(Questo post in realtà...sono due post: la contestualizzazione dei 2 "poderosi" argomenti corrisponde all'esigenza di concentrazione per consentire di cogliere meglio il quadro complessivo della "manovra", in meno tempo, e coglierne perciò la portata disperdendo le forze di...concentrazione su meno post).
1- Tagliare la copertura pubblica gratuita
alla alla cura della salute aumentando contribuzione al SSN e spiazzando sul
settore privato la relativa spesa delle famiglie.
1.1. Un discorso analogo a
quello svolto con riguardo al "controllo" della spesa in pensioni
investirà, dentro l'agenda FMI, anche il costo del servizio sanitario
nazionale.
Questo costo, in termini reali,
cioè ove rapportato all'intera variazione (nominale) del PIL, è già in costante
diminuzione, negli ultimi anni (applicativi del percorso verso il pareggio
strutturale di bilancio): e ciò, nonostante l'ampliamento della sfera dei
beneficiari, dovuto all'aumento della percentuale di popolazione anziana e alla
crescente assistenza fornita a numeri sempre più ampi di immigrati (regolari e
non) che sostanzialmente, nella vasta maggioranza, non sono in condizioni di
contribuire a finanziare il servizio.
Ce lo dicono sia la Corte dei conti, sia
un profluvio di studi in cui, (ad es; in questo
dossier, del maggio 2019, della Camera dei deputati) si sottolinea
che, nonostante la negativa, crescita del PIL reale registratasi
complessivamente a partire dal 2008, la diminuzione della spesa pubblica
sanitaria rispetto al PIL è risultata "più efficiente" che nel resto
della pubblica amministrazione!
Questo un estratto del quadro consuntivo
della Corte
dei conti aggiornato al giugno 2019 (riportato dal "Quotidiano
Sanità"):
"I dati di
contabilità nazionale dimostrano l’efficacia dei controlli economici e
contabili adottati negli ultimi anni dal settore sanitario, la cui spesa, pari a
115,4 miliardi nel 2018, è cresciuta del 60,8% nel periodo 2000/2008, e
di appena il 3,7% negli anni 2009/2018. Al più moderato
profilo di crescita hanno contribuito tutte le componenti del conto economico,
che presenta variazioni annuali in valore assoluto negative per le uscite
dovute ai redditi da lavoro dipendente (dal 2009 al 2017) e la farmaceutica
convenzionata (dal 2009 al 2018), mentre più problematico appare, per
il governo dei conti, il controllo della spesa farmaceutica ospedaliera;
quest’ultima, spinta dalla costosità delle nuove terapie farmacologiche, è uno
dei principali fattori di crescita dei consumi intermedi (+25% nel periodo
2009/2018, +1,7% nel 2018 rispetto al 2017, di cui +6,5% solo la farmaceutica),
che nello scorso anno ha determinato un’eccedenza di spesa (rispetto al tetto
programmato del 6,89% del Fondo sanitario nazionale) di circa 2 miliardi
...La parsimoniosità
del settore nell’assorbire risorse finanziarie emerge anche dal confronto con
le uscite a carico delle altre principali voci di spesa del Conto consolidato
delle pubbliche amministrazioni: negli anni 2014/2018 il tasso medio di
variazione della spesa sanitaria è stato pari all’1% (a fronte di una crescita
media, nel periodo 2005-2009, del 4,2%), inferiore quindi a quello della spesa
corrente, netto interessi, non sanitaria (1,3%), mentre
le uscite per prestazioni previdenziali ed assistenziali in denaro sono
cresciute ad un tasso circa doppio (+1,8%). In valore assoluto ciò ha significato, nel periodo 2013- 2018, un
incremento cumulato di spesa per il SSN di 5,8 miliardi, a fronte di un aumento
delle uscite per prestazioni sociali in denaro (di tipo previdenziale e
assistenziale) pari, complessivamente, a circa 29 miliardi.
