giovedì 13 aprile 2017

IL DEF, L€UROPA, LA DISOCCUPAZIONE E L'OUTPUT GAP



1. Siamo ne Leuropa. 
Anzi, poiché non tutta l'UE coincide con i paesi appartenenti all'eurozona, - ai quali soltanto si applica il fiscal compact e la disciplina dell'Unione bancaria, (anche se i giornalisti italiani non paiono saperlo)-, siamo ne L€uropa. 
E ci vogliamo rimanere ad ogni costo.
E siccome siamo ne L€uropa, il valore giuridico superprimario del sistema, non è  (più) quello degli artt. 1 e 4 della Cost. italiana, - cioè il lavoro come fondamento della Repubblica ed oggetto di un diritto che non è affatto una proclamazione enfatica, tanto che la Repubblica si obbliga a perseguire politiche di pieno impiego (art.4, comma 1, seconda parte e art,3, comma 2, Cost.).  Insomma, siccome non è affatto il lavoro-occupazione il principio supremo de L€uropa, cioè di un trattato internazionale soggetto (v. p.11.4) ai limiti (dimenticati) dell'art.11 Cost., la Repubblica italiana è oggi fondata su due principi estranei ad ogni previsione costituzionale: la cessione (crescente) di sovranità a L€uropa e la stabilità dei prezzi.

2. Ne L€uropa l'occupazione viene in rilievo in un solo modo, naturalmente subordinato a quello della stabilità dei prezzi: il c.d. NAIRU (non accelerating inflation rate of unemployment), cioè il tasso di disoccupazione che non determina un aumento dell'inflazione rispetto al target che viene fissato per il mantenimento della moneta unica. Ne L€uropa, dunque, non importa quanta disoccupazione divenga strutturale via via che si consolidano le politiche fiscali imposte da €ssa, tendenti al pareggio di bilancio.
Ora, sempre in questa ottica di mantenimento della moneta unica e di irreversibile cessione della sovranità, tanto più tangibile in quanto importa l'abrogazione di fatto degli artt.1, 3 e 4 della Costituzione, persino L€uropa sa che le sue politiche tendenti al pareggio di bilancio - inteso, come già nel 1920-22, come principale strumento di mantenimento della stabilità dei prezzi e del valore della moneta-, determinano un livello di disoccupazione piuttosto elevato (rispetto alla situazione registrata prima dell'introduzione della moneta unica!) e in concreto, superiore a quanto compatibile col desiderato livello di inflazione.
Perciò, viene calcolato, in qualche modo, anche l'output gap, cioè la minor crescita prodotta essenzialmente dalla elevata disoccupazione provocata per mantenere il target inflattivo mediante il perseguimento del pareggio di bilancio e, quindi, per tenere in vita la moneta unica.

3. Considerando magnanimamente tutti gli strumentari econometrici della nuova macroeconomia classica, - e persino le teorie neo-keynesiane (cioè neo-liberiste, ma tese a conservare un ruolo residuale allo Stato per politiche anticicliche in casi limite, teorie che non si preoccupano di spiegare le cause del verificarsi di tali casi limite, molto più frequente delle loro ipotesi "naturali")-, che calcolano la curva di Phillips includendovi le aspettative razionali (cioè presuppongono che se l'inflazione è stabilmente bassa, gli investitori si scatenerebbero), L€uropa concede degli scostamenti nel percorso di raggiungimento del pareggio di bilancio in funzione di tale minore crescita ipotizzata, principalmente correlata al presunto maggior livello di disoccupazione registrato rispetto a quello considerato strutturalmente non inflazionistico. 

4. Per chi volesse lumi sui ben noti presupposti super-normativi di tale impostazione de L€uropa, che ha sostituito (definitivamente, secondo i nostri politici) il modello costituzionale, e sulle differenti modalità di calcolo dell'output gap e del NAIRU, sempre all'interno di teorie economiche neo-classiche (cioè neo-liberiste), è consigliata la lettura di questo paper di asimmetrie.
Vi riporto una parte significativa delle conclusioni del paper:
E vi riporto anche una tabella sulle possibili differenti modalità di calcolo di output gap e NAIRU (o parametri assimilabili) tutte comunque inscritte all'interno della nuova macroeconomia classica (v. p.4) (cioè del neo-liberismo), che dimostra come L€uropa sia, nella sostanza, l'organismo più orientato a strutturare un elevato livello di disoccupazione e di crescita inferiore al potenziale, nei paesi coinvolti, dell'intero panorama mondiale.

5. Questa lunga premessa serve a comprendere il DEF appena sfornato dal governo italiano.
Non ci dilungheremo su suoi contenuti: basti sapere che, poiché il quadro applicativo del fiscal compact è vincolante e irrinunciabile, con i suoi indici €uropei di determinazione dell'output gap e del NAIRU (sottostimato il primo e sovrastimato il secondo), ai livelli di correzione dell'indebitamento annuale previsti dal nostro governo, gli obiettivi di crescita indicati non sono raggiungibili; o, più probabilmente, in alternativa, poiché il paese è economicamente, socialmente e politicamente, stremato, non saranno raggiungibili i livelli di deficit fiscale ridotti fino al pareggio strutturale di bilancio nel 2019.  
Applicando i volumi di consolidamento fiscale dettati da L€uropa, infatti, la minor crescita e l'aumento della disoccupazione (o della sottoccupazione iperprecarizzata, che è, ai fini della crescita, le stessa cosa), farebbero sempre fallire le previsioni fiscali, determinando un minor gettito tributario e l'esigenza di spese "inaspettate" per tentare di minimizzare la destabilizzazione sociale determinata dalla disoccupazione e, al tempo stesso, dalla letterale dissoluzione del territorio, giunto al collasso delle sue infrastrutture e impossibilitato, sempre più, a mantenere il già diminuito livello di capitale fisico.

