Post di Francesco Maimone.
Da leggere fino in fondo: se appare evidente quanto siamo distanti dalla cultura giuridica e socio-politica tedesca, ciò basta a giustificare il fatto compiuto di aver lasciato la nostra Costituzione in un "limbo" solo per non dover porre in discussione i "principi" del diritto Ue (che la stessa Germania, per i suoi interessi finanziari ed economici, ormai pone così radicalmente in discussione)?
“Cosa si può
contrapporre, da parte di una classe innovatrice, a questo complesso formidabile
di trincee e fortificazioni della classe dominante? Lo spirito di scissione,
cioè il progressivo acquisto della coscienza della propria personalità storica…”
(A. Gramsci)
1. In
un recente post, Quarantotto si chiedeva “… qual è il valore di una vita salvata? E specialmente,
quello di una vita che non si è potuta salvare?...”. Ci
sembra opportuno recuperare quelle domande a partire da un’analisi comparata della
giurisprudenza costituzionale in tema di “suicidio”. La problematica del
fine vita affrontata di recente dai giudici costituzionali italiani e tedeschi,
e passata in sordina, si rileva di estrema attualità ed è collegata anche alla “emergenza”
in corso più di quanto non si riesca a percepire di primo acchito. Bisogna anticipare
sin da subito che le pronunce della Corte Costituzionale italiana sono di gran
lunga da preferire a quella dell’omologo plesso germanico. Non ci si può però esimere
dal constatare, nei termini che verranno spiegati, le persistenti aporie a tutt'oggi
irrisolte contenute nelle pronuncie della Consulta, soprattutto se confrontate
con la giurisprudenza adottata dalla stessa
degli ultimi tre decenni in materia di “diritti sociali”.
2. La
Corte costituzionale federale tedesca è intervenuta sulla
problematica del suicidio assistito con sentenza del 26 febbraio 2020 nel giudizio di
costituzionalità dell’art. 217 del codice penale
tedesco (Strafgesetzbuch-StGB) che disciplina il reato di “sostegno professionale al suicidio” (Geschäftsmäßige
Förderung der Selbsttötung), [sull’argomento,
si rimanda all’approfondimento di F. CAMPLANI, Diritto penale e fine vita in Germania. I reati
di omicidio su richiesta e di sostegno professionale al suicidio nello
Strafgesetzbuch, in Giurisprudenza Penale Web, 2019, 1-bis]. Della dispozione in
parola, il primo comma prevede che “Chiunque, con l’intenzione di
agevolare il suicidio altrui, professionalmente offra, procuri o medi
l’occasione per suicidarsi, è punito con la reclusione fino a tre anni o con la
multa”. Secondo la dottrina citata, l’avverbio
è stato utilizzato “…per intendere un supporto attivo, continuato nel
tempo…e organizzato alle altrui intenzioni di suicidarsi, senza la necessità
che tale attività rappresenti una fonte di profitto per chi la propone…” [F. CAMPLANI, Diritto penale e fine vita in Germania, cit., 13].
2.1 Come si ricava dalla
sentenza (§ 2), ognuna
delle categorie di ricorrenti ha dedotto articolate argomentazioni per sostenere
l’incostituzionalità dell’art. 217 a seconda della lesione ravvisata alla
propria posizione: a) le persone affette da gravi patologie hanno
sostenuto che la disposizione impugnata avrebbe violato la loro dignità umana (art. 1,
comma I, della Grundgesetz, per brevità GG),
nonché il loro diritto all’autodeterminazione (art. 2, comma I, GG),
la quale includerebbe anche la decisione di ottenere assistenza al suicidio da
parte di terzi; b) le associazioni hanno lamentato che l’art. 217
avrebbe leso la loro libertà di associazione (art. 9, comma I, GG),
la libertà di scegliere la professione (art. 12, comma I, GG) ed il
diritto al libero sviluppo (art. 2, comma I, GG); c) i rappresentanti
organizzativi, dipendenti e medici svolgenti prestazione lavorativa presso le associazioni
hanno sollevato le medesime censure dei loro datori di lavoro, denunciando altresì
la violazione della loro libertà di coscienza (art. 4, comma I, GG);
d) infine gli avvocati hanno affermato che la disposizione penale sarebbe
stata lesiva della libertà di professione in quanto non avrebbe consentito loro
di prestare consulenza ed assistenza nella gestione suicidaria (§ 3-6).
3. Senza soffermarci in modo dettagliato
nell’analisi della corposa sentenza, appesantita da richiami comparatistici,
analisi storiche ed esame di osservazioni presentate nell’occasione anche dagli
“amici curiae”, è sufficiente ai nostri fini concentrare l’attenzione sui
§ 204 ss. nei quali i Giudici di Karlsruhe hanno sostanzialmente accolto tutte le
censure proposte dai ricorrenti, dichiarando l’art. 217 del codice penale
non conforme alla GG.
