1. Si ritiene diffusamente che il problema che più solleva l'attenzione e la "tensione" nella dialettica politica del nostro tempo (non solo in Italia), sia quello della "scomparsa" o dell'impoverimento della classe media: la stessa forza motrice dei vari "populismi" o la stessa reazione difensiva dei partiti - ri-definitisi "liberali" sia a destra che a sinistra -, che si contrappongono al populismo, al fine di conservare il potere esercitato negli ultimi decenni, si incentra essenzialmente su un dichiarato obiettivo: restituire "potere d'acquisto" e dignità sociale alla classe media.
Si dovrebbe dire, più esattamente, della piccola borghesia; almeno se si vogliono chiamare le cose con il loro nome, ricorrendo ad una corretta traduzione di middle-class, secondo il senso del linguaggio corrente più consolidato, prima dell'avvento della "rivoluzione liberale" negli Stati Uniti, là dove la locuzione ha avuto origine:
"In modern American vernacular, the term "middle class" is most often used as a self-description by those persons whom academics and Marxists would otherwise identify as the working class, which are below both the upper class and the true middle class, but above those in poverty. This leads to considerable ambiguity over the meaning of the term "middle class" in American usage. Sociologists such as Dennis Gilbert and Joseph Kahl see this American self-described "middle class" (working class) as the most populous class in the United States".
1.1. In una sintetica descrizione causale del fenomeno dell'impoverimento della "classe più numerosa" che si collochi "al di sopra di quelli che vivono in povertà", l'impoverimento stesso è oggettivamente imputabile alla - graduale, quindi "ordoliberista" (v. anche qui, p.10)-, realizzazione del paradigma della "rivoluzione liberale" nelle sue varie proiezioni istituzionali (che abbiamo appena analizzato qui, p.3-4), e simmetricamente, all'abbandono del sistema costituzionalista, ri-definito come statalista-comunista-collettivista-assistenzialista, almeno a partire dall'inizio degli anni '80.
Quindi, come vedremo, il fenomeno si è manifestato in un modo che costituisce l'esatto opposto della ossessiva e insistente vulgata attuale.
2. Gli indicatori principali in base ai quali si persiste a chiedere lo "Stato minimo" (qui, p.5) ed a propagandare la c.d. ipotesi di Baumol (per cui la rigidità della domanda di pubblici servizi in democrazia, sostanziale, porterebbe ad un consumo di risorse altrimenti destinate ad un impiego più efficiente nel settore privato - ipotesi del c.d. crowding-out; v. qui p.7), e quindi, a proseguire nelle politiche "liberali" (sia da parte dei populisti sia da parte dei partiti delle tradizionali "destra e sinistra"), potrebbero essere semplificati in:
a) rilevazione dell'incidenza della tassazione sul reddito, nel tempo;
b) più ampiamente, della pressione fiscale complessiva;
c) infine, dell'ammontare della spesa pubblica rispetto al Pil; essendo ormai condivisa la (inesatta) vulgata per cui è l'ammontare di tale spesa la causa della tassazione (qui, pp. 6-7: abbiamo visto, infatti, che ciò vale solo nel caso di uno Stato privato della sua sovranità monetaria e della possibilità di svolgere autonomamente le proprie politiche industriali e di bilancio, in modo da risolvere il problema principale della politica economica: cosa produrre e cosa scambiare con l'estero - qui, pp. 1-3 -, al fine di assicurare l'equilibrio di medio e, possibilmente, lungo termine dei propri conti commerciali e finanziari con l'estero).
3. Cominciamo dal verificare, nella sua evoluzione storica, la situazione effettiva della principale tassazione, quella sul reddito delle persone fisiche, che maggiormente influenza la diretta percezione della pressione fiscale.
Cogliamo da un articolo del 2010 di Micromega: si occupava della progressività, ma ci interessa per capire come storicamente sia proprio l'epoca dell'affermazione del monetarismo, della banca centrale indipendente e dei vincoli monetari (che hanno limitato e, in seguito, del tutto impedito le terribili "svalutazioni competitive"), ad aver portato alla compressione dei redditi della classe media.
Dalle aliquote e dai relativi scaglioni, quali modificati nei vari momenti, - il primo anteriore al vincolo esterno (1974 fino al non casuale 1983, come vedremo) e i successivi, appunto, plasmati dalle esigenze di mantenimento del cambio da esso imposto -, al tempo del collettivismo-assistenzialismo-inefficiente, con ogni evidenza, la tassazione sul reddito era più tenue se riferita alla "piccola borghesia".
Quindi, come vedremo, il fenomeno si è manifestato in un modo che costituisce l'esatto opposto della ossessiva e insistente vulgata attuale.
2. Gli indicatori principali in base ai quali si persiste a chiedere lo "Stato minimo" (qui, p.5) ed a propagandare la c.d. ipotesi di Baumol (per cui la rigidità della domanda di pubblici servizi in democrazia, sostanziale, porterebbe ad un consumo di risorse altrimenti destinate ad un impiego più efficiente nel settore privato - ipotesi del c.d. crowding-out; v. qui p.7), e quindi, a proseguire nelle politiche "liberali" (sia da parte dei populisti sia da parte dei partiti delle tradizionali "destra e sinistra"), potrebbero essere semplificati in:
a) rilevazione dell'incidenza della tassazione sul reddito, nel tempo;
b) più ampiamente, della pressione fiscale complessiva;
c) infine, dell'ammontare della spesa pubblica rispetto al Pil; essendo ormai condivisa la (inesatta) vulgata per cui è l'ammontare di tale spesa la causa della tassazione (qui, pp. 6-7: abbiamo visto, infatti, che ciò vale solo nel caso di uno Stato privato della sua sovranità monetaria e della possibilità di svolgere autonomamente le proprie politiche industriali e di bilancio, in modo da risolvere il problema principale della politica economica: cosa produrre e cosa scambiare con l'estero - qui, pp. 1-3 -, al fine di assicurare l'equilibrio di medio e, possibilmente, lungo termine dei propri conti commerciali e finanziari con l'estero).