6. Un paio di passaggi dell'introduzione del DEF meritano però di essere riportati, perché coronano il resto dell'esposizione indicando che si è ben coscienti dell'inevitabile fallimento della linea di politiche fiscali €uro-imposte e della conseguente esigenza sia di dover presto fronteggiare le consuete minacce €uropee, sempre più incombenti, di apertura di una procedura di infrazione (con annesso commissariamento da parte della Trojka), sia di dover offrire all'opinione pubblica un qualche illusorio risultato positivo che giustifichi una promessa di politiche lacrime e sangue, di disoccupazione e di crescita incerta (se non di recessione, a voler seguire fino in fondo i diktat del fiscal compact). 
Il primo di questi passaggi ha una connotazione fortemente indicativa di cosa significhi stare, ad ogni costo, ne L€uropa: politiche volte "esclusivamente" alla crescita non sono più praticabili: scordatevele. La disoccupazione non potrà calare, se non nelle rilevazioni Istat, che includono tra gli occupati il crescente mondo precarizzato di milioni di persone senza un futuro dignitoso e senza una previdenza. Accontentatevi del benessere equo e sostenibile:

"Il benessere equo e sostenibile

La crisi e prima ancora la globalizzazione hanno reso evidenti i limiti di politiche economiche volte esclusivamente alla crescita del PIL. L’aumento delle diseguaglianze negli ultimi decenni in Italia e in gran parte dei Paesi avanzati, la perdurante insufficiente attenzione alla sostenibilità ambientale richiedono un arricchimento del dibattito pubblico e delle strategie di politica economica.
In questa prospettiva, nell’agosto del 2016 il Parlamento con voto a larga maggioranza ha inserito nella riforma della legge di contabilità e finanza pubblica il benessere equo e sostenibile tra gli obiettivi della politica economica del Governo. Il DEF dovrà riportare l’evoluzione delle principali dimensioni del benessere nel triennio passato e, per le stesse variabili, dovrà prevedere l’andamento futuro nonché l’impatto delle politiche. L’Italia è il primo Paese avanzato a darsi un compito del genere.
In attesa delle conclusioni del Comitato per gli indicatori di benessere equo e sostenibile al quale la legge dà il mandato di selezionare e definire gli indicatori che i governi saranno tenuti ad usare per monitorare l’evoluzione del benessere e valutare l’impatto delle politiche, il Governo ha deciso di introdurre in via provvisoria alcuni indicatori di benessere già in questo esercizio. Accanto agli obiettivi tradizionali – in primis PIL e occupazione che continuano a essere indicatori cruciali al fine di stimare e promuovere il benessere dei cittadini – il DEF illustra l’andamento del reddito medio disponibile, della diseguaglianza dei redditi, della mancata partecipazione al mercato del lavoro, delle emissioni di CO2 e altri gas clima alteranti. Per le stesse variabili il DEF fissa anche gli obiettivi programmatici.".

7. Il secondo passaggio, invece, indica un "mettere le mani avanti": cioè si va ad anticipare che, rebus sic stantibus, poiché le riforme strutturali non funzioneranno, dato che, come sappiamo non sono veramente volte alla crescita e alla diminuzione della disoccupazione, e poiché, invece, le politiche di tagli della spesa e di incrementi della tassazione, - pur paludate in ossimoriche indicazioni su obiettivi opposti che, ben si sa, devono essere finanziati in pareggio di bilancio (cioè inasprendo tagli e tasse su altri settori, segnatamente del welfare, per fare quelle che, nel complesso, sono politiche dell'offerta, ignorando ogni effettivo sostegno alla domanda)-, vanno inasprite, rimanere nell'eurozona rischia di rivelarsi sempre più insostenibile. Perciò non rimane che invocare...

"La necessaria riforma dell’Unione europea

Il Governo italiano ritiene prioritario continuare a promuovere la propria strategia di riforma delle istituzioni europee. È necessaria una nuova governance che, accanto all’integrazione monetaria e finanziaria, dovrà ripartire dalla centralità della crescita economica, dell’occupazione e dell’inclusione sociale, introducendo strumenti di condivisione dei rischi tra i Paesi membri, accanto a quelli di riduzione dei rischi associati a ciascuno di essi. Una crescente condivisione dei rischi aumenta la capacità di aggiustamento e la flessibilità degli Stati membri agli choc, contribuendo a ridurre i rischi specifici degli stessi. La nuova governance dell’area dovrà incentivare politiche di bilancio favorevoli alla crescita, migliorandone anche la distribuzione tra gli Stati membri.
L’Europa dovrà dotarsi di meccanismi condivisi in grado di alleviare i costi delle riallocazioni del fattore lavoro e delle crisi che colpiscano un comparto o un territorio; uno strumento comune di stabilizzazione macroeconomica consentirà anche ai Paesi soggetti a vincoli di bilancio stringenti di adottare politiche anticicliche, facendo fronte all’aumento del tasso di disoccupazione in caso di choc asimmetrici. La maggiore condivisione dei rischi tra i Paesi non ridurrebbe gli incentivi all’adozione delle riforme nazionali. Invece, la mancata condivisione degli sforzi per far fronte a nuove sfide comuni rischia di mettere a repentaglio beni pubblici europei essenziali per il processo d’integrazione".

