L'immagine soprastante, relativa a un noto aforisma di von Mises, mi è parsa appropriata e grottescamente divertente nel contesto del post: De Grauwe ne risulta...stroncato. Ma le fonti DIRETTE della rivoluzione liberale stroncherebbero, a loro volta, il buon Mises...
POST DI ARTURO (naturalmente).
POST DI ARTURO (naturalmente).
Nel
post precedente ho dato conto del
trattamento della questione euro contenuta nel libro di De Grauwe; questa volta
recensirò il resto del volume, naturalmente con un’attenzione particolare ai
temi più vicini agli interessi del blog. Non mancherà, credo, qualche spunto di
interesse.
1.
Iniziamo con una nota di colore, dal sapore fin troppo familiare: “La qualità delle nostre strade sta
precipitando. A Lovanio, dove insegnavo, le profonde buche nelle strade quasi
non vengono più riparate. Nel centro storico devo usare una mountain bike per
evitare le buche e i bozzi che sfigurano le strade.” (pag. 51).
Tutto
il mondo è paese, verrebbe da dire, o tutto il mondo è austero: “[…] dagli anni Ottanta la quota di investimenti
pubblici in rapporto al PIL si è ridotta, riducendo le risorse disponibili per
i beni pubblici” (Ivi).
1.1.
Per noi non si tratta certo di una notizia sorprendente: come avevamo visto
anni fa, era l’OCSE per prima a suggerire, in
caso di “aggiustamenti”, di indorare la pillola della riduzione della spesa
pubblica tagliando gli investimenti, in quanto politicamente meno sensibili
rispetto alla spesa corrente (avevamo esaminato il caso italiano attraverso una
lettura attenta del c.d. “rapporto Giarda”). Almeno finché la
gente non inizia a cascare nelle buche o a precipitare dai ponti, naturalmente.
2.
Veniamo ora al sodo: la
tesi di fondo di De Grauwe consiste in una rilettura in chiave “ciclica” del
punto di vista avanzato da Polanyi ne La grande trasformazione.
2.1.
Riassumendo un po’ brutalmente, per Polanyi
l’economia di mercato consiste in un progetto di separazione fra economico e
sociale imposto alla società attraverso l’impiego del potere dello Stato (en
passant, spero non vi sfugga la vicinanza di questa tesi, elaborata con gli
strumenti dell’antropologia culturale, alla teoria marxiana della
spoliticizzazione della società civile come risultato della c.d. accumulazione primitiva).
L’affidamento
del benessere sociale alle forze cieche e impersonali del mercato, in
particolare attraverso la mercificazione di terra, lavoro e moneta, sortisce
non solo effetti indesiderabili, ma mette a rischio la possibilità stessa di
riproduzione organica della società.
2..2.
Se i pericoli cui espone l’affidamento al mercato di terra e lavoro è
intuibile, meno ovvio è il discorso sulla moneta, che può avere qualche
interesse riportare, per saggiare una della tante rimesse a fuoco che la
ricorrente pretesa di sottomettere la società a forze impersonali e
politicamente incontrollabili ci costringe a compiere.
Vediamo
un po’:
“[…] se i profitti dipendono dai prezzi, gli accordi monetari che condizionano i prezzi debbono essere vitali per ogni sistema fondato sulla motivazione del profitto. Se nel lungo periodo i cambiamenti dei prezzi di vendita non condizionano i profitti, perché i costi corrispondenti scenderanno e saliranno di conseguenza, questo non è vero nel breve periodo, perché deve trascorrere un certo lasso temporale perché i prezzi fissati nei contratti, fra cui quello del lavoro, possano variare. Quindi, se il livello dei prezzi scendesse per ragioni monetarie per un periodo di tempo significativo, le imprese si troverebbero esposte al rischio di fallimento con connesse dissoluzione dell’organizzazione produttiva e distruzione di capitale. Insomma, il problema erano i prezzi i discesa, non quelli bassi. Hume è stato il fondatore della teoria quantitativa della moneta grazia alla scoperta che gli affari non sarebbero toccati da un dimezzamento della quantità di moneta: semplicemente i prezzi si aggiusterebbero sulla metà del loro attuale livello. Aveva tralasciato di aggiungere che nel processo l’economia potrebbe finire distrutta.” (K. Polanyi, The Great Transformation, Beacon Press, Boston, 2001, pag. 201).
