Riccardo Seremedi ci offre un'ampia insight sulla "realtà", - in questo caso degli Stati Uniti di oggi-, con un'accuratezza e una profondità che non c'è...Report o Iacona che tenga.
L'estrema vastità della sua monografia ha portato a dover suddividere in 5 puntate (ciascuna a sua volta non certo breve) quello che può essere visto come un vero e proprio libro-inchiesta, che descrive sì gli USA, ma che ci guida nei gironi infernali di ciò che accade ed accadrà anche nelle nostre vite...globalizzate.
Troverete, trattati nel corso delle 5 puntate, anche temi qui affrontati in precedenza: dobbiamo essere grati a Riccardo per averci messo a disposizione un così ricco agglomerato di fatti e dati, storico-economici nonchè politico-culturali, e perciò, il mio caloroso invito è quello di seguire, senza perdersene neanche una, le varie puntate che via via pubblicheremo (eventualmente inframezzate da post su altri argomenti) nei prossimi giorni.
FLAGS OF OUR FATHERS: DECADENZA DI UNA NAZIONE
LA
RINASCITA DI WALL
STREET – Parte Prima
1. Settant'anni dopo
“Historia magistra vitae”, solevano rammentare i latini e l'evo tumultuoso
ed inquieto che stiamo vivendo ci offre – a ben guardare – innumerevoli spunti
e suggestioni che si prestano a riletture e parallelismi affascinanti.
“Flags of our Fathers” () è un film uscito nel 2006 – diretto dal
celeberrimo attore e regista Clint Eastwood – nel quale viene narrata la
cruenta battaglia di Iwo Jima (19 febbraio - 26 marzo 1945) e più specificatamente le vicende
che riguardarono la genesi e gli sviluppi propagandistici derivanti dalla
celebre e controversa fotografia di Joe Rosenthal.
Sulla brulla sommità del monte Suribachi, con un cielo basso e livido a fare da sfondo, cinque marines e un marinaio sono immortalati nel momento supremo in cui la bandiera americana viene issata: l'istantanea dimostrerà di possedere, fin da subito, una forza iconica straordinaria che permetterà al Dipartimento militare statunitense di promuovere un forte senso patriottico funzionale – fra le altre cose – al buon esito dell'allora incombente “Seventh War Loan”, il nuovo prestito popolare che avrebbe dovuto rimpinguare gli esangui bilanci bellici.
Sulla brulla sommità del monte Suribachi, con un cielo basso e livido a fare da sfondo, cinque marines e un marinaio sono immortalati nel momento supremo in cui la bandiera americana viene issata: l'istantanea dimostrerà di possedere, fin da subito, una forza iconica straordinaria che permetterà al Dipartimento militare statunitense di promuovere un forte senso patriottico funzionale – fra le altre cose – al buon esito dell'allora incombente “Seventh War Loan”, il nuovo prestito popolare che avrebbe dovuto rimpinguare gli esangui bilanci bellici.
Immagini fortemente evocative come questa hanno
inoculato nell'immaginario collettivo il mito del “Manifest Destiny” e
della Nazione-guida del “mondo libero”.
Quasi settant'anni dopo Bloomberg consegna ai posteri la sua personalissima variazione sul tema, più in sintonia con i “Nuovi Tempi”: la Stars and Stripes è ancora lì, manca l'elemento umano surrogato dalla “presenza” del New York Stock Exchange - il MERCATO - che occhieggia compiaciuto il vessillo leggermente sfocato, quasi un segno di subalternità in questo indissolubile matrimonio morganatico.
Quasi settant'anni dopo Bloomberg consegna ai posteri la sua personalissima variazione sul tema, più in sintonia con i “Nuovi Tempi”: la Stars and Stripes è ancora lì, manca l'elemento umano surrogato dalla “presenza” del New York Stock Exchange - il MERCATO - che occhieggia compiaciuto il vessillo leggermente sfocato, quasi un segno di subalternità in questo indissolubile matrimonio morganatico.
L'articolo, intitolato “L'eccezionalismo
americano prospera in mezzo alla stentata economia globale”, ci informa
che “gli Stati Uniti stanno dimostrando di essere un'oasi di benessere nel
mezzo di un'economia mondiale in difficoltà”, dove il calo della
disoccupazione e il record delle esportazioni registrato nel mese di
agosto hanno permesso un ulteriore rialzo delle quotazioni azionarie e
un'accresciuta fiducia nell'economia.
Nonostante vi siano diverse problematiche da
risolvere, le prospettive rimangono “relativamente positive”,
considerando che “le aziende che compongono l'indice S&P 500 sono le più
in salute degli ultimi decenni, con il rapporto indebitamento netto/profitti
più basso da almeno 24 anni, 3.590 miliardi di dollari in liquidità e titoli
negoziabili, e utili record per azione”.
L'entusiasmo che traspare dal servizio è del tutto
comprensibile, considerando che l'attività di Bloomberg L.P. (al
netto del settore media, dedicato alle news finanziarie) si
esplica principalmente nella fornitura di una piattaforma informatica per la
contrattazione finanziaria – il Bloomberg Terminal - (costo annuale: $20.000) che consente ai
professionisti del trading di analizzare – in maniera simultanea e
sincronica, 24 ore su 24 – l'andamento mondiale dei listini, i rapporti di
cambio, i tassi, i prezzi di commodities, e tante altre variabili
tecniche, che vengono poi vagliate da potenti computer utilizzanti
algoritmi che elaborano funzioni previsionali in grado di suggerire cosa e
quando comprare o vendere.
Fondata nel 1981, Bloomberg ha acquisito, step
by step, lo status di leader indiscusso nel settore del “market data” nel 2011,
quando, dopo una lunga rincorsa, ha superato il rivale di sempre Thomson-Reuters,
arrivando a controllare il 30,44% del mercato;
secondo stime del maggio 2010, la multinazionale newyorchese conta circa
315.000 abbonati al Bloomberg Terminal in tutto il mondo ed è del tutto
palese il peso politico (Michael Bloomberg, il suo fondatore, è stato sindaco
di New York dal 1 gennaio 2002 al 31
dicembre 2013) e finanziario che un tale colosso può esercitare: la stessa Wall Street ne è, fin dagli anni Novanta, interlocutore privilegiato nonché partner strategico.
Alla luce di quanto visto finora non deve quindi
sorprendere il tono enfaticamente adottato, così come non deve sorprendere la
scelta di inserire, a corredo dell'articolo, l'immagine del sancta sanctorum
del capitalismo mondiale per indirizzare e rafforzare inconsciamente nel
lettore l'idea che la – molto opinabile - ripresa economica americana arrivi,
volenti o nolenti, dal mercato borsistico.
2. Wall Street e Corporate America vanno
all'incasso...
In effetti, dal loro estatico punto di vista, è
innegabile che il momentum del mercato azionario appaia alla “Big
Board” e ai corporate media incaricati
di celebrarne le gesta come il “migliore dei mondi possibili”.
Il 2013 - è stato, come accade ormai da un lustro, decisamente positivo per Wall Street: il Dow Jones ha guadagnato il 26,5% (miglior risultato annuale dal 1995), lo S&P500 il 29,6% (migliore performance dal 1997) e il Nasdaq Composite il 38,3%.
Il 2013 - è stato, come accade ormai da un lustro, decisamente positivo per Wall Street: il Dow Jones ha guadagnato il 26,5% (miglior risultato annuale dal 1995), lo S&P500 il 29,6% (migliore performance dal 1997) e il Nasdaq Composite il 38,3%.
E' dal 9 marzo 2009 – quando lo S&P500
scese a 676 punti base – che il principale indice americano sta mettendo a segno
continui rialzi: +68,6% a marzo 2010, + 15,7% nello stesso mese del 2011, +3,9%
nel 2012, +13,2% nel 2013, +21% a marzo 2014.
L'esplosione di liquidità che sta alimentando la
corsa degli indici azionari ha accresciuto a dismisura i profitti delleimprese, arrivati al livello più alto da almeno 85 anni.
Il Dipartimento del Commercio ha calcolato che, solo
nel 2013, esse abbiano accumulato qualcosa come 2.100 miliardi di dollari,
pagandone 419 miliardi in imposte sulle società; i 1.700 miliardi di dollari di
utile hanno rappresentato il 10% del PIL annuale, il miglior risultato di sempre che ha eclissato il 9,7% del 2012, a sua volta un record:
fino al 2010, il picco maggiore nei profitti netti fu il 9,1% del 1929, anno
che segnò - peraltro – l'esordio nelle registrazioni statistiche
governative.
Se teniamo conto delle imposte, i profitti
aziendali hanno contribuito per il 12,5% del totale dell'economia, replicando
il record del 1942 quando la Seconda Guerra Mondiale faceva girare a pieno
regime la macchina produttiva statunitense: va ricordato che allora l'aliquota
effettiva dell'imposta applicata alle società arrivava quasi al 55%, in
stridente contrasto con quella registrata lo scorso anno che ha toccato a
malapena il 20%.
