martedì 28 aprile 2020

LA "STABILIZZAZIONE INSTABILE" DELL'EUROZONA E LE RISPOSTE €UROPEE: OBBLIGHI DI RESTITUZIONE E LA TRAPPOLA DELLA DISOCCUPAZIONE PERMANENTE



1. Abbiamo visto, nel capitolo precedente della "saga" della pseudo-mobilitazione wanna-be solidaristica dell'€uropa, che, essendo invece espressamente vietati sia la solidarietà fiscale (art.125 TFUE) che il bail-out degli Stati da parte della Banca centrale (art.123 TFUE), gli Stati aderenti all'eurozona possono solo rivolgersi al finanziamento sul mercato e a condizioni di mercato non privilegiate (art.124 TFUE), cioè rigorosamente adeguate al profilo di rischio-Paese. Locuzione che, rispetto al metodo di finanziamento degli Stati sul mercato, cioè l'emissione di titoli di debito pubblico in forma di securities, implica la duplice valutazione:
a) ordinaria e principale: cioè quella relativa alla capacità di restituzione degli interessi promessi fino alla scadenza del titolo; 
b) straordinaria e "eventuale": quella della capacità di restituire, sempre alla scadenza, la sorte capitale presa in prestito
Ulteriore chiarimento (che, per molti, non è inutile ribadire): in condizioni istituzionali "normali", cioè NON proprie dell'eurozona - caratterizzata dal divieto di intervento della BCE in ogni forma diretta, sia come prestatore di ultima istanza al collocamento "primario" dei titoli, sia come vero e proprio "tesoriere" che monetizzi il fabbisogno dello Stato interessato -, la valutazione della capacità di restituzione degli interessi è interconnessa con quella di restituzione del capitale
Infatti, la banca centrale (nazionale), fornisce, quale istituto dotato del potere illimitato di emissione della valuta in cui sono denominati i titoli statali, una garanzia implicita sulla restituzione del capitale (purché appunto in tale valuta); inoltre ciò, come corollario logico (il più contiene il meno), tende a fondare una capacità di intervento preventivo in forma di acquisto dei titoli, tale da contenere anche il livello degli interessi.

2. Ovviamente, questo potere di emissione illimitata della valuta nazionale, non esclude un diverso profilo (sempre in condizioni istituzionali "normali"): e cioè che invece esistano dei limiti alla garanzia  e cioè che sia essa stessa, (e non già la facoltà di emissione), ad essere limitata in circostanze peculiari (ma non inconsuete, specialmente se l'assetto istituzionale dell'economia internazionale è orientato alla libera circolazione dei capitali). E ciò si verifica; 

i) quando i titoli di debito emessi dallo Stato sono denominati in valuta estera (es; in dollari) rispetto a cui la banca centrale nazionale non ha potere di emissione;

ii) quando lo Stato interessato (nel senso di ordinamento socio-economico complessivo e non di Stato-apparato con la sua specifica e diversa contabilità) presenta un saldo settoriale della contabilità nazionale, verso l'estero, non episodicamente negativo e, ancor di più, quando lo Stato medesimo registri una posizione patrimoniale netta sull'estero, altrettanto negativa
Questi due dati contabili dell'economia reale e finanziaria di uno Stato, determinano che esista una serie di obbligazioni attive e di diritti di pagamento, a favore di soggetti esteri, che sono denominati (cioè "estinguibili") nella valuta estera di tali soggetti creditori; valuta estera di cui i soggetti debitori nazionali - e, inevitabilmente, nella gestione dei pagamenti relativi-, il sistema bancario nazionale, non dispongono (se non per via di riserve accumulate a seguito di precedenti esportazioni nette e di altri accrediti di valuta estera accettata come mezzo di pagamento internazionale).
Le esaminate esigenze di pagamento verso l'estero, in valuta estera, si convertono:
iia) (in linea generale) in un eccesso di offerta della valuta nazionale, quindi della moneta che viene appunto "offerta" in conversione (per il pagamento) nella valuta dei Paesi creditori (che viene invece "domandata"); e questo determina una svalutazione della moneta nazionale, che porta ad un appesantimento del debito (privato, commercial-finanziario) a carico dei debitori nazionali, fino al punto che questi divengono progressivamente incapaci di far fronte ai pagamenti (di quanto importato o di quanto preso in prestito dal sistema finanziario estero per pagare le importazioni).
In tal caso, il sistema bancario nazionale diventa, da una parte, debitore insolvente del sistema bancario estero, dall'altro, creditore verso i soggetti nazionali importatori e/o finanziati dall'estero; ma creditore di soggetti nazionali, a loro volta, inabilitati a restituire ed in misura crescente. 