“[…] se i profitti dipendono dai prezzi, gli accordi monetari che condizionano i prezzi debbono essere vitali per ogni sistema fondato sulla motivazione del profitto. Se nel lungo periodo i cambiamenti dei prezzi di vendita non condizionano i profitti, perché i costi corrispondenti scenderanno e saliranno di conseguenza, questo non è vero nel breve periodo, perché deve trascorrere un certo lasso temporale perché i prezzi fissati nei contratti, fra cui quello del lavoro, possano variare. Quindi, se il livello dei prezzi scendesse per ragioni monetarie per un periodo di tempo significativo, le imprese si troverebbero esposte al rischio di fallimento con connesse dissoluzione dell’organizzazione produttiva e distruzione di capitale. Insomma, il problema erano i prezzi i discesa, non quelli bassi. Hume è stato il fondatore della teoria quantitativa della moneta grazia alla scoperta che gli affari non sarebbero toccati da un dimezzamento della quantità di moneta: semplicemente i prezzi si aggiusterebbero sulla metà del loro attuale livello. Aveva tralasciato di aggiungere che nel processo l’economia potrebbe finire distrutta.” (K. Polanyi, The Great Transformation, Beacon Press, Boston, 2001, pag. 201).
2.3.
In effetti una delle funzioni fondamentali della banca centrale è sempre stata
quella di evitare, o almeno ammorbidire, i contraccolpi della deflazione legati
alle incerte disponibilità dei metalli preziosi. Non è quindi per nulla
casuale, per dirla con Fantacci, che, quando la moneta, anziché essere d’oro, è
l’oro (sto parlando della convertibilità aurea), essa diventa cartacea.
Ovvero:
“La mia tesi è che il principio della
moneta metallica non potesse funzionare senza l’introduzione della moneta di
carta e la cancellazione della moneta immaginaria. Quest’ultima deve essere
abolita perché, pur lasciando alla moneta metallica la funzione di mezzo di
pagamento nelle transazioni internazionali, non le consente di rispondere ai
meccanismi di equilibrio automatico che potranno essere poi schematizzati dagli
economisti classici. La
moneta di carta deve essere istituita perché quelle d’oro e d’argento non
possono essere sempre commisurate alle esigenze della circolazione.”
(L. Fantacci, La moneta, Marsilio, Venezia, 2005, pag. 141)
Aggiunge
Fantacci: “Il gold standard, la moneta
metallica, non poteva esistere senza la moneta di carta. La moneta non è mai
stata un dato naturale. Nemmeno nel secolo d’oro, che stabilì l’identità della
moneta con una quantità di materia metallica. Lo standard aureo non era una legge naturale, ma
un’istituzione, funzionale alle esigenze del mercato autoregolato.”
(Ibid., pag. 149).
(Che
non è poi un’idea così originale: “un
sostituto del bisogno è diventata la moneta, per accordo comune,
e per questo ha il nome di moneta (nomisma), perché non è per
natura, ma per convenzione (nomoi), e
dipende da noi modificarla o porla fuori corso.”, Aristotele,
Etica Nicomachea, 1133 a. Forse se si chiamano classici un motivo ci sarà…).
2.4.
Insomma, un’istituzione dello Stato monoclasse al servizio del mercato
autoregolato, ossia una forma di esercizio del potere, però senza politica.
E naturalmente pure senza diritto, quando appunto una decisione politica su modi e finalità dell’esercizio di quel potere, nell’ambito di un più generale superamento di quella vecchia concezione del rapporto fra Stato e società civile, invece vi sia stata.
E naturalmente pure senza diritto, quando appunto una decisione politica su modi e finalità dell’esercizio di quel potere, nell’ambito di un più generale superamento di quella vecchia concezione del rapporto fra Stato e società civile, invece vi sia stata.