L'attività di lobbying esercitata dalle
grandi corporations per realizzare maggiori guadagni – a fronte di
minori tasse versate – è sempre stata assai vigorosa, vieppiù dalla Grande
Recessione che aveva portato ad una forte caduta degli utili nel 2009.
Da allora, in tre degli ultimi cinque anni il tasso
effettivo è stato inferiore al 20%: teoricamente l'aliquota fiscale superiore
che si applica negli Stati Uniti è del 35%, ma le forti pressioni testé
enunciate, nonché la miriade di crediti d'imposta e deduzioni hanno permesso –
in particolare per le imprese multinazionali – di ottenere aliquote fiscali
effettive molto vantaggiose.
3. … e “Main Street” sta a guardare
Purtroppo i dipendenti non se la passano
altrettanto bene; secondo i dati forniti dal succitato dipartimento, il totale
delle retribuzioni e degli stipendi dello scorso anno ammontava a 7.100
miliardi di dollari, il 42,5% di tutta l'economia (il minimo mai registrato) e
in discesa rispetto al 42,6% del 2012.
E' da sottolineare che negli Stati Uniti i redditi
da lavoro dipendente (employee compensation) - () oltre al corrispettivo in denaro – possono
includere benefits che prevedono l'assicurazione sanitaria, piani pensionistici, assicurazioni sulla
vita ecc. che il datore di lavoro riconosce – almeno in parte – ai propri
dipendenti: anche nell'analisi del parametro che contempla i salari più i benefits
erogati dagli imprenditori si registra una perdita di ricchezza dei lavoratori
americani, poiché nel 2013 il totale registrato è stato di 8.900 miliardi di
dollari (52,7% del PIL), in calo rispetto al 53% del 2012 e livello più basso
dal 1948.
Tale tendenza sembra ascrivibile all'ennesima
ridistribuzione di valore verso l'alto, visto che anche i benefits – che
erano stati in costante aumento per molti decenni – hanno subìto una vistosa
contrazione: basti pensare che nel 2013 la percentuale è stata del 10,2%, la
più bassa dal 2000.
Il modo migliore per rendersi conto della crescente
disparità distributiva che si è andata via via sedimentando è confrontare il
2013 con il 2006, l'ultimo
anno positivo prima dell'acuirsi della recessione: nel 2013, corretti per
l'inflazione, gli utili societari lordi (prima della tassazione) sono risultati
più alti del 28% e, tenendo conto del già ricordato minor prelievo fiscale
tendenziale, sono saliti fino al 36% netto; allo
stesso tempo, il totale dei redditi da lavoro è aumentato del 5%, inferiore
all'aumento del 7% della popolazione in età lavorativa nello stesso periodo.
4. Storia di un tracollo annunciato: un'analisi di
Robert Reich
Analisti politici ed economici, non sempre
disinteressati e super partes, hanno ipotizzato che tali sperequazioni
siano - in buona sostanza - da attribuirsi all'immanente globalizzazione che ha
portato alla chiusura e alla delocalizzazione dei centri di produzione locali
verso paesi esteri con mano d'opera a basso costo, congiuntamente al declino
del potere contrattuale dei sindacati.
Ciò è formalmente corretto, ma giova ricordare agli apologeti della“globalizzazione” che tale termine non definisce un qualcosa di astratto, ineluttabile e slegato dall'umano libero arbitrio: tutt'altro.
“Globalizzazione” è una “parola-contenitore” che assume in sé – occultandolo - il paradigma pluritrentennale, in odor di Neofeudalesimo, del Capitalismo postmoderno anglofono che, partendo dalla “GreatRegression” fino ai giorni nostri, riconosce nella lotta al welfare state l'obiettivo precipuo della Restaurazione, da realizzarsi soprattutto attraverso un processo di precarizzazione e deflazione salariale che – mediante la gestione privatistica delle risorse e della moneta stessa, mantenuta artificialmente scarsa – porti alla genesi di un uomo perennemente indebitato e, in ultima analisi, ricattabile.
Ciò è formalmente corretto, ma giova ricordare agli apologeti della“globalizzazione” che tale termine non definisce un qualcosa di astratto, ineluttabile e slegato dall'umano libero arbitrio: tutt'altro.
“Globalizzazione” è una “parola-contenitore” che assume in sé – occultandolo - il paradigma pluritrentennale, in odor di Neofeudalesimo, del Capitalismo postmoderno anglofono che, partendo dalla “GreatRegression” fino ai giorni nostri, riconosce nella lotta al welfare state l'obiettivo precipuo della Restaurazione, da realizzarsi soprattutto attraverso un processo di precarizzazione e deflazione salariale che – mediante la gestione privatistica delle risorse e della moneta stessa, mantenuta artificialmente scarsa – porti alla genesi di un uomo perennemente indebitato e, in ultima analisi, ricattabile.
L' articolo di Robert B. Reich - () apparso sul “New York Times” nel settembre 2011 – focalizza
efficacemente i termini della questione.
Reich - ex Segretario del Lavoro Usa e docente alla University of California, Berkeley - dimostra che “Great Regression” e “globalizzazione” sono due facce della stessa medaglia e che la vera ragione è politica; a partire dalla fine degli anni 70, la classe media ha cominciato a indebolirsi e, benché la produttività e l'economia crescessero, i salari hanno iniziato ad appiattirsi per effetto delle politiche di esternalizzazione messe in atto dalle grandi compagnie americane che - sfruttando appieno l'intermodalità del container - hanno preferito, per ragioni di profitto tout court, tagliare posti di lavoro in patria per produrre all'estero a prezzi più convenienti (ndr. la famosa globalizzazione).
Reich - ex Segretario del Lavoro Usa e docente alla University of California, Berkeley - dimostra che “Great Regression” e “globalizzazione” sono due facce della stessa medaglia e che la vera ragione è politica; a partire dalla fine degli anni 70, la classe media ha cominciato a indebolirsi e, benché la produttività e l'economia crescessero, i salari hanno iniziato ad appiattirsi per effetto delle politiche di esternalizzazione messe in atto dalle grandi compagnie americane che - sfruttando appieno l'intermodalità del container - hanno preferito, per ragioni di profitto tout court, tagliare posti di lavoro in patria per produrre all'estero a prezzi più convenienti (ndr. la famosa globalizzazione).
Si è quindi assistito al paradosso di grandi
aziende americane - con “tanta lealtà verso gli Stati Uniti quanto quella di un satellite GPS” - che
facevano enormi profitti all'estero, diventando “aziende globali”, e venivano
premiate dal governo con il dimezzamento dell'aliquota dell'imposta sul reddito
e ricchi tycoon che erano autorizzati a
trattare il loro reddito come “capital gains”, tassato non più del 15%.
Con il declinare delle agglomerazioni industriali
rifacentesi al modello fordista, l'economia americana virava decisamente verso
una crescente finanziarizzazione, dove il “premio” per centinaia di laureati di
università d'élite e corsi di Master of Business Administration era
la scalata a posizioni di prestigio a Wall Street ; contestualmente il
governo dava inizio, con “crescente fervore”, alla liberalizzazione e
privatizzazione dell'economia, smantellando le reti di protezione sociale (solo
il 27% dei disoccupati è coperto dall'assicurazione per la disoccupazione), permettendo alle aziende di
depotenziare i sindacati e minacciare i dipendenti che cercavano di
organizzarsi.
Ma la cosa più eloquente compiuta da Washington
è stata la deregolamentazione di Wall Street che ne ha sancito la
sostanziale impunità, garantendone implicitamente le perdite e favorendo
pertanto il perpetuo moral hazard;
così facendo, ha permesso alla finanza di rastrellare una parte sempre
più grande dei profitti della nazione. Nel 2007, le società finanziarie hanno
rappresentato oltre il 40% dei profitti, rispetto al 10% durante la “Grande
Prosperità” (1947-1977).
Reich fa osservare che l'attuale concentrazione di
reddito e ricchezza in così poche mani
riporta la politica americana a quello che Marriner S. Eccles – ex
presidente della Federal Reserve – descrisse negli anni '20, quando
persone “con una grande potenza economica ebbero un'indebita influenza nella
creazione delle regole del gioco economico” ; tale situazione non è
emendabile fintantoché non si provvederà alla costruzione di una strategia per
rilanciare il potere d'acquisto della classe media americana: la spesa del 5%
più ricco non può condurre alla creazione di un circolo virtuoso che dia più
posti di lavoro e standard di vita più alti, né si può contare sulle
esportazioni per colmare la lacuna: “è impossibile per ogni grande economia,
compresi gli Stati Uniti, diventare un esportatore netto”.
5. L'insostenibile leggerezza dell'outsourcing:
un'analisi di John Hussman
Sulla scorta di quanto detto poc'anzi, emergono
forti punti di convergenza con l'analisi che John Hussman ha elaborato circa la metamorfosi socio-economica
del suo paese.