3.1. La Corte ha colto l’occasione
innanzi tutto per declinare in modo compiuto un DIRITTO FONDAMENTALE AL SUICIDIO, ancorandolo al principio
della cosciente autodeterminazione come corollario della dignità umana. E’
stato affermato che “…il diritto della persona capace di libera
autodeterminazione…di suicidarsi è coperto dal contenuto di garanzia del diritto
della personalità” (§ 204)
ed “…il rispetto e la protezione della
dignità umana sono principi dell’ordine costituzionale” (§ 205),
con la conseguenza che “il diritto generale della personalità… comprende anche
un diritto alla morte autodeterminata, che include il diritto al
suicidio. La protezione dei diritti fondamentali si estende anche alla
libertà di chiedere aiuto a terzi a tale scopo e di farne uso per quanto
offerto…” (§ 208). Sul punto, ha ancora specificato che “…la
decisione di porre fine alla propria vita è di importanza esistenziale per la
personalità di una persona” e che “il senso che l’individuo vede nella
propria vita è soggetto ad idee e credenze molto personali” riguardanti
“…questioni fondamentali dell’esistenza umana” in grado di influenzare “l’identità
e l’individualità … come nessun altra decisione” (§ 209).
3.2 Tale esordio - sebbene i
protagonisti principali della vicenda fossero persone affette da gravi patologie - ha
però dato alla Corte la stura per spingersi ben oltre la fattispecie concreta;
essa si è così preoccupata di osservare in via generale che “…il diritto alla
morte autodeterminata come espressione della libertà
personale non si limita alle situazioni definite da altri”, nel
senso che “…il diritto di disporre della propria vita…NON SI LIMITA IN
PARTICOLARE ALLE MALATTIE GRAVI O INCURABILI O A DETERMINATE FASI DELLA VITA…”.
Ciò in quanto il restringimento del diritto al suicidio a determinati motivi “…equivarrebbe
ad una valutazione dei motivi per i quali la persona aveva deciso di suicidarsi
e una predeterminazione basata sul contenuto che è estranea al concetto di libertà
della Legge Fondamentale”. In breve, il diritto alla morte
autoderminata come espressione del “libero arbitrio”
(freier Wille), in quanto “… RADICATO NELLA GARANZIA DELLA DIGNITÀ
UMANA”, implica che “…la decisione
autodeterminata relativa alla fine della propria vita NON RICHIEDE ULTERIORI
GIUSTIFICAZIONI (e) DEVE ESSERE RISPETTATA DA PARTE DELLO
STATO E DELLA SOCIETÀ…” (§ 210
e, negli stessi termini, al § 211).
3.3 Fissata tale specificazione, la Corte
ne ha fatto discendere alcune conseguenze, e cioè: I) che “… il
diritto di uccidersi, protetto dall’art. 2, paragrafo 1, GG,
comprende anche la libertà di chiedere aiuto a terzi”(§ 212).
In tali eventualità, invero, “l’esercizio di un diritto fondamentale dipende
dal coinvolgimento di terzi ed il libero sviluppo della personalità dipende
in questo modo dalla partecipazione di un altro…” (§ 213);
II) che il divieto di promozione
del suicidio legato alle imprese “rende praticamente impossibile per i denuncianti
avvalersi dell’aiuto suicida” (§ 216). Siffatto divieto, atteggiandosi
a “limitazione
oggettiva della libertà di suicidarsi” (§ 218), è
stato perciò giudicato non rigorosamente proporzionato (§ 220-223) alla
tutela della libertà fondamentale ed all’autonomia dell’individuo. Il ragionamento
è stato infine esteso anche a tutti quei soggetti (medici, avvocati etc.)
i quali collaborano con organizzazioni che prestano assistenza al suicidio (cfr. § 310 ss.).
4. Sebbene non si disponga di sufficienti
riferimenti storico-esegetici in grado di consentire una ricostruzione sistematica
del significato che i costituenti tedeschi hanno inteso attribuire nella GG
a concetti chiave come “dignità umana”o “libero sviluppo della propria
personalità”, non è tuttavia fuori luogo affermare che la sentenza tedesca rappresenti
un manifesto dell’individualismo
sfrenato ed anticomunitario
(qui, p. 7 e 8), avallato dai
giudici con un un formalismo riesumato dalla “cassetta degli attrezzi” di
matrice illuministica. Tale conclusione risulta particolarmente giustificata se
si considerano i capi della sentenza (e sono tanti) in cui la “libertà” della
persona (nella fattispecie, quella di togliersi la vita anche in assenza di
patologie irreversibili e refrattarie a trattamenti sanitari) viene fatta
corrispondere tout-court al “libero arbitrio” di un soggetto totalmente
astratto non contaminato con la realtà concreta.
4.1 Il suicidio, nella visione della corte tedesca, non
presenterebbe insomma alcun legame e rapporto eziologico con le condizioni sociali; lo Stato, dal canto suo, avrebbe il
compito non di adoperarsi attivamente per creare le condizioni affinché la vita
sia sempre degna di essere vissuta, bensì quello prevalente di tutelare (non
viene spiegato come) la genuinità dell’autodeterminazione della persona
(§ 223). Ecco perché il divieto di promozione del suicidio legato
alle imprese “… deve essere valutato in base ad una rigorosa proporzionalità…”
(v. anche § da 227 a 230).
4.2 Il principio di “rigorosa proporzionalità”
(che sappiamo già essere un parametro caratteristico nel giudizio della corte tedesca)
nonché quello di “ragionevolezza” (§ 223) sono perciò gli strumenti
utilizzati dai giudici per sancire il désengagement sostanziale dello
Stato teutonico oltre che nei rapporti con gli altri Stati appartenenti all’U€,
ancor prima nei rapporti interni. Nessuna solidarietà della Germania, dunque, in primo luogo nei confronti dei propri
cittadini i quali, a quanto pare di intuire, qualora non trovassero
di loro gradimento le c.d. riforme
Harz (compresa la “meravigliosa” Hartz IV), saranno “liberi” di “farla
finita”, brandendo il vessillo dell’autodeterminazione e della dignità umana
proprie di una democrazia filosofica, in un
cortocircuito logico tipico di un teatro dell’assurdo.
