1. Pubblicare i post di Bazaar è sempre un piacere. Ma, a mio parere, le sue vette le raggiunge (sempre più, segnando una crescita della ricerca molto positiva) nei commenti: cioè quando esprime con immediatezza il suo pensiero brillantemente sintetico e capace di spaziare nella interdisciplinarità (carattere della conoscenza che su questo blog, tentiamo di fornire).
Mi pare perciò molto utile riportare, ai consueti fini di miglior preservazione, i due principali commenti da lui prodotti in margine al precedente post.
Li modificherò leggermente, per separarne il senso pregnante dall'occasione "dialettica" che ha dato spunto al secondo di essi, ("occasio" che non risulta essenziale alla comprensione). Semmai integrerò in premessa alcuni passaggi per raccordarli con concetti che, nel complesso del blog, sono stati già esposti.
2. Parlando dell'ostacolo concreto alla reintroduzione della monetizzazione dell'indebitamento del settore pubblico, - idea che, comunque prospettata, risulta preannunziare una svolta epocale comparabile a quella, di opposto senso socio-economico, del monetarismo e della banche centrali indipendenti- avevamo detto che questo stava nel dover ammettere di essersi sbagliati.
La questione non è ovviamente da poco: alla fine degli anni '70, coloro che imposero, in tutto l'Occidente (democratico) il mutamento di paradigma delle politiche economiche e fiscali, non ammisero di essersi sbagliati, ma accusarono di errore, irreversibile e insanabile, chi aveva, sia pure con incertezze e ambiguità, adottato il modello politico-economico keynesiano.
3. Si poté riaffermare così che l'inflazione è il "male unico", la disoccupazione uno stato transitorio, prevalentemente determinato da soggettive frizioni volontarie contrarie all'adeguamento riequilibratore (del livello salariale), le crisi sono solo delle fasi di opportuna riconduzione, alla razionalità naturale del mercato, di situazioni socialmente "perturbate" (un sano aggiustamento), la moneta e il deficit pubblico sono neutrali, sicché, il pareggio di bilancio e la privatizzazione bancaria della moneta, costituiscono i perni del naturale equilibrio allocativo cui deve tendere la società (meglio se governata a livello mondiale, e con una moneta privata totalmente denazionalizzata).
Insomma, si trattò allora di un avvicendamento, talora graduale, talora brutale, di classi dirigenti formalmente decidenti (da quelle della politica nazionale delle democrazie sovrane a quella impersonale espressa a livello sovranazionale dai "mercati"): alcuni di coloro che seguivano il precedente paradigma, poterono rimanere nella classe dirigente solo a condizione di cambiare radicalmente la propria opinione, e facendolo entro un tempo ragionevole (oltre il quale non gli sarebbe più risultato utile a fini autoconservativi).
Abbiamo avuto dunque la rivoluzione, deflazionista e post-fordista (nel senso proprio di concezione del valore e del potere d'acquisto del "lavoro"), del tecnicismo-pop.
4. Oggi, invece, la ricalibratura del paradigma, finora accennata, ma che rischia di divenire un processo tumultuoso - dovendo prevenire un crack finanziario ed economico mondiale incontrollabile, per il ripresentarsi di "secular stagnation" e di debt-deflation senza rimedi istituzionali efficaci a disposizione-, proviene dagli stessi che devono ammettere l'errore; e non solo, ma che, proprio grazie a ciò, pretendono di mantenere la propria qualità di decidenti formali, cioè di titolari di istituzioni di governo che tendono naturalmente a preservare se stesse, e cercano così di continuare a riflettere la classe decidente sostanziale per conto della quale hanno finora agito.
Quindi: il potere, formale-istituzionale, appare intraprendere una correzione a fini di conservazione della classe dirigente sostanziale.
Normalmente, nella Storia, operazioni di questo tipo non riescono.
Per ragioni molto pratiche e radicate nella natura umana (almeno da qualche millennio...): la permanenza al potere, (specialmente quello sostanziale, non esposto cioè alla visibilità e agli strali della democrazia elettorale, ancorché idraulica), porta di per sé a mal tollerare i compromessi e tende a far ritenere "eccezionale", in base a una stima di costi/benefici comunque a proprio vantaggio, ogni concessione.
Il potere, in altri termini, difficilmente si autoriforma, ma accetta solo compromessi transitori e dettati dal criterio della stretta utilità alla propria stabilizzazione (rammentiamo, ove ce ne fosse bisogno, quanto è scritto nella homepage sotto il titolo del blog).
5. Ed è questo, a ben vedere, lo sviluppo che chiarisce Bazaar nei commenti che riportiamo. Come e perché, dunque, non ci sia da essere ottimisti sulla prospettiva di un ragionevole e indolore correzione politica, economica e culturale:
"L'ostacolo «psicologico e culturale» è peggiore di quello che può sembrare.
Dietro alla legge di Say e all'offertismo si cela una forma di sociopatia che trascende gli interessi materiali della classe redditiera e finanziaria: si nasconde quel mostro mentale e psichiatrico da cui è stato abortito il razzismo. Il classismo.
Il classista, ovvero il liberista, giustifica ogni sua infantile incontinenza come espressione di libertà nei confronti della massa parassitaria.
Sì, "parassitaria", visto che gli esseri inferiori che formano le classi subalterne vivono grazie alla magnanimità dei dominanti, che han concesso loro l'ingiusto privilegio di non vivere come bestie tramite la progressività delle imposte e tramite lo Stato sociale.
E qui entra in gioco la teoria del valore.
Se il valore fosse prodotto dai proprietari, dai padroni, da chi controlla il capitale - tali perché axiologicamente "superiori", "migliori" - allora la legge di Say non può non essere valida: la volontà di produrre - oltre che distruggere! - valore deve spettare a questa classe, senza il minus habens che deve lavorare per vivere.
Gli esseri inferiori vivono grazie all'elemosina del padrone, fintanto che non si riproducano troppo e non sporchino: altrimenti è necessario - come per tutte le bestie - abbatterli.