Hussman – già docente di economia presso la University of
Michigan – fa risalire l'infausto e decisivo punto di svolta alle
aggressive politiche di fine anni '90, tendenti a scoraggiare il risparmio in
favore del consumo finanziato con l'indebitamento, nonché a facilitare
l'allocazione dei risparmi nella speculazione finanziaria piuttosto che verso
investimenti produttivi. (per es.
abrogazione Glass-Steagall Act, novembre 1999 – ndr.)
Tutto ciò, oltre a minare il futuro tenore di vita,
ha drasticamente abbassato il tasso di investimento interno lordo, che dal 1999
si è attestato ad una crescita annua di appena l'1,4%, rispetto al 4,9% del
precedente mezzo secolo: come era facile prevedere, il tasso di partecipazione
della forza lavoro degli Stati Uniti è collassato al punto più basso dagli anni
'70, con ovvie ricadute negative su salari e stipendi e sul reddito reale medio
familiare, decresciuto di un cumulativo 9%.
Sebbene - a partire dal 1999 - le statistiche
mostrino una modesta crescita del 2,1% della produzione oraria che potrebbe far
pensare a relativi miglioramenti dal lato occupazionale, in realtà – afferma
Hussman – ciò è riconducibile alla forte influenza determinata dalle
importazioni degli Stati Uniti legate all'outsourcing (esternalizzazione)
di mano d'opera straniera: Washington importa beni intermedi che avrebbe
prodotto in patria, ma a prezzi più convenienti, e ciò comporta che la
deduzione del valore delle importazioni dal PIL
è proporzionalmente inferiore alla perdita di corrispondente occupazione
negli Stati Uniti: l'outsourcing estero ha l'effetto di aumentare
artificialmente i dati sulla produttività, perché nel sottrarre le importazioni
dal PIL non si tiene adeguatamente conto del loro impatto sul risultato finale;
tuttavia la manodopera straniera non viene conteggiata nel denominatore e, di
conseguenza, la produttività degli operai americani ne risulta aumentata.
Hussman sostiene che la spesa in deficit e,
soprattutto, lo stimolo monetario possano essere utili per alleviare i problemi
dell 'economia, a patto che tali pratiche
- altrimenti efficaci – non diventino consuetudinarie e finiscano per
risultare distorsive; è importante,
infatti, esaminare quale sia la base
qualitativa del capitale che questi stimoli vanno ad innescare: il problema
principale – nota Hussman – è che dalla fine degli anni ' 90 la leva monetaria
attuata dalla Fed è servita, più
che altro, a garantire la stabilità finanziaria e a risolvere i problemi della
speculazione, nella convinzione che ciò fosse sufficiente a generare una
crescita diffusa.
Tale condotta si è rivelata palesemente fallace ed
ha creato invece un accumulo di debito che
non può, in definitiva, essere rimborsato senza disporre dei necessari mezzi
produttivi per farlo: infatti, come rivela SocGen, le
“imprese degli Stati Uniti possiedono effettivamente un sacco di soldi, che
attualmente è a livelli record, ma detengono anche livelli record di debito.
L'indebitamento finanziario netto (quindi attualizzando la grande liquidità di
cassa) è del 15% al di sopra dei livelli osservati nel 2008/09 [...]”.
Ne
discende che il sistema economico americano è diventato una sorta di Ponzi
Economy, dove i lavoratori domestici sono sottoccupati e consumano oltre i
loro mezzi, i profitti delle imprese si espandono a una quota record di
PIL - sostenuti dai deficit di
famiglie e governo - mentre l'occupazione locale viene sostituita da beni e da
lavoro in outsourcing : ciò porta alla disincentivazione degli
investimenti produttivi da parte delle aziende, che – stimolate dai tassi di
interesse a zero - emettono nuovo debito volto soprattutto a riacquistare le
proprie azioni (buyback) per aumentarne artificiosamente il valore:
tutto viaggia sul filo del rasoio, “e come ogni schema Ponzi, tutti sono
felici finché nessuno cerca di essere rimborsato”.
6. Chi fa da sé...
Il “buyback” è, senza dubbio, l'elemento che –
unitamente all'uso di “contabilità creativa”, che vedremo in seguito - ha conferito alle performance dei
listini di Wall Street un'aura di estrema, pericolosa artificiosità e
sopravvalutazione: un interessante ed esaustivo paper di William Lazonick – professore di economia alla University of Massachusetts
Lowell – ne illustra, in modo
mirabile, le caratteristiche e i fini attuativi ad esso sottesi.
Lazonick
muove dalla considerazione che le decennali disparità distributive - a favore
del 0,1% della popolazione - e il progressivo degrado del lavoro salariato
siano ascrivibili, in gran parte, proprio all'utilizzo di tale pratica; si
tenga conto che, nel periodo che va dal 2003 al 2012, le 449 società dell'indice S&P500 hanno destinato il 54% dei loro guadagni
(2.400 miliardi di dollari) al riacquisto delle proprie azioni, quasi tutte
attraverso operazioni sul “mercato aperto”. E se pensiamo che i dividendi hanno
assorbito un ulteriore 37%, è facile
immaginare quanto sia rimasto per investimenti di carattere produttivo o per
fornire redditi più alti ai dipendenti.
Il prequel
della storia che conosciamo oggi va collocato pochi anni dopo il “Grande
Crollo” del 1929, dove con il Securities Exchange Act del 1934 vengono
poste in essere tutta una serie di norme atte a scoraggiare comportamenti
speculativi, tra i quali anche il massivo riacquisto di azioni proprie.
Fattore
decisivo - e concatenato agli odierni accadimenti - si riveleranno le politiche
di deregulation attuate dall 'amministrazione Reagan all'inizio
degli anni '80, quando l'impianto complessivo dell'Act subisce i primi
poderosi colpi che ne minano l'efficacia; particolarmente esiziale si rivelerà
la scelta – non casuale - di affidare la presidenza della SEC (Securities
and Exchange Commission) a John Shad -
ex vice presidente di E.F. Hutton - primo insider di Wall Street a
guidare la Commissione
in 50 anni.
E'
in questa temperie culturale che la
SEC istituisce - siamo nel 1982 - la “Rule 10b-18” del Securities
Exchange Act che autorizza le aziende a riacquistare le proprie azioni
sull'open market – in pratica - senza limiti normativi.
A prima vista, sembra tutto ragionevole: i principali funzionari di una società (previa autorizzazione del consiglio di amministrazione) riacquistano - annunciandolo pubblicamente - una certa quantità di dollari di azioni in un determinato periodo di tempo, badando che l'importo non superi un “safe harbor” (porto sicuro) del 25% rapportato al volume medio giornaliero delle ultime quattro settimane di scambi: a questo punto, però, subentra la backdoor del “sistema” lasciata aperta dal “distratto” regolatore, che consente alle aziende – vincolate solo a segnalare il totale di riacquisto su base trimestrale ma non giornaliera – di venire a trovarsi nella condizione di essere formalmente in regola, risultando impossibile determinare se sia stato violato il limite del 25% senza un'indagine speciale.
A prima vista, sembra tutto ragionevole: i principali funzionari di una società (previa autorizzazione del consiglio di amministrazione) riacquistano - annunciandolo pubblicamente - una certa quantità di dollari di azioni in un determinato periodo di tempo, badando che l'importo non superi un “safe harbor” (porto sicuro) del 25% rapportato al volume medio giornaliero delle ultime quattro settimane di scambi: a questo punto, però, subentra la backdoor del “sistema” lasciata aperta dal “distratto” regolatore, che consente alle aziende – vincolate solo a segnalare il totale di riacquisto su base trimestrale ma non giornaliera – di venire a trovarsi nella condizione di essere formalmente in regola, risultando impossibile determinare se sia stato violato il limite del 25% senza un'indagine speciale.
Secondo
recenti analisi di Capital IQ, il
maggior acquirente di titoli nel primo trimestre 2014 è risultato essere....
l'indice S&P500 al gran completo, o più precisamente le società ivi
quotate, che cumulativamente hanno riacquistato azioni per la cifra monstre
di 160 miliardi; taluni potrebbero
interrogarsi sui motivi che spingono grandi aziende come Apple, IBM,
Exxon Mobil ecc. a impiegare una quantità così esorbitante di risorse
per riacquistare gran parte del loro flottante e, non avendo contezza del
meraviglioso mondo delle stock options la risposta tarderebbe ad arrivare.
7. Stock options: audentes fortuna iuvat
Le stock options sono forme di incentivazione, nate negli Stati Uniti alla fine degli anni '50 del secolo scorso, concernenti l'opzione sull'acquisto o la sottoscrizione di azioni che una società quotata in Borsa - per fidelizzare i dipendenti migliori – offre loro a un prezzo determinato (prezzo d'esercizio) e che può essere esercitata entro una certa data.