4.3 La riflessione non dovrebbe
trascurare, oltre al già rammentato “diritto fondamentale” di togliersi la vita
(disegnato da Karlsruhe alla stregua di mera “libertà negativa”), anche quello
di avvalersi di soggetti terzi (privati) in grado si fornire un ausilio professionale
ed “in forma commerciale”. Dietro tali
capi della sentenza si può intravvedere la scrittura di uno “Statuto” nel quale
la vita umana (e persino le sue sofferenze) viene concepita come nuova “categoria
merceologica”, una semplice “materia prima” come tante altre; la trasformazione
dell’essere umano a quello che già Heidegger definiva “puro fondo” (bloss
Bestand) e che anzi paventava potesse diventare “la più importante
materia prima” (wichtigste Rohstoff) [M. HEIDEGGER, Oltrepassamento
della metafisica, in Saggi e discorsi, Milano, 1976, 60]. Il capolavoro
di impronta orwelliana consiste, allo stesso tempo, nello spacciare tale operazione come
una conquista da annoverare tra i “diritti fondamentali”, in
modo che si possa ottenere l’adesione se non la collaborazione entusiasta degli oppressi.
Ci pare superfluo aggiungere altro, dovendosi lasciare alla coscienza del
lettore il compito di trarre le proprie conclusioni.
5. Anche la Corte Costituzionale
italiana si è occupata recentemente dell’argomento, in particolare con l’ordinanza n. 207/2018 e la
successiva sentenza n. 242/2019 che hanno
definito il c.d. caso Cappato.
5.1. La Corte d'Assise di Milano aveva sollevato
q.l.c. dell'art. 580 c.p., laddove prevede il delitto di istigazione o aiuto al
suicidio, per violazione tra l’altro degli artt. 2, 13 e 32 Cost, che
riconoscerebbero alla persona la facoltà di autodeterminarsi anche in ordine
alla fine della propria vita. Con ordinanza interlocutoria (n. 207 del 2018),
la Corte ha affermato che, entro determinati limiti, la norma impugnata sarebbe
stata censurata di incostituzionalità, a meno che il Parlamento non avesse nel
frattempo provveduto ad approvare una nuova disciplina della materia, rinviando
all'udienza del 24 settembre 2019. A tale udienza, dopo aver appurato il mancato
intervento del legislatore, la Corte ha dichiarato incostituzionale l'art. 580
c.p. nei termini di cui infra.
5.2 Tra le citate pronunce e quella della
Corte di Karlsruhe deve registrarsi un divario abissale, non fosse altro che la
Consulta non ha mai lontanamente
ventilato un diritto soggettivo a morire, tanto meno “fondamentale” [si rinvia
alle interessanti osservazioni di F. CONSULICH, Stat sua cuique dies
libertà o pena di fronte all'aiuto al suicidio?, in Rivista Italiana di
Diritto e Procedura Penale, fasc.1, Marzo 2019, 101 ss.]. Anzi, già nell’ordinanza interlocutoria (cui si farà riferimento
nel prosieguo, ed alla quale la sentenza n. 242/2019 si ricollega in “consecuzione
logica e complementare”), la Corte aveva avvertito che “l’incriminazione
dell’aiuto al suicidio non può essere ritenuta incompatibile con la Costituzione”.
Posta tale importante premessa, i giudici hanno ritagliato con certosina
attenzione un'area di illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. al
ricorrere, però, di rigorose condizioni
(cfr. punto 8 delle
considerazioni in diritto).
5.3 E dire che, con il provvedimento di rimessione,
il giudice a quo aveva pur tentato di prospettare l’illegittimità dell’art. 580
c.p.c. facendo leva su argomentazioni
che ricordano quelle “liberali” ed individualiste utilizzate nell’esaminata
sentenza della Corte tedesca (cfr. le considerazioni in fatto). La Consulta ha però correttamente respinto
detta tesi. Di tutto il ragionamento esplicitato dalla Corte nell’ordinanza n. 207/2018,
in questa sede preme tuttavia sottolineare alcuni profili che, per le implicazioni
sistematiche e socio-politiche che ne dovrebbero discendere, sembrano inspiegabilmente
essere stati trascurati nei pur numerosi commenti che è stato possibile reperire.
5.4 Ed infatti, allorché ha rinvenuto la ratio di tutela
sottesa all’art. 580 c.p., individuandola nella “persona umana
come valore in sé” e nel “rispetto del bene della vita”,
la Consulta ha espressamente impiegato in motivazione il parametro costituzionale
di cui all’art. 3,
comma II, Cost.,
declinandolo nei termini che meritano integrale menzione:
“… Il divieto in parola [ovvero l’aiuto
al suicidio] conserva una propria evidente ragion d’essere anche, se non soprattutto, nei confronti delle persone malate, depresse, psicologicamente
fragili, ovvero anziane e in solitudine, le quali potrebbero essere
facilmente indotte a congedarsi prematuramente dalla vita, qualora l’ordinamento
consentisse a chiunque di cooperare anche soltanto all’esecuzione di una loro scelta
suicida, magari per ragioni di personale tornaconto. Al legislatore penale
non può ritenersi inibito, dunque, vietare condotte che spianino la strada a
scelte suicide, in nome di
una concezione astratta dell’autonomia individuale che IGNORA LE CONDIZIONI
CONCRETE DI DISAGIO o di abbandono nelle quali, spesso, simili
decisioni vengono concepite. Anzi, è compito della Repubblica PORRE
IN ESSERE POLITICHE PUBBLICHE VOLTE A SOSTENERE CHI VERSA IN SIMILI SITUAZIONI
DI FRAGILITÀ, RIMOVENDO, IN TAL MODO, GLI OSTACOLI CHE IMPEDISCANO IL PIENO
SVILUPPO DELLA PERSONA UMANA (art. 3, secondo comma,
Cost.)”.