3. Cominciamo dal verificare, nella sua evoluzione storica, la situazione effettiva della principale tassazione, quella sul reddito delle persone fisiche, che maggiormente influenza la diretta percezione della pressione fiscale.
Cogliamo da un articolo del 2010 di Micromega: si occupava della progressività, ma ci interessa per capire come storicamente sia proprio l'epoca dell'affermazione del monetarismo, della banca centrale indipendente e dei vincoli monetari (che hanno limitato e, in seguito, del tutto impedito le terribili "svalutazioni competitive"), ad aver portato alla compressione dei redditi della classe media.
Dalle aliquote e dai relativi scaglioni, quali modificati nei vari momenti, - il primo anteriore al vincolo esterno (1974 fino al non casuale 1983, come vedremo) e i successivi, appunto, plasmati dalle esigenze di mantenimento del cambio da esso imposto -, al tempo del collettivismo-assistenzialismo-inefficiente, con ogni evidenza, la tassazione sul reddito era più tenue se riferita alla "piccola borghesia".
Tab. 1 - Numero aliquote, variazioni nel tempo delle aliquote MASSIME dell’Irpef e relativi importi dei redditi a cui si applicano
1974
|
1883
|
1988
|
1989
|
1998
|
2001
|
2005
|
2007
| |
1) Numero aliquote
|
32
|
9
|
9
|
7
|
5
|
5
|
4
|
5
|
2) Aliquota massima
|
72%
|
65%
|
62%
|
50%
|
45,5
|
45%
|
43%
|
43%
|
3) Importo a cui si applica
|
500 milioni di lire
(258mila euro)
|
500 milioni di lire
(258mila euro)
|
600 milioni di lire
(310mila euro)
|
300 milioni di lire
(154mila euro)
|
135 milioni di lire
(70 mila euro)
|
135 milioni di lire
(70 mila euro)
|
100 mila euro
|
Da 75 mila euro in poi
|
Fonte: Ministero dell’Economia e delle finanze, elaborazione Cobas
Tab.2 - Variazioni nel tempo delle aliquote MINIME dell’Irpef e relativi importi dei redditi a cui si applicano
1974
|
1883
|
1988
|
1989
|
1998
|
2001
|
2005
|
2007
| |
1) Numero aliquote
|
32
|
9
|
9
|
7
|
5
|
5
|
4
|
5
|
2) Aliquota minima
|
10%
|
18%
|
12%
|
10%
|
18,5
|
18
|
23%
|
23%
|
3) Importo cui si applica
|
Da 2 milioni
di lire
Da 10 mila euro
|
(1)
Fino 11 milioni
|
(1)
Fino 12 milioni
|
(1)
Fino 6 milioni
|
(1)
Fino 15 milioni
|
(1)
Fino 20 milioni
|
(1)
Fino a 26.000 euro
|
(2)
Fino a 15.000
euro
|
(1) Entra in vigore un nuovo meccanismo di detrazioni per lavoratori dipendenti e pensionati (2) Il meccanismo delle deduzioni viene sostituito con un ripristinato e nuovo meccanismo di detrazioni.
|
Fonte: Ministero dell’Economia e delle finanze, elaborazione Cobas.
3.1. Riportiamo questo passaggio dall'articolo di Micromega, perché sintetizza molto efficacemente quanto deducibile dalle tabelle:
"La tabella 2 mostra come il ridursi del numero delle aliquote evidenziato nella prima riga (stesso parametro della tab 1) testimonia come in questi ultimi 26 anni lavoratori dipendenti e pensionati abbiano pagato proporzionalmente più dei ricchi: riducendosi il numero delle aliquote e aumentando l’aliquota minima (dal 10 al 23% del 2007, seconda riga) in proporzione al reddito basso mostrato dalla terza riga, i lavoratori hanno sostenuto l’80% degli introiti di tutta la tassazione diretta. Un dato che rimane tale nonostante negli anni siano stati introdotti sistemi di deduzioni e detrazioni (vedi note 1 e 2), che hanno reso il meccanismo poco trasparente senza cambiare la sostanza: la crescita delle aliquote colpisce sempre più le fasce più basse di reddito e il sistema delle detrazioni serve ormai soprattutto a coprire i redditi degli “incapienti”, ossia di quei lavoratori e pensionati al disotto della soglia della povertà assoluta."
Ed infatti...
Scaglioni reddito annuo | Aliquota | Modalità calcolo imposta lorda | |
Oltre euro | Fino a euro | ||
15.000,00 | 23% | 23% dell'intero reddito | |
15.000,00 | 28.000,00 | 27% | 3.450,00 + (27% della parte del reddito eccedente 15.000,00) |
28.000,00 | 55.000,00 | 38% | 6.960,00 + (38% della parte del reddito eccedente 28.000,00) |
55.000,00 | 75.000,00 | 41% | 17.220,00 + (41% della parte del reddito eccedente 55.000,00) |
75.000,00 | 43% | 25.420,00 + (43% della parte del reddito eccedente 75.000,00 |
3.2. Micromega (ma eravamo nel 2010), ci fornisce dunque questa clamorosa esemplificazione (per i nostri liberal-rivoluzionari); cioè il passato è ben diverso da come ci viene raccontato per giustificare la prosecuzione della "liberal-rivoluzione). Sicuramente per le "classi medie". Leggete:
"Per fare degli esempi, attualizzando la situazione dell’Irpef nel 1974, si otterrebbero i seguenti dati:
- un reddito di 42 milioni di lire pagherebbe un’imposta di lire 4.957.665, pari al 11.8% del reddito
- per i redditi di 1,2 miliardi l’imposta sarebbe del 42.3%
- per i redditi da 6 miliardi di lire l'imposta sarebbe del 58.7%
che conferma come la progressività faccia effettivamente pagare una quota maggiore a chi guadagna di più."