Se è invece la domanda a fare l'offerta - e la domanda dipende dal livello dei salari - allora è il lavoro a creare valore. Lo stesso imprenditore lo crea in quanto lavoratore.
Ma, se fosse così - ossia la legge di Say, come il monetarismo, non è valida - allora parassite sono le classi dominanti.
È un bel dilemma: queste, proprietarie dei mezzi di produzione e di repressione - dopo aver distrutto completamente la massima forma di umanità quale è l'Arte - pensano di sostituire il lavoro umano con quelle delle macchine, più o meno consapevoli che, quando il lavoratore salariato sarà sostituito completamente da robot - le macchine potranno fare anche a meno dei padroni.
Ma staranno sicuramente già pensando come ibridarsi con la nuova tecnologica classe dominante....
Il problema del conflitto distributivo nella post-modernità è soprattutto un problema psichiatrico."
6. La teoria del valore si pone, lo ricordiamo, il problema, sempre presente in ogni fase storica della società organizzata, di come remunerare le varie categorie di partecipanti al processo produttivo (inevitabile data la compresente "materialità" della natura umana), cercando di individuare, (secondo visioni storicamente mutevoli), i criteri di ripartizione e attribuzione della quota di valore che ciascuna categoria aggiungerebbe.
Naturalmente, poiché nella società capitalista la creazione di valore scaturisce da processi di produzione sempre più "potenti" e sempre più velocemente e diversificatamente trasformativi, rimane sempre impalpabile il quantificare il valore da attribuire al ruolo creativo, all'ideazione trasformativa del "reale" (materiale), cioè all'attività di primo impulso (l'investimento e l'organizzazione della produzione) affidata a quella elusiva figura che è "l'imprenditore"; sempre più spesso, non più coincidente con il proprietario dell'impresa (cioè dei mezzi della produzione).
Ma questo non sarebbe un problema normativamente (cioè per l'ordinata convivenza sociale) insormontabile, se si volesse accedere all'idea che quello che sappiamo con certezza è che una volta fissata la regola di ripartizione, cioè riconosciuta stabilmente l'esistenza della quota del lavoro, questo sia legato alla dignità e al benessere dell'essere umano come valore supremo (interno alla stessa fissazione della regola). Ed è ciò che, nell'attuale esperienza storica, tentavano di stabilire le Costituzioni democratiche (intrinsecamente pluriclasse, perché ogni classe di esseri umani è considerata in ragione del valore del proprio apporto di lavoro).
Perciò, anche la figura del "proprietario" e "dell'ideatore della produzione", rientrano in tale categoria: cioè gli esseri umani, assumono ciascuno un ruolo attivo e coordinato (ad un livello necessariamente superiore alla singola unità produttiva), che consiste in un apporto di lavoro conforme alle proprie specifiche capacità; queste possono essere riconosciute anche come molto elevate, ma non possono mai condurre a disconoscere il valore dell'altrui apporto, e quindi del' altrui ricomprensione nella stessa categoria di "esseri umani".
Tutti sono comunque socialmente impegnati nella comune esperienza della vita terrena (che a livello di ogni individuo ha un termine e impone di confrontarsi con questa realtà, parificatrice di ogni possibile esistenza).
7. Questo ordine di pensieri, che consente di regolare la società, preservare il senso comune di umanità, e riservare il meglio (qualitativo) delle proprie forze alla comprensione dell'esperienza esistenziale, è palesemente legato alla metafisica: ma non nel senso che postula necessariamente una divinità intenzionale, e precisamente individuabile (al punto di poterci entrare metodologicamente in rapporto), che sia ordinatrice del mondo e della Vita, quanto nel senso che la fenomenologia della vita stessa è ricerca (o anche "testimonianza") di significato trascendente l'esperienza sensoriale diretta; ogni essere umano, invariabilmente è portatore (o "origine") di un "pensiero" che si concretizza in una descrizione sintattico-verbale della realtà che facciamo incessantemente a noi stessi (provate a fermare il flusso del pensiero che ci racconta di ciò che stiamo vivendo, ben al di là ci cosa stiamo sensorialmente percependo...).
La nostra esperienza esistenziale, come esseri umani, è così connotata proprio dalla compresenza di una personale "intenzionalità", ben più vasta dell'accumulo di dati sensoriali, (e persino di memorie emotive: ma non voglio estendere il discorso), che ci rinvia a realtà "astratte", come principale oggetto della rappresentazione del mondo e del tempo (non abbiamo mai direttamente visto il centro della Galassia-Via Lattea, e neppure Kuala Lumpur, e neppure la Casa Bianca, per sapere che esistono e che, date certe condizioni, la loro esistenza influenza la nostra, in modi che, tra l'altro, non sono anticipatamente prevedibili dal punto di vista personale: senza questo agire dell'intenzionalità, neppure le scienze naturali sarebbero state estendibili oltre un mero livello classificatorio e descrittivo empirico, e saremmo fermi a tassonomie che priverebbero l'intuizione del suo ruolo sintetico di propulsione cognitiva).
8. Dunque, la metafisica, o altrimenti detto, (a mio parere), la fenomenologia intenzionale dell'esistenza, sono coessenziali a qualsiasi autodefinizione di sè, per qualunque essere umano: cioè coessenziali a quella consapevolezza in cui consiste la stessa percezione di esistere (che non potrà mai essere limitata dalla mera percezione dei soli dati sensibili).
La percezione, dunque, è attività di interpretazione (ermeneutica) che, grazie alla intenzionalità (rappresentativa) trascendente i più ristretti dati sensoriali, ci consente di (tentare di) comprendere l'esistenza come fenomenologia complessa, sociale ma, ove non si fosse privati del proprio benessere essenziale, anche astratta, cioè rapportata al senso del tempo come modalità dell'Infinito.
In questo ordine di idee, è illuminante il secondo commento di Bazaar che, in fondo, ci dice perché non possiamo non dirci keynesiani, (ove ci ponessimo a definire, come punto di partenza del processo cognitivo, i fenomeni sociali ed economici).