...Nel 2017 la spesa
sanitaria pubblica in Italia è stata pari al 6,6% del Pil, un valore inferiore
di circa tre punti percentuali a quella in Germania (9,6%) e Francia (9,5%), di un punto
percentuale rispetto al Regno Unito, e di poco superiore a quella di Spagna
(6,3%), Portogallo (6,0%) e Repubblica Ceca (5,8%). I dati Ocse relativi
all’arco temporale 2000/2017 mostrano, soprattutto a partire dal 2009, la
progressiva perdita di peso del comparto sanitario sul Pil rispetto a quello
dei maggiori paesi europei: se nel 2000 Francia e Germania spendevano per
il servizio sanitario due punti percentuali di Pil in più rispetto all’Italia
(rispettivamente 7,5, 7,7 e 5,5%), nel 2017 il divario è cresciuto a sfavore
dell’Italia di tre punti percentuali. Anche l’indicatore della spesa
pro capite mostra il sottodimensionamento relativo di quella italiana: nel 2017 la spesa
pubblica italiana (espressa in dollari a parità di potere di acquisto) è stata
pari a 2.622 USD, ossia inferiore del 35% a quella francese (4.068 USD) e del
45% a quella tedesca (4.869 USD), con un divario che cresce, rispetto a quello
dell’anno 2000, rispettivamente di 10 e di 15 punti percentuali."
1.2. Questo
sottodimensionamento e ridimensionamento della parte pubblica della spesa (sempre
tenendo conto di condizioni sociali e demografiche che aumentano invece la
platea dei beneficiari) si riflette naturalmente in un aumento della
spesa per cure sanitarie posto a carico dei redditi delle famiglie:
"...Se nel 2008
l’incidenza della spesa out of pocket (spesa
diretta delle famiglie) sulla spesa sanitaria totale era sostanzialmente simile
in Francia (21,8%), Germania (23,8%) e Italia (22,3%), nel 2017 il
divario a sfavore dell’Italia è di circa 10 punti percentuali; Francia e Germania,
nello scorso decennio, hanno perseguito politiche mirate ad incrementare il
grado di copertura pubblica della spesa totale, mentre l’Italia l’ha ridotta, è ciò fa sì che
l’Italia, pur avendo una spesa complessiva (pubblica e privata) inferiore del
57% a quella tedesca e del 42% a quella francese, abbia una spesa privata pro
capite (655 euro) di poco inferiore ai livelli francese (665 euro) e tedesco
(668 euro).
...I dati statistici relativi al periodo
2001-2017 mostrano una flessione, dopo il 2009, della spesa sanitaria pubblica
in percentuale della spesa totale (pubblica e privata), e un incremento di
quella direttamente sostenuta dalle famiglie (out of pocket), malgrado
la sostanziale stagnazione dei redditi seguita alla recessione del 2009 (nel 2017 il Pil pro capite reale in
Italia è risultato ancora inferiore del 6,2% a quello del 2008); nel 2017 la spesa
out of pocket ha raggiunto i 39,7 miliardi, pari a un valore pro capite
nazionale di 656 euro, segnando una crescita del 3,5% rispetto al 2016, e
un’incidenza sul Pil pro capite nominale in aumento dall’1,9% (nel 2008) al
2,3% nel 2017. Nel 2017 le risorse pubbliche hanno coperto il 74% della spesa
complessiva (152,8 miliardi), mentre la spesa diretta delle famiglie il 26,0
% (circa 39 miliardi, di cui 35,9 direttamente pagati dalle famiglie e 3,7
attraverso assicurazioni private)."
1.3. Mettendo insieme questi dati cosa si
escogita per contenere ulteriormente la già declinante copertura pubblica della
salute (art.32 Cost.) e dunque per incrementare il risparmio finanziario
complessivo per mezzo dell'incisione sulla sanità pubblica?
"Entro
il 31 marzo 2020 (ma il premier Giuseppe Conte ha già frenato sui tempi), sarà
infatti messa in cantiere la riorganizzazione del
sistema dei ticket sanitari, ovvero la quota che i contribuenti versano allo
Stato come forma di «compartecipazione» per le prestazioni
assistenziali diagnostiche o ambolatoriali specialistiche. Oggi i ticket sono
fissati nella misura massima di 36,15 euro ma domani potrebbero essere ancorati
al «reddito familiare equivalente» in base allo slogan «chi più ha, più paga». Ciò
significa che il costo dei ticket crescerà in proporzione alla ricchezza
calcolata non più in base al gettito Irpef ma anche al patrimonio, comprese
rendite e case.