Detto in soldoni, nel 1974, (scontando la variazione reale del reddito intervenuta fino al 2010, purtroppo non aumentata, ma anzi diminuita, negli anni successivi, grazie alle politiche "credibili" di austerità fiscale...espansiva), un appartenente alla "classe media" con un (oggi) modesto reddito di circa 21.600 euro, avrebbe pagato l'11,8%; nella situazione attuale, invece, paga, effettivamente, intorno al 25% del reddito, cioè, in modo liberal-rivoluzionario e europeisticamente credibile, oltre il doppio.
4.Veniamo alla pressione fiscale e riportiamone, nel grafico sottostante, l'andamento a partire dal 1980 fino praticamente ai nostri giorni:
Questo grafico richiede una sottolineatura storica dei principali mutamenti istituzionali intervenuti nell'ampio periodo considerato:
- nel 1980, al culmine dei fatidici anni '70, caratterizzati dall'inflazione-brutta e dall'inefficienza collettivistica dello Stato oppressore, la pressione fiscale era inferiore al 32% del PIL (non correliamo immediatamente tale dato percentuale con la variazione del PIL per semplificare: ma di certo la crescita ha un elementare effetto diluente della pressione fiscale, laddove complessivamente le aliquote tributarie siano mantenute costanti);
- il primo ragguardevole balzo della pressione fiscale si colloca nel 1983, proprio quando si iniziano a sentire gli effetti, combinati, delle due grandi riforme "liberal-rivoluzionarie", e naturalmente anti-inflazioniste, determinate dalla scelta di aderire allo SME (sistema di cambi fissi tra paesi dell'allora comunità economica europea) e di procedere col "divorzio" tra tesoro e Banca d'Italia (v. infra);
- durante l'era dello SME, la pressione fiscale tende prevalentemente a una costante salita; raggiunge la "fatidica" soglia del 42% nel 1990-1991, come effetto della "liberale" scelta di entrare nella fascia di oscillazione ristretta dello SME credibile; e perviene poi ad un picco del 42,9% nel 1993, a seguito delle manovre susseguitesi, da parte dei governi Amato e Ciampi, alla fuoriuscita dallo SME, ma col contestuale rilancio liberoscambista della conclusione e ratifica del trattato di Maastricht;
- dopo un relativo calo, dovuto al prosperare (relativo) della crescita italiana a seguito della svalutazione e della conseguente libertà di oscillazione del cambio della lira, nel 1997 la pressione fiscale è in netto rialzo, in coincidenza con le manovre intraprese per raggiungere i c.d. criteri di convergenza, cioè a seguito della decisione di aderire alla moneta unica, anticipata dalla fissazione del cambio rispetto al marco e dalla connessa determinazione di rientrare nello "SME ristretto" (decisioni assunte tra il settembre e il novembre 1996: l'intera vicenda è ricostruita in dettaglio in questo post frattalico);
- l'era dell'euro si manifesta poi in un'apparente discesa della pressione fiscale, - ma ben lontana dai più bassi livelli degli anni "ante-divorzio" tesoro-Bankitalia (la "madre" di tutte le riforme "liberali"): solo che l'euro è un pochettino...imperfetto e, come disse Prodi, "un giorno ci sarà una crisi". La crisi ci fu, solo che invece di completare il regime dell'eurozona, rendendola un'area valutaria perfetta con l'introduzione dei trasferimenti fiscali gestiti a livello di un (tutt'ora inesistente) governo federale, si ricorse all'austerità fiscale, col divieto di bail-out e la molto liberale, conseguente disciplina di bilancio, che costituisce il metodo neo-liberista, per eccellenza, di risoluzione delle crisi economiche (viste come occasione di un "sano aggiustamento").
Risultato: l'aggiustamento €uropeo, e modernizzatore in senso liberale dello Stato italiano (spendaccione e assistenzialista nonostante avesse allora già realizzato quasi due decenni di avanzi primari di bilancio, come nessun altro nell'eurozona), porta al prolungarsi della recessione più devastante della storia unitaria d'Italia, e la pressione fiscale raggiunge il suo picco assoluto durante il governo Monti. Senza più scendere, se non modestamente e in coincidenza con una ripresa timida e sempre più instabile (si rimane sopra il 42%; 11 punti di pressione fiscale aggiuntiva rispetto all'epoca dell'Italietta e della liretta; e in aggiunta, ci siamo potuti godere annuali e reiterati balletti di minaccia di procedura di infrazione da parte della Commissione Ue).
- nel 1980, al culmine dei fatidici anni '70, caratterizzati dall'inflazione-brutta e dall'inefficienza collettivistica dello Stato oppressore, la pressione fiscale era inferiore al 32% del PIL (non correliamo immediatamente tale dato percentuale con la variazione del PIL per semplificare: ma di certo la crescita ha un elementare effetto diluente della pressione fiscale, laddove complessivamente le aliquote tributarie siano mantenute costanti);
- il primo ragguardevole balzo della pressione fiscale si colloca nel 1983, proprio quando si iniziano a sentire gli effetti, combinati, delle due grandi riforme "liberal-rivoluzionarie", e naturalmente anti-inflazioniste, determinate dalla scelta di aderire allo SME (sistema di cambi fissi tra paesi dell'allora comunità economica europea) e di procedere col "divorzio" tra tesoro e Banca d'Italia (v. infra);
- durante l'era dello SME, la pressione fiscale tende prevalentemente a una costante salita; raggiunge la "fatidica" soglia del 42% nel 1990-1991, come effetto della "liberale" scelta di entrare nella fascia di oscillazione ristretta dello SME credibile; e perviene poi ad un picco del 42,9% nel 1993, a seguito delle manovre susseguitesi, da parte dei governi Amato e Ciampi, alla fuoriuscita dallo SME, ma col contestuale rilancio liberoscambista della conclusione e ratifica del trattato di Maastricht;
- dopo un relativo calo, dovuto al prosperare (relativo) della crescita italiana a seguito della svalutazione e della conseguente libertà di oscillazione del cambio della lira, nel 1997 la pressione fiscale è in netto rialzo, in coincidenza con le manovre intraprese per raggiungere i c.d. criteri di convergenza, cioè a seguito della decisione di aderire alla moneta unica, anticipata dalla fissazione del cambio rispetto al marco e dalla connessa determinazione di rientrare nello "SME ristretto" (decisioni assunte tra il settembre e il novembre 1996: l'intera vicenda è ricostruita in dettaglio in questo post frattalico);
- l'era dell'euro si manifesta poi in un'apparente discesa della pressione fiscale, - ma ben lontana dai più bassi livelli degli anni "ante-divorzio" tesoro-Bankitalia (la "madre" di tutte le riforme "liberali"): solo che l'euro è un pochettino...imperfetto e, come disse Prodi, "un giorno ci sarà una crisi". La crisi ci fu, solo che invece di completare il regime dell'eurozona, rendendola un'area valutaria perfetta con l'introduzione dei trasferimenti fiscali gestiti a livello di un (tutt'ora inesistente) governo federale, si ricorse all'austerità fiscale, col divieto di bail-out e la molto liberale, conseguente disciplina di bilancio, che costituisce il metodo neo-liberista, per eccellenza, di risoluzione delle crisi economiche (viste come occasione di un "sano aggiustamento").