A partire dagli anni '80, creativi, lavoratori e impiegati furono via via esclusi da questo tipo di gratifica e il concetto di stock options si fuse al sistema finanzario-borsistico, diventando negli anni il sontuoso banchetto dei “Nuovi Signori“ di Wall Street.
La verità – di per sé semplice e affatto banale – è legata alle modalità con cui i top manager percepiscono i loro compensi: infatti, gli strumenti basati su titoli costituiscono la maggior parte della loro remunerazione, e l'aumento – ancorché artificioso - della richiesta di azioni di una società mediante i buyback nell' open market alza automaticamente il prezzo delle medesime, anche se solo in maniera transitoria, permettendo alla compagnia di centrare l'obiettivo sugli utili trimestrali per azione (EPS) , nonché di accreditarsi presso la platea di altri possibili investitori come soggetto imprenditoriale attivo e dinamico.
Di conseguenza, più un dirigente riesce a gonfiare i dati trimestrali da presentare agli analisti, più lui stesso (e gli azionisti) guadagna; nel 2012, i 500 dirigenti più pagati nominati nel proxy statement di società per azioni USA hanno ricevuto - in media - 30,3 milioni di dollari ciascuno: il 42% del loro compenso è venuto da stock options e il 41% da stock awards.
Si tratta di una strategia utilitaristica e di corto respiro che, secondo il già citato Hussman, conduce alla progressiva distruzione di valore reale, porta all'indebolimento dei bilanci aziendali e depauperizza il tessuto sociale di una nazione; la fine del quantitative easing deciso dalla Federal Reserve ha aperto nuovi scenari e secondo Albert Edwards – analista di Société Générale - il 2° trimestre ha mostrato un drastico calo nei riacquisti azionari e “[...] questo processo prociclico finisce sempre in lacrime ed è considerato a posteriori come una follia tipica di fine ciclo. Quando il finanziamento per l'emissione di obbligazioni societarie si ferma (per qualsiasi motivo, ad esempio la fine del QE), anche gli acquisti di azioni proprie si fermano e uno dei maggiori driver per la 'fase toro' (fase rialzista - ndr.) del mercato azionario viene rimosso [...]”.
Le stock options sono forme di incentivazione, nate negli Stati Uniti alla fine degli anni '50 del secolo scorso, concernenti l'opzione sull'acquisto o la sottoscrizione di azioni che una società quotata in Borsa - per fidelizzare i dipendenti migliori – offre loro a un prezzo determinato (prezzo d'esercizio) e che può essere esercitata entro una certa data.
A partire dagli anni '80, creativi, lavoratori e impiegati furono via via esclusi da questo tipo di gratifica e il concetto di stock options si fuse al sistema finanzario-borsistico, diventando negli anni il sontuoso banchetto dei “Nuovi Signori“ di Wall Street.
La verità – di per sé semplice e affatto banale – è legata alle modalità con cui i top manager percepiscono i loro compensi: infatti, gli strumenti basati su titoli costituiscono la maggior parte della loro remunerazione, e l'aumento – ancorché artificioso - della richiesta di azioni di una società mediante i buyback nell' open market alza automaticamente il prezzo delle medesime, anche se solo in maniera transitoria, permettendo alla compagnia di centrare l'obiettivo sugli utili trimestrali per azione (EPS) , nonché di accreditarsi presso la platea di altri possibili investitori come soggetto imprenditoriale attivo e dinamico.
Di conseguenza, più un dirigente riesce a gonfiare i dati trimestrali da presentare agli analisti, più lui stesso (e gli azionisti) guadagna; nel 2012, i 500 dirigenti più pagati nominati nel proxy statement di società per azioni USA hanno ricevuto - in media - 30,3 milioni di dollari ciascuno: il 42% del loro compenso è venuto da stock options e il 41% da stock awards.
Si tratta di una strategia utilitaristica e di corto respiro che, secondo il già citato Hussman, conduce alla progressiva distruzione di valore reale, porta all'indebolimento dei bilanci aziendali e depauperizza il tessuto sociale di una nazione; la fine del quantitative easing deciso dalla Federal Reserve ha aperto nuovi scenari e secondo Albert Edwards – analista di Société Générale - il 2° trimestre ha mostrato un drastico calo nei riacquisti azionari e “[...] questo processo prociclico finisce sempre in lacrime ed è considerato a posteriori come una follia tipica di fine ciclo. Quando il finanziamento per l'emissione di obbligazioni societarie si ferma (per qualsiasi motivo, ad esempio la fine del QE), anche gli acquisti di azioni proprie si fermano e uno dei maggiori driver per la 'fase toro' (fase rialzista - ndr.) del mercato azionario viene rimosso [...]”.
8- La fantasia al potere: i ricorrenti “oneri non
ricorrenti”
Come
si è accennato dianzi, Wall Street eccelle, da sempre, anche nell'uso
sapiente di fantasiosi strumenti finanziari per trasformare una situazione
patrimoniale non propriamente florida in qualcosa di più auspicabile: per
inquadrare meglio l'argomento occorre fare una piccola premessa.
Le
aziende quotate in Borsa vengono “pesate” dagli addetti ai lavori attraverso l'applicazione dei cosiddetti"multipli" ; calcolando il rapporto tra la capitalizzazione di una
società e alcuni indicatori-chiave di bilancio abbiamo una serie di parametri,
come il price/book value, il
price/earnings e il price/forward earnings, che
dovrebbero (il condizionale è d'obbligo) aiutare gli investitori a capire se un
titolo sia sopravvalutato o meno.
Proprio
il multiplo P/E è l'indicatore più usato e si ottiene dividendo il
prezzo corrente di un titolo azionario per l'utile per azione [EPS (Earning
per share), l'utile riferibile ad una singola azione dato dal rapporto tra
l'utile netto della società e il numero di azioni ordinarie emesse]
realizzato negli ultimi 12 mesi.
Ai
fini del nostro ragionamento è d'uopo anche ricordare che le imprese americane
quotate negli indici segnalano i loro guadagni secondo standard computistici
definiti GAAP (Generally Accepted Accounting Principles),
ovvero i “comuni principi contabili” che tutte le compagnie sono tenute a
seguire, decisi di concerto con la
SEC ; spesso, per avere un quadro più chiaro
del risultato operativo, le aziende riportano anche la relazione “aggiustata”
degli utili conseguiti (detta non-GAAP earnings o pro forma earnings) e
ciò viene realizzato aggiungendo nuovi oneri e sottraendo alcuni tipi di guadagno:
i “non-recurring gains” (guadagni non ricorrenti) vengono sottratti
dagli utili GAAP, mentre si aggiungono i “non-recurring charges” (oneri
non ricorrenti).
Tali
“aggiustamenti” sono voci “una tantum” non facenti parte delle spese di
gestione “giorno per giorno” di una società, e offrono alla nostra curiosità
una tassonomia molto ampia e variegata che può comprendere:
No return charge:
Voce inserita nel bilancio di una società per una spesa “una tantum” che è improbabile che si verifichi
nuovamente.
Back charge:
Pagamento/i realizzato per una spesa sostenuta in un periodo di fatturazione
precedente.
One-time charge:
Oneri “una tantum” che sono esclusi dagli analisti nella valutazione del
potenziale guadagno di una società, come ad esempio spese di licenziamento o pensionamenti
anticipati.
Non-recurring loss ( or
gain): Le perdite o i guadagni “una tantum” riportate
separatamento nel conto economico di una corporation – al netto delle
imposte sul reddito – e non visualizzabili per non influenzare l'utile per
azione (EPS).
Ex-items:
Vari tipi di spese straordinarie “una tantum” lasciate al di fuori del calcolo totale per
rimuovere la volatilità, che altrimenti potrebbe impattare sulla comparabilità
e distorcere le previsioni a lungo termine.
L'uso degli utili
“non-GAAP” nelle stime societarie genera confusione ed è molto
controverso, poiché concede alle compagnie ampia facoltà nel presentare la
situazione preferita e dove “contabilità creativa” e discrezionalità sono di
casa: l'abuso di ricorrenti “oneri non ricorrenti” per rettifiche di bilancio è stato (ed è
ancora) un trucco contabile molto frequente durante la “Dot-com Bubble” (http://it.wikipedia.org/wiki/Bolla_delle_dot-com) ,
quando le aziende hanno “gonfiato” le valutazioni classificando spese di
gestione come “oneri straordinari” per millantare guadagni non reali.
9. “The Great Deformation”: David Stockman e gli utili ex-items di Wall Street
David
Stockman –direttore dell'Office of Management and Budget (1981-1985) sotto la
presidenza Reagan – ha studiato a lungo il problema e - durante le ricerche per
il suo libro “The Great Deformation” - si è occupato del periodo
2007-2010 scoprendo cose assai interessanti;
l'ex politico americano parla nella fattispecie di “cortina fumogena”
generata dagli artifizi contabili di Wall Street che quantificarono
all'epoca - in riferimento all'indice S&P500 - utili ex-items per 2.420 miliardi
di dollari: ma se guardiamo lo S&P500 degli stessi quattro anni
(2007-2010), sulla base dei documenti depositati dalle aziende presso la SEC scopriamo
che l'utile netto non è stato quello “cosmetizzato” da Wall Street , bensì
1.870 miliardi di dollari che - secondo
i comuni principi GAAP - ha portato ad una perdita secca di 550
miliardi di dollari.