Una
scelta solo apparentemente di buon senso e di equità sociale. I numeri,
infatti, raccontano tutta un’altra storia. Il 71 per cento delle
prestazioni della sanità pubblica è già oggi erogato a cittadini esenti dal
ticket per motivi legati al reddito o al tipo di patologia grave o cronica. È
solo il restante 29 per cento a concorrere a coprire le spese di un settore
che, di suo, è già finanziato dalle tasse dei cittadini. Facile intuire,
allora, che l’unico effetto che il riordino della materia voluta dal ministro
neo comunista sarà quello di abbattere ulteriormente questa percentuale
pagante che sceglierà, a parità di esborsi, di migrare verso il privato.
Il 9° Rapporto Rbm-Censis ha spiegato che
circa venti milioni di connazionali saldano le cure mediche di tasca propria
(la cosiddetta spesa out of pocket) mentre altri 6 milioni hanno rinunciato
del tutto a curarsi. Inoltre, il 62 per cento di chi ha ricevuto una
prestazione sanitaria nel pubblico ne ha richiesto almeno un’altra in quella a
pagamento. E questo riguarda sia i redditi bassi (56,7 per cento) sia
quelli alti (68,9 per cento). La stessa ricerca ha messo, inoltre, in evidenza
che il 38 per cento dei redditi bassi si rivolge direttamente al
privato senza passare per il pubblico.
Analoga percentuale è
quella che riguarda quanti non sono riusciti a prenotare almeno una volta una
prestazione nel pubblico per la chiusura delle liste d’attesa. Non è una sorpresa,
quindi, che la spesa per la sanità privata sia arrivata a 37,3 miliardi di euro
con un incremento del 7 per cento rispetto al 2004."
1.4. Dunque, l'oggettiva
tendenza è quella di indurre il cittadino a migrare verso il privato,
laddove se lo possa permettere (nonostante già finanzi il SSN con le imposte e
tasse pagate alla fiscalità generale), nella consapevolezza che l'evidente
dinamica del taglio reale della spesa pubblica sanitaria gli pone davanti
"liste di attesa" che vanificano le più elementari esigenze di
diagnosi e cura tempestive.
Ecco: una diffusa
rieducazione a provvedere a proprie spese alla cura della salute, in deroga
alla previsione costituzionale, sta avendo l'effetto de facto di
privatizzare la sanità, spiazzandone la spesa dal settore finanziario pubblico
a quello finanziario privato assicurativo. Tutto questo agevolerebbe
progressivamente la sostanziale riduzione della spesa sanitaria pubblica,
marginalizzata a prestazioni gratuite (urgenti e, giocoforza, sempre meno
sostenute da mezzi e personale specialistico avanzati) per soli soggetti in
condizioni reddituali di povertà o molti vicine ad essa. Ce lo dice lo
stesso prof. Savona, in
un recente intervento:
"Il prossimo
governo, nella manovra autunnale, dovrebbe “rivedere il patto tra chi produce e chi ha bisogno di assistenza” perché “se io oggi ti do assistenza aggiuntiva e
per farlo devo ridurre gli investimenti, sto
peggiorando le condizioni della crescita e del lavoro“. Il suggerimento dunque è di smettere di “dare
la sanità gratis a persone che sono in grado di pagarsela: il cittadino non può essere coperto da tutti
i rischi".
1.5.
Una buona tecnica incrementativa della segnalata tendenza, che potrebbe ben
rientrare nell'agenda FMI, è agire
simultaneamente su due livelli: abbassare la soglia della gratuità, assumendo
un non inconsueto concetto di "ricchezza relativa" e
aumentare il costo dei ticket fino a spingere fasce di popolazione crescenti a
migrare verso il privato. Una tecnica del tutto analoga a quella utilizzata appunto
per le pensioni.
Un esempio creativo potrebbe escogitarsi
vedendo le condizioni di ammissione al ticket: una colpisce in
particolare tra
quelle attualmente vigenti, poiché non attiene a condizioni che manifestano
in modo diretto un'evidente forma di disagio sociale: "cittadini di età
inferiore a 6 anni e superiore a 65, appartenenti ad un nucleo
familiare con reddito complessivo non superiore a 36.151,98 euro (CODICE
E01)".
Agendo su questa
attuale duplice soglia di esenzione, sarebbe sufficiente rideterminare
l'età più elevata che dà diritto all'esenzione sulla data dell'effettiva età di
pensionamento - nel 2020 portata a 67 anni - e ridurre la
soglia di reddito, in coerenza con quella assunta per la
super-contribuzione "solidale-intergenerazionale", che abbiamo visto
ponibile alla fatidica soglia dei 28.000 euro (pensione mensile lorda superiore
a circa 2100 euro, con applicazione, peraltro su ogni reddito, della
"mitica" aliquota del 38%). Il ticket, poi, potrebbe essere
aumentato nella sua soglia di base e, via via, in proporzione, per ogni
crescente fascia di reddito (secondo la proposta del governo attuale).
