione degli Stati Uniti e della Cina. C'è un mondo intero là fuori che è più competitivo," ha detto.

Sir Martin Sorrell, capo del WPP inglese, ha detto che l’Europa sta soccombendo a un nuovo ordine mondiale dominato da un "G2" composto da USA e Cina, fiancheggiato dalle economie emergenti dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) e dai Prossimi Undici. "Gli Stati Uniti e la Cina diventeranno le due economie dominanti, a meno che l'Europa non cambi," ha detto.

La Francia è ancora "sul lato discendente della parabola" e anche se la Spagna si sta riprendendo, questo non è sufficiente per scongiurare una crisi politica derivante dalla massiccia disoccupazione giovanile (57%). "La tecnologia ora è nemica dei lavoratori, quindi la disuguaglianza e la disoccupazione peggioreranno" ha detto.

venerdì 24 gennaio 2014

PRIVATIZZAZIONE DI POSTE ITALIANE. REDDITIVITA' ATTUALE E FUTURA, INTERESSE DEGLI UTENTI E CONFLITTI DI INTERESSI (con addendum sui dati)



Non sappiamo se tutto questo abbia (mai avuto) un senso: almeno rapportabile a quello dichiarato.
E non crediamo, ormai, neppure che abbia un senso denunciare le storture e le contraddizioni patenti che sono da sempre insite nel disegno, perchè le denunce non trovano alcuna corrispondenza nell'azione dei nostri governi, così entusiasticamente dediti al "ce lo chiede l'€uropa".
Parliamo della pseudo-privatizzazione di Poste italiane
Gli uffici postali, la front line percepita dal cittadino di una presenza "pubblica", spesso bistrattata da chi si trova in fila, costituiscono una rete di servizi a forte impatto sociale che hanno un positivo effetto, sempre più dimenticato
Questa rete, cioè, salda la stesso apparato pubblico con l'idea comunitaria dello Stato e determina, comunque, una ricaduta diffusa sia in termini occupazionali diretti (i dipendenti che si trovano sparsi in migliaia di piccoli centri, altrimenti privi di una presenza che altrimenti sarebbe limitata ai Carabinieri o poco più), che indiretti
Laddove c'è un ufficio postale, c'è un traffico indotto di persone la cui propensione al consumo è naturalmente alta (quanto all'indotto "localizzato" dalla stessa presenza dell'ufficio postale), ma che, nondimeno, tende a far emergere e immettere nel sistema finanziario, un risparmio in micro-forme che soltanto la presenza dell'ufficio postale può stimolare con la sua rassicurante "comprensibilità" (o minor incomprensibilità).
Senza questa struttura di servizi di base (estesa, oltre che alla gestione user-friendly di micro-risparmio di massa, anche a prodotti assicurativi a costi comparativamente contenuti e in forme un pò più trasparenti), molti centri vedrebbero indebolito il proprio stesso potenziale demografico e conseguentemente produttivo, già di per sè indebolito dalla crisi ad origine monetario-valutaria-fiscale che altera la convenienza generale della intrapresa nazionale. 
E altera la stessa spinta demografica: un piccolo centro che muore, per via di una emigrazione senza alternative, non rigenera la sua base demografica in una sede urbana più costosa, e più disincentivante la stessa formazione della famiglia. La dispersione della risorsa umana si avvita così al depauperamento dell'offerta pubblica di istruzione-formazione (incidente in aggiunta sugli stessi territori abbandonati), rendendo il potenziale italiano tra i più bassi del mondo avanzato, problema trascurato dalla politica in nome dei "conti in ordine" e del nulla...sotto i conti.

Infatti, la struttura territoriale della nostra produzione è, oggi, troppo fortemente polarizzata (su Roma e Milano e poco altro capace di sopravvivere all'attuale improvvida evoluzione) e questo fenomeno di gigantismo non programmato (per evitarlo sarebbe occorsa una ben diversa politica industriale, legata alla valorizzazione e non alla privatizzazione dei grandi poli produttivi pubblici), porta a costi di congestione territoriale e di anelasticità evolutiva, in ogni fase, anche complementare, dell'attività industriale.

Costi che vanno dal trasporto in commuting della forza lavoro urbanizzata in centri ormai ingestibili (anche a seguito della commistione tra tagli agli enti locali e loro affarismo dispersivo di risorse), all'accesso al credito, distorto proprio dalla discriminazione dimensionale che si nutre di concentrazione polarizzata, alla precondizione di un'efficiente sistema di formazione-istruzione sempre più rarefatto sui territori "sacrificabili", al sacrificio della potenziale valorizzazione di forze emergenti in condizioni troppo accentrate, fino ai costi degli investimenti fissi in zone territoriali costose ma infrastrutturate, ed alla successiva disastrosa impossibilità di riassorbire la dismissione degli stessi in caso di crisi (data la crescente perdita di competenze adattabili e di flessibilità funzionale della forza lavoro in un modello accentrato).