iib) La conseguenza di ciò è che lo Stato la cui posizione netta sull'estero negativa implica (per il suo livello eccessivo e durevole) questa difficoltà dei privati, (cioè commerciale e finanziaria) di restituzione dei debiti commerciali contratti con l'estero nonché di fronteggiare il deflusso dei capitali investiti in strumenti finanziari o con "logica" finanziaria (si considera un "livello di guardia" di tale situazione una posizione patrimoniale sull'estero negativa superiore al 27-30% del PIL), deve intervenire con la spesa pubblica per rifinanziare il proprio sistema bancario e finanziario in generale (sistema oberato di restituzioni in valuta estera, e quindi in grave difficoltà nei pagamenti verso l'estero, cioè che consolida forti passività pregresse, e, al contempo, diviene creditore di soggetti nazionali in sofferenza, cioè subendo la svalutazione dei propri attivi).
Ma tale Stato può fare ciò solo emettendo nuovo debito in una valuta che, contemporaneamente, è soggetta a una crescente svalutazione (in quanto è in sovraofferta sul mercato valutario).
Da ciò deriva, com'è intuitivo, che, a fronte dell'aspettativa di costante e crescente svalutazione della valuta nazionale, lo Stato si trovi, nel finanziare il suo "tentativo" di salvataggio e, quindi, nel collocare i suoi titoli, a dover corrispondere  interessi crescenti ai mercati finanziari sottoscrittori, cioè una remunerazione capace di coprire il rischio di svalutazione del cambio durante tutto il tempo di durata del titolo

iic) Non solo: in un processo circolare, la svalutazione così innescata determina, nei mercati finanziari, l'aspettativa di un crescente rischio di cambio. La stessa svalutazione in sè induce, a sua volta, una crescente esigenza di intervento fiscale di salvataggio, bancario e dei settori indebitati con l'estero (attraverso la partecipazione al capitale o il prestito provenienti dagli investitori finanziari esteri, che tendono a rientrare dei propri diritti di credito): questo deflusso di capitali determina il fenomeno per cui si rafforzerà l'aspettativa della emissione di quantità sempre più elevate di titoli da collocare sul mercato e con un rischio di cambio sempre più elevato
Per questo motivo, come abbiamo visto a suo tempo, si ritiene che lo "spread", verificabile in termini generali rispetto a qualsiasi Stato che voglia finanziarsi sul mercato finanziario internazionale, dipenda prevalentemente dalla posizione patrimoniale netta sull'estero (e in misura minore, ma non irrilevante, dalle prospettive di crescita del Paese).
iic-bis) Vale la pena di aprire una finestra di approfondimento sul punto perché ci tornerà utile a comprendere l'intera problema dell'eurozona e del suo approccio all'attuale crisi economica da pandemia.
Com'è noto, la crisi finanziaria di solvibilità verso l'estero di uno Stato viene (tendenzialmente) risolta, nell'ambito dell'attuale assetto economico-monetario internazionale, dall'intervento del Fondo monetario internazionale
Un articolo del 21 aprile sul Financial Times, dal titolo "IMF Belt tightening appeals are wrong way to manage the crisis" riassume il quadro della questione, cioè l'impostazione normalmente seguita dal FMI, e ne indica i limiti nel fronteggiare l'attuale crisi (l'autore, David Lubin, è il direttore del settore "mercati emergenti" a Citigroup).
Si evidenzia come il FMI, nelle circostanze (di crisi finanziaria di uno Stato) ordinarie, si configuri come "prestatore di ultima istanza" per gli Stati. Ruolo che dentro l'eurozona è grosso modo attribuito all'ESM; intanto rammentiamolo. 
Lubin sottolinea che il finanziamento predisposto di recente dal Fondo (per 100 miliardi di dollari) per consentire sospensioni e sgravi dei pagamenti in restituzione (al Fondo stesso quale creditore delle linee di liquidità già erogate) da parte dei paesi più poveri, è "inerte" a causa dell'idea di "condizionalità" insita nei rapporti tra il Fondo stesso e i paesi "beneficiari". Questa condizionalità implica che il credito sia concesso in cambio di uno "stringere la cinghia" a carico del paese destinatario. Sostanzialmente si impone che il governo di tale paese riduca fortemente la sua spesa pubblica. La condizionalità persegue tre obiettivi
1) stabilizzare il peso del debito pubblico per assicurare che le "risorse" rese disponibili dal Fondo non vadano sprecate (e già questo concetto implica che la spesa pubblica, normalmente corrispondente al reddito privato dei cittadini che ne sono destinatari, sia un "costo"; ma lo è solo dal punto di vista di un creditore esterno preoccupato principalmente della restituzione e conscio del fatto che quel reddito, in precedenza, era eccessivamente rivolto a consumare/acquistare beni prodotti all'estero e non entro il paese interessato); 
