domenica 7 luglio 2019

Agostiniani e Paolini



La sovranità costituzionale, la dissonanza cognitiva e un concilio di Nicea allo stadio. 

POST DI BAZAAR




«Diffidate di quei cosmopoliti che vanno a cercare lontano nei loro libri i doveri che trascurano di svolgere nel loro ambiente. Quel tale filosofo ama i tartari per non essere costretto ad amare i suoi vicini.» Jean-Jacques Rousseau, Émile




Mentre l’Unione Europea – espressione del capitalismo delle potenze egemoniche occidentali, lentamente, come un boa, stritola l’Italia e gli italiani – fenomeni macroscopici, per le dimensioni dell’impatto sociale o mediatico, dividono, spaccano, l’opinione pubblica in due.

La polarizzazione, nonostante gli sforzi dei media per creare dialettiche falsate, tesi e antitesi solo fintamente contrappositive che lasciano al governo materiale delle forze economiche proseguire la propria agenda politica al di là degli interessi generali e «al riparo del processo elettorale», si articola da un lato in un pubblico più o meno incosciente che però resiste – e che si ritiene, per ironia farsesca della Storia, perlopiù “conservatore” – e un pubblico che, a questa agenda politica, presta invece direttamente o indirettamente sostegno. Quest’ultimo si ritiene perlopiù progressista, e sulla sua “consapevolezza” sarà interessante riflettere.

Entrambe le fazioni portano avanti ideologicamente, di fatto, un pensiero (neo)liberale, nonostante la stragrande maggioranza delle persone, in particolar modo nella fazione resistente e conservatrice, rivendichi politiche e necessità di chiara matrice socialista: intervento dello Stato al fine di aumentare le assunzioni nel pubblico impiego, ripresa della crescita salariale nell’amministrazione pubblica, espansione della servizio sanitario nazionale, diminuzione dell’età pensionabile, supporto dello Stato alla famiglia e altre, sacrosante, battaglie socialiste i cui obiettivi furono perentoriamente iscritti in Costituzione e che questa inderogabilmente prescrive.

Dall’altra parte della barricata c’è quel blocco sociale guidato dalla borghesia che vive nelle zone urbane centrali, tendenzialmente di area liberal e progressista, che ha avuto perlopiù vantaggi dall’agenda politica eurounionista, o che ancora non ha subito le conseguenze di quello che è a tutti gli effetti uno strangolamento finanziario volto alla deindustrializzazione dell’Italia, alla grande espropriazione dei patrimoni dei ceti medi e alla definitiva mezzogiornificazione della penisola. Nota: all’espropriazione economica consegue l’esproprio della sovranità democratica.

Mentre i dati macroeconomici sono chiari nel descrivere il progressivo impoverimento degli italiani e nel delineare l’impressionante area di sofferenza sociale dovute alla disoccupazione e alla privatizzazione dello Stato sociale, l’interpretazione tra le due fazioni che abbiamo individuato è completamente opposta: ciascuna è preoccupata come fosse in gioco la propria vita (e giustamente, perché lo è), ma interpreta in modo diametralmente opposto i fatti sociali. E, fin qui, nulla di anormale. In definitiva, l’area progressista è identificabile da chiari interessi di classe (antinomicamente “conservatori”, in quanto difendono un privilegio) mentre i resistenti, i “conservatori”, appartengono alle classi tendenzialmente disagiate (e quindi in ricerca di “progresso” nella sicurezza sociale ed economica).

Grosso modo questi raggruppamenti delineano politicamente, ma anche a livello di dibattito extraparlamentare, la destra conservatrice dalla sinistra progressista: quindi abbiamo conservatori che rivendicano progressismo sociale, e progressisti che rivendicano posizioni socialmente conservatrici. Una complexio oppositorum che non mette in discussioni i dogmi (neo)liberali e la cui contraddittorietà logica e dissonanza cognitiva si risolvono nel bipensiero o in forme di misticismo da curva sud.

L’inosservato elefante nel corridoio è che le rivendicazioni socialiste non hanno praticamente rappresentanti e interlocutori politici, i quali, salve limitate eccezioni, abbracciano un pensiero politico che va dal liberalismo conservatore a un liberalismo progressista, entrambi col minimo comun denominatore del liberismo economico e di uno Stato se non minimo non più che supplente (“i posti di lavoro mica li può creare lo Stato” e slogan analoghi): Keynes e Marx non pervenuti.