Ne risulterebbe:
a) un risparmio di spesa sanitaria netta, a regime, di qualche miliardo;
b) un deciso incremento dello spiazzamento dell'onere delle cura dalla spesa pubblica a quella privata assicurativa.
a) un risparmio di spesa sanitaria netta, a regime, di qualche miliardo;
b) un deciso incremento dello spiazzamento dell'onere delle cura dalla spesa pubblica a quella privata assicurativa.
Il calcolo del maggior
gettito, e della minor copertura, è abbastanza complesso: tuttavia, essendo i
dati disponibili, non è difficile immaginare un legislatore
"creativo" e volto alla crescita inclusiva e sostenibile di lungo
periodo, calibrare sobriamente il tutto per un
consolidamento fiscale (strutturale) di un 2-3 decimali di PIL (dai
3,5 ai 5,2 miliardi). O magari anche di più, in una progressione "a
tappe" pluriennale. E tutto questo per poter "aumentare gli investimenti"
(pubblici?) e non sacrificarli...
2- Un piano quinquennale di privatizzazioni.
2.1. Qua parliamo della
privatizzazione del settore societario-industriale a proprietà (o almeno
"controllo") pubblico.
Con una precisazione:
per pensioni e sanità si tratta sostanzialmente di un sistema anch'esso di
privatizzazione, sia pure indiretta - mediante de-finanziamento e disincentivi
economici alla prestazione erogata dal pubblico - , ma concerne quelle che la Costituzione
(art.32 e 38 Cost) ritiene essere funzioni pubbliche di primario interesse
generale, fondative della Repubblica fondata sul lavoro (art.1 Cost.), e non
meri servizi pubblici. Quindi una
privatizzazione tout-court, per riforma legislativa abrogatrice
dell'intervento e delle strutture pubbliche, incontrerebbe delle difficoltà
notevoli nelle previsioni costituzionali, che sarebbero incompatibili con
la immediatezza e il "fate presto" insiti nella realizzazione
dell'agenda FMI.
2.2. Quanto alla privatizzazione in senso "proprio", nelle prospettive attuali, la fantasia di un illuminato legislatore statominimista, e dedito a perseguire la crescita mediante crowding-out, può esercitarsi con grande ampiezza. La parola d'ordine, lo sappiamo, è "abbattere l'enoooorme debito pubblico".
Ora, l'ammontare del
debito pubblico, in assoluto, è oggi all'incirca pari a oltre 2337 miliardi.
Il valore delle partecipazioni pubbliche in società quotate si aggira intorno ai 35 miliardi: e ciò, considerate cumulativamente sia le partecipazioni direttamente in capo al Ministero dell'economia che a Cassa Depositi e Prestiti che, però, pur essendo controllata dallo Stato all'84%, è qualificabile come proprietario "privato" (essendo considerata market unit, cioè operatore finanziario "sul mercato"); pertanto la sua precedente acquisizione di quote dal Ministero è stata, ed è tutt'ora, pur con alcune perplessità ventilate in sede Ue, considerata una privatizzazione (per quanto attenuata dal punto di vista gestionale).
Il valore delle partecipazioni pubbliche in società quotate si aggira intorno ai 35 miliardi: e ciò, considerate cumulativamente sia le partecipazioni direttamente in capo al Ministero dell'economia che a Cassa Depositi e Prestiti che, però, pur essendo controllata dallo Stato all'84%, è qualificabile come proprietario "privato" (essendo considerata market unit, cioè operatore finanziario "sul mercato"); pertanto la sua precedente acquisizione di quote dal Ministero è stata, ed è tutt'ora, pur con alcune perplessità ventilate in sede Ue, considerata una privatizzazione (per quanto attenuata dal punto di vista gestionale).