2) limitare il fabbisogno di valuta estera dell'intera economia di quel paese, e la cui mancanza ha spinto il relativo governo, per l'appunto, a ricercare l'assistenza del FMI (e questo indica che l'austerità fiscale imposta come "condizionalità" mira essenzialmente a correggere il deficit con l'estero mediante compressione della domanda interna); 
3) garantire che il FMI sia ripagato
E qui la spiegazione di Lubin diventa interessantissima, proprio per definire la ragione giustificatrice della condizionalità legata agli strumenti di credito variamente escogitati per l'eurozona e far capire perché tale condizionalità debba essere immancabile. Ed infatti, poiché il Fondo non riceve in garanzia (della restituzione) alcun collaterale "fisico" dal paese "assistito", lo "stringere la cinghia" (cioè la virtù di una rigorosa austerità fiscale imposta dall'esterno), agirebbe come una "sorta di collaterale". Vale a dire, "aiuta a massimizzare la probabilità che il Fondo non soffra perdite nel proprio portafoglio di prestiti, perdite che avrebbero conseguenze negative sul suo ruolo all'interno del sistema monetario internazionale".
Lubin aggiunge poi che la prosecuzione di tale approccio in questa fase è completamente "inappropriato": data la tipologia della crisi di liquidità determinata dalla pandemia, cioè, i vari "paesi sono colpiti non perché abbiano indugiato in un eccesso di spesa pubblica irresposanbile che abbia portato a una carenza di valuta estera" per ripagare le importazioni (e quindi, in definitiva, il livello di reddito) che non si potevano permettere. Pertanto "appare quasi grottesco che il Fondo chieda ai paesi finanziati di tagliare la spesa pubblica in un momento in cui, come non mai, una magigore spesa è necessaria per impedire alle persone di morire o di cadere in una trappola permanente di disoccupazione".
Oggi, secondo lo stesso Lubin, la soluzione alla crisi consiglia che il FMI proceda alla concessione di "unconditional liquidity" (liquidità priva di ogni condizione). E questo, come sappiamo, riguarda strettamente anche il genere discussioni e di soluzioni che vengono svolte tra gli Stati appartenenti all'eurozona.
Insomma, volendo trovare delle sintetiche proposizioni riduzionistiche dell'essenza del ragionamento di Lubin:
- il Fondo presta, in definitiva, ed impone un obbligo di restituzione immancabile e non temperabile, proprio perché il prestito è l'occasione per garantire tale restituzione mediante delle condizionalità che obblighino a ristrutturare l'economia, e in particolare l'azione dello Stato "assistito", riducendo la spesa pubblica per ridurre il reddito e quindi le importazioni (cioè le esigenze di pagamento in valuta estera che il Paese aveva incautamente contratto);
- la "trappola della disoccupazione permanente" (ed anche il peggioramento della qualità della vita sociale, in termini di salute, aspettative di vita, livelli di assistenza sanitaria, servizi sociali e pubbliche prestazioni in generale) derivante dall'imposizione di queste condizionalità a garanzie dell'integrale restituzione, è accettabile in condizioni "ordinarie": ma risulterebbe moralmente sconsigliata se una crisi di liquidità fosse "non imputabile" alla colpa (non altrimenti emendabile) dell'aver vissuto al di sopra delle proprie possibilità.
Ebbene, come vedremo - ma come stanno evidenziando molti dei maggiori economisti e commentatori al mondo, tra cui De Grauwe , Wolf e Munchau -, nei negoziati relativi alla "risposta" dell'eurozona alla crisi economia da pandemia, sta prevalendo l'impostazione tedesca, e dei suoi alleati, per cui ogni assistenza di liquidità agli Stati debba passare essenzialmente per dei prestiti, con l'integrale obbligo di restituzione, che sia garantito da espresse o, comunque, necessariamente implicite forme di condizionalità
Lungi dal concepirsi un rifornimento di  unconditional liquidity, in cui la prima caratteristica essenziale sia l'assenza dell'obbligo di restituzione in sé (cioè di ciò che può essere garantito SOLO attraverso le condizionalità fiscali-austere), queste risposte tendono tutte, complessivamente, ad aggravare la situazione debitoria degli Stati dell'eurozona, aggiungendo all'indebitamento sui mercati quello con i vari "prestatori" Ue, ancor più pesante per la sua condizionalità fiscale, più intensa e onerosa di quella che chiederebbero i mercati prestatori (almeno, com'è evidente, finché duri il sostegno della BCE con gli acquisti di titoli del debito pubblico).