Senza una metafisica, cioè senza l'intenzionalità astratta che consente di definire il senso condiviso dell'esistenza, comune a noi tutti esseri umani, l'individualismo metodologico e la negazione della fenomenologia del "sociale", ci priverebbero di ogni possibile "allineamento" utile, ma, prima ancora, "significativo", tra individui della stessa specie: non parleremmo di nulla che fosse effettivamente comunicabile a parole (venendo a mancare ogni ragione di comunicazione intersoggettiva non strumentale) e il linguaggio sarebbe una finzione che dissimula l'attesa opportunistica dell'aggressione allo scopo di sottomettere qualsiasi "oggetto"(anche un essere umano) che risulti al momento "utile" (ma, per definizione, in senso individualistico e "disallineato" da qualsiasi altro essere umano).
Certo, contraddicendoci, esprimeremmo questa visione a parole, ma ogni regola sociale, ogni affermazione verbale, sarebbe solo autoriferita e soggetta alla selvaggia tensione all'affermazione del nostro immediato e concreto responso sensoriale.
Nulla potrebbe de-legittimare la cieca aggressività dell'uomo sull'uomo e ogni individuo sarebbe autorizzato alla illimitata affermazione di sé fino al solo limite del rapporto di forza (necessariamente soggetto all'equilibrio del tempo: anche i più forti invecchiano). La società ne verrebbe distrutta, e infatti ne viene distrutta, e il senso dell'esistenza sarebbe ridotto a una serie brutale di reazioni automatiche alle spinte istintive e sensoriali, salvo pentirsene non appena si diviene inevitabilmente troppo deboli per affermare le proprie ragioni con la forza:
"...a differenza della vulgata empirista e positivista, il pensiero umano in quanto tale implica una metafisica.
La Domanda e l'Offerta sono due concetti metafisici che hanno una propria fenomenologia e di cui è possibile rilevare empiricamente le manifestazioni ontiche.
I concetti "singolare" e "plurale" sono concetti metafisici.
Il liberista, come da tradizione anglosassone ed empirista, nega la metafisica per imporre l'individualismo metodologico, in modo da negare l'esistenza del concetto di società, che - altrimenti - avrebbe un insieme di proprietà che non corrispondono alla somma di quelle dei singoli individui.
Questo è il motivo per cui i neoclassici cercano in tutti i modi di "microfondare" l'economia.
E questo è il motivo per cui di fatto Keynes si distacca dal liberalismo per proporre una forma di socialismo solo apparentemente non anti-caiptalista, come notava Röpke, a proposito di fantomatiche "terze vie" ed economie "miste".
La "fallacia di composizione" è la morte tanto dell'economia di Marshall quanto della filosofia di Smith e Paley, nel momento in cui esiste una scienza che descrive la fenomenologia di un oggetto metafisico come la società non come somma di singole individualità razionali: la macroeconomia.
Questa è basilare teoria dei sistemi complessi.
Ora: la polemica...come al solito, nasce dalla mancata comprensione della doppia natura delle nostre disavventure.
Da una parte esiste una crassa ignoranza nelle materie economiche, risolvibile teoricamente con la divulgazione scientifica, dall'altra esiste un gigantesco problema di carattere culturale ed ideologico (che lei si ostina a chiamare "antropologico").
In questo relativismo nichilista, grufolano i porci della grande finanza e la schiera di leccaculo in conflitto di interessi per definizione, quindi, in malafede.
Basta insegnare la macroeconomia e Keynes?No.
Perché esiste a priori un gravissimo problema ideologico e culturale di carattere totalitaristico, tanto a "destra" quanto a "sinistra" della falsa dialettica politica.
Questo è parte del lavoro che si prova a fare segnatamente in questi spazi (e, anche se in modo più velato, su Goofynomics)".
Questo intervento fornisce la più precisa definizione del "fare conversazione" come usa nella sedicente alta società. Un parlare vacuo, privo di contenuti qualificanti e sensati, che lascia un senso di freddezza, di scampato pericolo, di totale assenza di empatia e di condivisione persino in merito a ciò di cui si sta discutendo. Proust nei suoi romanzi ha fornito splendidi esempi di queste dinamiche sociali.
RispondiEliminaA quale intervento si riferisce? Dal commento non si comprende. A tutto il post, inteso come "conversazione"?
Elimina@maurizio questo post raggiunge livelli di approfondimento molto elevati, un tale livello non è facile da comprendere, e di conseguenza scatena reazioni come la tua, che - grazie a Dio - e' infinitamente migliore dell'indifferenza. Io ho percepito una grande verità in questa analisi - degna del miglior Umanesimo - e di tale visione ne sperimento ogni giorno gli effetti e, con il conseguente spirito critico, cerco in ogni momento la via altra.
EliminaUn mument: temo di essere stato frainteso! Nono, il post è meraviglioso, e acutissima è la definizione che da del parlare vuoto e strumentale. A quello mi riferivo. Chiedo scusa se sono stato poco chiaro. Lo scrivere velocemente non aiuta...
Elimina@Reina
EliminaMancanza di empatia sarà la tua. Leggi i post a seguire e capirai quanto sia vero perché esperito, patito sin nella carne, ciò che sostiene Bazaar. Freddezze come la sociopatia à la Mont Pelerin, o come la tua, son dati fattuali per chi se li senta addosso, e che la società non esista non l'ho affermato io, né Bazaar: quelli parlano franco, impudenti, e tu ritieni cicaleccio ciò che sgorga da sofferenza vera? Interrogarsi sulle premesse metodologiche del proprio carnefice è chiacchiericcio salottiero da altra società? Ma porta rispetto! E vedi di rileggere Proust - e magari Girard. Erano ben altri i suoi bersagli (due nomi a caso che... farebbero al caso? Vendola... Bertinotti...). E comunque spiegati, non fare il troll!