8. Insomma, si ammette che, allo stato, crescita economica, occupazione e inclusione sociale, NON SONO CENTRALI nell'eurozona. E si ammette pure che, sempre stando alle regole €uropee attuali, i "rischi" sono elevati (v. alla voce "Unione bancaria" e insolvenze sistemiche dovute proprio alle politiche fiscali di aggiustamento imposte dall'appartenenza all'eurozona). Le "politiche di bilancio favorevoli alla crescita" non sono, come viene apertamente detto, attualmente possibili, e sono affidate a un auspicio che, reiterato ormai da troppi anni, appare un vago wishful thinking.
Ma lo "strumento comune di stabilizzazione macroeconomica", cioè l'intervento fiscale federale, esterno ai singoli paesi "soggetti a vincoli di bilancio stringenti" non ci sarà mai e poi mai. Quindi, dentro L€uropa non ci saranno mai "politiche anticicliche"
La Germania non potrà mai e poi mai concordare a una modifica dei trattati che è contraria ai suoi interessi nazionali, secondo le sue prioritarie indicazioni costituzionali, e i trattati sono basati su clausole essenziali che vietano qualsiasi intervento fiscale federale in chiave solidale. Clausole che la Germania può legittimamente invocare come presupposti essenziali della stessa esistenza dei trattati, condivisi costantemente e senza ripensamenti (v. pp. 7-8), fino ad oggi, da parte di tutti i paesi partecipanti all'eurozona.

A meno che gli Stati dell'eurozona non se le finanzino da soli, alimentando con le proprie entrate una restituzione dei loro stessi soldi ma cedendo ulteriore sovranità e tramutando l'intervento solidale in condizionalità euroimposte e sempre più drastiche nel perseguire il tasso non inflattivo di disoccupazione e la crescita "sostenibile (qui pp. 9-10)"...della miseria generalizzata.

15 commenti:

  1. Un commento molto a latere, perché per il resto che dire? Tutto giusto come sempre e tutto terrificante come sempre.
    Tra l'altro: una delle frasi più divertenti lette qui è stato "l'ottimismo della volontà di Sapir": è proprio vero, non so come faccia, ma se c'è da qualche parte una pagliuzza di rosa lui ne fa un cielo. E sempre con inimitabile eleganza. La Francia non è acqua...

    Non so se il termine "Leuropa" sia una buona idea, soprattutto nel linguaggio parlato. Si fa già molta fatica a far distinguere UE e Europa e Europa come realtà geografica, storica, culturale. "L€uropa" va già meglio, perché attira l'attenzione sul problema della moneta, ma funziona solo per iscritto. Dire "Leuropa" è facile e rapido ma c'è un ma: finisce con l'accettare il linguaggio e il quadro di discussione e di interpretazione dell'avversario. "L€Uropa" o "L-U€uropa" funzionerebbero di più, ma sono veramente lambiccati.
    Fine dell'elucubrazione. Buon uovo di cioccolato e buona torta pasqualina.

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  2. Il tempo non sembra essere mai trascorso se la sagra della “tosatura di massa” rispunta incessante e senza tregua come un erpes, nel 1920-22 così come nel secondo dopoguerra fino ai nostri giorni: stabilità dei prezzi, pareggio di bilancio, sacrifici e rinunzie. Il nome scientifico de L€uropa è “erpes neoliberalis”, con Luigino €inaudi gran portatore sano del virus.

    Ripropongo perciò alcune elucubrazioni che, purtroppo, ritengo in tema con il “venerdì santo della Repubblica”:

    Che cos’è invero un biglietto? È una merce, come l’oro, come il frumento, come il ferro. A parità di domanda, a parità di ogni altra circostanza, come può il prezzo di una merce, come può dunque il prezzo del biglietto deprezzare se la quantità messa sul mercato non muta? Con un raccolto abbondante, il prezzo del frumento va giù, con un raccolto scarso va su; ma se il raccolto è invariato, grandi variazioni di prezzo non sono probabili.

    Così è del biglietto. Se si volesse farne rialzare il prezzo, bisognerebbe diminuirne la quantità al di sotto dei 20 miliardi, cifra su cui la quantità dei biglietti circolanti in Italia è fissa da anni. Se la quantità aumentasse, il prezzo del biglietto diminuirebbe ossia i cambi andrebbero su. Le variazioni in un senso o nell’altro dovrebbero essere notevoli e permanenti, poiché un aumento od un calo temporaneo di mezzo miliardo od anche di un miliardo non ha importanza, essendo un fenomeno naturale perfettamente spiegabile con le variazioni normali del fabbisogno monetario da una stagione all’altra, dalla metà mese alla fine mese, dalla morta alla fine anno. Non consta che il fabbisogno normale di moneta sia diminuito recentemente in Italia; ché anzi parecchi indizi persuaderebbero del contrario quindi, finché la circolazione rimane, come accade di fatto, sui 20 miliardi, perché il biglietto dovrebbe deprezzare?