Questi “aggiustamenti” hanno permesso
alle corporations di nascondere i loro fallimenti nelle scriteriate
operazioni di ”Mergers and
acquisitions” (M&A – Fusioni ed acquisizioni) attraverso l'utilizzo di svalutazioni “non-recurring”
, con le relative perdite che non sono state conteggiate negli utili ex-items
: questo è accaduto perché nel periodo considerato le compagnie hanno
acquisito assets sopravvalutati, che quattro anni dopo hanno portato
alla svalutazione dell'avviamento, a ridimensionamenti se non addirittura alla
cessazione di attività produttive.
Secondo Stockman, gli utili ex-items del S&P500
nel corso di quel periodo erano ben il 30% più alti del normale, e ciò lo
porta ad affermare che Wall Street ha istituzionalizzato la pratica
truffaldina che - mediante l'utilizzo del multiplo P/E ponderato su base
ex-items - fa apparire lo stesso multiplo più basso di quanto sia in
realtà, aiutando a perpetuare il mito del mercato “conveniente” e non “in
bolla”; infatti nel 2007 - con una capitalizzazione media di 13.000 miliardi
di dollari - le compagnie del S&P500 registrarono utili netti ex-items
per 730 miliardi di dollari, con un
multiplo P/E di 18x (18 volte gli utili attesi) che risultava essere già
“esuberante”: in realtà, quell'anno l'utile netto dello S&P500
- su base GAAP – fu di soli 587 miliardi di dollari - una
cifra che risultò inferiore del 20%, a causa della esclusione di 144 miliardi
di dollari in oneri e spese ritenuti “non-recurring” - che portarono il multiplo P/E effettivo a 22X, “costoso” per qualsiasi standard
storico.
Questo malvezzo sta continuando tuttora, ed è opinione condivisa
da molti esperti che il convenzionale multiplo P/E fornisca
un'immagine falsata del valore effettivo delle azioni, anche perché in periodi
particolarmente critici – come, ad esempio, fasi espansive o recessive – i guadagni si muovono molto più rapidamente dei prezzi.
L'economista Benjamin Graham notò lo stesso
bizzarro comportamento del P/E ratio durante i “ruggenti anni Venti” e
il successivo crollo del 1929 , e decise pertanto di studiare – assieme a David
Dodd – un modo più preciso di calcolare i valori del mercato: essi attribuirono
il “comportamento” illogico del P/E a fluttuazioni temporanee (talvolta
estreme) del mercato e la soluzione da loro proposta fu quella di dividere il
prezzo per un utile medio pluriennale (5, 7 o 10 anni).
Negli ultimi anni, il professore di Yale, e premio Nobel, Robert Shiller - autore del bestseller “Euforia Irrazionale” - ha elaborato un proprio indicatore che ricorda quello proposto da Graham: si tratta del cosiddetto Cape Ratio o Shiller P/E ratio che è calcolato depurato dall'inflazione utilizzando, invece che gli utili degli ultimi 12 mesi, i profitti medi annui degli ultimi 10 anni : ai corsi attuali, lo Shiller P/E ratio dell'indice S&P500 si attesta oltre la soglia dei 26 punti - superiore del 57% alla media storica (16,6), un valore che rende “costoso” il mercato attuale – superato, almeno per ora, solo dai valori del 1929, 1999 e 2007.
Negli ultimi anni, il professore di Yale, e premio Nobel, Robert Shiller - autore del bestseller “Euforia Irrazionale” - ha elaborato un proprio indicatore che ricorda quello proposto da Graham: si tratta del cosiddetto Cape Ratio o Shiller P/E ratio che è calcolato depurato dall'inflazione utilizzando, invece che gli utili degli ultimi 12 mesi, i profitti medi annui degli ultimi 10 anni : ai corsi attuali, lo Shiller P/E ratio dell'indice S&P500 si attesta oltre la soglia dei 26 punti - superiore del 57% alla media storica (16,6), un valore che rende “costoso” il mercato attuale – superato, almeno per ora, solo dai valori del 1929, 1999 e 2007.
10. Capitalismo Casinò: l'”investitore razionale”
al tavolo della roulette
Risulta ormai evidente la totale avidità e mancanza
di scrupoli dei banksters di Wall Street (e della finanza
mondiale), di come essi non abbiano tratto nessun insegnamento dagli errori e
orrori del recente passato e , anzi, siano entrati in una sorta di terra
incognita finanziaria alimentando un'altra “bolla” di proporzioni inaudite,
il cui scoppio potrebbe preludere – data la diffusa fragilità dell'economia
mondiale – a un disastroso collasso globale.
Non si va molto lontani dal vero se si afferma che
i comportamenti, fortemente speculativi, adottati nelle attività di
contrattazione siano riconducibili a modalità di esecuzione più consone
all'esercizio del gioco d'azzardo di un casinò, una preoccupazione che lo
stesso Keynes espresse - già nel
1936 - in “Teoria generale
dell'occupazione, dell'interesse e della moneta” , dove scriveva che “quando
l'accumulazione di capitale di un paese diventa il sottoprodotto delle attività
di un casinò, è probabile che le cose vadano male”.
Ciò che balza agli occhi è un enorme flusso di
denaro virtuale che si autoalimenta di passaggio in passaggio, una colluvie di
prodotti finanziari derivati che - celandosi sotto acronimi neutri – nascondono assets tossicidi dubbia tracciabilità; si osserva pertanto l'avvilente spettacolo di
legioni di “investitori razionali” che – in un tourbillon di scambi – si
passano di mano in mano una “bomba a tempo”,
dove il fattore-chiave è cercare di massimizzare il profitto nel breve
termine prima che l'ordigno deflagri.
L'allusione ai presunti “investitori razionali” non
è fortuita, e chiama direttamente in causa la “Efficient Market Theory” di
Eugene Fama, secondo la quale - in un mercato finanziario efficiente - le
informazioni disponibili permettono agli investitori razionali di prezzare
correttamente il valore e i fondamentali dei titoli azionari attraverso
l'attualizzazione dei dividendi futuri attesi;
sebbene tale “teoria” goda dell'ovvio e incondizionato supporto delle élites
finanziarie - interessate alla dimensione mitopoietica del “mercato
onniscente e autoregolatore” - il ripetersi di cicli “boom and bust” sempre
più ravvicinati la rendono chiaramente inadeguata.
In “Keynes e l'instabilità del Capitalismo”,
l'economista Hyman Minsky descrive in modo più relistico il funzionamento degli
odierni sistemi capitalistici e come - in un clima di euforia generale dei
mercati - un boom speculativo cresce e si espande, portando all'ingresso
nel circuito di nuovi intermediari finanziari che consentano di soddisfare la
domanda crescente di prestiti ; si viene così ad innescare un perverso “schema
Ponzi”, che vede più operatori prendere capitali in prestito al solo scopo di
investire sui mercati azionari per trarre profitto sull’aspettativa futura di
un continuo aumento del corso dei titoli: accade però che questi soggetti
abbiano insufficienti flussi di entrata a breve termine, e che debbano perciò
indebitarsi ulteriormente per il pagamento degli interessi correnti e per
saldare posizioni debitorie pregresse, risultando assai vulnerabili alle
oscillazioni dei tassi di interesse di mercato.
Tale scenario presuppone che la platea degli
investitori venga assiduamente stimolata da nuove opportunità di guadagno per
continuare “a fare girare la giostra” ; quanto esposto sopra ci consente di
analizzare gli eventi e i comportamenti – tutt'altro che razionali – che hanno
preceduto e seguìto l'arrivo a New York del nuovo trastullo per traders
e affini: stiamo parlando del fenomeno Alibaba.
11. Ombre cinesi
a New York City
Il 19 settembre scorso, anticipato da un martellante battage mediatico,
Wall Street è diventata il palcoscenico dell'evento borsistico
dell'anno, ovverosia l' IPO (Initial Public Offering) del gruppo
cinese Alibaba Group Holding Ltd. , leader asiatico del commercio on-line; con il prezzo iniziale dell'IPO fissato a 68 dollari per azione, gli
addetti ai lavori attendevano con vibrante impazienza l'inizio delle
contrattazioni per verificare la bontà delle previsioni dei giorni precedenti.