Sono
osservazioni che consentono di ribadire un punto su cui mi pare ci siano ancora
equivoci: l’antistatalismo liberale è solo una posa ideologica per attaccare la
democrazia, ma non corrisponde minimamente a una reale aspirazione o pratica di
“non intervento”. Ne abbiamo ripetutamente parlato, soprattutto qui (n. 1), ma può essere una buona
occasione per ripeterlo.
Come
nota ad esempio Polanyi con ironia (op. cit., pag. 204):
“L’attività delle banche centrali riduceva l’automatismo del gold standard a mera facciata. Essa implicava valute controllate da un potere centrale, che sostituiva la manipolazione al meccanismo autoregolato di offerta del credito, benché il procedimento non fosse sempre consapevole e deliberato. Risultò sempre più chiaro che l’unico modo per rendere il gold standard realmente autoregolato sarebbe stato eliminare le banche centrali. L’unico coerente sostenitore del gold standard che effettivamente invocò questo passo estremo fu Ludwig von Mises, il cui consiglio, se fosse stato seguito, avrebbe trasformato le economie nazionali in un cumulo di rovine.”
“L’attività delle banche centrali riduceva l’automatismo del gold standard a mera facciata. Essa implicava valute controllate da un potere centrale, che sostituiva la manipolazione al meccanismo autoregolato di offerta del credito, benché il procedimento non fosse sempre consapevole e deliberato. Risultò sempre più chiaro che l’unico modo per rendere il gold standard realmente autoregolato sarebbe stato eliminare le banche centrali. L’unico coerente sostenitore del gold standard che effettivamente invocò questo passo estremo fu Ludwig von Mises, il cui consiglio, se fosse stato seguito, avrebbe trasformato le economie nazionali in un cumulo di rovine.”
Come
ci ricorda De Grauwe (pag. 129), e si intuiva dalla citazione di Cesaratto che
ho riportato la scorsa volta, il QE non rappresenta che un esempio estremo di
questo interventismo della banca centrale riservato agli happy few: esso è
figlio dell’ammonimento di Milton Friedman a pompare enormi quantità di
liquidità nel sistema finanziario per evitare la spirale deflazionista degli
anni ’30. E il resto dell’economia si accontenti di quel che cade dal tavolo.
Insomma,
il mercato sempre ha avuto e, fino a prova contraria, sempre avrà, bisogno
dello Stato, prima di tutto per gestire i bei frutti dell’emarginazione sociale
che lascia dietro di sé (vi ricordo queste citazioni di Wacquant e
Vickrey). Qualcosa mi dice che la prossima crisi finanziaria ci aiuterà a
chiarire il punto. :-)
2.5.
Naturalmente il rapporto fra Stato e mercato può essere molto diverso: il punto
sollevato da Polanyi, e ripreso da De Grauwe, era proprio questo: l’abbandono
della finzione che pretendeva che terra, lavoro e moneta fossero merci, ossia il superamento di free trade,
deregolamentazione del mercato del lavoro e gold standard, è ciò in cui
consiste la Grande Trasformazione.
Si
tratta, a guardar bene, di uno dei vari modi per esprimere quel passaggio,
avvenuto durante e dopo la crisi del ’29 e la seconda guerra mondiale,
descritto da Minsky in termini di
trasformazione di un capitalismo “small government gold standard constrained
laissez-faire” in uno “big government flexible central bank interventionist”
(argomento sui cui vi rimando ovviamente al capitolo I di Euro e (o?)
democrazia costituzionale).
Mentre
Polanyi riteneva la trasformazione irreversibile, abbiamo invece assistito a un
ritorno indietro: ecco spiegata la metafora del pendolo contenuta nel titolo
del libro.
De
Grauwe ritiene tuttavia che questo ritorno al “capitalismo liberale”, per usare
proprio un’espressione di Polanyi, a partire dagli anni Ottanta dello scorso
secolo, e il crescente scontento che ha prodotto, preludano a una nuova
oscillazione verso un ruolo più attivo, o meglio: diversamente attivo, dello
Stato.
Certo,
sul piano del, diciamo, distacco di larghe fette dell’elettorato dalle
meraviglie del “nuovo”, non si può dire che le preoccupazioni di De Grauwe siano
infondate; anche nell’identificazione dei motivi di
scontento l’analisi è abbastanza plausibile; è nell’identificazione delle
cause, e quindi dei rimedi, che il libro secondo me risulta molto
insoddisfacente.