Già oggi Poste italiane tende a "ristrutturare" il servizio attraverso la chiusura di uffici postali in comuni minori e non rispondenti a criteri che, spesso, impattano sul dubbio rispetto degli obblighi del contratto di servizio che intercorre con lo Stato.

Una privatizzazione consistente della società porrebbe il serio problema del prevedibile rispetto di un rendimento del bench-mark finanziario necessariamente voluto dai nuovi soci. Con una altrettanto prevedibile accelerazione di questo fenomeno di contrazione del retail sul territorio, al fine di contenere costi del personale e delle strutture, aumentando i prezzi dei servizi ed emarginando la stessa utenza che aveva dato prosperità al precedente schema "sociale" di offerta.
E magari all'inevitabile fine di aumentare retribuzioni, premi e emolumenti vari dei nuovi consiglieri di amministrazione e dei nuovi executives (immancabilmente muniti di un "piano industriale" in salsa monopolista-privato a caccia di massimizzazione della rendita e minimizzazione della qualità del servizio) graditi al nuovo azionariato.

Dal Financial Times di oggi (trafiletto a pag.3), apprendiamo le cose essenziali (annacquate in mille ambigui bla bla bla dai media italiani): "si comincia col 40%, dice Saccomanni, e poi vedremo. I "banchieri coinvolti" parlano di un "lento processo" che potrebbe "andare a termine nel 2015". Un "esponente del governo che ha chiesto di non essere nominato, ha detto che una possibilità è una vendita parziale alla Cassa Depositi e Prestiti...Il gruppo (Poste italiane) che ha 144.000 dipendenti, ha dato un utile netto di 1 miliardo su un volume di affari per 24 miliardi, di cui 19 derivano dai suoi servizi finanziari e assicurativi...Il governo ha anche in programma di privatizzare il gruppo cantieristico navale Fincantieri".
La chiosa finale, in prospettiva ulteriore non promette nulla di buono: specie riguardo alla proprietà nazionale di una filiera produttiva tra le ultime rimaste e che godrebbe anche del vantaggio di essere una delle poche rimaste in piedi, una volta dismesse quelle di altre nazioni vicine e concorrenti).

Ma tornando alle Poste: una redditività di gruppo al 4% sul fatturato non è male: certamente concorrenziale col livello atteso dei rendimenti netti degli stessi BTP pluriennali di prossima emissione
Ancora superiore, poi, se utilizziamo il rapporto col valore patrimoniale stimato del gruppo, a quanto pare, tra i 15 e i 20 miliardi, in quanto, dalla (s)vendita del 40%, si attendono ricavi dai 6 miliardi riportati dal FT (che è ben informato) agli 8 miliardi ("fino a..." sparati dai compiacenti e acritici giornalisti italiani).

Ai nuovi azionisti andrebbe, rebus sic stantibus, una quota di utile di 400 milioni all'anno (sottratta per sempre alle entrate dello Stato) che, a quanto risulta, otterrebbero sborsando 6 miliardi o poco più (rendimento al 6,66%!): in attesa di mettere le mani sul resto del malloppo entro il 2015. Con buona pace del rispetto dell'attuale contratto di servizio, dei futuri prezzi applicati dagli executives e tutto il resto che si verifica sempre in questi casi.
Ma allora, dal punto di vista economico-razionale, perchè privarsene, visto che il "risanamento dei conti" non regge, di fronte al valore di capitalizzazione degli utili che si otterrebbe in raffronto ai costi del debito pubblico e ad un suo inesistente abbattimento?