    Questa è la migliore risposta che si può dare ai profeti di sventura. Il ministero delle finanze e gli istituti di emissione hanno tenuto fede alla politica di non aumentare la circolazione. È un loro grande merito; e bisogna lodarli per ciò ed incoraggiarli a proseguire. Tutto il resto sono amminicoli: lo sbilancio tra importazioni ed esportazioni, le coperture ritardate degli importatori, le mancate rimesse degli esportatori, la speculazione ecc. ecc. perdono importanza di fronte al punto essenziale. Il franco francese è in mala vista finché e se il tesoro francese è obbligato ad emettere biglietti nuovi. Nessuna forza umana è in grado di tenere su una merce, di cui la quantità cresce sul mercato …

    In Italia, a differenza della Francia, ha detto l’on. De Stefani, il tesoro da tempo non emette biglietti nuovi, il tesoro anzi rimborsa debiti con biglietti vecchi. Seguiti su questa via. Questa è la rocca, contro di cui è certo che nessun assalto può prevalere….De Stefani ha sempre resistito ed ha dichiarato di voler ancora resistere a domande allettanti ed a quadri lugubri. Ed è notoria la ragione per cui egli ha fatto bene a resistere e per cui bisogna incoraggiare governo ed istituti di emissione a continuare nella resistenza
    . (segue)

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  3. È una elementare verità economica, suffragata dall’esperienza del dopoguerra. Se i banchi di emissione, per ipotesi assurda, cedessero e consegnassero, contro cambiali, un miliardo, un solo piccolo miliardo, oltre i 20 già esistenti, agli industriali bisognosi di credito, per un po’ le cose parrebbero colorite in rosa. Costoro acquisterebbero le materie prime, pagherebbero operai, ecc. Ma in un secondo momento, i biglietti nuovi, aggiunti a quelli antichi, produrrebbero il loro consueto effetto. Essendoci 21 miliardi, invece di 20, di biglietti a correre dietro alle merci, queste crescerebbero di prezzo. Dopo un po’, gli industriali si troverebbero imbarazzati come prima; perché con un 5% in più di numerario, comprerebbero la stessa quantità di materie prime e di giornate di lavoro che acquistavano dianzi. Se prima non bastavano i 20 miliardi, dopo non basteranno più i 21. Gli industriali tornerebbero a presentarsi agli sportelli degli istituti di emissione a chiedere un altro miliardo, un altro piccolo innocente miliardetto. E così essi, senza avvedersene, spingerebbero il paese verso gli abissi dell’inflazione.

    Questa è la umile verità economica, in base a cui sinora il ministro delle finanze ed i direttori generali degli istituti di emissione hanno sempre negato ai postulanti di aprire una porticina nella rocca del limite insuperabile della circolazione. Ma è verità degna di essere ripetuta ogni giorno, perché il sofisma che la vorrebbe incidere si insinua inavvertito sotto le più inaspettate spoglie. Anche il pubblico deve cooperare alla difesa; perché trattasi della sola efficace difesa. Tutto il resto è orpello e vaniloquio. Niente è perduto, anche se il cambio ha avuto forti variazioni, finché il limite dei 20 miliardi è osservato. Penseremo poi se e quando convenga ridurre i 20 miliardi a 18 od a 16. Frattanto, quello deve essere il Piave della nostra resistenza
    ”. [L. EINAUDI, Il punto essenziale Corriere della Sera, 5 luglio 1925].

    E continuava:

    La difesa del pareggio e la difesa della linea del Piave della circolazione attuale sono dunque le due condizioni assolute senza di cui il problema economico non si risolve. Certo, è assai facile indulgere a spese pubbliche sedicenti incitatrici; certo è assai facile stampar biglietti. Col disavanzo e con la carta moneta, però, non si crea nulla. Si distrugge lo stimolo a risparmiare e si sottrae lo scarso risparmio residuo all’iniziativa economica privata per incanalarla in gravosi nuovi prestiti pubblici. Poiché, invece, il pareggio esiste e poiché da anni la quantità di biglietti circolanti non va oltre i 20 miliardi, difendiamo, ad ogni costo, questi due beni supremi.

    L’avvenire dell’economia nazionale dipende tutto dalla prosecuzione, ad ogni costo, di questa difesa
    ” [Le trincee della battaglia della lira, Corriere della Sera», 11 luglio 1925]. (segue)

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  4. E non si è più fermato fino ad oggi:

    … Il governo della lira non è dunque in mano di una persona piuttosto che di un’altra. È in mano di noi tutti. Siamo al bivio. Da una parte la strada facile dei prezzi politici, degli aumenti di salari monetari, dei lavori pubblici, della larghezza nello spendere conduce alle rive fiorite dell’inflazione e di li nell’abisso. Dall’altra parte la via dura delle imposte, delle rinunzie, delle riduzioni di spese pubbliche e private conduce verso l’alto, verso la ripresa, verso la prosperità duratura. Siamo in tempo a scegliere la via buona; e se la sapremo seguire con costanza la vittoria è certa.