Risultato: l'aggiustamento €uropeo, e modernizzatore in senso liberale dello Stato italiano (spendaccione e assistenzialista nonostante avesse allora già realizzato quasi due decenni di avanzi primari di bilancio, come nessun altro nell'eurozona), porta al prolungarsi della recessione più devastante della storia unitaria d'Italia, e la pressione fiscale raggiunge il suo picco assoluto durante il governo Monti. Senza più scendere, se non modestamente e in coincidenza con una ripresa timida e sempre più instabile (si rimane sopra il 42%; 11 punti di pressione fiscale aggiuntiva rispetto all'epoca dell'Italietta e della liretta; e in aggiunta, ci siamo potuti godere annuali e reiterati balletti di minaccia di procedura di infrazione da parte della Commissione Ue).
4. Veniamo all'indicatore della spesa pubblica.
Di questo argomento abbiamo parlato, per demitizzare l'iperconvinzione diffusa che l'Italia non l'avrebbe tagliata abbastanza, - compito brillantemente svolto in primis da Padoan-, nonché per evidenziare il curioso, e molto liberal-rivoluzionario fatto (compiuto) che il differenziale di crescita dell'Italia stessa rispetto a Germania e Francia è ben correlato con la dinamica della minor spesa corrente comparativamente effettuata dall'Italia: che è come dire che siamo stati più liberali dei nostri principali partner (sempre assumendo che la spesa pubblica sia la "causa" della imposizione fiscale...).
Rimane un utile esercizio (ri)cognitivo vedere l'effettivo andamento della spesa pubblica dal 1950 fino all'era della grande crisi finanziaria del 2008. Lo riportiamo usando un grafico tratto da un articolo del Sole 24 ore che indaga sulle cause dell'enoooorme debito pubblico nazionale.
Di questo argomento abbiamo parlato, per demitizzare l'iperconvinzione diffusa che l'Italia non l'avrebbe tagliata abbastanza, - compito brillantemente svolto in primis da Padoan-, nonché per evidenziare il curioso, e molto liberal-rivoluzionario fatto (compiuto) che il differenziale di crescita dell'Italia stessa rispetto a Germania e Francia è ben correlato con la dinamica della minor spesa corrente comparativamente effettuata dall'Italia: che è come dire che siamo stati più liberali dei nostri principali partner (sempre assumendo che la spesa pubblica sia la "causa" della imposizione fiscale...).
Rimane un utile esercizio (ri)cognitivo vedere l'effettivo andamento della spesa pubblica dal 1950 fino all'era della grande crisi finanziaria del 2008. Lo riportiamo usando un grafico tratto da un articolo del Sole 24 ore che indaga sulle cause dell'enoooorme debito pubblico nazionale.
Una solida ricostruzione scientifica viene compiuta in questo studio di Aldo Barba, che riporta questi grafici di andamento storico e spesa pubblica, onere degli interessi, e entrate pubbliche:
I grafici 1, 2 e 3, rappresentano, rispettivamente, le tavole TUEE0250, TUEE0150, e TUEE0280 riportate in Supplemento al Bollettino statistico della Banca d’Italia (Statistiche di finanza pubblica dei paesi dell’Unione europea), Banca d’Italia. Per gli anni dal 1980 al 1981, si veda il no. 68, Anno X, del 29 dicembre 2000; per gli anni dal 1982 al 1994, il no. 62, Anno XI, del 15 novembre 2001; per gli anni dal 1995 al 2009, il no. 44, Anno XX, del 3 settembre 2010.
Di quest'ultimo fenomeno e del suo storico prodursi, l'articolo DEL Sole 24 ore, fornisce la sottostante spiegazione standard che, però, anche nelle parti condivisibili (perché evidenti), viene spesso dimenticata ai giorni nostri: più sotto ne riproduco alcuni passaggi molto significativi.
Ebbene: indubbiamente la crescita della spesa pubblica primaria italiana non è mai stata così smodata ed eccessiva; tutt'altro. Quello che l'articolo non nega è che, a partire da un certo momento, è l'onere degli interessi a lievitare in modo impressionante. E questo momento, coincide con il suddetto divorzio (appunto, "la madre di tutte le riforme liberali" intraprese incessantemente in Italia).
Quanto al come andasse la crescita del debito pubblico nei mitici anni '70, assistenzialisti e inefficienti, sono dette alcun cose condivisibili: nella parte in cui si deve ammettere che il debito, nonostante i "pesanti" deficit, rimaneva stabile.
Ed infatti, negli stessi anni, non lo si può negare, si registra una crescita reale media del 3% annuo, che curiosamente, ci siamo poi dimenticati nei decenni successivi liberal-rivoluzionari; e ciò in un continuo de-crescendo, accentuato dall'era post-Maastricht di ossessione della riduzione del deficit. Fino all'attuale recessione alternata a stagnazione, non appena subentra il diktat €uropeo del pareggio di bilancio.