Rammentiamo quanto detto da Cesare Pozzi sulle privatizzazioni:

giovedì 23 gennaio 2014

L'ANTIDIPLOMATICO: SECONDA PARTE DELL'INTERVISTA (e suggerimento di un percorso di ri-lettura)


Per i ragguagli più dettagliati delle soluzioni tecniche suggerite nella seconda parte medesima, si veda questo post:

Per la parte relativa alle dinamiche politico-internazionali, facciamo riferimento a questo ulteriore post:

Per le problematiche generali affrontate nel corso dell'intera intervista, rivolgendosi specialmente a coloro che, recentemente accostatisi al blog, mi chiedono un percorso di lettura, segnalo questi altri post, contenenti riferimenti e links utili alla identificazione complessiva di uno dei filoni principali del discorso qui svolto:
Utile anche questo ulteriore post (dove si fa cenno, con link a precedenti, alla vexata quaestio della "Confederazione" più razionalmente percorribile): 

Mi accorgo dunque che, partita dai contenuti del libro, l'intervista si è naturalmente allargata ad "acquisizioni" successive alla sua pubblicazione
Da un lato, ciò ci conforta perchè implica uno sviluppo delle analisi in modo da rendere sempre meno "oscuro" il quadro giuridico-istituzionale in cui potrebbe collocarsi una linea di salvezza essenziale dell'interesse democratico nazionale; dall'altro, ciò forse imporrebbe una trattazione monografica ulteriore, che presenterebbe la difficoltà di un crescente tecnicismo e che sarebbe rivolta a chi avesse già assimilato quanto detto nel primo libro.
Ciò sarebbe senz'altro affrontabile dai più fedeli lettori del blog, ma risulterebbe forse troppo ostico per un lettore che non possedesse questo back-ground.
Ci sto riflettendo (forse perchè in questo periodo il febbrone mi porta a pensieri errabondi e surreali...). Tra l'altro, uno dei problemi pratici da affrontare è che buona parte delle analisi e riflessioni più rilevanti, emergono dai commenti e dal dibattito che gli stessi lettori, sempre più co-autori del blog, hanno generosamente animato (magari Sergio Govoni, o altri "contribuenti "netti", hanno delle idee pratiche :-)...)

mercoledì 22 gennaio 2014

L'ANTIDIPLOMATICO: L'INTERVISTA




Solo per dirvi di non perdere l'intervista fatta con "L'antidiplomatico" (domani la seconda puntata). Data la capacità stimolante dell'interlocutore, ben consapevole degli snodi, di diritto, economia, e politica internazionale, che venivano via via emergendo, devo dire che finora è stata la migliore che mi è capitato di rilasciare.
Grazie ad Alessandro Bianchi con cui intendiamo proseguire una proficua collaborazione.



martedì 21 gennaio 2014

INIZIA LA FARSESCA RESA DEI CONTI FRA ORDOLIBERISTI...(tecniche di combattimento su terreno innevato-2)



Si sta concretizzando il prevedibile scontro che si profilava allorchè dicevamo:
"...la parte più consolidata di questo sistema di potere ragiona ormai su orizzonti che, incautamente, scontano la uscita di scena dell'(ex) partner "liquidato" e ormai, ai loro occhi, fuori dal "patto di sindacato" di controllo.

Il che, tuttavia, non impedisce che, in prospettiva, questa "epurazione" sia un segno di eccessiva sicurezza: perchè la forza monopolistico-mediatica del "controllo istituzionale sovranazionale", perderebbe, entro poco, il "villain", la cui presenza in scena era fondamentale per poter proseguire, contro ogni realtà dei fatti, nella falsificazione su cause e rimedi della crisi. Il che apre uno spiraglio di incertezza (almeno questo) sulla efficacia e sulla irreversibilità della "loro" strategia di distruzione della democrazia dei popoli."

La maggior forza ordoliberista italiana ha un assoluto bisogno di questo villain, non della sua definitiva distruzione: ed è perciò perfettamente comprensibile che la sua parte più estremista, oggi al potere, intenda conservarne la presenza tangibile, in modo da perpetuare la falsa contrapposizione che serve da "coperchio" della pentola.

In questo senso, la (repentina) defenestrazione della fazione ordoliberista "originaria" risulta un'operazione che,  sul piano dell'indirizzo politico-economico, è essenzialmente irrilevante (e, anzi indice di coerente pervicacia nel mutare le forme per mantenere gli obiettivi) e in fondo motivabile solo con l'esigenza di riassorbire elettoralmente il dissenso che la stessa propaganda mediatica ordoliberista aveva suscitato, facendo male i propri calcoli
Ma la giustificazione meramente propagandistica di tale defenestrazione,  implica allora che la reazione di tale fazione defenestrata risulti puramente strumentale (nella sostanza, il dissidio non sussiste, tranne forse che per posizioni obiettivamente minoritarie)
In effetti, solo un diretto e formale commissariamento da parte di forze estere avrebbe potuto evitare agli ordoliberisti, di qualunque fazione, di dover resuscitare la rappresentazione bipolare in precedenza propagandata.
Ma per farlo, sempre per quel "tappo" si deve passare

Dunque, la critica risulta scontatamente tattica: chiunque, al posto di Renzi, avrebbe dovuto passare per quella trattativa. In una forma o nell'altra. 
Ma al punto attuale, la "reviviscenza politica" proietta, sullo sfondo dell'intera politica italiana, l'ombra di un nascente ed inevitabile "badoglismo".