iii) Dunque, all'interno dell'eurozona, la medesima situazione sopra esaminata, cioè quella relativa ai riflessi della posizione patrimoniale netta negativa sul costo del finanziamento statale sul mercato finanziario, presenta della caratteristiche peculiari.
E dunque: mentre per quanto riguarda le passività commerciali (e finanziarie più in generale) verso il complesso dei paesi esterni all'eurozona, la situazione è (tendenzialmente) quella riassunta al punto iia) precedente), le esigenze di pagamento (commerciale e finanziario) verso quella componente dei creditori esteri che va individuata nella atipica (in realtà "ambigua") figura degli Stati appartenenti all'eurozona, portano a un fenomeno simile ma con delle peculiarità istituzionali, cioè dovute alle regole dei trattati, se vogliamo, persino peggiorative rispetto alla situazione ordinaria.

iiia) In sostanza, (l'esempio più eloquente di quanto stiamo per illustrare è quello della Grecia), il debito "esterno", - commerciale o consistente nell'obbligo di restituzione del capitale o del prestito erogati dall'investitore/operatore finanziario estero-, corrispondente a una posizione patrimoniale netta fortemente negativa verso Stati dell'eurozona (es; Germania e Francia; e ci sarebbe sempre da chiedersi, a monte, perché una tale situazione possa risultare così frequente e vistosa dentro l'eurozona...), comporta che i debitori commerciali nazionali, e le banche nazionali di cui i primi si servono, non abbiano la liquidità in euro per poter pagare
L'eccesso di importazioni e di contrazione di finanziamenti con operatori commerciali e finanziari di altri paesi dell'eurozona, ha portato ad un deflusso di euro per pagamenti; ovvero, prima ad un afflusso creditizio eccessivo al quale il creditore estero, paese dell'eurozona, può poi decidere di por fine chiedendo inoltre la restituzione di quanto in precedenza prestato: c.d. sudden stop, in cui si pone in dubbio la capacità di restituzione del "paese debitore" (in euro e da parte del creditore altrettanto in euro).
Come sappiamo, in questa situazione interna all'eurozona, si verifica una singolare operazione di deresponsabilizzazione ex parte creditoris nell'erogazione del finanziamento al debitore: si imputa tutto il "moral hazard" al debitore (che sostanzialmente, sarebbe un incosciente che vive allegramente "al di sopra delle sue possibilità" ovvero un "insolvente fraudolento"). 

iiib) Lo Stato di appartenenza dei debitori non dispone, ovviamente, di una propria banca centrale che possa emettere euro con cui rifornire il sistema bancario nazionale al fine di rimborsare i creditori. E, d'altra parte, è anche intuitivo che non sarebbe logico che la Germania dovesse accettare in pagamento una valuta, sia pure denominata "euro", emessa a discrezione da un altro Stato, non per le esigenze di liquidità comuni e indifferenziate dell'intera eurozona, ma emessa solo per garantire l'adempimento debitorio commerciale della Grecia e, per di più, senza incorrere in svalutazione. 
Ma il gestore dell'equilibrata distribuzione della liquidità in euro tra i vari paesi aderenti, cioè la BCE attraverso il sistema dei pagamenti denominato Target-2, (che, a sua volta pone numerosi problemi, di cui abbiamo molto parlato), come sappiamo è soggetto al divieto di finanziamento diretto degli Stati e quindi la BCE, e la stessa moneta, devono risultare "neutrali" rispetto alla dinamica fiscale degli Stati, cioè alle condizioni di (non eccesso di) offerta di titoli da finanziare, come pure rispetto alla spontanea domanda di titoli da parte dei mercati finanziari. 

iiic) L'equilibrata distribuzione della liquidità in euro tra i paesi dell'eurozona, in effetti, dovrebbe dipendere, secondo il sistema complessivo delle regole europee, dal libero mercato, dei capitali e di merci e servizi: cioè dall'efficiente allocazione delle risorse derivante dalla forte competizione (commerciale, così come nel contendersi la domanda dei mercati finanziari) tra gli Stati, che li dovrebbe indirizzare a costanti politiche di allineamento dell'inflazione su quella del paese più competitivo (casualmente, la Germania) e quindi dovrebbe condurre tutti a ricercare l'attivo, o quantomeno, l'equilibrio di lungo periodo dei conti correnti commerciali con gli altri paesi dell'eurozona. 
E la stabilità dell'inflazione - o meglio, della spinta deflattiva competitiva: cfr. art.3, par.3 del TUE, norma fondamentale del paradigma socio-economico dei trattati -, viene imposta attraverso la "disciplina di bilancio", cioè tramite il rispetto di rigorosi parametri fiscali, tra cui il tendenziale pareggio di bilancio, in cui l'effetto (molto teoricamente) perseguito è l'azzeramento costante delle differenze di competitività tra Paesi e, se necessario, del deficit commerciale con l'estero, attraverso la continua sferza della compressione della domanda interna e del livello di occupazione e quindi salariale

iiid) Il principale, se non unico, compito di governance sia degli Stati dell'eurozona che delle istituzioni Ue che li coordinano (Commissione e BCE, in particolare) è quello di ottenere questo effetto complessivo riducendo la spesa pubblica e inasprendo la pressione fiscale (operazione che Draghi stesso ha chiamato "internal devaluation v. qui, p.1"). E tutto questo assomiglia terribilmente, come sistema "a regime" e preventivo (cioè a prescindere dal verificarsi attuale di una crisi entro l'eurozona), al meccanismo derivante dalle condizionalità imposte dal FMI "in occasione" del prestito di cui pretende l'immancabile restituzione.
Dunque, lo Stato del paese debitore con l'estero (nell'eurozona) si ritrova: 
a) privo del sostegno e della garanzia della banca centrale nel finanziarsi per poter fornire liquidità al sistema bancario ed economico nazionale; 
b) con un sistema bancario fortemente indebitato con l'estero, ma in euro "escussi" da sistemi bancari di altri paesi dell'eurozona, e perciò incapacitato a creare moneta creditizia e a sostenere lo stesso debito pubblico emesso dallo Stato.
In sostanza, lo Stato dell'eurozona che sia debitore commerciale e finanziario (cioè, per la precisione, i cui cittadini siano complessivamente debitori a titolo privato) di altri Stati dell'eurozona, (cioè di operatori commerciali e finanziari privati di tali Stati), si troverà a dover comunque soccorrere il proprio sistema bancario, in difficoltà nel ripagare i sistemi bancari esteri (sia pure in euro)