Scusa tu. Scusa scusa scusa ecc. Che topica! Accade. Era facile fraintendere, ma forse eravamo troppo in guardia alta... Amici. :-)
EliminaNo scusatemo voi tutti, sono io che ho scritto pedestramente. Dimenticando anche l'accento sul verbo dare, che forse è la cosa peggiore di tutte!
EliminaLe teorie economiche dal lato offerta sotto alcuni aspetti somigliano alle teorie comportamentiste, ampiamente utilizzate dai regimi totalitari per condizionare all'obbedienza le popolazioni. Secondo queste teorie l'uomo consuma, al pari del cane di Pavlov che saliva di fronte alla vista del cibo, per riflesso condizionato. È sufficiente sventagliargli davanti alla faccia l'offerta di beni e servizi, per far scattare senza freni il desiderio di farli propri. Di fronte all'offerta, come d'incanto, si attiva il riflesso condizionato e l'economia galoppa. Questa concezione priva l'umanità, come il cane di Pavlov, degli impulsi motivazionali. Le aspettative, la fiducia, l'ottimismo spingono attivamente a soddisfare bisogni che vanno oltre quelli di base. Questi fattori sono impalpabili, incontrollabili dai fautori delle teorie economiche comportamentiste e pertanto rimossi. Ci volle Konrad Lorenz per dimostrare a Pavlov che il cane non è un soggetto passivo che reagisce al cibo unicamente per riflesso condizionato ma ha un livello psichico, motivazionale, che scaturisce in prima istanza dall'interno, che lo porta attivamente alla ricerca di cibo. Lorenz tolse la catena al cane e subito questi gli andò incontro scodinzolando come a chiedere cibo. Ci sono momenti storici, e questo è uno, che prima dell'offerta vanno riattivate funzioni interiori, che spingono l'uomo, dall'interno, a intraprendere e consumare, altrimenti il "cavallo non beve", e l'economia segna il passo. È qui, sui fattori motivazionali, che mostrano tutta la loro debolezza le teorie economiche dal lato offerta. Chi prevede la stagnazione secolare dell'economia sa che nell'Euro non c'è possibilità di riattivarli in positivo.
RispondiEliminaLe teorie economiche dal lato offerta sotto alcuni aspetti somigliano alle teorie comportamentiste, ampiamente utilizzate dai regimi totalitari per condizionare all'obbedienza le popolazioni. Secondo queste teorie l'uomo consuma, al pari del cane di Pavlov che saliva di fronte alla vista del cibo, per riflesso condizionato. È sufficiente sventagliargli davanti alla faccia l'offerta di beni e servizi, per far scattare senza freni il desiderio di farli propri. Di fronte all'offerta, come d'incanto, si attiva il riflesso condizionato e l'economia galoppa. Questa concezione priva l'umanità, come il cane di Pavlov, degli impulsi motivazionali. Le aspettative, la fiducia, l'ottimismo spingono attivamente a soddisfare bisogni che vanno oltre quelli di base. Questi fattori sono impalpabili, incontrollabili dai fautori delle teorie economiche comportamentiste e pertanto rimossi. Ci volle Konrad Lorenz per dimostrare a Pavlov che il cane non è un soggetto passivo che reagisce al cibo unicamente per riflesso condizionato ma ha un livello psichico, motivazionale, che scaturisce in prima istanza dall'interno, che lo porta attivamente alla ricerca di cibo. Lorenz tolse la catena al cane e subito questi gli andò incontro scodinzolando come a chiedere cibo. Ci sono momenti storici, e questo è uno, che prima dell'offerta vanno riattivate funzioni interiori, che spingono l'uomo, dall'interno, a intraprendere e consumare, altrimenti il "cavallo non beve", e l'economia segna il passo. È qui, sui fattori motivazionali, che mostrano tutta la loro debolezza le teorie economiche dal lato offerta. Chi prevede la stagnazione secolare della nostra economia sa che nell'Euro non c'è possibilità di riattivarli in positivo.
RispondiEliminaQuando queste vecchie cariatidi della finanza ereditiera, con il codazzo di manager cocainomani, che ammettono di selezionare proprio in quanto sociopatici - attitudine utile a massimizzare il profitto - blaterano di "responsabilità" e "mancanza di alternative", non fanno altro che cercare di dare un senso alla loro inutile parassitaria esistenza.
EliminaPer lo stesso motivo trangugiano esoterismo pop come mescalina.
Infarciti delle sociopatiche visioni di Huxley e Russell, pieni di riferimenti degli eroi del loro tempo: Freud e Pavlov.
Sono le metastasi dell'umanità che credono di essere un'evoluzione del corpo sociale. Come tutte le cellule cancerogene.
Espressione di una malattia che, di per sé, è impersonale, aliena all'umanità stessa.
Questa fune tesa tra la bestia e il superuomo, è corrosa da costoro, e invece di condurre l'umanità all'oltre-uomo, la stanno riportando allo stato di bestia.
"In questo relativismo nichilista, grufolano i porci della grande finanza e la schiera di leccaculo in conflitto di interessi per definizione, quindi, in malafede".
RispondiEliminaPoiché lo SENTO visceralmente vero prima ancora di SAPERLO tale, questo concetto mi terrorizza, nella misura di ciò che potrei (visceralmente vorrei) fare per opporvi una qualche efficace difesa - dal fenomeno che designa, dico.
Mi spiego: tali sono orrore, disgusto, disprezzo e la coscienza dei costi che l'egoismo sociopatico riversa su persone umane ignare e innocenti (esattamente come sotto un bombardamento da guerra totale), so che sarei pronto alla violenza e mi sorprendo a desiderarne l'esercizio.
Ciò costituisce, forse, un'altra forma della vittoria di Essi. Si chiama disperazione civile, credo. Non mi lasciano che l'odio, ma non conosco odî dall'effetto riformatore (autentico), che producano liberazione, equità, giustizia... Non so che odiare. È una forma di impotenza e SO che mi vogliono così. Come gli agitatori di Parigi contro la Loi travail: sfigati, pretesto a reazioni di benpensantismo tecno-pop, a Francia intera (le sue masse) sostanziale inerte. Ormai non leggo che voi e Bagnai, ma poiché non basta... Taceam.