Un'operazione di totale dismissione delle sole partecipazioni dirette statali, avrebbe dunque effetti di cassa transitori sul deficit annuale (anche perché il collocamento potrebbe richiedere più di un anno) ma risultati modesti, se non quasi irrilevanti, sul debito pubblico. E questo non potendo esservi aggiunte, per l'appunto, neppure le ulteriori partecipazioni, anche in società non quotate, detenute da CC.DD.PP, tramite CdP Equity (già, in origine Fondo Strategico Italiano), che detiene partecipazioni, non sempre di controllo e peraltro nel quadro di accordi di partnership strategica con altri soggetti investitori (esteri), per circa 2,7 miliardi (a chiusura esercizio 2017).
2.3. Un'operazione di cessione totale e a breve termine dell'intero "pacchetto statale", pone inoltre un problema di sostituzione delle entrate derivanti, nel bilancio consolidato dello Stato, dai profitti distribuiti da tali società, aspetto che riduce, strutturalmente, e non transitoriamente, il sollievo transitorio, per l'indebitamento annuale dello Stato.
In definitiva, considerata la redditività positiva
delle "quotate" in mano allo Stato e i rendimenti decrescenti del
titoli del debito pubblico che il corrispettivo della cessione andrebbe ad
ammortizzare, vi sarebbe una perdita di flusso di cassa (di entrate) ben superiore
all'onere attuale degli interessi passivi sul debito ammortizzato (v.
qui, p.5) .
Senza parlare del problema più
strettamente industriale, della perdita
di gestione e controllo di filiere che alimentano la capacità
competitiva, di investimento innovazione e ricerca, nazionali. Finché
siano, appunto, all'interno del controllo nazionale. Ma questo problema non pare molto
"sentito" nelle dichiarazioni dei responsabili politici dell'economia
italiana.
2.4. Vi sono però ulteriori elementi di pubblica proprietà di società, variamente classificabili come industriali, che fanno capo al settore pubblico: sia statale, che regionale, che comunale che di "altri settori". Secondo i dati del Mef, emergenti dal "Rapporto sugli esiti della revisione straordinaria delle partecipazioni pubbliche" (tavola II, pag.18), del 2019, il numero delle partecipazioni societarie pubbliche, dunque anche non quotate, facenti capo ai vari Ministeri è pari a 207; quello complessivamente attribuibile alle varie amministrazioni locali (includenti anche le Regioni) è di 32.207 (e hanno risposto al censimento soltanto l'85% delle amministrazioni locali); gli enti previdenziali e assistenziali, poi, detengono altre 13 partecipazioni.
Il valore di bilancio
complessivo di questa costellazione - che spazia, naturalmente dai servizi
pubblici di fornitura di acqua, gas e elettricità, al manifatturiero, alla
ricerca scientifica fino all'agricoltura -, non è riferito nel Rapporto;
il dato più indicativo è che circa un terzo (il 34%) è in perdita. Ma per
quanto riguarda la volontà dichiarata di mantenimento, e quindi di "non
dismissione", la percentuale di quelle in perdita scende al 20% (dunque l'80%
delle mantenibili, è in pareggio, 5%, o in utile, 75%).
La procedure di
alienazione concluse positivamente, rispetto alla volontà dichiarata in sede di
censimento (formula alternativa al recesso), sono state pari a un terzo di
quelle per cui si era preso un impegno, e ha dato, finora, un corrispettivo di
circa 420 milioni (Tabella V.24 a pag.46), riguardando un totale, estremamente
eterogeneo quanto a fatturato e settori di attività, di 458 società.
Ma anche questo settore, in cui le dismissioni sono già "programmate", ipotizzando un ottimistico e solerte "pienone" da parte delle Amministrazioni locali, prevalentemente interessate alla cessione, la privatizzazione porterebbe, sì e no, ad un aggiuntivo introito di poco superiore a 800 milioni.
2.5. La realtà è che controllo e gestione delle multiutilities che gestiscono i principali servizi pubblici "a rete" sono già in (lucrosa) proprietà e/o controllo privati: la cessione generalizzata (per subentrato obbligo legale "riformatore") di eventuali e, ormai spesso minoritarie, partecipazioni pubbliche, sarebbe però possibile e lucrosa nell'ordine dei miliardi. Sempre ad avere un censimento dei valori di bilancio e degli utili netti distribuiti (che non pare esserci, essendo il Rapporto solo una radiografia delle cessioni di quelle in perdita). Il problema è la perdita di controllo pubblico sulla gestione, sull'effettivo andamento tariffario (che sia affidato a un'analisi dei costi effettivamente trasparente e comprensibile per un "utente medio").