iiie) Ed infatti,  - rammentando che è precluso ogni trasferimento interstatale all'interno dell'eurozona, da parte di un'inesistente autorità fiscale federale, in virtù dell'art.125 TFUE - un debito commerciale e finanziario tra paesi dell'eurozona è ripagabile solo se il paese debitore si procuri la provvista in euro o attraverso il continuo, quanto improbabile, rinnovo delle linee di credito da parte del sistema bancario del paese creditore (soluzione che, divenuta "eccessiva" si converte nel suo opposto, il sudden stop, cioè nella richiesta di rientro del credito già concesso e nella cessazione dell'erogazione di ulteriori linee), oppure attraverso l'intervento dello Stato che fornisca la liquidità al proprio sistema bancario facendosela, a sua volta, prestare dal mercato
Finché conservi l'accesso al mercato...

iiif) Ed ecco allora quello che accade, o "rischia" di accadere, ai nostri giorni, e notevolmente acuito dalla crisi economica determinata dal lock-down conseguente all'emergenza del covid-19:  a seguito della mancata, ovvero delimitata e temporanea, garanzia della BCE (cioè di una garanzia che non sia piena e illimitata) e dell'applicazione (in prospettiva, ed in quanto non definitivamente rimessa in discussione) da parte della Commissione dei suoi poteri coercitivi circa il rispetto dei parametri fiscali (potenzialmente sempre attuali, per quanto ora solo transitoriamente sospesi e che, come abbiamo visto, servono principalmente a garantire l'allineamento competitivo e quindi a prevenire e ad aggiustare l'indebitamento commerciale con l'estero), i mercati a un certo punto percepiscono l'insostenibilità socio-economica del paradigma dell'eurozona, per uno Stato che abbia intrapreso l'aggiustamento dei conti con l'estero e, correlativamente, della propria posizione patrimoniale netta sull'estero. 
Questo Stato dedito all'aggiustamento, infatti, avrà deflazionato, attraverso un'incessante austerità fiscale, in misura tale da aver compresso la domanda interna fino al punto da falcidiare la propria base produttiva, il proprio sistema infrastrutturale pubblico e, in generale, la propria capacità di un ritorno equilibrato alla crescita (potendo solo puntare sulla crescita export-led e sull'esigenza di non ripetere una crisi della bilancia dei pagamenti all'interno dell'eurozona). 

iiig) I mercati sconteranno (com'è accaduto in particolare a partire dal 2018, in cui si sono assommati tale tensione politica interna e la crisi del paradigma export-led per il segnalato "incepparsi" della globalizzazione convertitasi in neo-stagnazione secolare) la tensione insopportabile tra la necessità sociale di tale Stato di intervenire a sostegno della propria crescita e occupazione, e quella di completare la svalutazione interna per l'intero allineamento competitivo necessario, così come richiesto dalle prescrizioni continue e martellanti della sorveglianza di bilancio della Commissione Ue. In un clima di sospetto politico reciproco parossistico, la Commissione e la BCE tenderanno a stigmatizzare ogni scostamento, non concordato e comunque sgradito, da questo paradigma, e, all'interno del paese "attenzionato", l'opposizione sociale, e poi politica, a questa imposizione eteronoma di indirizzo politico-fiscale, tenderà ad aumentare. 

iiih) In definitiva, ormai, dopo anni e  anni di aggiustamenti fiscali e internal devaluation (sempre ritenuti insufficienti nonostante la tensione sociale crescente e la povertà dilagante in paesi un tempo prosperi), i mercati prezzano con lo spread le probabilità che un Paese valuti la (oggettiva) convenienza di uscire dall'eurozona e, quindi, di arrivare a una ridenominazione del debito pubblico nella nuova valuta nazionale, che adotterebbe come conseguenza
Siccome poi la tollerabilità di questa situazione dipende dal livello di intervento della BCE nell'acquistare i titoli del debito pubblico di questo paese, e di dare perciò un "minimo" di sollievo fiscale della situazione economica (grazie al contenimento dell'onere degli interessi), l'altra faccia del suddetto primo parametro di apprezzamento dello spread (cioè le probabilità di €xit) è il grado discrezionale di propensione (in definitiva "politica") della BCE ad intervenire in modo consistente e durevole sui titoli di un certo Stato (specialmente l'Italia, com'è noto, ma non solo, nell'attuale situazione (sul punto, v. qui, p.3)

3. Ora, almeno a partire dall'inizio del programma di acquisti da parte della BCE, nel 2015 (e quindi anche delle banche centrali nazionali, parte del SEBC, coinvolte nel programma di acquisto), - e, tralasciando per semplicità il problema, non certo trascurabile, della contraddittoria simultanea introduzione dell'Unione bancaria (qui, pp. 3-4) -, il sollievo fiscale minimo formalmente perseguibile, e solo come effetto collaterale, ritenuto tollerabile (dalla stessa Corte Ue con sentenza dell'11 dicembre 2018), di una misura di politica monetaria, sollievo consistente nel contenimento dell'onere degli interessi, si è rivelato non essere sufficiente e ha portato, in modo crescente, per quanto surrettizio (in quanto elusivo del divieto di bail-out e di solidarietà fiscale contenuto nel "solito" art.125 TFUE e nel divieto di finanziamento diretto e in monetizzazione, di cui all'art.123 TFUE), alla trasformazione dello strumento degli "acquisti" in una para-monetizzazione. Una para-monetizzazione, appunto, lasciata alla ampissima discrezionalità de facto della BCE (cioè elusiva degli articoli citati) e come tale instabile e revocabile ad nutum.