@Luca mi trovi concorde nella prima parte, il sentire viscerale e avere desiderio di resistenza e opposizione. Per quello che riguarda il "come" il problema si complica. Lo scontro violento e' perdente perché le forze sono squilibrate ma soprattutto perché si agirebbe sullo stesso piano , quindi contrapposti ma con le stesse logiche. Bisogna crescere "spiritualmente" , acquisire una consapevolezza superiore, questo anche grazie a blog come questo, e ricostruire un arca . Inteso come linguaggio comune e di verità , cioè ritrovare parole che siano legate alla realtà , che siano in grado di esprimere quei concetti che sentiamo . A quel punto quel mondo non andrà combattuto e odiato perché semplicemente sparirà , sostituito dal nostro nuovo mondo .
EliminaPurtroppo, da Marx a Zinoviev, ci viene ricordato che il capitalismo è impersonale: qualsiasi tentativo di personalizzarlo porta al rafforzamento dello stesso, grazie alla logica del divide et impera che trova la sua assolutizzazione nell'individualismo atomizzante del liberalismo.
EliminaBasti solo pensare all'antisemitismo.
Il concetto rivoluzionario blanquista, che porta psicologicamente anche ad un importante sfogo liberatorio, ha senso quando il potere è concentrato nell'assolutismo monarchico, o in una forma di tirannia personificabile, e si può contare sull'appoggio esterno di realtà imperialiste concorrenti, come nella Rivoluzione francese e in quella russa. Sempre che si riesca a mantenere la sovranità.
Quando parlo di «porci della finanza», mi riferisco semplicemente ai pornocrati di Félicien Rops.
Non volevo offendere i suini.
"tempo rubato" alle duine e terzine dell'Arabesque n°1 di Debussy .. :-)
EliminaTEDIO-EVO
RispondiElimina(otc .. dalle segrete castellane)
Verrebbe da pòrci [v. tr. pòrre – lat. pònère – sin. mettere] delle ali e tornare ad indossare “abiti” mentali meno triviali del darwinismo sociale che ha denaturato il prodotto storico delle Costituzioni democratiche pluriclassiste del secolo “breve”.
Verrebbe da lavarsi dal fedito putridume dei “rentier” autoreferenti confessionati con l’elemosina all’ inermes e valutare la funzione del caporalato arruolante giovine menti.
Verrebbe da ricordare le barbarie delle ceneri fumanti di arimanni e allodieri, dei saccheggiatori del quadrivium, la tirannia fetente de “la signoria del banno”.
Verrebbe da riconsiderare i dispregiativi del quale i suini del Sus Scrofa domesticus L. hanno dato alimenti, cultura e Arte a genie intelli/genti.
Questo tedio-evo finisce com’è finito l’altro: essi - cioè essi – non sono immortali come s'illudono d’essere.
Tiremm innanz!!
Il termine tecnico “sociopatia” utilizzato da Bazaar per definire il liberista tipo riassume in modo esemplare il problema che ci troviamo ad affrontare. A condizione, tuttavia, che si sappia leggere a ritroso (come Bazaar fa), dal sintomo, la malattia e la sua evoluzione. Se di antropologia si vuole proprio parlare, allora il termine dovrà intendersi come sinonimo di “visione dell’uomo” che rimanda, ancor prima, a quella del mondo dove il bipede si trova inevitabilmente ad operare. Ogni cosmologia crea l’antropologia e ogni antropologia plasma in modo discendente la sua sociologia. E’ così che è sempre accaduto in saecula saeculorum. Parliamoci chiaro, è innegabile che l’individualismo metodologico (sostanza di tutti i liberalismi) ha soppiantato l’idealismo e l’organicismo romantico con la sua visione del mondo (è Hegel, come ultimo rappresentante dei Greci, a parlare di “spirito del mondo” e di “spirito del popolo”, ove il primo si realizza in un determinato spirito del popolo). Caduta tale visione del mondo (e sarebbe interessante indagarne i motivi), si sgretola la precedente antropologia e la conseguente sociologia (che qui intendo nel senso minimo di relazionalità tra simili). Fine dello Stato e fine della società (avente essa stessa una sua soggettività) e dei valori morali insiti nella tradizione storica di ogni specifica comunità: un “tana libera tutti” in stile moderno (da non condannare tout court, per carità, ma nel superamento abbondante del limite) cui residua il lascito di tanti Robinson Crusoe e una visione atomistica della comunità come mera somma di individui. Età neo-ellenistica. FINE SOPRATTUTTO DELLA FILOSOFIA (come “cura per ciò che è massimamente evidente” e non della pop amicizia della saggezza) nel senso di ISTANZA VERITATIVA (direbbe Preve e prima ancora tutti i filosofi classici) rivolta al tutto e non alla parte. L’epistéme di quel grandioso mondo secolare è disintegrata nell’epistemologia (Nietszche capisce la drammaticità di tutto ciò annunciando il nichilismo ed il disorientamento generale quando dice che, morta l’epistéme, non capiamo più cosa è la destra e la sinistra, l’alto ed il basso, e non se ne rallegra affatto, perché zittisce i nani sghignazzanti nel Zarathustra. Ed impazzisce, lasciandoci la “speranza” in un oltre-uomo che tarda ad arrivare, ancora sopraffatto dagli “ultimi uomini” duri a scomparire). “Più non son gli dei fuggiti, né ancora sono i venienti” dirà F. Hölderlin in Pane e Vino. La metafisica (intesa non come “vana speculazione” o “follia mentale” come ci insegna Adorno), era parte integrante di quel mondo. Gratta gratta, vi è insito in essa il bisogno dell’uomo di trovare concettualmente (e non teologicamente, anche se il bisogno è il medesimo) un ordine ed un orizzonte di senso (un télos) che trascenda la temporaneità dell’esistenza e trascenda l’uomo stesso visto – ed è fondamentale - come qualcosa di più che un semplice animale. E questo primato del concettuale sul momento “cosale” o sulla “res extensa” ha avuto, non può negarsi, una funzione ideologica che – come sottolinea Bazaar – è venuta meno, che resiste in Costituzione (e perciò deve essere abbattuta da ESSI) che è essa stessa metafisica cristallina in quanto contiene una visione del mondo, dell’uomo e del suo relazionarsi con gli altri. segue...