Delle
varie questioni esaminate selezionerò le due che mi sembrano più importanti, e
rispetto a cui con più evidenza si manifesta l’inadeguatezza delle analisi e delle
conseguenti terapie: la
finanziarizzazione e la disuguaglianza.
3.
Nel capitolo 3 De Grauwe dà atto dell’inattendibilità del modello dei mercati efficienti, che non tiene conto delle esternalità legate a comportamenti “da mandria”:
“dinamiche di boom euforico che si
trasformano in pessimismo e recessione sono state parte del capitalismo per
secoli, spingendolo costantemente contro questo suo limite. Tali dinamiche sono
il risultato delle esternalità: le previsioni costituiscono un processo collettivo in cui le
aspettative di qualcuno influenzano quelle di altri. Siamo ben lontani
dalla favola (fairy tale) del mercato efficiente in cui individui indipendenti
raccolgono informazioni per compiere la miglior previsione possibile, senza
influenzarsi reciprocamente” (pag. 29).
3.1.
Piccola parentesi: quello delle esternalità è uno degli espedienti a
cui ricorre l’economia neoclassica per restituire un po’ di realismo a modelli
basati sull’individualismo metodologico, dai quali emerge l’immagine di una
società, se tale si può definire, composta di automi senza storia, tanti io
“acosmici”, li definirebbe Del Noce, da cui ogni traccia di politica è stata
accuratamente purgata.
In
realtà, per citare il solito Castoriadis, “il sottospazio economico, come ogni sottospazio sociale, non è né
discreto né continuo (va da sé che questi termini sono utilizzati in
senso metaforico). Nelle loro attività economiche, un individuo o un’azienda
sono certo identificabili come entità a parte, ma la loro attività da ogni punto
di vista è costantemente intrecciata con quella di un numero indefinito di
altri individui o aziende in una molteplicità di modi non propriamente
separabili.
Un’azienda decide in funzione di un
“clima generale” nella pubblica opinione, e le sue decisioni modificheranno
questo clima generale. Le sue azioni, senza che lo voglia o lo sappia,
renderanno la vita e l’attività di altre aziende più facile (economie esterne)
o più difficile (diseconomie esterne) e in cambio subirà, positivamente o
negativamente, gli effetti delle azioni di altre aziende e di altri fattori
della vita sociale. L’imputazione
di un risultato economico a un’azienda è puramente convenzionale e arbitraria,
segue delle frontiere tracciate dalla legge (proprietà privata), la convenzione
o l’abitudine.” Che in quanto tali potrebbero ovviamente
essere poste in discussione: non sia mai!
Chiusa
parentesi.
3.2.
Dicevo, da De Grauwe, dopo tali ammissioni, accompagnate della consueta
citazione del famoso XII capitolo di Keynes, ci si
potrebbe aspettare un qualche minimo accenno alla possibilità di limitazioni
alla libertà di circolazione dei capitali. Neanche a parlarne, ovviamente.
De
Grauwe cita anche il noto libro di Reinhart e Rogoff, Questa è volta e diverso,
in cui, benché Cesaratto (Sei lezioni di economia, Imprimatur, Reggio
Emilia, 2016, pag. 251) lo consideri “brutto” (probabilmente per l’impostazione
molto mainstream), possiamo comunque trovare questo interessante grafichino:
Ma
guarda un po’. Pare che durante la c.d. “repressione finanziaria”,
cioè “il regime di controllo dei
movimenti internazionali dei capitali e di disciplina dei mercati finanziari
nazionali, che costituì uno dei pilastri del sistema finanziario internazionale
del dopoguerra, quello progettato alla conferenza di Bretton Woods” (A.
Bagnai, L’Italia può farcela, Il Saggiatore, Milano, 2014, s.p.), di
crisi bancarie praticamente non ve ne siano state.
Non
è che il misterioso rimedio all’“irrational exuberance” di greenspaniana
memoria forse poi così misterioso non è?
FINE DELLA PRIMA PARTE
FINE DELLA PRIMA PARTE