Le compravendite hanno assunto subito ritmi
frenetici, se si pensa che nel primo minuto di negoziazioni sono stati
scambiati 55,28 milioni di titoli, arrivando a quota 100 milioni dopo solo
dieci minuti; il prezzo delle azioni si
è attestato di colpo a 92,7 dollari e – dopo aver sfiorato il muro dei 100
dollari - ha chiuso a 93,89 dollari, un
rialzo del 38% rispetto alla base iniziale dell'IPO : alla fine di una
giornata campale la società di Jack Ma ha raccolto la cifra record di
21,8 miliardi, raggiungendo una capitalizzazione di 231 miliardi, cifra
superiore a quella ottenuta da Facebook, eBay e Amazon,
diventando la 17ma più grande azienda quotata del mondo.
Se si guardassero - in maniera superficiale -
parametri interpretativi aleatori come i volumi di denaro mossi e l'appeal suscitato dalle proverbiali potenzialità
dell'economia cinese, dovremmo affermare
di trovarci di fronte ad una nuova stella , ma... fu vera Gloria?
Si dice che la fortuna di un'azienda sia data dalla
superiorità dei manufatti e dei servizi che essa offre, ma se tale asserzione è
corretta – ed è corretta - ci sono problemi di qualità dei prodotti e di
proprietà intellettuale che fanno ripensare, in termini meno rosei, al
“progetto” Alibaba : la sua piattaforma di e-commerce Taobao
- dove le imprese possono vendere direttamente ai
consumatori - è piena di prodotti difettosi o contraffatti (come ad esempio
l'82% dei prodotti Columbia),
ed è ancora vivo il ricordo dello scandalo del febbraio 2011 (legato al
rilascio di certificazioni) – ripreso da “The Economist “
con il titolo corrosivo “Alibaba e i 2.236 ladroni” - che vide Alibaba sul banco degli
imputati per aver consegnato tale titolo di garanzia a 2.236 fornitori che
successivamente finirono per truffare la propria clientela.
Tra
coloro che non si sono lasciati ammaliare dalle sirene newyorchesi troviamo due
analisti di Forbes, Eamonn Fingleton e David Riedel.
Eamonn Fingleton –
studioso del modello socio-economico asiatico – racconta di aver visto poche
volte un titolo così palesemente sopravvalutato, parlando senza mezzi termini
di “Alibubble” e ricorda che il “film” oggi in proiezione al NYSE già si è visto nella
bolla azionaria giapponese di fine anni '80, e non fu un happy ending :
egli fa osservare che la conquista, da parte di Alibaba, dell'80 %
del mercato cinese di e-commerce e i margini monopolistici intorno al
40% del fatturato lordo siano - in realtà - le notizie peggiori, poiché queste
cifre potranno solo scendere.
DavidRiedel –
presidente del Riedel Research Group – ha elencato almeno quattro buoni
motivi per ritenere che tale investimento sia un pessimo affare:
1) Le
leggi cinesi proibiscono investimenti stranieri in servizi Internet e la
creazione di “strutture complesse” denominate VIE (Variable
Interest Entities) progettate per aggirare queste leggi (com'è la vicenda IPO)
sono illegali e i tribunali cinesi hanno dato torto a imprenditori stranieri in
una serie di casi recenti.
2) La
particolarità di tali “strutture complesse” è che - a diffferenza di un normale
investimento azionario – qui non si investe nella società, bensì in un
contratto: chi acquista azioni Alibaba non acquista una quota della
stessa, piuttosto le azioni di una controllata alle Isole
Cayman che riceve i profitti della società madre ma non ne
permette il controllo, che rimarrà nelle mani di Jack Ma e dell'altro fondatore
Simon Xie.
3)
Jack Ma ha dimostrato di abusare degli azionisti di minoranza esteri come
quando - nel 2011 - ha assunto il controllo della piattaforma di pagamento on-line
Alipay invocando - a sua discolpa – l'osservanza della
regolamentazione già ricordata e lasciando con un palmo di naso Softbank
e Yahoo; nulla vieterebbe, in futuro, di riutilizzare questa scusa per
riappropriarsi di attività detenute da stranieri.
4) Le aziende
cinesi più importanti nel settore della tecnologia e delle telecomunicazioni
registrano andamenti azionari poco lusinghieri ed erosione di quote di mercato.
Va peraltro ricordato che inizialmente l'IPO
di Alibaba era prevista ad Hong Kong, ma la SFC – il regolatoredella città asiatica – ha
ritenuto che il particolare assetto societario (che permette a Ma e pochi altri
di nominare la maggior parte dei membri del consiglio,
pur detenendo quote di minoranza) vìoli il principio one-share,one-vote
; si deve convenire che l'intera operazione condotta in terra americana sia
nebulosa e rappresenti un caso da manuale per gli studiosi di “finanza
comportamentale”, anche tenendo conto che lo scorso novembre l'emissione di un bond da8 miliardi di dollari – dedicato a investitori istituzionali – si è trasformato
in una gara in cui tutti volevano prestare soldi ad Alibaba, con un
volume di richieste per oltre 55 miliardi di dollari: tutto ciò è bizzarro,
considerando quanto poco si conosca di Jack Ma & Co e quanti timori stia
destando la salute dell'economia cinese, alle prese con grossi problemi di debito (aziendale e immobiliare),
contrazione del manifatturiero e
primi fallimenti di entità produttive importanti .
12. Le start-up della Silicon Valley
Abbiamo indugiato un poco nella vicenda Alibaba
per mostrare come nelle bolle azionarie i contorni tra il vero e il verosimile
si assottiglino, e come questo esotico “effetto-novità” stia gettando altra
benzina sul fuoco della speculazione a Wall Street.
In tempi recenti la Silicon Valley
è tornata a far parlare di sé con il fiorire di centinaia di start-up,
aziende di piccole dimensioni, che si sono lanciate sul mercato
della new economy , ognuna con un'idea innovativa “che non può perdere”;
ci sono almeno 48 start-up che non sono ancora andate in pubblico ed hanno già valutazioni per oltre 1
miliardo di dollari, con cinque di loro nel club dei 10 miliardi di
dollari: Uber è in cima alla lista, con una stima di 41 miliardi, e Snapchat,
una di queste , non ha ancora nemmeno entrate.
Bill Gurley, partner
alla Benchmark ed investitore in alcune di esse, ha espresso forti
apprensioni in un'intervista al Wall Street Journal
dove biasima l'eccessiva assunzione di rischi da parte della start-up
community della Silicon Valley e del mondo del venture capital di
cui egli stesso fa parte; vi sono forti analogie – osserva Gurley – con quello
che accadde nel 1999, e l'attuale arrivo di montagne di “denaro quasi
gratis” (nearly free money) – centinaia di milioni di dollari - sta
incoraggiando queste compagnie – spesso prive di redditività - a spendere
sempre di più, perdendo di vista il reale business e accelerando il loro
“burn rate” (tasso al quale la start-up consuma le risorse a sua
disposizione) ad un ritmo superiore rispetto al 1999 che le condurrà
all'inevitabile disastro.
Per quanto riguarda i
fondamentali diqueste società, spesso sono pochi i dati che offrono solide basi per garantire
un livello analitico accettabile, e tutto si riduce al pispissìo interessato
degli addetti ai lavori e al bollettino acquisti/vendite stilato dai media
; all'inizio del 2014, Facebook ha sborsato ben 19 miliardi di dollari
per WhatsApp , un'applicazione di messaggistica con 450 milioni di
utenti ma scarsa redditività, per non parlare dell'altra grande stravaganza di
Zuckerberg che ha acquistato (per 2 miliardi di dollari) la Oculus VR (http://www.nytimes.com/2014/03/26/technology/facebook-to-buy-oculus-vr-maker-of-virtual-reality-headset.html) ,
azienda costruttrice di un set
video-auricolare per la realtà virtuale che - data la relativa onerosità
dei prodotti - non aveva ancora un articolo alla portata del “consumatore
medio”, per non parlare di reali entrate o profitti.
13. Il nano gigante
Le difficoltà nel
decifrare tali acquisizioni sono poi enfatizzate dalla problematica intelligibilità, in termini di valore
effettivo, dello stesso “modello Facebook”; già al momento dello sbarco
in Borsa
nel 2012 , analisti e gestori erano divisi nelle valutazioni in merito, anche
alla luce di alcune revisioni coeve sui target di fatturato che - ad
onta delle fanfare giubilianti – incisero sui movimenti azionari successivi,
mantenendo nel tempo un percorso abbastanza erratico
che ha portato il prezzo delle azioni ai 76 dollari attuali, motivo
apparentemente sufficiente – secondo alcuni - a tacitare le Cassandre di turno.
Stiamo tuttavia
parlando di uno strano ibrido che - a fronte di una capitalizzazione
insensata, giunta a 212 miliardi di dollari – impiega appena 8.300 dipendenti
in tutto il globo ed è un prototipo “costruito” pensando più alla felicità
degli azionisti piuttosto che alla creazione di posti di lavoro : si pongono
pertanto una serie di riflessioni, considerando che l'uso della piattaforma è
gratuito e i ricavi arrivano dalla raccolta pubblicitaria.