I grafici 1, 2 e 3, rappresentano, rispettivamente, le tavole TUEE0250, TUEE0150, e TUEE0280 riportate in Supplemento al Bollettino statistico della Banca d’Italia (Statistiche di finanza pubblica dei paesi dell’Unione europea), Banca d’Italia. Per gli anni dal 1980 al 1981, si veda il no. 68, Anno X, del 29 dicembre 2000; per gli anni dal 1982 al 1994, il no. 62, Anno XI, del 15 novembre 2001; per gli anni dal 1995 al 2009, il no. 44, Anno XX, del 3 settembre 2010.
Di quest'ultimo fenomeno e del suo storico prodursi, l'articolo DEL Sole 24 ore, fornisce la sottostante spiegazione standard che, però, anche nelle parti condivisibili (perché evidenti), viene spesso dimenticata ai giorni nostri: più sotto ne riproduco alcuni passaggi molto significativi.
Ebbene: indubbiamente la crescita della spesa pubblica primaria italiana non è mai stata così smodata ed eccessiva; tutt'altro. Quello che l'articolo non nega è che, a partire da un certo momento, è l'onere degli interessi a lievitare in modo impressionante. E questo momento, coincide con il suddetto divorzio (appunto, "la madre di tutte le riforme liberali" intraprese incessantemente in Italia).
Quanto al come andasse la crescita del debito pubblico nei mitici anni '70, assistenzialisti e inefficienti, sono dette alcun cose condivisibili: nella parte in cui si deve ammettere che il debito, nonostante i "pesanti" deficit, rimaneva stabile.
Ed infatti, negli stessi anni, non lo si può negare, si registra una crescita reale media del 3% annuo, che curiosamente, ci siamo poi dimenticati nei decenni successivi liberal-rivoluzionari; e ciò in un continuo de-crescendo, accentuato dall'era post-Maastricht di ossessione della riduzione del deficit. Fino all'attuale recessione alternata a stagnazione, non appena subentra il diktat €uropeo del pareggio di bilancio.
Inoltre, la spiegazione standard si contraddistingue per un altro passaggio molto indicativo: quel "per fortuna" che implica, come suo presupposto, che la crescita della spesa pubblica sia un male in sé e, contemporaneamente, che pur essendo essa una delle componenti principali positive del PIL, la crescita in costanza di aumento della spesa pubblica PRIMARIA (al netto degli interessi sul debito) sia dovuta ad una estemporanea e casuale "fortuna":
Dal 1968 al 1983 la situazione delle nostre finanze pubbliche inizia a precipitare. La crescita per fortuna resta buona, intorno al 3% medio annuo (anche se siamo lontani dalle performance del “miracolo economico”) ma con la crisi petrolifera del 1973 esplode un’inflazione galoppante (da noi ulteriormente “pompata” dalle svalutazioni della lira). In Italia il carovita vola dal 5,2% del 1972 al 19% del 1974, mantenendosi attorno al 15% fino alla fine del decennio, quando si impenna di nuovo fino a toccare uno spaventoso 21,7%. In questo periodo va però sottolineato come i tassi reali siano fortemente negativi grazie a una politica monetaria statunitense molto permissiva. Intanto il miglioramento del welfare, processo in atto dal decennio precedente, provoca un aumento della spesa pubblica che si combina con la stagnazione delle entrate dando vita a un mix fatale che dal 1973 in poi ci porta a chiudere bilanci in pesante deficit (fino al 10%, più del triplo rispetto alle soglie del Trattato di Maastricht).
Il debito però non esplode, aumentando sì nei primi anni Settanta per via della recessione ma restando poi sostanzialmente stabile: nel 1981 si trova ancora al 60% del Pil. Per quale motivo? Perché dal 1975 la Banca d’Italia si impegna a garantire il successo delle aste dei titoli di Stato, stampando moneta per comprare le obbligazioni rimaste invendute (dal 1975 al 1981 gli interessi che pagavamo infatti erano in media inferiori del 10% rispetto all’inflazione, quindi collocare “carta” governativa era un’impresa ardua). In questo modo il costo dell’aumento del debito sparisce dai conti pubblici ma si scarica sulla lira, che non a caso nella seconda metà degli anni Settanta si svaluta di un impressionante 40% rispetto al dollaro.
Gli anni Ottanta
Nel 1981 esplode la bomba nucleare che condanna l’Italia a morire di debito, complice la cronica avversione dei Governi dell’epoca alla disciplina di bilancio. Viene innescata negli Stati Uniti dal nuovo presidente Ronald Reagan e dal Governatore della Federal Reserve Paul Volcker, che decidono di dichiarare guerra all’inflazione (allora al 14% negli Usa). La Fed dà vita a una memorabile stretta sui tassi, passati in sei mesi dal 9% a quasi il 19%, abbattendo il carovita (nel 1983 oltreoceano al 3,2%) ma innescando una mini-recessione prima del boom economico. Tutte le altre banche centrali del pianeta sono costrette a inseguire la Fed, compresa Bankitalia.
5. Tralasciando ulteriori approfondimenti sul tema specifico, già compiuti (in un inesorabile discorso scientifico complessivo) da Alberto Bagnai (ma anche qui), possiamo sintetizzare alcune conclusioni:
- la classe media viene sì distrutta e impoverita da un'eccessiva pressione fiscale, ma questo fenomeno non è determinato dalla vigenza del modello costituzionale di democrazia sociale, bensì, esattamente all'inverso, dalla sua disattivazione.