5.5 Il giudizio della Corte ci sembra ineccepibile
e rovescia di centottanta gradi quello dell’omologa Corte tedesca: nell’ordinamento italiano,
ed a Costituzione vigente, non può trovare posto un generale “diritto di morire” ancorato alla
mitica “autodeterminazione” della persona né tanto meno al
suo “libero arbitrio”. L'interruzione dell'esistenza può, semmai, giustificarsi in
modo del tutto eccezionale e come extrema ratio di tutela della
personalità dell'individuo e delle sue scelte in presenza di rigorosissimi
presupposti che possono coincidere - fuor di ogni moralismo - con
altrettante vicende drammatiche della vita di ogni persona. L’intervento dell’Ordinamento non può,
pertanto, limitarsi all’asettica astensione “liberale” di fronte al proposito di
chi intende darsi la morte, anche servendosi dell’aiuto di terzi (libertà
negativa). Viceversa, l’Ordinamento (la Repubblica) ha in modo
fisiologico il dovere di adoperarsi con ogni mezzo nel rimuovere gli ostacoli
che si frappongano al “diritto di fiorire” della persona (libertà
positiva) e, quindi, di consentire alla stessa di vivere pienamente ed
in modo dignitoso.
6. Discorso chiuso, dunque? Niente affatto.
A noi sembra, invece, che siffatto approdo giurisprudenziale debba
rappresentare solo l’inizio di una riflessione il cui finale attende fattivo
compimento.
Il fatto che la Corte Costituzionale abbia evocato proprio l’art. 3, comma II, Cost. - norma nella quale Romagnoli intravvedeva
“… la prova più evidente della sincerità” della Carta – non può
infatti farci dimenticare che altrettanto atteggiamento sincero non sempre si è
riscontrato nella Corte Costituzionale nell’uso della norma in parola, “… UN USO GENERALMENTE FURTIVO” che aveva portato
Livio Paladin a “…(sconsigliare) la Corte di proseguire oltre su questa
strada – “una strada sbagliata”…” [così U. ROMAGNOLI,
Commentario della Costituzione, (a cura di) G. Branca, art. 3,
Bologna, 1975, 171-172; il riferimento è a L. PALADIN, Il principio
costituzionale di uguaglianza, Milano, 1965, 137 ss.].
6.1 E’ innegabile anche oggi, d’altronde, che
“… dalla stragrande maggioranza degli operatori giuridici la disposizione
[sia] considerata un grande brutto “cliente”, un botoletto dotato di
mostruosa vitalità che è bene lasciare all’uscio, sonnecchiante e al
guinzaglio. Dal loro punto di vista, non hanno torto” poiché “il 2° comma dell’art. in
questione rappresenta davvero la cattiva coscienza dell’ordinamento e dei suoi
sacerdoti…” [U. ROMAGNOLI, cit.].
L. Basso
non a caso qualificava l’art. 3, comma II, come “… LA
NORMA FONDAMENTALE DELLA COSTITUZIONE [quella che] LA
PUÒ SOVVERTIRE TUTTA…”. Ed in questo senso, è incontestabile il
fatto che sovente la Corte si sia servita principalmente “… del 1° comma
dell’art. in esame per accedere [solo] in punta di piedi all’interno
delle strutture giuridiche costruite dalla “esperienza storica liberale e
democratica” allo scopo di sottoporle ad un’ispezione che, per il modo in
cui è condotta, non suscita a priori eccessivo allarmismo”, ciò
in quanto “il 1° comma… è figlio della stessa esperienza “liberale
democratica” [U. ROMAGNOLI,
cit., 174], mentre dovrebbe sottolinearsi “… che nell’art. 3, 2° comma, l’esperienza
liberale e democratica … quasi rinneghi se stessa…” [P. RESCIGNO, Persona
e comunità, Bologna, 1966, 391].
7. L’uso “furtivo” di tale norma
[come ammesso anche dalla dottrina, cfr. per tutti F. SORRENTINO, Uguaglianza
formale, Costituzionalismo.it, fasc. 3/2017, 20], proprio perché “sovversiva”,
se proprio per questo motivo non può passare inosservato, allo stesso modo rischia
di rivelarsi insoddisfacente nel caso in cui si limiti ad una deferente e simbolica
menzione. Brandire l’art. 3, comma II, Cost., implica, infatti, il pieno riconoscimento
di quella formidabile carica pragmatica-effettuale [F. SORRENTINO, cit. ,
4, parla di “valore dinamico e positivo” del precetto in parola”] che le
è sottesa, ciò in quanto l’uguaglianza sostanziale - come compito inderogabile della Repubblica - rappresenta
il “… corollario finalistico e perciò qualificante, risolutivo delle questioni,
domande, aspirazioni, obiettivi … la ragione e la direzione costituzionalmente vincolata della dinamica che
gli è costituzionalmente prescritta…” [così
G. FERRARA, I diritti del lavoro e la costituzione economica italiana
ed in Europa, in Costituzionalismo.it, fasc. 3/2005]. Detto diversamente,
proprio perché della Costituzione è coinvolto il principio più importante ed in
grado di esprimere al massimo grado il concetto di sovranità, non può
ritenersi appagante il solo “gettare il sasso e poi ritirare la mano”.