Numeri più recenti
(fine settembre 2014) parlano di 1,35 miliardi di “utenti attivi” ogni mese e
ricavi per 3,2 miliardi di dollari nel 3° trimestre, con i proventi delle inserzioni pubblicitarie determinati
principalmente (66%) dal traffico
nel settore mobile; sarebbe esercizio intellettuale assai spericolato
trasformare ognuno di questi individui in un consumatore attivo solo in
funzione dei “click” registrati, e va peraltro segnalato che le stesse cifre e i relativi ricavi sono contraddittori
poiché centinaia di milioni di “profili” sono duplicazioni appartenenti a
medesimi individui, aziende, personaggi di fantasia, libri e perfino animali
domestici : last but not least, la pubblicità - per essere davvero
efficace - deve portare a risultati concreti in termini di vendite che mal si
conciliano con un ambiente socialmente depresso, caratterizzato da deflazione
salariale e lavori part-time che l'attuale paradigma economico ci
impone.
Ergo,
se le persone non hanno disponibilità economiche non consumano, e di
conseguenza le visualizzazioni assumeranno un valore puramente statistico e
perciò, in presenza di una scarsità di domanda, la percentuale di denaro che le
compagnie destineranno alla pubblicità dovrà essere ripensata ; del resto, Facebook
e compagnia dovrebbero tener ben presente che il mercato della pubblicità è
volubile, basti osservare il tracollo inarrestabile dei media tradizionali e le imprevedibili difficoltà chesta incontrando il Superbowl, l'evento sportivo “più americano” inassoluto.
Se anche un colosso
come Google, leader nella raccolta pubblicitaria digitale negli Stati
Uniti con il 38,3%, sta facendo i
conti con la diminuzione del “cost-per-click” (quantità di denaro che Google
ottiene ogni volta che si fa clic sui suoi annunci) - verificatasi nel 3° trimestre - le
prospettive a medio-lungo termine appaiono incerte ; va poi ricordato che
nell'ultimo resoconto trimestrale Dave Wehner - direttore finanziario di Facebook
– ha parlato di un aumento dei costi intorno al 41% (anche a causa delle
acquisizioni succitate), con un'ulteriore crescita nel prossimo anno e se
aggiungiamo al postutto l'uscita di alcuni dati
che indicano un'emorragia di adolescenti dal servizio, il percorso per arrivare
al destino di MySpace potrebbe essere più breve del previsto.
14. La bolla immobiliare della Bay Area
Il boom caduco
delle start-up, con i round periodici di finanziamento, e
le IPO di Facebook e Twitter hanno portato in California
denari da ogni parte del mondo, miliardi di dollari che sono stati collocati
nell'economia di San Francisco e della Bay Area surriscaldandone
il mercato immobiliare; l'affitto mediano nella Bay Area è arrivato a3.200 dollari nel primo trimestre di quest'anno e
se, putacaso, certuni avessero invece il ghiribizzo di acquistare una magione e
diventare cittadini di San Francisco sobbalzerebbero nell'apprendere che
il prezzo mediano di un immobile è arrivato a quota 1 milione di
dollari.
Nella contea di San
Francisco solo il 36% delle famiglie è proprietario dell'abitazione in cui
vive, mentre gli altri devono affrontare affitti sempre più cari che vengono
pagati dai redditi generati mensilmente; ciò ha portato alla migrazione, verso
la periferia, di attività produttive di valore e di persone che - nonostante
dispongano di un lavoro ben retribuito - non possono più permettersi le
locazioni in quartieri ora sopravvalutati.
Nella Bay Area
(che comprende città come San José e Oakland) e soprattutto a San
Francisco, l'arrivo in massa delle start-up ha funzionato da detonatore
per l'esplosione di un fenomeno urbano e sociale chiamato “gentrificazione” :
per capire come funzionano attualmente le cose a San Francisco vale la
pena raccontare una vicenda – una storia fra le tante – accaduta
recentemente nel quartiere più antico della città: Mission District.
Il quartiere - il cui
nome è un retaggio della prima missione spagnola del 1791 – ha una storia
problematica legata alla presenza di bande in guerra tra loro per lo spaccio di
stupefacenti; il nostro racconto inizia nel 2003, quando i locali tra la 23rd
e Bryant Street vengono affittati alla “Million Fishes Art Collective”,
(http://millionfishes.com/about)
una comunità composta da decine di artisti che riqualificano le vecchie sale
trasformandole in una galleria-workshop di successo, dove le
opere d'arte vengono condivise con il pubblico attraverso mostre e serate a
tema.
Passano gli anni e il
riscontro positivo ottenuto dall'ensemble artistico porta ad una
complessiva rinascita di Mission District, che si ritrova d'improvviso
ad essere cool e ad attrarre nuove persone affascinate
dall'effervescenza culturale e dall'ambiente bohémien, registrando – nel contempo – la scomparsa dei
fenomeni malavitosi che ne avevano caratterizzato la storia precedente; la
riqualificazione del quartiere suscita l'interesse delle start-up tech che
- alimentate dai notevoli flussi di denaro provenienti dai venture capital –
sciamano nella zona, ora “alla moda”, per stabilirvi i propri centri operativi.
Le start-up
pagano bene, sono piene di soldi e non hanno soverchie difficoltà a soddisfare
le richieste dei titolari di immobili che nel frattempo - ingolositi dalla
montante bolla speculativa in Silicon Valley – hanno fiutato l'affare
aumentando vergognosamente gli affitti; purtroppo, per i nostri amici artisti
(e tante altre persone) i nuovi “prezzi di mercato” si rivelano insostenibili,
ed è a questo punto che la storia della “Million Fishes Art Collective” si
interseca con quella della Bloodhound ,
una start-up in poderosa ascesa.
Siamo nel gennaio 2013
e la Bloodhound
sta portando a termine un “Series A round” per la raccolta di fondi: l'esito è molto
lusinghiero – 4,8 milioni di dollari – e in tutto l'ambiente finanziario e hi-tech
californiano si levano alti i peana per la “genialità”del futuro nuovo prodotto, l'ennesima “indispensabile” app che “cambierà
il modo con cui compratori e venditori si incontrano” ; nel frattempo, i
locali che ospitavano la galleria in Bryant Street sono di nuovo
sfitti, poiché il locatore - ritenendo inadeguati gli oltre 13.000 dollari
mensili – ha dato il benservito al sodalizio culturale qualche settimana prima,
reputando giunto il momento di puntare alla tipologia di inquilino che tutti
ora agognano.
Con un così formidabile
flusso di cassa la Bloodhound
è pronta a conquistare San Francisco, risponde all'annuncio
immobiliare e di lì a poco trasferisce i suoi uffici nell'ex galleria, siglando
un contratto di locazione di 5 anni che prevede un affitto mensile di 31.667
dollari (più 564 dollari di tasse) ; a questo punto, le profetiche parole di
Bill Gurley viste in precedenza trovano una corrispondenza reale : il vortice
di spese scriteriate e la débâcle della nuova “geniale”
app - che poi forse tanto geniale non era – hanno travolto la
compagnia che se n'è andata alla chetichella, venendo citata alla Corte Superiore di San Francisco per inadempienza
nel pagamento di parecchie mensilità.
15. Non è tutto oro quello che luccica
Come ha scritto James
Surowiecky qualche mese fa su “The New Yorker”,
attualmente stiamo vivendo nell'era delle start-up ed è invalsa
l'opinione presso il grande pubblico che San Francisco sia ancora il
crocevia di una nuova “gold rush”,
una “febbre” d'inizio millennio...
(1-continua)
(1-continua)
Mi permetto di suggerire un titolo alternativo a questo STRAORDINARIO lavoro:
RispondiElimina"il capitale finanziario variabile indipendente (finche dura)"
VHY IS A RAVEN LIKE A WRITING DESK?
RispondiElimina(OTC .. Perché un corvo è come uno scrittoio?)
In attesa di assaporare le sucessive puntate, un abbraccio a Riccardo – un cavaliere vero, verrebbe da dire “cuor di leone” seduto alle tavole di immaginifici ’48 – per il “racconto” dovizioso e minuzioso.
Verrebbe da sottolineare la citazione riportata di JM Keynes “quando l'accumulazione di capitale di un paese diventa il sottoprodotto delle attività di un casinò, è probabile che le cose vadano male” e da dedicarsi alla poesia del “restiamo umani”, quella senza la quale il "dividendo" ha poco senso.
That’s all, folks..!
Sottoprodotto di un casinò dove al suicidio ci portano, alla fine, i correntisti delle banche, estranei ai comportamenti speculativi.
EliminaAlmeno nell'€uropa del bail-in obbligatorio, dove finisce l'assicurazione dello Stato sui depositi mentre la banche depositarie sono al massimo delle puntate e del moral hazard (magari per coprire quello pregresso e non smaltito dal 2007!).
Il bello è che i risparmiatori rischiano come correntisti e sottoscrittori obbligazionari e gli speculatori, che si sono presi prestiti per alimentare la propria folia, se ne strafregano come e più di prima...