Infatti, questo impoverimento si correla al cumulo della crescente tassazione con il progressivo e inesorabile diminuire del livello monetario reale delle prestazioni sociali, prima di tutto il salario indiretto (servizio sanitario universale pubblico e gratuito; ma pure un efficiente e ben finanziato sistema dell'istruzione pubblica), e del salario differito (appunto, la copertura pensionistica pubblica, rispetto ai livelli retributivi...peraltro decrescenti a causa del regime neo-liberale del mercato del lavoro; qui, p.7. di "conclusioni");
- La "causa" della tassazione non è, in base ad evidenti dati storici, rinvenibile nell'eccesso di spesa pubblica primaria, che storicamente, in rapporto al PIL e alle sue dinamiche di crescita, non risulta mai essersi verificato; mentre, per contro, questo assunto è legato a ben precisi presupposti istituzionali, di chiaro carattere neo-liberale (cioè nel dominio dell'ordine sovranazionale dei mercati, dovuto a trattati internazionali economici ed innescato dalla finanziarizzazione privata dell'azione pubblica). E' dunque un assunto che ha a che vedere con l'attuazione, ideologico-culturale e giuridico-internazionalizzata della rivoluzione liberale, programmaticamente affermatasi nei paesi occidentali.
- Ed è proprio l'idea, funzionale al ripristino dell'ordine sovranazionale dei mercati, che occorra combattere il socialismo, come espressamente enunciata da Hayek nel teorizzare tale "rivoluzione liberale" (qui, p.2.1.) che produce la distruzione per via fiscale (tasse crescenti a fronte del taglio delle prestazioni pubbliche) delle classi medie (ove correttamente identificate come la maggioranza sociale dei lavoratori; anche autonomi quali partite IVA "atipiche", artigiani, liberi professionisti, piccoli imprenditori in genere).
- la rivoluzione liberale può attrarre perciò l'opinione di massa solo come suggestione svincolata dalla realtà economica dei suoi effetti; quindi intrinsecamente manipolatoria.
Tanto che si torna inevitabilmente, una volta riscontrati i dati, al ben noto commento su Hayek e la sua costruzione (contro)rivoluzionaria (qui, p.7):
"Che questa sia una costruzione ideale, ma non tanto (nutrendo Hayek espressamente fiducia nel fatto che "un giorno" esisteranno le condizioni politiche per realizzarla:...vi ricorda qualcosa?), e che non segna alcuna fondamentale incompatibilità col disegno UE-UEM: quest'ultimo, come già sul piano monetario, ammette un processo strategico che utilizza strumenti di progressiva realizzazione di tale "schema ideale", condividendone i fini essenziali.
5. Tralasciando ulteriori approfondimenti sul tema specifico, già compiuti (in un inesorabile discorso scientifico complessivo) da Alberto Bagnai (ma anche qui), possiamo sintetizzare alcune conclusioni:
- la classe media viene sì distrutta e impoverita da un'eccessiva pressione fiscale, ma questo fenomeno non è determinato dalla vigenza del modello costituzionale di democrazia sociale, bensì, esattamente all'inverso, dalla sua disattivazione.
Infatti, questo impoverimento si correla al cumulo della crescente tassazione con il progressivo e inesorabile diminuire del livello monetario reale delle prestazioni sociali, prima di tutto il salario indiretto (servizio sanitario universale pubblico e gratuito; ma pure un efficiente e ben finanziato sistema dell'istruzione pubblica), e del salario differito (appunto, la copertura pensionistica pubblica, rispetto ai livelli retributivi...peraltro decrescenti a causa del regime neo-liberale del mercato del lavoro; qui, p.7. di "conclusioni");
- La "causa" della tassazione non è, in base ad evidenti dati storici, rinvenibile nell'eccesso di spesa pubblica primaria, che storicamente, in rapporto al PIL e alle sue dinamiche di crescita, non risulta mai essersi verificato; mentre, per contro, questo assunto è legato a ben precisi presupposti istituzionali, di chiaro carattere neo-liberale (cioè nel dominio dell'ordine sovranazionale dei mercati, dovuto a trattati internazionali economici ed innescato dalla finanziarizzazione privata dell'azione pubblica). E' dunque un assunto che ha a che vedere con l'attuazione, ideologico-culturale e giuridico-internazionalizzata della rivoluzione liberale, programmaticamente affermatasi nei paesi occidentali.
- Ed è proprio l'idea, funzionale al ripristino dell'ordine sovranazionale dei mercati, che occorra combattere il socialismo, come espressamente enunciata da Hayek nel teorizzare tale "rivoluzione liberale" (qui, p.2.1.) che produce la distruzione per via fiscale (tasse crescenti a fronte del taglio delle prestazioni pubbliche) delle classi medie (ove correttamente identificate come la maggioranza sociale dei lavoratori; anche autonomi quali partite IVA "atipiche", artigiani, liberi professionisti, piccoli imprenditori in genere).
- la rivoluzione liberale può attrarre perciò l'opinione di massa solo come suggestione svincolata dalla realtà economica dei suoi effetti; quindi intrinsecamente manipolatoria.
Tanto che si torna inevitabilmente, una volta riscontrati i dati, al ben noto commento su Hayek e la sua costruzione (contro)rivoluzionaria (qui, p.7):
"Che questa sia una costruzione ideale, ma non tanto (nutrendo Hayek espressamente fiducia nel fatto che "un giorno" esisteranno le condizioni politiche per realizzarla:...vi ricorda qualcosa?), e che non segna alcuna fondamentale incompatibilità col disegno UE-UEM: quest'ultimo, come già sul piano monetario, ammette un processo strategico che utilizza strumenti di progressiva realizzazione di tale "schema ideale", condividendone i fini essenziali.
In questa chiave "progressiva" si possono comprendere anche gli elevati livelli di tassazione: si tratta di una condizione transitoria e, naturalmente strumentale, che sconta la modifica del precedente ordine costituzionale del welfare, mirando a farlo collassare, per rigetto da parte del corpo sociale, mediante l'imposizione del vincolo monetario (ad effetti equipollenti "in parte qua" al gold standard) e dei ben noti "vincoli" di deficit e di ammontare del debito, posti rispetto ai bilanci pubblici.