    Non occorre molto sforzo di volontà per rinunziare alla via che conduce verso l’abisso. Basta ripetere quello che, in altri tempi, fecero gli uomini della generazione passata. Ricordate le cifre dei disavanzi dell’altro dopo guerra? A pronunziarle sembrano piccole: 23.3 miliardi del 1918-19, 11.5 nel 1919-20, 21 nel 1920-21, 17 nel 1921-22. Piccolissime in confronto col disavanzo che il valoroso ministro del Tesoro d’oggi, on. Campilli, ci ha annunziato per l’anno corrente: 619 miliardi di lire. Ma traduciamo, per renderle paragonabili, quelle cifre in lire aventi eguale potenza d’acquisto delle lire odierne; e constatiamo che nel 1918-19 il disavanzo fu di 759 miliardi, nel 1919-20 di 320, nel 1920-21 di 520, nel 1921-22 di 465 miliardi.

    Eppure qualche anno dopo, nel 1924, il ministro del Governo fascista poteva orgogliosamente annunziare che il suo Governo aveva riconquistato il pareggio. Vanto bugiardo: ché il pareggio esisteva già, a conti fatti, il 28 ottobre 1922 e esisteva perché i Governi che si erano succeduti dopo la fine della guerra avevano mirato a liquidare l’eredità di essa e a liberare il bilancio degli oneri permanenti i quali avrebbero condotto anche allora la moneta al disastro. Marcello Soleri, con diuturna fatica, era riuscito a persuadere il Parlamento nel 1921 a abolire il prezzo politico del pane e a porre così le fondamenta del pareggio.

    Ho fiducia nei regimi liberi che sono regimi di discussione. Gli italiani di oggi non tollereranno più che un nuovo tiranno, raccogliendo l’eredità dei loro sforzi, possa vantarsi di aver ricondotto il bilancio al pareggio e di aver salvato la lira. La salvarono essi, gli Italiani, nel 1920-22 e la salveranno di nuovo oggi. Ma è necessario che gli Italiani non aspettino la salvezza della lira da nessun Messia da nessun supposto taumaturgo, anche se preposto al governo della moneta; è necessario che essi non credano di dover la salvezza a nessun altro fuorché a se stessi.

    La salvezza è sicura, immancabile. Basta un atto di volontà; la volontà di rinunziare alle spese superflue, il che oggi vuol dire a tutte le spese nuove, sia a quelle già deliberate, sia quelle che fossero proposte in avvenire; e la volontà di sopportare i necessari sacrifici di imposte. Non voglio neppure porre la domanda; questa volontà noi l’avremo? Non la pongo perché all’imperativo categorico del dovere si risponde a un modo solo: obbedisco!
    ” [Chi è che governa la Banca d’Italia?, su Corriere d’informazioni, 31 marzo 1947].

    Per come siamo messi, Presidente, ci vuole veramente un miracolo democratico per la resurrezione della Repubblica. Buona Pasqua a tutti

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    1. La teoria quantitativa, ovvero il tentativo di spacciare la domanda di credito per domanda di merci in modo da consentire ai banchieri di limitarne a loro convenienza l’offerta nascondendosi dietro la “scarsità di risorse”. Una truffa ("È, in realtà, la vecchia frottola che le variazioni nella massa dell’oro esistente, in quanto aumentano о diminuiscono la quantità del medio circolante nel paese, dovrebbero far salire о scendere i prezzi delle merci all’interno di quest’ultimo.") liquidata nei suoi fondamenti empirici ("Poiché la domanda e l’offerta delle merci regola il loro prezzo di mercato, si vede qui chiaramente come sia errata l’identificazione da parte di Overstone della domanda di capitale denaro prestabile (o meglio, delle deviazioni della sua offerta dalla sua domanda) così come si esprime nel saggio di sconto, e la domanda di «capitale» reale.", anche perché “Il potere della Banca d’Inghilterra si manifesta nella regolazione del saggio di mercato dell’interesse.”) e smascherata nei suoi intendimenti economico-politici (aggiungo, con ulteriore affettuosa dedica ai marxisti su Marte: “Che un risparmio nazionale si presenti come profitto privato, non scandalizza affatto l’economista borghese, dato che il profitto in genere è appropriazione di lavoro nazionale. C’è nulla di più pazzesco del caso, per es., della Banca d’Inghilterra nel periodo dal 1797 al 1817, le cui banconote hanno credito solo grazie allo Stato, e che tuttavia si fa pagare dallo Stato, quindi dal pubblico, sotto forma di interessi su prestiti, per il potere che lo Stato le conferisce di convertire questi stessi biglietti in denaro, e poi prestarglieli?”) già da Marx nel terzo libro del Capitale (UTET, pagg. 680, 690-1), che è composto da manoscritti risalenti agli anni 1863-65.

      Se la teoria poteva conservare una qualche parvenza di plausibilità quando esisteva un aggancio all'oro, in tempi di moneta fiat la sua zoppicante sopravvivenza rappresenta veramente l'incarnazione stessa della zombie economics.