Si verifica perciò una situazione di stabilizzazione instabile, in cui il mantenimento del debito pubblico acquistato da parte della BCE all'interno del suo bilancio, con il tacito (ma revocabile) impegno a reimpiegare i titoli scaduti in acquisti di nuovi titoli dello stesso Paese beneficiario, costituisce, allo stesso tempo, un incentivo a mantenere l'appartenenza all'eurozona e, in funzione della sua potenziale ed imminente insufficienza e/o, peggio, dell'immanente retrattabilità legale di tale impegno, (ad effetti disastrosi sostanzialmente costrittivi ad un default sul nostro debito pubblico), anche a considerare invece l'uscita da essa.

4. Ma l'Italia non è la Grecia, si dice. 
E non è soltanto perché l'Italia "is too big too fail" (aspetto che non pare affatto spaventare i falchi tedeschi, olandesi e austriaci, nel considerare le risposte "comuni" alla crisi economica, e intrinsecamente, di potenziale liquidità e finanziabilità sul mercato che potrebbe riaffacciarsi nell'eurozona).
Lo squilibrio commerciale all'interno dell'eurozona, infatti, è stato dall'Italia corretto abbondantemente; in termini più ampi, la nostra posizione patrimoniale netta sull'estero, dal punto di caduta negativo del settembre 2011, è risalita fino all'attuale azzeramento; almeno stando al sotto riportato grafico tratto dal Bollettino del 20 aprile 2020 di Bankitalia e riferito al 31 dicembre 2019.

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5. Ma questa avvenuta correzione non basta alla German-dominance che soprassiede all'applicazione delle regole dell'eurozona; ci dicono: "i conti con l'estero sono stati aggiustati ma non la competitività", cioè abbiamo avuto un'insufficienza della svalutazione interna ai fini dell'allineamento alle dinamiche salariali dei paesi virtuosi dell'eurozona.
Ma si tratta di un'accusa strumentale, come stiamo per vedere. Ed è agganciata essenzialmente all'ammontare del nostro debito pubblico rispetto al PIL: un problema che, una volta che si sia privi di debito con l'estero, e quindi di esigenze di aumento dell'intervento statale allo scopo di soccorrere il settore bancario e quelli comunque soggetti al controllo degli investitori finanziari esteri in ritirata, risulta di natura puramente istituzionale, cioè artificiale.
L'alto debito pubblico in rapporto al PIL è tale, e cioè l'Italia non riesce a correggere anche questo aspetto, perché le regole applicate ai paesi appartenenti all'area euro, - come quelle del tetto del 60% e del pareggio di bilancio, così come quelle (sul ruolo della BCE) del divieto di bail-out degli Stati e della monetizzazione -, in origine escogitate in correlazione alla summa degli obiettivi dell'eurozona codificati nel citato art.3, par.3, del TUE, cioè finalizzate a mantenere la stabilità dei prezzi (e l'Italia registra da almeno 7 anni un'inflazione inferiore a quella della Germania e comunque alla media dell'eurozona) e la capacità di esportare (e l'Italia è da circa 7 anni in attivo nel saldo delle partite correnti), sono ormai applicate in termini puramente ideologici e moralistici (e certamente contrari al principio lavoristico e di intervento attivo dello Stato per garantire la piena occupazione, che sono i fondamenti della nostra Costituzione).
In pratica, tra fiscal compact, calcolo correlato dell'output-gap, riforme deflattive del lavoro imposte dai Country Report, tagli strutturali alla spesa corrente (tranne accorgersi degli effetti durante un'emergenza sanitaria), queste regole fiscali dell'eurozona hanno impedito all'Italia di crescere

6. Lo shock della crisi del debito pubblico, impostaci nel 2011-2013 con la "cura Monti", e successivamente l'Unione bancaria, hanno indotto gli italiani a esportare i capitali e a immobilizzare il risparmio sulla base delle attese di crescenti limitazioni fiscali del reddito e pertanto sull'esigenza difensiva di poter far fronte a nuove tasse o a spese private derivanti dal taglio delle prestazioni pubbliche. 
Investire in Italia, e dunque convertire lo stock nazionale di risparmio in capitale produttivo è impedito dal continuo consolidamento fiscale e dalla carenza di aspettative di crescita della domanda interna; un sistema economico affidato soltanto alla crescita export-led comprime l'inflazione e quindi i salari e investe all'estero il (pur cospicuo) surplus realizzato. 
La crescita ristagna intorno allo zero, e anche deficit pubblici minimi, rispetto a tale ristagno, implicano una traiettoria del rapporto debito/PIL in crescita.