E' da qualche tempo che si scrive di SOTTOPRODOTTI ma ancora s'ha da studiare .. l'algoritmo
Elimina:-)
Post FANTASTICO!! Quando sono arrivato alla fine e ho visto 1- continua ci sono rimasto male: me lo stavo letteralmente bevendo!
RispondiEliminaUn responsabile trading nostrano mi diceva che la maggior parte di movimenti di acquisto vengono effettuati ogni giorno gli ultimi SECONDI di contrattazione, per gonfiare i valori dei titoli acquistati: ciò permette ai gestori di gonfiare le loro performance come gestori di fondi e raggiungere così i target a loro prefissati dalle banche: Questo fenomeno si accentua verso la fine dei periodi di valutazione trimestrale.
Certo, quello che fanno a Wall Street è pazzesco, ma col QE di Draghi potremmo arrivarci. A proposito, mi ricordo dagli studi fatti che il riacquisto di proprie azioni ha dei limiti precisi nel nostro ordinamento e va fatto con gli utili netti: spero che sia ancora così.
Da Altroconsumo finanza del 17 marzo 2015, editoriale del direttore Vincenzo Somma. “Fin qui le cose stanno filando troppo lisce con gli spread che si abbassano, gli Stati che si indebitano a costi sempre più bassi e le Borse che corrono. La notizia che ci sarebbero buchi seminascosti nei conti dello Stato (ne ho parlato due settimane fa) non mi lascia tranquillo. Mi aspetto che prima o poi salti fuori la necessità di mettere delle toppe a qualche situazione malsana che non regge più. Non basterà la privatizzazione delle Poste, temo che lo Stato ricorra al metodo più facile e semplice per mettere le mani nelle tasche dei cittadini: un prelievo sui conti correnti e sui conti di deposito. In tempi normali, con tassi decenti sui conti di deposito, tenterei di cacciare queste preoccupazioni come fantasmi inconsistenti, ma ora che i rendimenti sono ridotti a pochi spicci penso che il gioco non valga più la candela . Preparati per tempo. Ti ho trovato un’alternativa ai conti di deposito in modo da rifilare al fisco un liberatorio “gesto dell’ombrello” nel momento in cui saltasse fuori una patrimonialina. Non sono i BTp, che possono essere anch’essi “plasmati” dal governo affamato di dindi, ma le obbligazioni bancarie. Sì, proprio quelle che ieri, per precauzione, ti sconsigliavo….etc”
RispondiEliminaAltroconsumo è un’associazione vicina al Pd e certo Somma non ha scritto senza avere pezze d’appoggio molto consistenti. Ovviamente non tutto può dire, ma s’intuisce cosa intende. La situazione malsana è quasi sicuramente quella dei crediti in sofferenza, destinati ad aumentare, mentre diminuirà la percentuale di recupero. Non di patrimonialina si tratterà, ma di qualcosa di molto consistente, perché tanti soldi servono per capitalizzare la bad bank dove verranno trasferiti i crediti bancari di difficile recupero.
Corretto il suggerimento: liberate le banche da oltre 300 miliardi di zavorra, le loro obbligazioni si apprezzeranno notevolmente.
http://orizzonte48.blogspot.it/2015/02/bad-bank-welfare-bancario-supply-side-e.html
Elimina1) A me pare solo che si voglia giustificare che la crisi ha cause nella fiscalità pubblica e che occorra continuamente intervenire con qualche manovrina per tappare questi fantomatici "buchi" nei conti pubblici che impedirebbero la ripresa.
In realtà è l'opposto: come sappiamo, le varie manovre di stabilità sono sempre troppo recessive, in quanto non calcolano correttamente il moltiplicatore fiscale e finiscono per dare meno gettito e più indebitamento del previsto. Allora l'UEM storce il naso e bisogna ulteriormente aggiustare in corso di esercizio.
2) Poi, segue un marchettone a favore delle obbligazioni bancarie: certo, la "patrimonialina" ci sta tutta con un governo al panico e che sbaglia tutte le previsioni e le stime senza alcuna speranza che ne azzecchi una. I pretesti presentabili come shock-economy non mancano e, prima o poi, correranno il rischio del relativo prezzo politico.
Forse ci starà pure che se si facesse l'operazione badbank le obbligazioni bancarie saranno meno a rischio e forse si apprezzeranno. Dico forse perchè intanto è in corso di applicazione l'unione bancaria UE e, come dico più in là, l'obbligazionista non è in posizione così comoda; anzi, sta peggio del correntista!
E scontando che agire sul lato supply side soltanto, cioè l'operazione bad bank, non risolve la riproducibilità di una situazione "sofferenze" che nasce come problema di domanda, cioè di economia reale, (v.link sopra), il rischio sistemico bancario italiano, il correntista, non se lo potrà più permettere (in Austria già stanno sperimentando il giochetto).
Tra l'altro, pensaci, in caso di bail-in, e quindi di banca che salta (all'interno di un processo di concentrazione inevitabile legato proprio all'Unione bancaria), gli obbligazionisti sono chiamati a rispondere subito dopo gli azionisti.
Che "fortuna" eh?
suggerisco questo metodo:
Eliminahttps://www.youtube.com/watch?v=5veb6v549g0
Quanto al punto 1) sfondi una porta aperta. L'approccio è del tutto sbagliato, ma io vorrei sottolineare un altro aspetto.
RispondiEliminaSomma si riferisce a un'operazione massiva per "sistemare buchi" (secondo me per salvare molte banche tramite bad bank, ma lui non lo può dire esplicitamente). La patrimoniale va a colpire tutti i correntisti. Egli consiglia obbligazioni di banche solide, per le quali non è previsto alcun bail in....in quel caso gli obbligazionisti sarbbero (secondo lui) fortunati.
Ma il fatto significativo, secondo me, è che in area piddina si parli esplicitamente di un'operazione Amato style, che sicuramente, però, sarà moltiplicata per 10 o per 20 (altro che patrimonialina, altro che 6 per mille). E' chiaro che ci aspetta un'estate di passione, dopo le elezioni regionali.
applausi sinceri per il post. col "continua" messo così che sembra un thriller. :)
RispondiEliminaoramai é mia abitudine alzarmi la mattina e vedere se 48 ha scritto... e non vado a dormire prima di dare un'altra controllata...
RispondiEliminaGrazie
illuminante come sempre :)
Di questo e dei prossimi post, bisognerebbe farne un libro elettronico da diffondere, poi, capillarmente...
RispondiEliminaLe Baron de Cantel
In effetti la proposta va rilanciata a Riccardo (una sua raccolta di scritti sarebbe un ottimo e-book)
EliminaSplendido post; ho apprezzato anche l'elegante e calzante citazione del film di Eastwood.
RispondiEliminaMi sono anche goduto l'ultimo paragrafo dell'articolo citato di Surowiecki - peraltro porto dall'autore con un certo distacco - che propone il consueto vudù americano bio-strategico-evoluzionista (in termini culturali più familiari si potrebbe rendere con "fin che la barca va").
Quell'ultimo paragrafo è importante perché cerca di eludere la domanda chiave: perché investire dei soldi in imprese destinate a fallire?
Grazie a Seremedi per averci spiegato lo schema (Ponzi) di un comportamento così "strano".
Aspetto con vero piacere le prossime puntate.
il post è complesso ma ricco ed avvincente, bisognerebbe tradurlo per chi non dispone di tutti gli strumenti per comprenderlo, comunque a me interessa il finale; come andrà a finire? vinceranno, come sempre, Loro o avremo qualche speranza di cavarcela? Se perderemo anche questa volta, a che cosa sarà servito capire quello che sta accadendo,? quest'ultima è la domanda ricorrente di un mio familiare a cui fatico a rispondere.
RispondiEliminala coscienza di quanto sta accadendo è simmetrica alla diffusion€ della pov€URtà...
Elimina+ consapevoli + poveri = + inca...ti
EH... : vinceremo (?) solo quando gli sdentati prenderanno in mano il forcone per scacciare per sempre i bankster che ci stanno opprimendo.
..Ma non siete stanchi di sentirvi in colpa??? IO SI!! STANCHISSIMO..
a far sì che altri dopo di noi vincano.
EliminaCaro Tiberio, la domanda è legittima: le risposte di tipo logico e funzionale che danno Roby e Luca sappiamo quanto siano speranze riposte in un futuro che potrebbe essere alquanto lontano, nei tempi della Storia e nei modi della società umana.
EliminaNessuna massa di deboli può mai ottenere una correzione stabile alla "ingiustizia" che, - sempre che ci riesca-, riuscirebbe finalmente a percepire e a voler combattere.
La forza si sconfigge con la forza, anche in termini di dinamiche politico-istituzionali: il solo domandarsi come andrà a finire, sapendo di non aver modo di influire realmente sull'assetto dei rapporti di forza (e quindi delle istituzioni), indica una debolezza.
La democrazia sostanziale presuppone, alla sua base, uno straordinario "atto di forza"...