EliminaCon questa dipartita e con la pazzia di Nietszche facciamo oggi i conti. Sopravvivono e prosperano solo “ideologismi” (ancora Preve) come il liberalismo in tutte le sue forme, il quale si rivela un mero make-up affaristico basato in toto sul “cosale”. L’uomo – che era centro, alfa ed omega della metafisica perchè aveva una certa concezione e coscienza di sé e dello stare al mondo – è un mero oggetto come tanti, senza più sfera spirituale e morale, senza beni superiori a quelli materiali, sensa pretesi fini, persin sensa sentimenti (ecco la morte conseguente dell’arte di cui sempre Bazaar denunciava la lisi). Il comunitarismo di Tylor (e a cui il post espressamente si riferisce) che non a caso parla di “iperbeni” – quelli incastonati negli articoli della Costituzione- quello di McIntyre, Sandel, Gorz e Preve hanno tentato – con una dialettica convincente e ragionata che non ritrovo in nessun spontaneismo o individualismo liberista - di riportare al centro della questione (non a caso rivalorizzando la filosofia classica continentale) la concezione dell’uomo, dei suoi fini, la concezione della società e dello Stato, il concetto di giusto e di bene, oramai totalmente relativizzati. Di riprendere la metafisica come fattore nobilitante della specie umana. Perché in ciò sono totalmente d’accordo, tutto è metafisica al di là del mondo dei sensi, perché tutto è pensiero. Certo, si può accedere alla adaequatio rei et intellectus. Ci si assuma anche gli oneri.
Elimina@Maurizio Reina
Questo è il prolisso ed abborracciato (me ne scuso) stato dell’arte che Bazaar, con il dono della sintesi (che non ho) ha cercato di mettere sul tavolo per una riflessione comune ed improcrastinabile. Una chiacchiera da “sedicente alta società”? Ci dica, cortesemente, qual è il Suo pensiero invece, mi perdoni, di buttarla in vacca. Grazie.
« essere uomo vuol dire esserlo in senso teleologico e in senso deontologico »
EliminaHusserl
Perfettamente. Alla faccia degli ordini spontanei come le margherite sui prati. Ma che davvero scherziamo?
EliminaPurtroppo siamo costretti a dare spazio alla confutazione del pensiero neo-liberista perché nel negare la metafisica, cioè il pensiero, si insinua nel pensiero con estrema efficacia (ed efficienza: cioè col minimo sforzo. ESSI VIVONO).
EliminaCiò pone persino l'esigenza preliminare di una comprensione fenomenologica di tale interferenza: più esattamente ci si rende conto di un "altro" fenomeno, diverso dalla qualità intenzionale del percettore, cioè dell'essere umano dotato di intenzionalità astratta e capace di esprimere la realtà attraverso il pensiero (tant'è vero che si accetta, altrimenti, il concetto di "umano" come bruto, in assenza della civilizzazione del capitalismo sfrenato, proiettando tale assunto su tutta la Storia umana!).
Ma allora dovremmo prendere atto che la sostanza del pensiero è alterabile. Cioè, è possibile la massiccia contaminazione dell'essere umano con un pensiero "inessenziale", e del tutto preclusivo delle sue capacità cognitive, ma atto a schermare le qualità essenziali di ogni oggetto naturale.
In sintesi: nel metabolismo del grande albero della conoscenza, che coincide con l'essenza dell'Umanità, è introducibile un parassita e questo può proliferare fino a divenire un organismo che sostituisce lo stesso albero.
E tutto questo, senza che la struttura biologica originaria sia più in grado di possedere gli strumenti per "ricordare" la propria essenza autonoma.
Il punto terminale di una malattia...
Questo è il conflitto, interno all'Umanità, in quanto invasa da una Quinta Colonna di parassiti mimetizzati (nel pensiero), che dobbiamo fronteggiare.
Come ricordava Giordano Bruno alle prese con altri monoteismi, a quanto pare, originati dalla medesima essenza parassitaria...
EliminaOgni umano aspira ad avere sempre di piu perchè l'angoscia di diventar nulla si placa con la volontá di potenza. La lobby delle multinazionali ormai ultrastatali é psichiatricanente malata. Il credere che il processo di concentrazione (accelerato dalla globalizzazione e dal raggiungimento della fase di maturità declino della forma capitalista) possa essere reversibile è la vostra comprensibile illusione. Tutto andrà come purtroppo necessariamente dovrà andare. È questo il destino della necessità.