Quello però che ci incuriosisce è il dato socio-ideologico: ovvero quella insanabile e inconciliabile spaccatura in seno alla società, non solo italiana, per cui su qualsiasi tema il dibattito si divide tra una sinistra progressista e una destra conservatrice, senza che la vera posta in gioco, ossia le sottostanti dinamiche socioeconomiche, riesca mai ad essere messa a fuoco in modo chiaro. Quest’appiattimento e omologazione, ossia il mancato radicamento della discussione nella specifica storia politica delle comunità, rappresenta di per sé una netta vittoria di chi sta imponendo la mondializzazione.

La capacità di coordinamento di cui hanno dato prova i media occidentali, e le scelte ideologico-linguistiche-normative “calate dall’alto” dalle organizzazioni internazionali, fanno la differenza. E questo significa che il “progressismo” della sinistra globalista ha vinto parecchie battaglie politiche.

Sicuramente è stupefacente come su qualsiasi tema – qualsiasi – questa inconciliabile contrapposizione si manifesti, escludendo a priori qualsiasi possibilità dialogica sui temi che una fondazione materiale del divenire storico imporrebbe come primari.

Il problema si presenta in questi termini: se nei temi che riguardano la morale è normale che la sensibilità di ognuno vari profondamente, e, quindi, si manifesti una simmetrica polarizzazione del tipo SÌ-NO su proposte di legge, o intorno a giudizi sul comportamento di personaggi mediatici (o “mediatizzati” dalla cronaca), in merito agli interessi materiali, sociali ed economici, questa simmetrica distribuzione non c’è: chi è più ricco – ovvero la minoranza – vuole conservare la propria posizione di privilegio e, in generale, è materialmente interessato a ciò che sente come esigenza di classe. Chi è povero – ovvero la stragrande maggioranza – ha come priorità far quadrare i conti famigliari o, se è in età fertile, sarà preoccupato di avere la stabilità economica necessaria per avere figli e mettere su famiglia.

Tutto il resto viene dopo. È cosa, se si vuole, abbastanza banale e intuitiva, comune esperienza di tutti noi.

Eppure, come si può facilmente constatare, questa solidarietà di preoccupazioni, che rende una classe tale, manca. O, se c’è, alligna solo presso quella classe identificabile con l’alta e medio-alta borghesia che sa come curare i propri affari ed è abbastanza numericamente ristretta – e geograficamente confinata (v. ZTL) – per discutere dei propri interessi inter pares.

Le classi subalterne mancano al momento della capacità di organizzare le proprio convinzioni politiche attorno a questi interessi: di fronte alla disarticolazione e cooptazione dei loro rappresentanti storici, rimane loro la (magra) soddisfazione del tifo ricalcato sul modello calcistico: ci si divide quindi su questioni secondarie o, magari, su questioni di primaria importanza ma per motivi secondari. Per pura fede e appartenenza.  

L’arena politica è trasformata dai media in uno stadio gigantesco, probabilmente grande come l’intero Occidente, dove giocano due squadre di calcio.

Quest’incontro dove le virtù “calcistiche” diventano una fondamentale questione morale per gli spettatori, tanto che dagli spalti si distinguono milioni di dotti teologi – a sinistra i santi progressisti, a destra i sadici e bigotti conservatori – raggiunge subito un obiettivo: quello di far sì che i tifosi dalle tribune siano equamente distribuiti quando la ricchezza non lo è. Va da sé che il primo obiettivo è quello di scollare, tramite la narrazione moralistica, la relazione tra bisogni materiali e politica che, nel capitalismo, è in primis politica economica.

Invece di rivendicazioni di classe, si esprimono pubblicamente rivendicazioni morali, per lo più attinenti alla sfera del privato, mentre privatamente si consuma – magari in silenzio – la sofferenza sociale che, invece, ha macro-ragioni di carattere pubblico, bisognose di essere discusse politicamente.

Non solo gran parte delle due tifoserie teologiche, “paolini” de sinistra e “agostiniani” de destra, non persegue i propri interessi materiali (infatti ingoiano entrambe le riforme strutturali liberiste, non avendo altra ideologia all’infuori di quella del mercato, compresi i noglobal e gli anticapitalisti dell’Illinois), ma una delle due condivide vezzi e pregiudizi dell’universalismo “di nessun luogo”, come lo ha felicemente definito Andrea Zhok, della classe dominante, che trova espressione nella teologia paolina dell’amore per tutte le minoranze, a partire da quella che monopolizza il mercato: gay, lesbiche, transessuali, africani, islami…( ehm… no, gli islamici non li vuole nessuno: sono per motivi fallaciani inaccettabili dagli agostiniani e mettono in imbarazzo i paolini open minded della famiglia senza frontiere).