Perchè altrimenti, nel tempo necessario all'attuazione delle politiche autodistruttive (notare la concordia di Sapir con quanto qui affermato da molti mesi) che proprio la riforma elettorale dovrebbe consentire di svolgere al meglio, il consenso verrebbe omogeneamente perduto da qualunque delle due parti dell'attuale patto che si ritrovasse a governare.
Paradossalmente, anche questa legge non sarebbe da applicare con imminenti nuove elezioni, poichè, per entrambi i "contraenti", è molto meglio che a dover agire su quelle linee politico-economiche, e a bruciarsi, sia qualcun altro.
A meno che, appunto, una delle parti non voglia avvantaggiarsene per "prendere le distanze da se stesso" e non "autosmascherarsi". Ma sempre rimanendo fedele allo schema di fondo: pareggio di bilancio e "spaghetti tea-party".
Il che peraltro può riguardare le più varie fazioni politiche, scatenando la caccia al "who's the next Badoglio frattalico?"...
Chi è più spaghetti "tea-party", supply-sider e (solo secondariamente) "pareggista",  in Italia? Ecco, questi potrebbe persino ritenere di prendere la distanze dall'euro. Ma deve avere anche altri requisiti: non essere "europeista" ad ogni costo ed avere ottimi rapporti col "monarca" italico...
Il campo si restringe... 

IL PAREGGIO DI BILANCIO QUALE "EFFETTIVAMENTE" DISCIPLINATO DALLA LEGGE COSTITUZIONALE 1/2012.


Di seguito pubblichiamo il testo integrale della
LEGGE COSTITUZIONALE 20 aprile 2012, n. 1
Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale

Probabilmente vi parrà un esercizio scontato, dato che tale testo è comunque ampiamente accessibile sul web ed è stato oggetto di discussione e commento sui giornali (non in TV, dove il dettaglio non può andare oltre lo slogan, che è, semmai, seguito da feroci aggressioni polemiche contro ogni forma di riflessione critica basata su elementari principi economici e costituzionali).
Ma questo testo, ed il suo impatto applicativo, tanto scontati non sono. Non farò un "commentario" all'intera legge costituzionale, ma vi fornisco alcune brevi indicazioni di lettura per individuare i punti problematici del testo:
a- all'art.1, soffermatevi sul previsto secondo comma del "nuovo" art.81. In tale formulazione viene posta una duplice barriera "autorizzativa" dell'indebitamento: "gli effetti del ciclo economico" (locuzione alquanto imprecisa: non si poteva direttamente dire "la crescita del prodotto interno lordo" rilevata in un significativo periodo di riferimento, appunto, "il ciclo"?) nonchè il "verificarsi di eventi eccezionali". Meditate: il problema è che anche una stagnazione prolungata, divergente dalla crescita del resto del mondo, è di per sè un evento eccezionale (e si protraeva dall'introduzione dell'euro!). Non diciamo poi una recessione prolungata, che, in sè, è sicuramente un evento eccezionale, specie se rapportata alle serie storiche precedenti dell'andamento dell'economia italiana;
b- rapportate poi quanto appena evidenziato con l'art.5. Questo è sicuramente il più "clamoroso": basti dire che si imporrebbe "l'accertamento delle cause degli scostamenti rispetto alle previsioni", cosa che, in primo luogo, presupporrebbe una seria considerazione del "moltiplicatore fiscale". Almeno definendone la metodologia di applicazione in base alla più attendibile letteratura scientifica in materia.
Cosa che porterebbe alla autosconfessione di tutta l'impostazione della legge costituzionale, dato che si evidenzierebbe come il pareggio di bilancio - che è posto come "divieto" di indebitamento, cioè come sua assenza programmatica- risulterebbe essere la causa principale del ciclo economico negativo e, nel tempo, assumerebbe una inevitabile natura di "evento eccezionale" (se si fosse ancora connessi al buon senso)!
c- Un suicidio in diretta. Basti dire che il risparmio privato (ed il connesso livello necessario di investimenti) sarebbe realizzabile solo in caso di attivo costante (e rilevante) delle partite correnti della bilancia dei pagamenti, obiettivo che, nella situazione di cambio fisso, imporrebbe una costante svalutazione interna, addirittura perpetua (almeno finchè esista l'euro).
Ma anche "fuori dall'euro", il pareggio di bilancio imporrebbe lo stesso vincolo di attivo costante del CAB: altrimenti, dato il crollo di risparmio-investimenti che ne conseguirebbe, sarebbe una intenzionale enunciazione del programma di deindustrializzazione del paese.
E, comunque, in entrambe le ipotesi, il pareggio di bilancio implicherebbe la concentrazione del risparmio, e della stessa (magra) ricchezza dovuta a questo modello di ipotetica crescita, in capo ai soli percettori dei profitti da esportazione (ammesso che siano disposti poi a reinvestirli e non a cercare remunerazione in investimenti finanziari all'estero, come accade in Germania)
d- Ma una volta che, per "accertare le cause degli scostamenti rispetto alle previsioni", si facesse una corretta e realistica applicazione del moltiplicatore, si vedrebbe pure come lo stesso "pareggio" del saldo statale (o anche la sua costante drastica limitazione), pur mirato inevitabilmente a realizzare un costante attivo CAB, avrebbe effetti "ciclici", cioè prolungati - ed anche incontrollabili, data l'esistenza di condizioni valutarie, commerciali e cicliche proprie dell'intera economia mondiale-, nel determinare una "compressione-decrescita" della domanda interna tale da deindustrializzare comunque il paese.
Mi fermerei qui: di autentiche "perle", la legge costituzionale è letteralmente infarcita.
E so che le potreste altrettanto indicare voi stessi. 
Da notare che il pareggio si applica, (art.6), "a decorrere dall'esercizio finanziario relativo all'anno 2014." Ciò significherebbe, a rigore, che tale esercizio finanziario dovrebbe risultare già in pareggio: cioè che in esso, in base alla stessa legge di stabilità appena approvata, non sia consentito l'emergere di un indebitamento (deficit) a fine anno. Ma, a voler concedere che si tratti di una normativa "procedurale", cioè che si applicherebbe nei suoi effetti sostanziali dal 2015 e nelle sue forme deliberative circa il bilancio da approvare a maggioranza assoluta (dei componenti delle camere) dal 2014, avremmo un bel problemino: i presupposti e la finalità della legge costituzionale escludono "culturalmente e cognitivamente", in base alle teorie economiche propugnate unanimemente da tutte le forze politiche italiane e dall'UEM, che possa mai identificarsi una ragione dello scostamento nelle stesse politiche di "pareggio" e che ciò, pertanto, possa mai costituire una giustificazione per politiche correttive che ricorrano all'indebitamento (che, infatti, rischierebbero di ri-provocare un saldo negativo delle partite correnti).
Solo che, questo temuto effetto transitorio, a fronte della costante caduta di risparmi e investimenti, e della conseguente deindustrializzazione, sarebbe assicurato e strutturale proprio dall'applicazione costante del pareggio!
"l'attuale fase recessiva non è ora considerata, nè lo sarà mai, un ciclo economico particolarmente avverso, cosa che imporrebbe di ricercarne la cause e i metodi di correzione mediante intervento fiscale.
Magari ammettendo che la recessione, cioè il ciclo economico avverso, è provocato proprio dall'asservimento alle politiche UEM, e quindi, in definitiva, dall'adesione all'euro con tutti i suoi annessi e corollari, nel tempo. Anzi, stiamo in pieno "risanamento" (di cosa? I conti pubblici peggiorano costantemente rispetto a tutte le previsioni e il debito/PIL continua ad aumentare).
 Solo che, invece, con unanime parere di tutte (TUTTE) le forze politiche presenti oggi in Parlamento, la crisi viene tutt'ora definita "finanziaria" (e provocata dalla crisi internazionale del 2008, che, invece, ha ormai esaurito i suoi effetti fuori dall'area UEM); cioè la crisi sarebbe imputabile al deficit pubblico eccessivo e all'accumularsi del debito".
Divertitevi (se potete):

lunedì 20 gennaio 2014

CHIANCIANO 11 GENNAIO 2014: "LA GLOBALIZZAZIONE E' UN FATTO ISTITUZIONALE, UNA SCELTA POLITICA DI ALCUNI UOMINI CHE SE NE ASSUMONO LA RESPONSABILITA'"

Come molti di voi avranno saputo si è svolto l'11 e il 12 gennaio, a Chianciano, questo convegno:


Questo è il filmato del mio intervento, girato da Fiorenzo Fraioli. Buon ascolto!