RispondiEliminaAmmiro sinceramente Severino e la sua filosofia. E posso anche dirti che, non senza qualche difficolta' , mi sta bene pensare alla gloria cui siamo destinati. Lui afferma che quel grandioso mondo, di cui la metafisica o episteme e' la sintesi, non poteva non tramontare (in Essenza del nichilismo, che viene prima di Destino della necessita', il suo pensiero e' chiaro) e spiega anche il perche'. Alla fine sara' la tecnica a prevalere, quella tecnica di cui il capitalismo pensa di servirsi, essendone invece divenuto solo un mezzo. Solo allora dorse l'uomo capira' che la storia dell'Occidente e' tutta nichilistica. E nel frattempo? Puo' l'uomo rassegnarsi veramente al massacro? Nella mia illusione io non mi rassegno e probabilmente la lotta sara' persa. Pero' nella storia ci sono anche i colpi di scena, frutto di azioni dell'uomo. Cosa posso perdere? Un po' di sangue amaro o la vita stessa. Tanto la gloria e' comunque assicurata:-)
RispondiEliminaNon so cosa intendesse esattamente Bazaar per "metafisica": confesso che ne avevo dato un'interpretazione più banale, cioè intesa come "la disciplina filosofica che studia l’essere in generale, e pertanto studia ciò che esiste e come è fatto, ciò che non esiste, e ciò che potrebbe o non potrebbe esistere.", per citare Franca D'Agostini, i cui libri, da profano, trovo sempre molto chiari e utili. E il discorso filava, nel senso che "lo sbocco naturale dell’empirismo pretrascendentale infatti è precisamente il fenomenismo scettico, in versione berkeleyana, o humeana: la prima con esito coerentista (l’esse è percipi, dunque si tratta solo e sempre di confrontare percezioni-cognizioni), la seconda con conclusione pragmatista (descriviamo la realtà in un certo modo, ossia in termini di cause, soggetti, sostanze, proprietà ecc., perché ci conviene farlo)." (ancora D'Agostini, Realismo? Una questione non controversa, Bollati Boringhieri, Torino, 2013, s.p.).
RispondiEliminaQuindi l'invidualismo metodologico e l'empirismo negano la metafisica, senza poterlo realmente fare perché incapperebbero in un elenchos (cioè una confutazione) già svolto dagli antichi, non facendo quindi altro che imporre surrettiziamente una metafisica povera e contraddittoria, ma in compenso indiscutibile: "Ci accorgiamo allora di un punto interessante, che è stato più volte sottolineato: che l’impossibilità della metafisica, come disciplina filosofica che elabora criticamente le visioni della realtà, era determinata da una metafisica, cioè una visione della realtà, restrittiva, e punitiva, che costituiva una condizione di impossibilità. Una metafisica che dava grandissima importanza non al “de se nunc” come tale, ma all’insegna “de se nunc”, la quale è importante, ma è solo una delle insegne collocate nel negozio del rigattiere-filosofo.
Allora ecco la questione di fondo, segnalata dai metafisici eredi di Kant (e anzitutto da Hegel): che non usciamo dall’autocontraddizione fenomenista perché (e se) non abbiamo la metafisica, come disciplina o campo di ricerca; perché ci neghiamo il diritto di rivedere e ridiscutere proprio quella narrazione in fondo minoritaria che dice: solo il de se nunc è affidabile, tutto il resto sta “fuori”, e non è possibile pronunciarsi sul fuori."
Questo giocare dentro e fuori, e le sue funzioni, sono abbastanza evidenti, mi pare, in Locke e in Smith. Per esempio da quali osservazioni empiriche Locke ha tirato fuori il suo giusnaturalismo? Da nessuna, ovviamente: è solo uno strumento per dare per scontato ciò che scontato non è, ossia l'armonizzarsi spontaneo (=senza politica) degli interessi individuali (rispetto a cui le leggi dello Stato non possono che essere vissute come ricatto e imposizione, da limitare quanto più possibile in quanto "male necessario", come avrebbe detto Humboldt).
Identica la vicenda della mano invisibile di Smith: "La thèse de la “main invisible” n’est pas, contrairement à ce qui est affirmé sans pudeur par certains économistes, un résultat scientifique. C’est, au mieux, une brillante métaphore et, plus certainement la transposition en économie d’une image religieuse.
Comme l’a démontré J.-C. Perrot, chez Adam Smith elle est la refiguration d’une image du Dieu caché, pour reprendre la formule magnifique de Lucien Goldmann, sur les influences jansénistes
dans le théâtre de Racine." (J. Sapir, Les trous noirs de la science économique, Albin Michel, Paris, 2000, pag. 96).
Ma certamente: siamo nella topica delle dispute più classiche :-)
EliminaRimango con la mia preferenza per la fenomenologia, che consente di dare cornice sistematica (o metodologica, sul piano cognitivo puro), e produttivamente unificante, a tutte le tesi e le antitesi in questione.
Husserl converge al tomismo:
Elimina« verum autem, quod est in rebus, convertitur cum ente secundum substantiam; sed verum, quod est in intellectu, convertitur cum ente ut manifestativum cum manifestato »
"De Veritate", q.10, a.12, ad 3; "Summa theologiae", I, q. 76, a. 2, ad 4. Tommaso d'Aquino
la coscienza umana non è parmenidamente costitutiva, ma disvelativa dell'essere nella sua consistenza ontologica.
L'essere viene colto nella sua alterità, anche se immanentemente alla coscienza e per essa.
La coscienza sarebbe quindi costitutiva del vero logico, non del vero ontologico.
Con la differenza che soltanto la filosofia sarebbe sorgente di verità, non il sentimento religioso per cui l'oggetto è l'irrazionale.
L'intuizione fenomenologica è lontana dall'intuizione empirica cui si richiama l'esperienza positivistica, atta a cogliere il dato immediato nella sua esistenza effettiva, come fatto ontico, nella sua fattualità non-significativa.
EliminaL'intuizione fenomenologica non è esperienza di un fatto, ma apprensione dell'essenza o del significato del fatto, in quanto esso si autodà alla coscienza; essa, pur presupponendo l'intuizione del concreto, la trascende in quanto coglie l'aspetto disindividuante del dato, lo significa, lo considera indice di una visione eidetica.
L'intuizione fenomenologica si può intendere come l'esperienza di un fatto, purché per "fatto" si intenda il dato originario correlato alla coscienza, e non il fatto oggetto di indagine delle scelte positive.
Però, se la metti in termini di dicotomia tra "fatto" e sua "essenza" (probabilmente lavorio critico di logica nominalistica svolto da chissà chi...pur illustre), si perde il senso del procedimento cognitivo di H. per ricondurlo a concetti statici, da cui invece, giustamente, rifuggiva: in quanto origine dell'impasse cognitiva dell'essere umano (incastrato in tassonomie di parametri logici che a priori rifletterebbero il reale, pregiudicando una relazione intuitiva col fenomeno).