I bilanci pubblici, naturalmente, in una fase iniziale, pazientemente durevole, debbono "rientrare", consolidarsi, aumentandosi l'imposizione fiscale, prima di poter procedere, verificatesi le condizioni politiche, al taglio strutturale della spesa pubblica.
Alla fine, la gente, avvertendo come insopportabile il costo dei diritti sociali, cioè del welfare, invocherà il loro smantellamento, pur di vedersi sollevata da questa insopportabile tassazione".
Pedantemente mi piace ricordare come le aliquote massime, rivalutate le lire-anno, si riferiscano a questi redditi (micromega penso abbia diviso tutto per 1936,27...)
RispondiElimina1974: 3.203.840,37 euro
1983: 793.536,03 euro
1988: 952.243,23 euro
1989: 476.121,62 euro
1998: 98.307,57 euro
Emerge così la progressiva "livella" sui super-plutocrati, annegati via via verso il basso fino a essere parificati a un livello sicuramente alto ma non... milionario di reddito annuo (in più esisteva all'epoca la super-IVA sul lusso, nda).
"Nel 1981 esplode la bomba nucleare che condanna l’Italia a morire di debito, complice la cronica avversione dei Governi dell’epoca alla disciplina di bilancio. Viene innescata negli Stati Uniti dal nuovo presidente Ronald Reagan e dal Governatore della Federal Reserve Paul Volcker, che decidono di dichiarare guerra all’inflazione (allora al 14% negli Usa). La Fed dà vita a una memorabile stretta sui tassi, passati in sei mesi dal 9% a quasi il 19%, abbattendo il carovita (nel 1983 oltreoceano al 3,2%) ma innescando una mini-recessione prima del boom economico. Tutte le altre banche centrali del pianeta sono costrette a inseguire la Fed, compresa Bankitalia."
RispondiEliminaIn prospettiva storica oggi possiamo dire che per eterogenesi dei fini quella scelta USA ha anche innescato la fine del sogno di dominio americano del pianeta (mondo unipolare) e ridotto (ai giorni nostri) la probabilità di una guerra mondiale (cosa che sembra del tutto controintuitiva).
Perché? Perchè ha minato irrimediabilmente la base industriale della supremazia militare USA (e quindi il suo status di potenza).
Per argomentare a sufficienza ho dovuto spezzatre il ragionamento in cinque contributi numerati OT (e per questo chiedo anticipatamente venia al padrone di casa).
A mia parziale discolpa invoco la relativa novità degli argomenti per un normale pubblico di non iniziati alle questioni militari.
1 di 5 - Perché la guerra mondiale è diventata meno probabile
RispondiElimina(e cosa converrebbe fare all’Italia)
La "trappola di Tucidide" è un'immagine usata per descrivere la tendenza di una potenza dominante a ricorrere alla forza per contenere una potenza emergente.
La trappola consisterebbe nel cedere alla paura di perdere il primato ed a considerare ineluttabile lo scontro. A coniare l'espressione è stato nel 2017 il politologo di Harvard Graham Tillett Allison Jr. nel suo libro Destined for war.
I neocon al potere hanno da sempre improntato la politica estera USA (almeno fino all’elezione di Trump) sulla base di questo (insano) principio, convinti altresì della indiscussa supremazia dell’apparato militare statunitense.
Per fortuna all’interno di ogni apparato militare ci sono persone professionali, come per esempio l’ammiraglio William J. Fallon, che nel marzo 2008 sacrificò la propria carriera per impedire l’attacco USA all’Iran. Fallon si oppose all’attacco all’Iran (ordinato da Bush) non tanto perché pacifista, ma perché convinto (e capace di dimostrare ‘per tabulas’) che la guerra non poteva essere vinta.
A distanza di quasi dodici anni da allora, la crisi mondiale provocata dal globalismo deflattivo e dalla abnorme finanziarizzazione dell’economia sembra ancora più prossima all’epilogo (un ennesimo conflitto armato mondiale) ed è difficile sottrarsi alla sensazione di una imminente ‘fine del mondo’.
2 di 5 - Perché la guerra mondiale è diventata meno probabile
RispondiElimina(e cosa converrebbe fare all’Italia)
Spinto da questi timori ho cercato di approfondire come i professionisti del settore valutano la ‘conditio sine qua non’ di ogni guerra: cioè il proprio favorevole ‘status di potenza’ in relazione agli altri contendenti, indipendentemente da ogni considerazione se le valutazioni siano veramente corrette o meno.
Essendo infatti la guerra solo una forma estrema di risoluzione dei conflitti geo-politici, essa risulta intuitivamente tanto più probabile quanto maggiore è il divario di potenza percepito tra contendenti irriducibili.
Il modello di valutazione oggi considerato più completo (anche se molto perfezionabile..) per misurare quantitativamente la potenza geo-politica di uno stato è quello sviluppato nel progetto “Complex System Analysis and Modelling of Global Dynamics” del prestigioso ‘Keldysh Institute of Applied Mathematics of Russian Academy of Sciences’. Il modello citato incorpora anche molti dei principi geo-politici del lavoro di Alfred Thayer Mahan pubblicato nel 2005 dalla RAND col titolo “Measuring National Power”.
Il modello calcola la potenza geo-politica di uno stato, cioè il suo status S(t), come il prodotto ad un certo tempo t della ‘funzione di influenza’ F(t) e del ‘potenziale geopolitico’ G(t).
S(t) = F(t) * G(t)
Se F(t) è 5 e G(t) è 3 allora S(t) è pari a 15. Maggiore è questo numero, maggiore è lo status geo-politico dello stato, cioè la sua potenza in relazione ad altri stati con status minore di 15.
3 di 5 - Perché la guerra mondiale è diventata meno probabile
RispondiElimina(e cosa converrebbe fare all’Italia)
Nel secondo capitolo del libro “The (Real) Revolution in Military Affairs” di Andrei Martyanov viene illustrato passo-passo come stimare col modello lo status di Russia, Cina e Stati Uniti, ma nel seguito mi limiterò a richiamare solo i principali risultati.