VIDEO DELL'INTERVENTO DI LUCIANO BARRA CARACCIOLO

domenica 19 gennaio 2014

L'AUTOINGANNO DEL TECNICISMO "POP". ORDOLIBERISMO E COLLABORAZIONISMO INVOLONTARIO (...?)






Con una reazione "a scoppio ritardato", pervengono interessanti spunti dai commenti al post sul "batterio pop". E si rende così possibile una ulteriore focalizzazione (forse, ma non lo garantisco, rassegnatevi, più "pop", nel senso di più chiara rispetto alla sintassi condivisa...di cui sono un pessimo esponente).

I passaggi fondamentali che riguardano i presupposti e la finalità dell'adozione dl linguaggio "pop" da parte dei "controllori dell'economia", in attuazione meta-orwelliana, e quindi aggiornata alla contemporaneità, della strategia von Hayek, mi parrebbero i seguenti (ne possiamo discutere, ovviamente):
1. cominciamo col dire che nell'attuare il loro disegno, i "controllori dell'economia" prendono atto della realtà insaturatasi nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale. Si era infatti affermato un assetto socio-economico di tipo misto, cioè che aveva ibridato il modello produttivo e salariale di tipo "fordiano" (sul piano industriale) con gli elementi interventisti dello Stato post '29", che si estendevano dalla sua diretta presenza industriale all'odiato welfare "attivo" (attivo! non pietitistico di carità pubblica);

2. ne risultava la società dei consumi di massa, tollerata, nonostante il suo presunto carico inflazionistico determinato dalla crescita salariale (tipicamente "fordiana" e complementare alla istituzionalizzazione di forme salariali indirette e differite: prestazioni previdenziali, sanitarie e pensionistiche), per la sua capacità contrappositiva alla "maggior" minaccia dell'avanzata delle aree di influenza dei partiti comunisti;

3. ma lo stesso instaurarsi del consumismo di massa in sè, indicava una via di reazione che il sistema conteneva già in sè e consentiva, quindi, un'evoluzione adattativa che restaurasse il modello capitalista auspicato (quello del famoso passaggio di Kalecky): E questo nella coscienza che ciò potesse farsi con la dovuta gradualità necessaria per attendere sia il consolidarsi della imminente vittoria definitiva sul socialismo "reale" che lo sfaldamento della linea politico-elettorale incentrata su diversi livelli di concessione sul fronte del welfare (che pareva accomunare nella irreversibilità tutti i partiti in campo, nei limiti della funzionalità alla strategia di sedazione dell'avanzata dei partiti comunisti: inutile dire che era, specie in partiti come il Repubblicano USA, una linea "rebus sic stantibus" e tatticamente accettata obtorto collo. Lo stesso, poteva dirsi di settori della democrazia cristiana, come dimostra la vicenda dell'evoluzione delle posizioni sulla banca centrale da quella di Carli anni '70 a quella di Andreatta-Ciampi, primi anni '80);

4. preso atto che il campo su cui operare era quello della società di consumi di massa, la strategia graduale - che abbiamo visto perfezionarsi progressivamente nella formula dell'ordoliberismo, che sconta in sè l'esistenza e la riconversione delle istituzioni democratiche nella forma precedente- si sviluppa connaturalmente attraverso la penetrazione nella cultura pop e la sua estensione ad ogni campo della comunicazione, attraendovi pure la politica. E ciò tramite la sua prevalente rappresentazione televisivo-mediatica, in una intensità senza precedenti;

5.  Cos'è dunque il "pop"? "Dagli anni Sessanta in poi, di qualsiasi manifestazione artistico-culturale rivolta alla massa: moda, musica". Questa estensione progressiva diviene, come abbiamo detto, "metaorwelliana" nella misura in cui il linguaggio politicamente rilevante non è incentrato più direttamente sulla comunicazione del messaggio ideologico "condizionante", ma appunto "indiretta", riverberata attraverso la crescente centralità di modelli comportamentali  enfatizzati come conseguenza degli oggetti primari del "pop": appunto la musica (e i divi musicali), la moda (e le modelle, come pure il possesso aggiornato di ciò che è trendy), in genere "l'immagine". 
E quindi, progressivamente, contamina ogni altro fenomeno comunicativo, come la psicologia, condensata nelle vulgate che spiegano fenomeni come crisi coniugali (svincolare dalla radice reale del mutamento del modello occupazionale), fatti di cronaca nera (in precedenza affidati ad analisi sociologiche, connettibili a condizioni di disagio economico),  e le vicende di personaggi sportivi e dello spettacolo. Il tutto sempre ben al di là della considerazione della loro eccezionalità di posizione sociale (un grande salto dalla cronache tipo "Liz-Richard Burton" che atterra dalle parti di Hollande-affaires vari, puntualmente oscurando ben altri aspetti decisionali di interesse, molto più concretamente, economico-fiscale-occupazionale: specie per chi non crede alle coincidenze e pone attenzione sulle "sincronicità");