7.1. E’ possibile cogliere appieno il senso
di quanto appena detto se si considera che “… scarsa importanza pratica [la norma di cui all’art. 3,
comma II] rivestirebbe se non trovasse svolgimento in disposizioni, armonicamente
coordinate fra loro, rivolte, per una parte, a darle immediata concretezza
…” [C. MORTATI, Costituzione delle Repubblica italiana (voce),
in Enc. del diritto, Milano, 1962, 217], disposizioni che difatti
si rinvengono “… nella
seconda parte [della Cost.], dedicata ai rapporti economici …”
[C.MORTATI, cit.] e che formano quella che impropriamente è denominata “costituzione
economica” (artt. 36-47 Cost.) da intendersi come gli “…STRUMENTI
ATTRAVERSO I QUALI SI DISPIEGA L’ASSIOMA… [del fondamento-lavoro]” [G. FERRARA, I
diritti del lavoro, cit. , 2].
7.2 In altri termini, è necessario ribadire
(qui, p. 2) che se da un lato i
principi fondamentali della Carta (art. 1-12) fissano lo scopo che la Repubblica
deve perseguire (la c.d. “democrazia necessitata”), le disposizioni
contenute nella parte economica configurano gli strumenti (o mezzi) con i quali detto fine
deve essere realizzato. La questione, d’altronde, fu chiara ai futuri Costituenti
e dagli stessi dibattuta, in quanto – come ebbe a scrivere tra gli
altri Calamandrei nell’agosto del 1945 - “… il problema vero non [era]
quello della enumerazione dei diritti (sociali)…”, ma il problema vero era quello “… di predisporre i mezzi pratici per soddisfarli” …” [P. CALAMANDREI, Costituente
e questione sociale, in Costruire la democrazia – Premesse alla
Costituente, Editrice Le Balze, 2003, 79].
Che poi il “sistema economico” scelto e
contenuto nelle disposizioni della seconda parte della Carta sia stato quello
di chiara ispirazione keynesiana, è ormai un dato
storico assodato che si ricava agevolmente dai lavori della Costituente la
quale, nel concepire la trasformazione dell’esistente ed il “superamento
del capitalismo storico”, delineò quelle che Meuccio Ruini definì “le quattro
vie”, ovvero: “… lo Stato assistenziale (welfare), la perequazione e distribuzione dei redditi, la modifica strutturale
dell’impresa privata e l’estensione dell’impresa pubblica…” [M. RUINI, Lavoro e comunità di Lavoro, Ed. Nuova
Cultura, 2013, 73].
7.3. Bisognerà prima o poi prendere atto, in
generale, dell’importanza che rivestono i mezzi nella realizzazione di uno scopo,
come ben spiegato da Hegel nella sezione “teleologia” della sua Scienza
della Logica. La teleologia presuppone un contenuto e quindi un concetto; e tale
contenuto, in quanto scopo razionale, deve essere una totalità: “… La relazione
dello scopo è perciò più che un giudizio; è il sillogismo del libero concetto
per sé stante che si riconnette con sé stesso mediante l’oggettività…” [G.W.F. HEGEL, Scienza
della Logica, trad. it. A. Moni, Bari, 1925, Libro III 223]”. Il concetto
si presenta perciò come realizzazione dello scopo soggettivo quale unità di essere
oggettivo con lo scopo medesimo. Dal che ne consegue che l’unico
modo per connettere uno scopo con l’oggettività è il mezzo per realizzarlo, il quale svolge la stessa funzione di medio
di un sillogismo espresso dall’oggettività, ad un estremo, e dalla soggettività
dello scopo dall’altro. Entrambi si mediano proprio attraverso il mezzo: “… Lo scopo si
conclude per opera di un mezzo coll’oggettività, ed in questa si conclude con
sé stesso. IL MEZZO È IL TERMINE
MEDIO DEL SILLOGISMO…” [G.W.F. HEGEL, Scienza della Logica, trad. it. A. Moni, Bari, 1925, Libro III, 228].
8. Per
tornare alle pronunce della Consulta, si può dire che l’utilizzo dell’art. 3,
comma II, Cost., dovrebbe immancabilmente comportare:
a) che fosse data sempre
per riconosciuta dai giudici costituzionali la sostanziale ed intima inferenza
tra quelle che Lavagna ha definito “le norme strumentali” - ovvero,
la “costituzione economica” - e le “norme di scopo”, cioè la democrazia sociale [C. LAVAGNA,
Costituzione e socialismo, Bologna, 1977, 52 e 61];
b) per l’effetto logico, che fossero sempre soggetti a rigoroso sindacato
di costituzionalità anche tutti quegli atti normativi che introducano nell’Ordinamento
disposizioni suscettibili di incidere negativamente sulla parte economica della
Carta nel senso di sterilizzarla. Diversamente, è del tutto inutile ed erroneo già “nel concetto”qualsiasi accenno (peraltro
“furtivo”) alla democrazia sostanziale, al diritto al lavoro e ad
una vita dignitosa,
abdicandosi a priori alla
realizzazione dello scopo per mancanza o non pertinenza del mezzo.