7. Di questo aspetto rende conto persino Standard & Poor’s nel Report di venerdì 24 aprile che ha confermato ai titoli italiani il rating bbb. Citiamo testualmente da un'attenta lettura che commenta i passi salienti di tale Report:
- “gli attuali assetti dell’Eurozona non sono ottimali”. Sì, certo, Bce “is backstopping”, sta sostenendo il Btp. Ma ciò vale per qualunque Paese del mondo. Inoltre Bce è incapace di raggiungere “l’obiettivo di inflazione (…) Tra oggi e il 2022, prevediamo che l’inflazione in Italia rimarrà significativamente al di sotto dell’obiettivo del 2 per cento circa della Bce”. In una parola, l’Eurozona genera uno “svantaggio rispetto alle aree monetarie più antiche come gli Usa e la Gran Bretagna e, per l’Italia, “comporta una perdita di flessibilità monetaria quando le tendenze della competitività divergono da quelle degli altri grandi membri dell’Eurozona”.
Meglio guardare altrove.
E non si fa gran fatica, perché il concetto è scritto chiaro: “L’economia diversificata e ricca, il credito netto sull’estero ed il debito privato più basso del G7”.
Cominciamo dal fondo: “I livelli del debito privato italiano sono i più bassi, sia nel G7 che nell’Europa occidentale. Alla fine del 2019, il debito di famiglie e società non finanziarie sommava al 110 per cento del Pil contro il 114 in Germania, il 150 in Spagna e il 250 nei Paesi Bassi”, “i livelli di debito privato (famiglie più imprese) sono i più bassi nel G7 e i più bassi dell’Europa avanzata”. Non basta? “Incluso il debito del settore finanziario, i livelli complessivi del debito privato in Italia sono diminuiti di 48 punti di Pil, addirittura più del debito pubblico, che è aumentato (27 punti), dall’inizio della crisi finanziaria globale”.
Al punto che, “uno dei motivi della bassa crescita dell’Italia è la propensione del settore privato a risparmiare piuttosto che a spendere” (!). Non le mitiche “mancate riforme strutturali”, non “la burocrazia”… ma il risparmio. Per meglio dire, il disindebitamento: gli italiani sono stati troppo bravi a pagare i propri debiti, perciò non crescono (!!). Qualcuno lo spieghi a Cottarelli.
Risaliamo. “L’Italia è un creditore esterno netto. Il surplus delle partite correnti è l’ottavo in ordine di grandezza al mondo”. Non solo, “prevediamo che la posizione netta del creditore esterno in Italia continuerà ad aumentare nel prossimo decennio”, perché il coronavirus porta con sé un calo dell’export ma pure dell’import, sicché “l’Italia continuerà a gestire un avanzo delle partite correnti di circa il 2,6 per cento del Pil rispetto al 3 per cento dell’anno scorso”.
Il tutto, grazie alla sua economia diversificata e ricca: “Dopo la Germania, l’Italia è l’economia più aperta del G7, con esportazioni pari al 32 per cento del Pil italiano. L’Italia rimane il settimo maggiore esportatore al mondo ed è un’economia diversificata e ricca, senza una singola categoria di esportazione superiore al 4,5 per cento del totale”.
Morale: “Riteniamo che livelli di debito pubblico ancora più elevati possano essere sostenibili in economie come quella italiana”. Nonostante gli attuali assetti dell’Eurozona non siano ottimali e nonostante il perenne fallimento di Bce a raggiungere un pur miserando obiettivo di inflazione.
A very Italian Dilemma. Risolto il mistero: il mercato compra ancora Btp, perché emessi da uno Stato seduto sul debito privato più basso del G7, su nessun debito estero netto.-
8. Le risposte €uropee alla congiuntura drammatica determinata dal coronavirus sono quelle della rigida applicazione di queste regole avverse alla crescita, e quindi, per l'Italia, nonostante i fondamentali sani,  l'ancora elevato stock di risparmio e l'assenza di significativo debito con l'estero, sono sempre le solite. E sono quelle che implicano 
a) che l'Italia, bisognosa di liquidità per far ripartire la propria economica come qualsiasi altro paese al mondo colpito dalla pandemia, debba indebitarsi sul presupposto di un incerto e potenzialmente precluso accesso al mercato;
b) che gli "strumenti" apprestati per i paesi dell'eurozona siano dunque quelli, pro-ciclici rispetto ad un'acuta (e incolpevole) fase recessiva, del ricorso al credito privilegiato e condizionale apprestato da istituzioni e fondi vari propri (principalmente) dell'eurozona; la liquidità può forse arrivare, se arriverà in misura sufficiente, se tale indebitamento risulterà "disciplinante", cioè più costoso dello stesso ricorso al mercato;
c) che sia il risibile volume di prestiti assumibile a proprio carico dallo Stato con il SURE (previa prestazione di garanzie); che sia il prestito cofinanziato e previamente garantito dallo Stato stesso, e grottescamente "moltiplicato" dalla BEI per l'effettuazione degli investimenti delle imprese; che sia l'accesso all'ESM pretesamente privo di condizionalità (contro l'evidenza di ogni regolazione dell'azione del fondo risultante dall'art.136, par.3 del TFUE, dal trattato stesso, dalla sue linee applicative e persino dalla chiara enunciazione della bozza di disciplina delle linee di credito ECCL previste dall'Europgruppo quali "emergenziali"); che sia, infine, il vagheggiato Recovery Fund che, innescato sul bilancio Ue, porterà a un volume risibile di raccolta rispetto alle esigenze economiche in gioco nell'intera Ue, ma con la previa contribuzione in un corrispondente ammontare di "garanzie" (equivalenti all'emissione di debito pubblico) da parte dello Stato italiano, e la successiva devoluzione della quota di tributi vecchi e nuovi a favore dell'Unione; avremo sempre l'assunzione di debito, soggetto a condizionalità fiscali e macroeconomiche (per quanto non le si voglia scorgere), e l'obbligo, alle più varie e comunque ancora indeterminate scadenze, di restituzione di interessi e sorte capitale.