E lo evidenzia bene il costituzionalista Bin (qui, p.4):
"[...] qualsiasi
legame con gli enti rappresentativi è reciso"; "i
servizi pubblici hanno" quindi "perso ogni rapporto con il circuito
della responsabilità politica: può infatti un ente locale rispondere
politicamente pro quota azionaria? Chi risponde della politica dei servizi
pubblici, e a chi? Mentre
appare irrisoria l’ipotesi che – soprattutto in
situazioni dove il mercato non esiste – siano i
consumatori lillipuziani a bilanciare il peso del colosso industriale, è però
del tutto evidente che i cittadini sono completamente scomparsi dell’orizzonte:
con loro è scomparsa la “comunità” quale destinataria dei servizi pubblici, e la politica come
sede delle scelte sull’estensione, l’intensità e il carattere sociale degli
stessi."
2.6. Concludendo: la
decisione di procedere a ulteriori privatizzazioni di società che vedano le più
varie forme di partecipazione pubblica, consistente per lo più in cessione di
quote non maggioritarie - anche se, talora, come nel caso dell'ENI, sufficienti
ancora a garantirne il controllo -, è oggettivamente una decisione di mera sostanza politica.
Qualsiasi valutazione
in termini di pura economicità è resa "labile", dal fatto che, nella realtà, i valori cedibili sono poco consistenti rispetto allo scopo ex se di ridurre
il debito pubblico, e che si tratta in grande prevalenza di società che (quale
che sia il collocamento a livello territoriale della loro proprietà) rendono al
settore pubblico, come flusso di utili, più di quanto non siano gli interessi
passivi sul debito pubblico che ne verrebbe ammortizzato.
Le società in
questione, infatti, corrispondono, (ormai molto) in astratto, ai più vari
interessi pubblici, diretti ed indiretti - sviluppo coordinato dell'economia
industriale, attenuazione delle rendite nel settore delle utilities,
caratterizzate strutturalmente dalla rendita di monopolio, o di oligopolio
concentrato (o più spesso "concertato").
Ma il valore aggiunto del perseguimento di tali interessi, che sono evidentemente occupazionali, quantitativi e qualitativi, agli investimenti innovativi, alla gestione nell'interesse del potere di acquisto delle famiglie, è del tutto perduto: disperso nelle maglie complessive della disciplina che ne regola i rispettivi settori. E che, inutile sottolinearlo, ha tutta origine nel diritto europeo.
Ma il valore aggiunto del perseguimento di tali interessi, che sono evidentemente occupazionali, quantitativi e qualitativi, agli investimenti innovativi, alla gestione nell'interesse del potere di acquisto delle famiglie, è del tutto perduto: disperso nelle maglie complessive della disciplina che ne regola i rispettivi settori. E che, inutile sottolinearlo, ha tutta origine nel diritto europeo.
2.7. Uno dei
"colpi" più magistrali che potrebbero essere messi a frutto, in termini sia di
cassa che di ampiezza del controllo gestionale che verrebbe ad essere
trasferito, - e che, pertanto, per la sua appetibilità per l'investitore
estero non può essere trascurato - è la privatizzazione,
cioè la
cessione sul mercato finanziario "internazionale" (ulteriore,
oltre a quelle già cedute alle Fondazioni bancarie) di quote di controllo, o
comunque consistenti, della Cassa Depositi e Prestiti.
La Cassa è, infatti, già una società per azioni (art. 5 del d.l. n. 269/2003 (“collegato” alla legge finanziaria 2004 - convertito, con modificazioni, dalla legge n. 326/2003); la stessa legge, altrettanto, già prevede (art. 5, comma 2), che "altri soggetti pubblici o privati, tra cui sono indicate espressamente le fondazioni bancarie, possono detenere quote di capitale, purché nel complesso tali quote rimangano di minoranza".
Sarebbe dunque sufficiente, per un legislatore "creativo e bene intenzionato" rimuovere questo limite di cui al comma 2, per consentire di negoziare l'entrata di altri soggetti privati, fino a consolidarne, magari mediante il complicato presupposto di una procedura infarcita di advisor e soggetti "collocatori", un controllo privatizzato.
Si consideri che l'attuale 15,95% (in origine "era" il 30%...) dell'azionariato CC.DD.PP collocato presso le 65 fondazioni bancarie, è stato pagato 1 miliardo e 50 milioni (il valore azionario complessivo è fissato in 3.5 miliardi di lire).