8.1 L’attenzione,
come si può intuire, non può che essere rivolta in via prioritaria al diritto
€urounitario e, per esso, a tutte le innumerevoli disposizioni che in più di
mezzo secolo ne hanno integralmente recepito i principi, dando luogo a quella “…
vicenda relativa alla prevalenza selettiva del diritto
comunitario sulle fonti di livello costituzionale nazionali” (qui, p. 4) e che, lungi dall’essere
stigmatizzata, ha invece fatto parlare di una “nuova costituzione economica”.
Oggi
più che mai risulterebbe vano, d’altronde, occultare che “… l’ordinamento costituzionale italiano [sia] stato
avvolto nell’ordinamento europeo, che lo ha come inglobato e [dovendosi
constatare] che le
normative dei Trattati dell’Unione si ispirano a principi diversi da quelli che
sono sanciti nella Costituzione italiana, SPECIE IN MATERIA DI DIRITTI SOCIALI
e quanto alla PROIEZIONE DEL FONDAMENTO DELLA REPUBBLICA ITALIANA…”
[G. FERRARA, cit.; si veda, per una analitica trattazione,
L. BARRA CARACCIOLO, Euro e(o?) democrazia costituzionale, Roma
2013].
8.2 Se lo scopo
principale dei Trattati €uropei non è quello di cui all’art. 3, comma II,
Cost., realizzato mediante un diffuso intervento pubblico nell’economia, bensì la
restaurazione del “capitalismo storico” la cui disciplina economica,
mutuata dai principi ordoliberali, è affidata ad un unico principio (quello del mercato aperto e
della concorrenza finalizzati al mantenimento della stabilità dei prezzi, con
la mon€ta unica a funzionare da gold standard come punta di diamante del
sistema), allora non può confutarsi che “… tutti i limiti
all’iniziativa economica privata incompatibili [con i nuovi scopi] veng(a)no automaticamente a cadere …
[così come] dall’integrazione
del Trattato con gli articoli 41 e 42 della Costituzione consegu(a)
che la disciplina dell’iniziativa economica privata e dei beni privati deve
… attenersi ai principi della concorrenza e del mercato, in questi sensi dovendo oggi vincolativamente
interpretarsi le espressioni “utilità sociale” e “funzione sociale”…”
[così G. GUARINO, Verso l’Europa, Milano, 89].
9. Orbene, in base a quanto detto, viene
però da domandarsi perché la Corte Costituzionale non abbia mai scritunato funditus
la costituzionalità della normativa interna che ha recepito nell’Ordinamento il
diritto €uropeo (dalle leggi di ratifica dei vari Trattati a quelle di attuazione
delle innumerevoli direttive, quando non auto-applicative), cioè di quel complesso sistema
normativo che, basato sull’acritico principio del “primato del diritto
comunitario”, ha nei fatti neutralizzato lo strumentario economico della
Carta. Come si giustifica il fatto che la Consulta possa aver ritenuto
“difficilmente configurabile” (in aderenza all’abbrivio iniziale contenuto
nella sentenza n. 183/1973) l’influenza di Trattati
commerciali sui rapporti civili ed etico-sociali (si veda qui, in proposito, l’analitica ricostruzione
giurisprudenziale di Arturo), tanto da non sentire il bisogno sino ad oggi
di approntare un indagine analitica sulla questione?
10. Si può fondatamente ipotizzare che il
mancato intervento della Corte in tale contesto sia una “conseguenza diretta”
delle stesse ragioni per cui il principio di uguaglianza sostanziale continua
ad essere impiegato solo di rado in sede di giudizio costituzionale, cioè in
primis l’ossequio alla DISCREZIONALITÀ DEL LEGISLATORE (v. qui, p. 4, 5.2 nonché i commenti al post),
profilo in base al quale sarebbe precluso al giudice costituzionale ogni “interferenza
politica” con l’attività del Parlamento ed ogni valutazione di norme legislative
sotto il profilo del “merito”. Poiché – come viene sostenuto - il
giudice costituzionale non può sostituirsi al Parlamento e “… creare essa
stessa l’intervento legislativo necessario a rimuovere gli ostacoli
all’eguaglianza sostanziale…”, tale circostanza escluderebbe anche sindacati
intorno alla legittimità o meno dei mezzi necessari a realizzare il disposto
dell’art. 3, comma II. La Corte, pertanto, potrebbe solo verificare la
conformità al principio di eguaglianza (formale) di interventi legislativi i
quali, differenziando in modo irragionevole diverse situazioni, dovessero
eccedere dall’obiettivo di cui all’art. 3, comma II, Cost. [si veda in
questi termini F. SORRENTINO, cit., 20, in nota].