Cominciamo dal calcolo del fattore di influenza F(t).
Esso risulta pari al prodotto di quattro termini, che verranno esaminati uno alla volta.
Il primo termine è:
(1-ku) Exp 0,11
dove ku (un numero maggiore di 0 e minore di 1) rappresenta la bontà della gestione complessiva dell’apparato statale. Assumendo 0,5 per gli USA, probabilmente la Cina (e ancor di più la Russia) avrà un numero minore di 0,5 e prossimo a 0,3 (cioè una migliore gestione statale, e la nostra tanto vituperata Italia probabilmente avrà un decoroso 0,45).
Il secondo termine a prodotto nella funzione di influenza è:
(1-J/Y) Exp 0,27
dove J è il volume delle importazioni e dove Y è il GDP dello stato.
Questo fattore tiene conto del fatto che uno stato viene considerato tanto più influente quanto meno importa in rapporto a quanto esporta.
Il terzo termine a prodotto della funzione di influenza è:
(1-Wa/(Wg+Wa)) Exp 0,43
dove Wa è la numerosità del proprio esercito e Wg è la numerosità delle truppe straniere ‘ospitate’ sul proprio territorio (si attribuisce comunque un numero fisso, tipo 25000, per la numerosità Wg delle truppe straniere anche in caso non ve ne siano affatto).
Questo fattore riflette l’ovvio fatto che uno stato influente non dovrebbe ospitare truppe straniere sul proprio territorio.
Il quarto termine a prodotto della funzione di influenza è:
(1+nb/NB * GT)
dove nb è il numero di stati del proprio blocco di alleati, NB è il numero di alleati del blocco contrapposto e GT è il potenziale geo-politico complessivo del proprio blocco di alleati.
Un calcolo approssimato del fattore di influenza per Cina e Stati Uniti fornisce:
Fchina = 0,1355 + 0,1355 Gchina
Fusa = 0,1357 + 0,1357 Gusa
(dove Gchina e Gusa sono i rispettivi potenziali geopolitici)
4 di 5 - Perché la guerra mondiale è diventata meno probabile
RispondiElimina(e cosa converrebbe fare all’Italia)
Per quello che riguarda la Russia, tenuto conto che deve fronteggiare da sola la NATO, il calcolo più corretto mostrerebbe che la sua funzione di influenza Frussia risulta minore sia di quella della Cina che degli USA.
Passando ad esaminare il potenziale geopolitico G(t) esso è dato da:
G(t) = 0,5 * (1+Xm Exp 0,43) * Xt Exp 0,11 * Xd Exp 0,19 * Xe Exp 0,27
dove il pedice m sta per percentuale della potenza militare planetaria, il pedice t sta per territorio percentuale del pianeta, d sta per demografia in percentuale della popolazione mondiale, il pedice e sta per dimensione economica in percentuale del PIL mondiale.
La convinzione dei politici USA è che, siccome misurano la percentuale di potenza militare (elevata poi all’esponente più alto di tutta la formula G(t), un bel 0,43!) in termini di spesa, gli USA sono invincibili.
La consapevolezza invece dei militari di USA, Cina e Russia è che la percentuale di potenza militare di ciascuno (Xm) è largamente ignota, ma certamente non si misura con la spesa (vedi caso recente dell’Arabia Saudita, che ha praticamente perso la guerra con lo Yemen pur avendo un bilancio militare tra i maggiori al mondo!).
Un discorso analogo vale per la percentuale di potenza economica Xe.
Non può essere misurata dal PIL proprio in percentuale del PIL mondiale e la ragione dovrebbe risultare evidente da questo rapporto riservato 2018 sullo stato della manifattura USA al presidente Trump:
“L’industria meccanica USA difetta di un accesso sicuro ad un bacino sufficientemente ampio di lavoratori specializzati. Molti lavoratori specializzati vanno in pensione di anzianità e non vi sono abbastanza corsi di formazione per formare quelli che li dovrebbero rimpiazzare. Senza una azione concertata per garantire adeguata forza lavoro ed un flusso sufficiente di rimpiazzi, gli Stati Uniti non saranno in grado di mantenere l’industria meccanica al livello necessario per produrre ciò che serve (all’industria militare!) quando serve. L’industria meccanica USA si è infatti ininterrottamente contratta dagli anni 80… OMISSIS. Nel 2015 la produzione meccanica della Cina era intorno ai 24,7 bilioni di $ (28% della produzione globale) mentre gli USA, con solo 4,6 bilioni di $, sono risultati alle spalle di Cina, Giappone, Germania, ITALIA e Sud Corea.”
5 di 5 - Perché la guerra mondiale è diventata meno probabile
RispondiElimina(e cosa converrebbe fare all’Italia)
Da quanto sommariamente esposto si comprende abbastanza bene il perché della politica estera di Trump e quanto si sia ormai allontanata la probabilità di un conflitto armato mondiale (che però potrebbe sempre scoppiare).
Dal punto di vista nazionale si comprende altrettanto bene che per far risalire il reddito pro capite non sarebbe male investire nella manifattura (industria meccanica di alta precisione con alta potenzialità militare in primis). Pur rimanendo nel solco dell’atlantismo si potrebbero alleviare molti dei problemi che ci affliggono e migliorare significativamente il nostro status nel mediterraneo.
Mandare via le truppe straniere (migliora il terzo termine della funzione di influenza), uscire dalla NATO (peggiora il quarto termine), oppure migliorare la gestione dello stato (miglioramento marginale del primo termine), al fine di aumentare l’influenza dell’Italia, non appare (secondo questo modello) altrettanto efficace di un aumento del potenziale geopolitico perseguito attraverso la manifattura.
Intelligenti pauca.
Divertente, tutto sommato.
EliminaIl rilievo strategico della capacità industriale manifatturiera è la ragione stessa dell'importanza dell'economia industriale.
Che, infatti, in Italia, formalmente, neanche esiste più come materia/insegnamento; per non parlare dei contenuti...