6. questi personaggi di potere, divenuti strategicamente "pop" (per chi avvesse dubbi, si pensasse a Carlà e a Michelle Obama che fa fitness e prescrive diete) vengono inevitabilmente, da un lato, reinventati con le crisi psicologiche accomunanti le loro con le esperienze dei cittadini comuni; pensate alla "tette" della Jolie e, prima, alla vicenda Clinton-stagista (anch'esso dissimulante cosucce come l'abolizione del Glass-Steagall e l'introduzione del deficit-ceiling), in un processo ascendente e discendente di tipo circolare (si pensi al travaglio dell'adozione di bambini, possibilmente da parte di singles e possibilmente del terzo mondo), dall'altro con la frequentazione da parte dei "vips", dei diritti cosmetici: si pensi a Lady D. (che rinvia alla traiettoria propagandistica su Madre Teresa!), ai concerti "for Africa" negli anni '80 (mentre ben altro accadeva nelle società in cui i divi pop musicali distraevano i propri fruitori dalle trasformazioni isitituzionali in atto), all'attivismo contro il (generico) razzismo e pro-ambientalista di noti nomi della politica e dello spettacolo che si riveleranno poi dei convinti assertori delle soluzioni neo-liberiste...dall'alto di una legittimazione "impegnata" coltivata in una  condizione economica assolutamente privilegiata;

7. Ci siamo fin qui? 
Lo stesso uso strumentale delle dottrine economiche neo-liberiste viene realizzato attraverso la loro trasposizione in vulgate mediatiche che utilizzano, naturalmente in modo graduale, lo stesso linguaggio "pop": e per farlo si servono del complemento di quei messaggi culturali musicali, gossip, psicologisti, che intanto avevano creato una descrizione del mondo incentrata sulla "immagine". Il culto della "immagine" rende economicamente e politicamente "neutro" il ruolo sociale di chi è protagonista delle vicende narrate: tanto cinema USA degli anni 80-90 lo attesta, lasciandoci pronti a identificarci più con le vicende umane che con le ben più importanti responsabilità delle scelte politiche, dirette ed indirette, implicite nei comportamenti dei vari "vips". Ovvero, dei comportamenti "modello" offerti dal sistema mediatico-narrativo, che di fatto, ci rendono assuefatti ai primi; compreso quando ci mostrano i cattivi di Wall Street, risolvendo il problema in una traiettoria moralistica tanto improbabile quanto incapace di proporre una soluzione strutturale).

8. Se tutto è "pop", o meglio offerto nella comune descrizione dell'involucro "pop", e quindi a contenuto predeterminato sulla essenzialità dell'immagine e dello psicologismo fuorviante, tutto "appare" espresso in modo comprensibile e, date certe condizioni, giustificabile, e persino condivisibile, nel senso che il messaggio, anche politico-economico, viene trasmesso quando è ormai maturo per un processo di identificazione: il "governato-medio" è portato a credere che avrebbe, lui stesso, nell'illusione di conoscere le premesse essenziali della decisione,  agito nello stesso modo.

Mi auguro che questa (parziale) focalizzazione della trasformazione "pop" di ogni aspetto della vita sociale ed economica, spieghi meglio come anche lo strumento delle dottrine economiche, quelle ritenute convenientemente funzionali, abbia subito lo stesso processo: la stragrande maggioranza del dibattito passa per slogan omogenei al linguaggio mediatico utilizzato nel restante spettro comunicativo e affidato a personaggi la cui immagine, più o meno, è credibile per via della stessa identificabilità "pop" che ne esclude una radicale diffidenza logico-critica. Così è avvenuto per debitopubblicospesapubblicaimproduttiva-ridurreilperimetrodelloStato.castacriccacorruzione-brutto.
Potremmo parlare di un neo-tecnicismo "pop", dello stesso segno di quello che consente a ciascuno di noi di sentirci, ingannevolmente, critici cinematografici o capaci di selezionare un viaggio culturalmente "interessante" (altro grande fenomeno decettivo che meriterebbe un discorso a sè).