11. Ora, a noi sembra francamente che tali
“tecniche argomentative e decisionali” della Corte siano a dir poco discutibili
e che, senza troppi giri di parole, finiscano soltanto “… per autorizzare la classe
dominante a limitare l’azione riformatrice alle sole riforme che essa medesima
ritiene di poter accettare…” [U. ROMAGNOLI, cit.,
186]. A monte, la stessa propensione della Corte a “confondere” tra il
1° ed il 2° comma dell’art. 3 Cost., come ebbe a rilevare Paladin [L. PALADIN, Il principio
costituzionale di uguaglianza, cit.], evidenzia i limiti di tale approccio
nella realizzazione del programma costituzionale, volendo l’art. 3, comma
I, “…una parità che
non sacrifichi la realtà…” [così M. FRAGALI, Studi per
il ventesimo anniversario dell’Assemblea Costituente, Ed. Vallecchi,
VI, 1969, 272]. E il mancato impiego in modo autonomo dell’art. 3, comma
II, Cost., in materia di uguaglianza “…sta lì a dimostrare che il 2°
comma, scaraventato fuori dalla porta, viene fatto rientrare dalla finestra,
per alloggiarlo ragionevolmente in qualche ripostiglio della casa…”
[U. ROMAGNOLI, cit.,
174].
11.1 In via generale, si consideri
infatti che se fossero portati alle estreme conseguenze i riflessi della “discrezionalità
del legislatore”, si giungerebbe inevitabilmente a legittimare quest’ultimo
(tramite sue condotte commissive o omissive) finanche a stravolgere la Carta,
mentre la creazione della Corte Costituzionale ha risposto ad un intento
diametralmente opposto, ovvero quello di evitare che “… tutto il nostro ordinamento
costituzionale e gli stessi diritti fondamentali di libertà [fossero]
abbandonati all’arbitrio di
una maggioranza parlamentare o dell’esecutivo…” [L. BASSO, La
crisi della Corte, “Avanti”, 28 marzo 1957].
Non può revocarsi in
dubbio, al riguardo, che i nostri Costituenti avessero avuto una “preveggenza
luminosa circa l’importanza di apprestare strumenti che rendessero perenne l’affermazione
della democrazia” del lavoro contro il ritorno delle “forze regressive”,
individuando in tale evenienza proprio nella Consulta l’organo cui incombe il dovere di dichiarare
l’incostituzionalità di quelle norme contrastanti o limitative dei “diritti
al lavoro” [si veda L. BARRA CARACCIOLO, La Costituzione
nella palude, cit., 91-92, nella parte in cui riporta il discorso dell’on. Ghidini pronunciato in Costituente
l’8 marzo 1947; anche qui, p. 4].
11.2 Quello della “discrezionalità del legislatore”
e del correlato utilizzo dell’art. 3, comma II, non in maniera autonoma,
ma come parametro di controllo di costituzionalità in tema di uguaglianza solo
sotto il profilo della “ragionevolezza”, ad una attenta analisi si rivelano
dunque delle tecniche decisionali derivanti dal “… PREGIUDIZIO PROPRIO DEL
LEGALISMO POSITIVISTICO, ligio al dogma dell’assoluta
sovranità del Parlamento, superato
ormai dalla SOVRANITÀ DELLA COSTITUZIONE e dal
principio che ne discende del dovere della legittimità costituzionale…”
[C. MORTATI, Appunti per uno studio sui rimedi giurisdizionali contro
comportamenti omissivi del legislatore, in Foro
it.,
Milano, 1970, 190], espedienti giuridici che, in ultima analisi, hanno l’unico
effetto di far camminare la Corte “… sul filo del giustificazionismo ad ogni costo…”
rispetto alla realtà esistente [così U. ROMAGNOLI, cit., 187].
12. Nello specifico, quanto al mancato
intervento (o meglio, fino ad ora, della assoluta mancanza di prospettazione
del problema) ad opera della Corte in materia di idoneità degli strumenti per la realizzazione dello
scopo di cui all’art. 3 capoverso, ci sembra che tale scelta
risponda proprio alla stessa logica: se nell’attuazione dell’uguaglianza sostanziale
la Corte non deve intromettersi nella “discrezionalità” del Parlamento, agli
stessi limiti si vede soggetto un controllo sull’attitudine dei mezzi che di quella
discrezionalità implicitamente condivide la sorte.
12.1 Sul punto, tuttavia, a noi pare più
razionale e generalizzabile quanto sostenuto da C. Mortati, il quale
rilevava che se:
“… è vero che il problema della congruenza
dei MEZZI
predisposti per assolvere un obbligo imposto allo Stato per soddisfare diritti…attiene
alla politica legislativa…è da chiedere se la discrezionalità nella scelta
del mezzo non incontri un limite costituito dalla sussistenza di un minimo di idoneità del mezzo
prescelto a realizzare l’imperativo costituzionale. Se risultasse
sicuramente dimostrato che L’ISTITUTO ADOTTATO…MANCA DEI REQUISITI
MINIMI NECESSARI AL CONSEGUIMENTO DEL FINE, non potrebbe non
competere al giudice della legittimità costituzionale desumerne quanto sufficiente
per dichiarare il contrasto con il parametro da assumere per il giudizio.
A confortare tale soluzione giova richiamare IL
PRINCIPIO DELL’EFFETTIVITÀ SANCITO DALL’ART. 3 COSTITUZIONE; principio che indubbiamente si
rivolge al legislatore, cui però impone che l’adempimento dell’obbligo di
consentire ai meno dotati di mezzi economici la soddisfazione degli interessi
costituzionalmente protetti non venga effettuato in modo da renderlo illusorio
e solo apparente. Sembra inesatto ritenere estraneo al sindacato della Corte,
facendolo rientrare nel merito, accertare quando ciò accada. Infatti la
pronuncia che giunga ad una conclusione del genere, risolvendosi nella
constatazione…della assoluta inidoneità delle norme predisposte ad assolvere all’obbligo
predetto, RIENTRA NELLA CATEGORIA DI QUELLE BASATE SULLA
RAGIONEVOLEZZA…” [C. MORTATI, Appunti, cit., 968].