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    2. Proviamo allora con quella che, se la realtà dei fatti contasse qualcosa nel pubblico dibattito, dovrebbe esserne l'inamovibile pietra tombale, posta da Kaldor (Il flagello del monetarismo, Loescher, Torino, 1984, pagg. 65, 67, 69-70): "E quanto più riflettevo sulla questione, tanto più mi venivo convincendo che una teoria del valore della moneta, che fa riferimento a un’economia che utilizza una moneta-merce, non è applicabile a un’economia ove la moneta ha natura creditizia. Nel primo caso la moneta ha una sua funzione di offerta indipendente, basata sui costi di produzione; nell’altro caso, invece, la nuova moneta si forma in conseguenza, o come un aspetto, dell’estensione del credito bancario. Se, al livello dato o atteso del reddito o della spesa, dovesse essere creata più moneta di quanta il pubblico desideri tenerne, l’eccedenza verrà automaticamente estinta o con un rimborso di debiti o con una conversione in attività fruttifere di interessi.” quindi “La domanda varierà al variare del reddito, come in precedenza; ed è possibile che il tasso di interesse della banca centrale (il vecchio Bank Rate oggi denominato minimum Lending Rate) venga ritoccato verso l’alto o verso il basso per restringere o allargare il credito: ma ciò non modifica il fatto che in ogni istante, o in tutti i periodi di tempo, la quantità di moneta sia determinata dalla domanda, e il tasso di interesse sia fissato dalla banca centrale.”

      Con pesanti vincoli, però: “Ma la banca centrale non può chiudere lo «sportello dello sconto» senza mettere in pericolo la solvibilità del sistema bancario: deve mantenere la sua funzione di «mutuante di ultima istanza». Ed egualmente non può evitare che una riduzione dei saldi del Tesoro presso la Banca d’Inghilterra, dovuta a un eccesso delle uscite rispetto alle entrate, riappaia come un'aggiunta alla moneta bancaria ad alto potenziale. A meno che essa non rifiuti di onorare gli assegni emessi dal Governo di Sua Maestà: una decisione piuttosto drastica anche per i monetaristi.” Non però per gli europeisti, che sottraggono entrambe le prerogative a qualsiasi doverosità (anzi, ci mettono pure divieti) riconsegnando il controllo del processo di riproduzione sociale, dalle lettere e i “fate presto” a ciò che “dobbiamo credere e per cui dobbiamo affannarci” (affanno è proprio la parola giusta), al clero bancario e amen. ‘Stavolta però senza neanche bisogno dei manganelli: son bastati i media. Vedi il progresso?

      Buona Pasqua a te, Francesco, e a tutti.

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    3. Che bello sto passaggio dell'irraggiungibile Marx: « Gli istituti bancari sono istituzioni religiose e morali. »

      Viceversa, il moralismo cristiano di Einaudi è oltremodo ripugnante: « è necessario che essi non credano di dover la salvezza a nessun altro fuorché a se stessi. La salvezza è sicura, immancabile. Basta un atto di volontà; la volontà di rinunziare alle spese superflue, il che oggi vuol dire a tutte le spese nuove, sia a quelle già deliberate, sia quelle che fossero proposte in avvenire; e la volontà di sopportare i necessari sacrifici di imposte. Non voglio neppure porre la domanda; questa volontà noi l’avremo? Non la pongo perché all’imperativo categorico del dovere si risponde a un modo solo: obbedisco! »

      Il moralismo del banchiere, del liberale classico, è lo stesso paradigma morale del cristianesimo e dei monoteismi in genere.

      La morale del rentier.

      I "dieci comandamenti" sono l'imperativo categorico riservato agli schiavi:

      « 51. [...] gli uomini più potenti si sono sempre inchinati [...] di fronte al santo, come di fronte all'enigma del soggiogamento di se stessi e dell'ultima deliberata rinuncia. [...]
      Presentivano in lui [...] la forza superiore che voleva cimentarsi in un tale soggiogamento, il vigore della volontà che essi riconoscevano ed erano consapevoli di onorare il proprio vigore ed il proprio piacere di dominio: essi onoravano qualcosa di se stessi quando onoravano il santo.
      »

      « 55. Esiste una grande scala, con molti pioli, della crudeltà religiosa; [...] nell'epoca della morale dell'umanità, si sacrificò al proprio Dio gli istinti più forti che si possedeva, la propria "natura"; è questa gioia di festa a lampeggiare nell'occhio crudele dell'asceta, dell'uomo fanaticamente "contronatura" »

      Che goduria, l'epico filosofo immorale, Nietzsche, "Al di là del bene e del male"

      Fondamentale nel suo decostruttivismo, per chi ha la forza morale di maneggiarlo. Lo si sconsiglia ai depressi e, soprattutto, ai pecoroni di sinistra.

      (Potrebbero diventare liberisti e continuare a credere di essere progressisti...)