Da tutto ciò è meglio percisato il senso della mia risposta a Frank:
"In realtà volevo esprimere un concetto un pò diverso: non "l'economia", ma "i controllori" dell'economia, come fenomeno di potere, prima ancora che come disciplina accademica (anch'essa utilizzata strumentalmente), hanno, attraverso i media, creato un discorso globale con il linguaggio pop. Di cui la pubblicità è parte (ad es; "abbiamo l'escusiva", e da lì in poi), fornendo ma anche facendosi rifornire, da accademia, cinema, gossip e, ovviamente, sintassi e contenuti giornalistici: tutti quanti insieme creano una sorta di ghost institution che predetermina e fertilizza a livello di massa, il pensiero acritico su cui attecchisce la trasformazione politico-istituzionale.
E questo, in modo tale che la trasformazione non incontri resistenze, dato che chi la conduce appare condividere tale linguaggio (prima gli affaticati negoziatori della costruzione europea, offerti, incredibilmente, come costruttori di "pace", poi i neo-liberisti "alla mano", impunemente ritenuti credibili nel voler tutelare l'occupazione).

Si è creata così una sostanza apparente, un discorso-involucro indistinguibile dai fini dissimulati, che ha tramutato i vecchi valori in slogan che li svuotano in modo rassicurante, offrendo la continuità una illusoria identificazione comune: perchè tutto è pop, cioè sintetizzabile in gingles equiordinati nella loro rilevanza ("lo vuole l'Europa", "combattiamo il razzismo", "ridurre il debito assicura la stabilità finanziaria", "occorre pensare alle fasce più deboli", "il femminicidio", "l'emergenza mal tempo").
Cioè, la scala delle priorità sfugge completamente, perchè LE CONNESSIONI TRA CAUSA ED EFFETTO SONO NASCOSTE DALL'URGENZA DEL MESSAGGIO ESPRESSO NEL LINGUAGGIO "pop". 
Cioè l'illusione è che sintassi e terminologia condivise siano un flusso di comunicazione che ciascuno di noi offrirebbe alla stessa maniera. In fondo, l'eurocheportaall'inflazioneatrecifre ne è il prodotto.
Ciò che è mutamento traumatico, è livellato in una percezione culturale condivisa (appunto pop), che non consente di non incrinare la senzazione di contiguità tra un'elite spietata e coloro che ne subiscono le conseguenze. Almeno nella percezione "media" e prevalente."

E in questo senso vi riporto il commento di Velo di Maya che aggiunge un buon coronamento del processo di elaborazione di questo aspetto culturale così essenziale a spiegare la situazione in cui ci troviamo e, al tempo stesso, la sua apparente irreversibilità:
 "...ricorda un po' il Guenther Anders de "L'Uomo è antiquato":
"Questa fornitura di mondo preoggettuale non può essere mai presa in sufficiente considerazione. Essa infatti è caratteristica della condizione d’”illibertà comoda” che regna nel mondo del conformismo odierno. Essa reprime ogni possibile azione e ciò vuol dire appunto sia possibilità di pigrizia che d’illibertà.

- Oggi la maggioranza crede di possedere tutto grazie alle sue catene (di cui non si accorge)

-Ma ciò che ignoriamo è che questa nostra odierna “libertà” esiste solo perché alla “servitù precontrattuale” si è sostituito un “asservimento post-contrattuale”; una servitù che diventa incondizionata quando non lavoriamo; ed è incondizionata perchè non siamo neppure abbastanza liberi per avvertirla; e questa servitù post-contrattuale dovrebbe renderci invero terribilmente scettici nei confronti del nostro orgoglio di libertà
".

Non è che poi l'approfondimento possa concludersi qua: questo è solo un avvio e al tempo stesso uno stimolo di riflessione, che già ci consente di calibrare il tipo di percorso per arrivare al superamento di tutto ciò.
Comunque lo si voglia intendere, si tratta di una vasto recupero culturale del pensiero critico diffuso: diffuso ma non "di massa", perchè se tale fosse, nell'immediatezza, esso sarebbe inevitabilmente guidato dalle stesse forze che dominano il mercato delle idee "pop", e come tale rigenerato in altre forme.
E ci vorrà inevitabilmente del tempo. Forse più di quello che ci lasciano i fatti economici in inesosabile accelerazione: ma, d'altra parte, nel lungo periodo, inevitabilmente vincente.
Ma avete visto le facce di quelli che oggi si propongono alla guida del sistema ordoliberista (specialmente in Italia)? Suvvia, perdere si può, ma non per mano di pensatori di questo livello! Nella maggior parte dei secoli. gli italiani sono stati meglio di così, anche nell'oggi vituperato mondo della saggezza popolana...Non "pop".