EliminaQuello che conta è l'epoché e l'essenza che ne scaturisce non è delimitabile a priori come conoscenza parziale o selettiva (psicologica), poiché non conta in sé, essendovi diversi e illimitati livelli di "purezza" dell'essenza che si ipotizza come coglibile.
Per quanto apparentemente elusivo, questo punto è fondamentale: la sospensione del giudizio e la coscienza attivata dall'intuizione sono un processo da esercitare (all'infinito) non un'operazione matematico-simbolica.
"È in virtù dell’esercizio dell’epoché che, a parere di Husserl, il tradizionale rapporto dicotomico anima/corpo si trasforma in un’«inerenza pura intenzionale»: l’epoché del mondano dischiude il terreno della conoscenza di essenze o eidetica di contro alla conoscenza dei dati di fatto.
Dopo la neutralizzazione dell’esperienza naturale, Husserl si domanda cosa resti, quale sia il «residuo» di tale operazione il cui risultato consiste nella costituzione delle «regioni» cui corrispondono altrettante «ontologie regionali», ovvero le scienze eidetiche che fissino «con razionale purezza cioè eideticamente, l’essenza della natura, nonché tutte le modalità essenziali degli oggetti naturali».
Si dischiuderà una regione, indicata da Husserl come «pura coscienza», ovvero come «regione assoluta dell’autonoma soggettività», designata anche come coscienza trascendentale, cui si perverrà attraverso l’applicazione metodica dell’epoché trascendentale.
Sotto l’aspetto del metodo fenomenologico, la riduzione husserliana assume, pertanto, il carattere della gradualità: infatti, si passa da un’epoché eidetica ad un’epoché trascendentale".
http://www.hieros.it/glossario/epochus.htm
Sì, sono appunti che ho preso citando definizioni estratte dai capitoli introduttivi di Antonio Lambertino, Max Scheler: Fondazione fenomenologica dell'etica dei valori, La Nuova Italia Editrice Firenze, 1977.
EliminaÈ una monografia a cui sono approdato dopo un paio di anni di ricerche, e che credo mi accompagnerà per un altro paio di anni di studio...
Il nominalismo - comunque preso sempre da puntuali citazioni in tedesco di Husserl - deriva, come hai intuito, dalla necessità di un "tecnico" di fare - tra le altre - analisi comparata (ad es. con Cartesio o Tommaso): sull'intenzionalità, sull'epoché e sulla riduzione eidetica, dedica relativamente molto spazio e, certamente, descrive la fenomenologia husserliana come risoluzione del dualismo tra l'idealismo classico e l'empirismo e lo psicologismo.
Una delle ultime definizioni di "fenomenologia" che dà (pagg. 37-38): « La coscienza coglie se stessa trascendentalmente soltanto in quanto è significante, in quanto instaura un rapporto originario con la realtà. La fenomenologia è pertanto scienza della coscienza trascendentale, è egologia, non nel senso dche l'ego trascendentale viene soggettivisticamente ipostatizzato, ma nella misura in cui, pur rimanendo se stesso, intende anche costituire la significanza del mondo: "non significa considerare soltanto me come essente, valorizzare soltanto me come essente e in nessun modo il mondo" [cit. Husserl]
Essa chiarisce, in una simultanea comprensione, il come di se stessa e il come del mondo. La coscienza si costituisce tale nella misura in cui si propone come costitutiva, così come l'essenza è tale proprio in quanto è costituita dalla coscienza trascendentale, in una perfetta correlazione tra coscienza-del-mondo e mondo-nella-coscienza. Se la coscienza gode del primato rispetto alle essenze, è non sul piano epistemologico, ma, tutt'al più, su quello ontologico, in quanto l'essere della coscienza è l'unico essere assoluto, l'unica essenza reale, pur nella sua apertura verso l'alterità. Più che condizione dell'effettuarsi delle essenze, la coscienza è l'unico assoluto che comprende intenzionalmente il mondo delle essenze. Rimane quindi - unico residuo fenomenologico irriducibile - la coscienza 'trascendentale', garante di un'evidenza apodittica, unico oggetto d'indagine della fenomenologia ».
Effettivamente, una dicotomia che l'autore non risolve in Husserl, è quella per cui « non sembrano armonizzate due istanze indissociabili che caratterizzano il porsi della persona, rivendicando l'essenzialità della dimensione relazionale dell'io all'alterità. [...] Per un verso, caratteristica essenziale della persona è la sua "inaccessibilità ed estraneità" [...] per un altro verso, la verifica della fondazione è demandata all'esperienza appercettiva dell'alterità ».
Un mondo infinito in cui si incontra "lo scibile".... e punto di partenza per l'approccio a qualsiasi scienza.
Non è difficile misurare la distanza con Keynes: "His particular criticism of the classical school was that they used models that excluded important facts by assumption. This left them unable to explain real world problems like persisting unemployment. He was not prepared to sacrifice realism to mathematics, because he thought this would make economics useless for policy. For Keynes ‘vigilant observation’ was the ability to see facts without pre-conceived theories - that is, from a disconfirming rather than confirming standpoint. What he called ‘scholasticism’, or formalism, was a useful check on the logic of one’s explanations, not a substitute for observation." (R. Skidelsky, The Return of the Master, Public Affairs, N.Y., 2010, s.p.).
RispondiEliminaQuindi rispetto all'empirismo inglese, meglio quello tedesco, come diceva Dilthey.
Il che ci conferma che Keynes era, de facto, un fenomenologo...che non conosceva (abbastanza) il tedesco
Eliminahttps://books.google.it/books?id=xAB_-Vhfpg8C&pg=PA661&lpg=PA661&dq=keynes+e+la+fenomenologia+di+husserl&source=bl&ots=6PcoYZKyIf&sig=g8MsENphd1IaekZ9Z5kCsjFDGig&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwiYx-Ge2rbMAhVG0xQKHbRZAoAQ6AEIHDAA#v=onepage&q=keynes%20e%20la%20fenomenologia%20di%20husserl&f=false