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    4. Caro Bazaar, come al solito spacchi il capello in quattro:

      … E allora dovremo noi rifarci a Kant, come da molti è ritenuto…? Dovremo rifarci a Kant e fondare sulle sue teorie morali gli ideali socialisti? Qui, mi sembra, ci si presenta subito una duplice domanda: possiamo noi accettare quelle vedute morali? E possono esse utilmente servire per giustificare le aspirazioni socialiste? Io non esito a rispondere decisamente no ad entrambe queste domande…

      Ora è noto come proprio le teorie morali di Kant e la filosofia dell’imperativo categorico rappresentino precisamente la parte più caduca, starei per dire meno kantiana, del pensiero di Kant, in quanto poggiano essenzialmente sull’errore fondamentale che inficia la veduta di lui, errore ormai definitivamente superato dalla speculazione posteriore. Kant infatti, attraverso la critica della conoscenza, distruggeva l’immediatismo della filosofia che l’aveva preceduto, così dell’empirismo di Locke come dell’idealismo di Leibniz e di Wolf, che concepivano la conoscenza soltanto come semplice recettività o semplice spontaneità, e affermava di contro ad essa l’unità originaria, la sintesi a priori di pensare e di essere, di universale e di particolare, di soggetto e di oggetto…

      La conoscenza, dunque, per Kant non arriva all’assoluto, ma si ferma al dualismo fra il mondo della realtà sensibile, il fenomeno, e il mondo della realtà soprasensibile o razionale, il noumeno, di cui il primo non è che la traduzione umana. Ma a questo mondo razionale, noi, che non possiamo averne conoscenza, apparteniamo colla parte migliore del nostro Essere: ecco un altro dualismo che si riflette nel campo dell’attività pratica, la quale ha un doppio carattere: sensibile e sottoposto alle leggi di causalità, intelligibile e libero. Ora, solo in questa sfera di libertà può aver valore la legge morale, ma questa sfera non può essere oggetto di conoscenza: di qui la necessità di presentarci, sia la legge morale, cioè l’imperativo categorico, come immediato. L’immediatismo, distrutto nella conoscenza, ritorna nell’attività pratica. L’errore è palese.

      Questo sembra non abbian tenuto presente i fautori d’un ritorno alla morale kantiana. Quali, infatti, le conseguenze dell’errore che le sta a base? Innanzitutto, questo: che essa è puramente astratta e formale; il grande Maestro, dopo avere saputo distinguere intelletto e ragione, riconoscendo l’indipendenza di questa, cadeva nell’esagerazione del razionalismo. La legge morale infatti, regnando sovrana nel solo mondo intelligibile, non può proporsi nessun fine sensibile (qualunque esso possa essere: anche quello, p. e., che noi giudicheremmo nobilissimo, di addolcire le sofferenze altrui), ma fa il bene solo perché vuole il bene.

      Ora è evidente che una cotale concezione morale, che rifiuta ogni movente del mondo dell’esperienza, è la più potente negazione del marxismo, che ripone nella prassi, cioè proprio nell’attività sensitiva umana, lo strumento dell’umano progresso, così nel campo economico come in quello intellettuale e morale. …Caduta così la possibilità di poggiare la nostra rivoluzione sulla morale kantiana, come principio etico-politico, potremmo metterla senz’altro da banda e darci alla ricerca di un altro principio che possa animare la nostra azione…
      (segue)

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    5. Dovrei ora, a legittima conclusione del lavoro sin qui svolto, tracciare una teoria morale dal punto di vista marxistico, ma lo farò solo per sommi capi. Per il marxismo non vi sono dati, ma solamente prodotti. Non v’è fuori di noi nessun Assoluto da realizzare; l’Assoluto, che siamo noi stessi, si realizza nel flusso eterno della vita. Non vi sono principi morali già bell’e formati, che possano scuotere le coscienze degli uomini, ma vi è la morale che si fa di continuo con indefinito processo. In ogni momento la morale non è che il divenuto d’un divenire che si perpetua nel futuro, e questo divenire è connesso a tutto il processo della società. Anche la morale è un prodotto della prassi, un prodotto, cioè, dell’uomo. Un prodotto che nel circolo eterno del rovesciamento della prassi può anche, in certi momenti, dominare il produttore, ma contro cui l’uomo insorge e si ribella necessariamente per aprire la via al cammino futuro. La morale non domina gli individui standone fuori, e non li guida nel loro cammino, ma è continuamente e faticosamente conquistata, e poi superata in uno sforzo ulteriore.

      Bandire quindi la crociata del Socialismo in nome d’un principio morale, porre questo come il prius; è assurdo dal punto di vista marxistico. Lo sforzo proletario di superare le attuali condizioni di vita per affermare la propria personale dignità non può discendere, per noi, da una concezione morale, ma è esso stesso la morale. Fuori dall’azione degli uomini, che è tutta quanta la storia, non v’è nessuna regola di morale superiore, nessuna supermorale, nessuna superstoria possibile.

      Non si dica che questa concezione è negatrice dei valori morali: tutt’altro. Sprezzando gli irraggiungibili ideali etici, e le debolezze sentimentali, trasportando la morale dalla regione eterea a quella dell’attività umana, essa le dà finalmente un contenuto concreto. Solo se sia considerata sotto il nostro angolo visuale, la morale può concepirsi come un fatto reale della vita dell’uomo, che di continuo la invera e la supera nel flusso perenne della storia. Essa si invera e si supera proprio nella ribellione dell’uomo, cioè nello sforzo di affermare la propria personalità soffocata, cioè nell’abito dell’intransigenza, nel culto della lotta, nell’educazione del carattere, nella rivendicazione della dignità. E tutto ciò è ben più morale che tutta la vacua precettistica fatta di sermoni moralistici. Perché la nostra morale ha perduto, sì, la sua rigida assolutezza, ma è diventata, umana. Ha cessato, sì, di essere eterna e superstorica, ma si realizza perennemente nella storia
      . (segue)

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    6. Fuor di questa concezione, si può essere umanitari, si può essere filantropi e moralisti quanto si vuole, ma non si è socialisti. Chi non accetta il concetto della morale che si fa, come prodotto spontaneo dell’insurrezione umana, ma la pone come principio imperativo cui questa insurrezione debba conformarsi, non sarà mai socialista, s’anco regolarmente inscritto e tesserato.