I paolini amano tutti tranne gli agostiniani, che li vorrebbero vedere morti e a causa dei quali, dovendo condividerci il territorio, vorrebbero emigrare. Gli agostiniani ricambiano.

Il paolino de sinistra entra in loop quando si rende conto che, amando le minoranze, “non ama” le maggioranze (l’odio non è politicamente corretto: si agisce, ma non si proclama nella dottrina paolina): ovvero non ama la grande maggioranza composta dai poveri. Se d’altronde difendi le minoranze, devi difendere la più celebre delle minoranze, quella dell’élite, mica puoi prendere le parti di quella massa di agostiniani pezzenti e portatori di “pulsioni” fasciste! (Nella dottrina paolina vige l’equivalenza freudiana: povero + italiano = agostiniano fasciorazzista )

Il dramma interiore si risolve nel momento in cui, non potendo amare i poveri agostiniani, troppo vicini, può amare l’immigrato, che arriva da lontano ed è – ai suoi occhi – puro di cuore. Non è un fasciorazzista come l’agostiniano, corrotto dall’opulenza della civiltà occidentale, ottenuta grazie al colonialismo, anche se l’agostiniano in questione è da generazioni immemori figlio di contadini, operai, e attualmente disoccupato, separato e con un assegno di mantenimento da passare ogni mese ai figli che non può più vedere.

Agostiniani e paolini non possono proprio comprendersi: d’altronde, la teologia agostiniana è palesemente diabolica, ispirata al despotismo clericale del santo che li ha battezzati nel nome del conservatorismo. I paolini non possono accettarlo. Loro sono buoni. Soprattutto quelli che vivono nelle ZTL.

Quindi se gli agostiniani vedono nelle ONG che trasbordano africani in Italia strutture espressione dei servizi segreti di nazioni ostili che attentano alla nostra sovranità nazionale e, nei capitani delle relative navi, negrieri che deportano schiavi, manodopera a basso costo e sottoproletariato che andrà a delinquere nelle stesse periferie in cui vivono quegli squattrinati agostiniani, i paolini vi scorgono invece la magnifica costruzione della cosmopolitica società senza frontiere, la fine della Babele westfaliana e i primi passi verso la costruzione di un’ecologica e multiculturale società globale: la costruzione della società promessa. (La teologia è tutto: non importa se la globalizzazione abbia omogeneizzato qualsiasi forma di vita sul pianeta: il bipensiero permette al paolino di vedere nel monoculturalismo del mercato un multiculturalismo. Mistero della fede).

Quelli che sono trafficanti di esseri umani, lavoro-merce per gli agostiniani, sono invece capitali...ehm... capitani coraggiosi, eroi, salvatori-di-vite. Non è un problema di ordine sociale e di sovranità: il problema per paolini è giustamente morale. Perché loro sono buoni e… accoglienti.

Gli agostiniani credono di essere in guerra, i paolini credono di essere in missione per conto di Dio.

Qualsiasi possibilità dialogica e di riflessione sulla concretezza dei propri interessi materiali è di fatto impossibile: quando c’è di mezzo la religione esistono dogmi ed eretici. La fede per una squadra di calcio sempre fede è.

Ed è così per qualsiasi fatto di cronaca: le vaccinazioni obbligatorie e le relative sanzioni sono un sopruso anticostituzionale per gli agostiniani, mentre sono una rivelazione della Scienza per i paolini, confidando nel sacro metodo galileiano che è in sé Bene e Amore incondizionato per l’intera umanità.

E su quel boa constrictor dell’Unione Europea?

Per gli agostiniani è una sottrazione di benessere economico e sociale contestuale alla sottrazione di sovranità, per i paolini è un sogno.

Amen.


(Questa contrapposizione con retorica da guerra civile, dove cappi penzolano da sedi di partiti, ed esponenti politici vengono raffigurati appesi a testa in giù, è molto preoccupante: quando il dibattito politico diventa una scontro di carattere religioso, o, meglio, metaetico, ci si trova in una situazione prepolitica, o, stando con Calamandrei, ci si trova «allo stato di fatto, allo stato meramente politico in cui le forze politiche [sono] di nuovo in libertà senza avere più nessuna costrizione di carattere legalitario». Tutto questo era ciò che la Costituzione avrebbe dovuto evitare, e che il processo desovranizzante eurounionista ha permesso)