Lo sperimentato intervento (para)procedimentalizzato degli advisor (v. qui, pp. 8-9) porterebbe alla cessione ulteriori a valori presumibilmente ben accresciuti rispetto a quelli formali del capitale sottoscritto, considerato che la Cassa distribuisce profitti annuali "ben superiori" al 10% ai fortunati investitori delle Fondazioni che, soprattutto, possono fruire della previsione statutaria, all'art.30, sull'obbligo ("saranno assegnati") di distribuzione di utili. E magari con (il non facile) scorporo della "gestione separata" destinata al finanziamento degli enti territoriali pubblici.
E si consideri, non secondariamente che il controllo pubblico dell'Eni è sostanzialmente "blindato" nella Cassa: il Tesoro, infatti, possiede il 4,34 delle azioni, mentre CC.DD.PP. ben il 26,37% (il "colpo magistrale" potrebbe realizzare il sogno delle "sette sorelle" fin dai tempi di Mattei...).
La Cassa è, infatti, già una società per azioni (art. 5 del d.l. n. 269/2003 (“collegato” alla legge finanziaria 2004 - convertito, con modificazioni, dalla legge n. 326/2003); la stessa legge, altrettanto, già prevede (art. 5, comma 2), che "altri soggetti pubblici o privati, tra cui sono indicate espressamente le fondazioni bancarie, possono detenere quote di capitale, purché nel complesso tali quote rimangano di minoranza".
Sarebbe dunque sufficiente, per un legislatore "creativo e bene intenzionato" rimuovere questo limite di cui al comma 2, per consentire di negoziare l'entrata di altri soggetti privati, fino a consolidarne, magari mediante il complicato presupposto di una procedura infarcita di advisor e soggetti "collocatori", un controllo privatizzato.
Si consideri che l'attuale 15,95% (in origine "era" il 30%...) dell'azionariato CC.DD.PP collocato presso le 65 fondazioni bancarie, è stato pagato 1 miliardo e 50 milioni (il valore azionario complessivo è fissato in 3.5 miliardi di lire).
Lo sperimentato intervento (para)procedimentalizzato degli advisor (v. qui, pp. 8-9) porterebbe alla cessione ulteriori a valori presumibilmente ben accresciuti rispetto a quelli formali del capitale sottoscritto, considerato che la Cassa distribuisce profitti annuali "ben superiori" al 10% ai fortunati investitori delle Fondazioni che, soprattutto, possono fruire della previsione statutaria, all'art.30, sull'obbligo ("saranno assegnati") di distribuzione di utili. E magari con (il non facile) scorporo della "gestione separata" destinata al finanziamento degli enti territoriali pubblici.
E si consideri, non secondariamente che il controllo pubblico dell'Eni è sostanzialmente "blindato" nella Cassa: il Tesoro, infatti, possiede il 4,34 delle azioni, mentre CC.DD.PP. ben il 26,37% (il "colpo magistrale" potrebbe realizzare il sogno delle "sette sorelle" fin dai tempi di Mattei...).
2.8. In definitiva, quindi, un
legislatore (policy maker ideale) determinato, potrebbe comunque
perseguire la scelta di introdurre un regime ulteriore di privatizzazione,
adeguatamente articolato per i vari settori societari e produttivi, statali e
locali coinvolti, e, ricavarne alcune decine di miliardi: certamente,
dovrebbe sapere di sacrificare definitivamente ogni residuo,
anche solo potenziale, di perseguimento degli interessi generali sopraddetti,
che corrispondono a precisi obiettivi politico-economici costituzionali
"primari", indicati negli artt. 41, 42 e 43 della Costituzione. E
prima ancora derivanti dai principi fondamentalissimi della Repubblica fondata
sul "lavoro".
Ma, in alcun modo,
il policy maker ideale, coerente con l'agenda FMI, potrebbe e
vorrebbe tenerne conto: in questa scelta politica prevarrebbero gli
obiettivi di "fare cassa", a un livello formale-contabile (per
quanto inefficace e limitato), e, soprattutto, di far accedere il
capitale degli "investitori esteri" a partecipazioni profittevoli,
quasi prive di alcun rischio, immettendo nel sistema esausto dell'industria
nazionale dosi massicce di irlandesizzazione.
(10- segue)
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