      Rinunziamo dunque all’assurda pretesa di aver conquistato noi socialisti l’eterno Assoluto, rinunziamo a considerare il socialismo come l’aspirazione della vera morale contro l’immoralità borghese, la società di domani come il trionfo della Giustizia contro l’iniquità, oggi imperante. Ricordiamo che, quando si pone un Assoluto, allora la scienza si fa religione, la credenza si fa dogma, il Partito si fa Chiesa, la fede si fa fanatismo.

      Dobbiamo avere il coraggio di riconoscere che la nostra morale è morale di classe, e allora solo potremo, in faccia alla sfrontata ipocrisia della beneficenza borghese, gridare alto e forte che la prima conquista morale è la conquista della dignità umana
      ” [L. BASSO, Valore morale del socialismo, in Critica Sociale, 1-15 gannaio 1925, 25-28].

      Anche questa è goduria: la differenza tra il ripugnante reddito di inclusione e l’art. 3, comma II, Cost. è servita. Ma il piddum€ non la capirà mai

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  5. A titolo di cronaca: per quanto riguarda la questione della condivisione dei rischi, da quello che ho colto partecipando ad alcuni recenti incontri pubblici del gruppo dei 20 ("Revitalizing Europe") coordinato dal prof. Paganetto, quello su cui in questa fase si sta 'lavorando' febbrilmente dietro le quinte, e su cui il governo italiano punta molto (se non tutto), è il progetto di cartolarizzazione di una quota consistente dei debiti sovrani, da impacchettare nei cosiddetti SBS (sovereign backed securities), bond di secondo livello assemblati (in versione senior e junior) e veicolati a cura dell'ESM o di 'strumenti' similari da istituire ad hoc (vd. ad es.quiper qualche ragguaglio in più).

    L'idea è naturalmente quella di spalmare il rischio e contemporaneamente spezzare il legame 'perverso' tra banche e debiti pubblici nazionali.

    In 'cambio' (ma, in assenza di condizionalità aggiuntive, non si capisce quale sarebbe ORA il vantaggio per i paesi core) l'Italia dovrebbe ottenere l'istituzione dell'agognato 'terzo pilastro' dell'unione bancaria. Con il che tutti vivrebbero finalmente felici e contenti.

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    1. Il che ci rinvia alle incrollabili certezze sul pareggio di bilancio come panacea di tutti i mali, alla faccia della dilagante disoccupazione, dei soprastanti brani di Einaudi, durante e dopo il fascismo (non notava alcuna differenza...lui)

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    2. È dura. Più allargo l'inquadratura, e contemporaneamente metto a fuoco i particolari, e i loro snodi di collegamento, e il loro rapporto funzionale e necessario con la coerenza del tutto, più è dura da accettare, e aumenta il senso di solitudine, e tutti quelli che mi circondano - e che si rifiutano di provare a capire, del funzionamento di questa distopia realizzata, almeno quel po' di essenziale che sarebbe alla loro portata - mi sembrano zombie.

      Ma oggettivamente mi rendo conto che l'anomalia sono io (e pochi altri), perché la vita, per come è stata agevolmente assecondata (se non ingegnerizzata) a essere, è altrove: fare e pensare e credere e apprezzare e temere quello che qualcun altro ha scelto per noi, con l'assoluta convinzione di essere noi a sceglierlo.

      Ma (ancora) non mi arrendo: fare lo scassaminchia sta diventando una seconda natura. Ad onta di quanto controproducente possa spesso (ma per fortuna non sempre) risultare.

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  6. Spesso sento dire: “sono europeista, ma non sono a favore di questa Europa, sono per un’altra Europa e voglio riformare l’Europa dall’interno”. E se le richieste dell’Unione Europea distruggeranno l’Italia prima che l’Unione Europea sia stata riformata?

    L’Italia all’interno dell’Unione Europea somiglia sempre di più a quelle mogli che vengono quotidianamente picchiate dal marito violento, ma non chiedono il divorzio perché convinte che un giorno riusciranno a redimerlo. Il marito umilia continuamente la moglie, dandogli della donnaccia che si deve emendare dalla vita dissoluta che ha condotto in passato, ma ciò che fa la moglie per lavare il peccato e compiacere il marito non è e non sarà mai abbastanza e queste storie d’amore spesso si concludono con l’uxoricidio.

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    1. Vero.
      Qui in più c'è che il marito violento non ha mai nascosto di volerlo essere e che anzi ogni cambiamento sarà nel senso di aumentare la dose di abusi:
      1) http://orizzonte48.blogspot.it/2017/03/maastricht-era-gia-tutto-previsto-da.html
      2) http://orizzonte48.blogspot.it/2017/03/60-anni-dal-trattato-di-roma-luropa-e.html (in specie v. qui, p.9)

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