12.2 Non sembra nemmeno corretto si possa negare
a priori, peraltro, un sindacato materiale e di merito circa un “eccesso
di potere” compiuto dagli organi legislativi (e concettualmente collegato
alla loro attività “discrezionale”), oltre che per quanto sin qui esposto,
anche perché - come rileva Pierandrei – “…quando all’Assemblea
costituente si prescelse la formula relativa alla legittimità costituzionale
non si escluse che essa, data la sua analogia con la formula vigente nell’ambito
amministrativo, si potesse riferire ai vizi accertati in quest’ultimo, e
quindi anche all’eccesso di potere…” [F. PIERANDREI, Corte
Costituzionale (voce), in Enc. dir., Milano, 1962, 906].
In ogni
caso, sarebbe inesatto vietare un tale sindacato in presenza di norme che
fissano principi ed indicano fini da perseguire e che per ciò stesso sono dotate
di minore “elasticità”; in presenza di tali norme, infatti, subentrano “limiti”
alla discrezionalità del legislatore che “…non potrebbero essere superati
se non mediante violazione della Costituzione…” [così F. PIERANDREI,
Corte Costituzionale, cit., 907]. Non vi è dubbio, quindi,
che norme di tal genere siano sindacabili per irragionevolezza secondo diversi
profili, in un “giudizio
di pertinenza” (diretto a verificare se i mezzi normativi
predisposti per raggiungere un certo fine sono o meno ragionevolmente
strumentali rispetto a questo) o in un “giudizio di congruità” (in cui la
valutazione attiene alla non palese inidoneità dei mezzi normativi rispetto ai
fini costituzionali) [queste le illuminanti classificazioni di C. LAVAGNA,
Ragionevolezza e legittimità costituzionale, in AA.VV., Studi in
memoria di Carlo Esposito, Padova, 1973, 1580].
13. Alla luce di quanto detto e provando
a rispondere al quesito sopra formulato, pare dunque che non sussistano fondate ragioni di
natura squisitamente giuridica perché la Corte continui ad imporsi
un self-restraint da un lato nella utilizzazione più frequente ed “autonoma”
del parametro di costituzionalità di cui all’art. 3, comma II, Cost. e,
dall’altro, nel sindacato di merito di norme sotto il profilo della adeguatezza
o meno dei mezzi predisposti per la realizzazione dello scopo sotteso a detta
norma.
Gli unici ostacoli che sembrano frapporsi, invero,
sono i dogmi dell’ordoliberismo di importazione €uropea
che, nei confronti degli strumenti diretti a realizzare la democrazia costituzionale,
si atteggiano a “VINCOLO ESTERNO” (inteso come “adeguamento ordinamentale italiano all'indirizzo politico
derivante dai trattati UE e dall'adesione alla moneta unica”) ormai marchiato a fuoco persino
nel modificato art. 81 Cost. e dotato di una
cogenza tale da non essere messo in discussione, data la sua accettazione “… implicita
e mai verificata, secondo un’unica scuola di pensiero” (così Quarantotto
nei commenti).
13.1 Per ritornare al tema del “fine
vita” dal quale questo intervento ha preso le mosse e nel tentativo di coerentizzare
il discorso fin qui condotto, è da segnalare come le cronache giornaliere continuino
ad informarci circa un tessuto sociale sempre più in progressivo sfaldamento a
causa dell’ennesima e diuturna emergenza. Si registra giornalmente – come
già dopo la crisi post
2008 – un aumento del numero dei suicidi ed
un innalzamento costante dei livelli di povertà e di esclusione sociale per milioni di italiani,
il tutto immerso in un clima surreale fagocitato dal mantra della “scarsità delle risorse” e del “debito pubblico che grava sulle future generazioni”
(due dei tanti falsi corollari del “vincolo esterno”).
14. Ora, se è da condividere - come ha affermato di recente il
Presidente della Consulta – essere “…LA CARTA COSTITUZIONALE
così com’è…a offrire a tutte le istituzioni e a tutti i cittadini LA BUSSOLA
che consente di navigare “per l’alto mare aperto” dell’emergenza e del dopo emergenza
che ci attende ...”, è altrettanto vero che l’ineccepibilità di tale assunto
imponga come estremo atto di coerenza che la Corte si avvii finalmente verso una
radicale rivisitazione del proprio approccio nei confronti del diritto €uropeo.
Sarebbe questa volta sì “ragionevole” prendere finalmente atto che senza una moneta nazionale,
gli strumenti di politica fiscale, economica e
industriale così come congegnati dai Costituenti, e dissattivati dal “vincolo
esterno”, è del tutto illusorio che si possa “… porre in
essere politiche pubbliche volte a sostenere chi versa in…condizioni
di fragilità…” (così nell’ordinanza n. 217/2018), in primo luogo
attraverso il diritto ad un lavoro dignitoso (artt. 4 e 36 Cost.).
Qualora
ciò non dovesse accadere e la Corte optasse invece per continuare nella “amministrazione
della quotidianità” [così, U. CERRONI, Studi sassaresi,
Sassari, 1971, 144], auspichiamo ci venga quanto meno risparmiato in futuro il mero
“omaggio formale” alla norma di cui all’art. 3, comma II, Cost.