8.1. E in assenza di una sufficiente garanzia (illimitata) della BCE a sostegno del ricorso al finanziamento dello Stato sul mercato, nonché a fronte delle conseguenze delle varie e convergenti condizionalità macroeconomiche che verrebbero assunte, tale restituzione appare, in una concreta prospettiva dei prossimi anni, un vero calvario di lacrime e sangue: la restituzione del debito aggiuntivo che l'€uropa di offre come salvezza sarà da effettuare senza avere l'accesso al mercato. 
E cioè ricorrendo all'estrazione di valore dalla (fiscalmente) esausta economia italiana, mediante tagli ulteriori di spesa pubblica e aumenti del prelievo fiscale. 
Quest'ultimo soprattutto: perché la recessione e i fallimenti e le insolvenze che da essa incombono, porteranno ad una crisi bancaria che potrà essere prevenuta solo mediante una massiccia patrimoniale sulla ricchezza. A questa evenienza si perverrebbe comunque mediante l'imposizione della ristrutturazione del nostro debito pubblico: evenienza, a sua volta, equivalente a un default bancario generalizzato e a un bail-in di massa sui depositanti. Quelli che ancora non avranno portato all'estero i propri risparmi, investendoli in strumenti esteri non soggetti al bail-in o alla ristrutturazione dei nostri titoli del debito pubblico.
Una follia collettiva di cui i nostri decidenti non paiono accorgersi.

sabato 25 aprile 2020

IL FATTO-EMERGENZA E LA MANCATA GARANZIA DELLE CONTINUITA' COSTITUZIONALE (2)

Questa seconda parte dell'analisi dedicata da Francesco Maimone ai problemi dello "stato di eccezione" approfondisce la parte più delicata, e oggettivamente difficile da cogliere nel senso comune, del vulnus costituzionale - e quindi alla sfera dei diritti fondamentali di libertà di ciascuno di noi - che discende dall'attuale disciplina dei poteri contingibili ed urgenti attribuiti all'Esecutivo. 
Il senso comune di ogni cittadino, peraltro, è in grado di percepire con immediatezza la "discontinuità costituzionale" che deriva dal meccanismo vigente: la vicenda emergenziale appare sottratta al pluralismo ed all'articolazione democratica del dibattito parlamentare e la (eventuale) tutela giurisdizionale, inevitabilmente a posteriori, sarebbe in pratica priva di effettività, dovendo incidere su decisioni incidenti al massimo livello politico-normativo, ma che hanno ormai prodotto irreversibilmente i loro effetti.
In sostanza, la legalità sostanziale iscritta nella nostra Costituzione, ci indica che non qualsiasi "salvezza della Repubblica" dovrebbe poter essere autorizzata, ma solo quella che possa mantenere un raccordo con la forma di governo parlamentare e, tramite, essa, con una sindacabilità continua ed effettiva del rispetto dei limiti invalicabili al sacrificio dei diritti fondamentali.

7. Si può definire “FATTO-EMERGENZA” quella evenienza estrema in cui le prescrizioni ordinarie sono insufficienti e/o inadeguate [cfr. C.SCHMITT, Le categorie del politico, Bologna, 1982, 34; P. GRASSO, Necessità (dir. pubbl.) in Enc. Dir., XXVII, Milano, 1977, 867]. Al verificarsi di una tale evenienza l'ordinamento giuridico si trova quindi a dover far fronte ad una fattispecie imprevedibile e l’elemento cruciale che viene in considerazione è rappresentato dalla completezza o meno del sistema. L’efficace risposta dell’ordinamento dipende perciò sia dal grado di straordinarietà dell’emergenza sia dal grado di flessibilità della normativa che sarà stata predisposta precedentemente in via formale. 
Ora, dal momento che l’ordinamento non è in grado di prevedere le innumerevoli ipotesi di fatti straordinari (questo lo sapevano anche i nostri Costituenti), esso di solito si premura ad individuare quantomeno i soggetti competenti a farvi fronte ed l’eventuale procedimento che deve essere adottato
Ecco perché la dottrina, avendo come riferimento in particolare agli artt. 77 e 78 Cost., sostiene che “…non sfuggono alla caratteristica necessaria delle previsioni riguardanti potestà d'emergenza: cioè si risolvono in norme di competenza, poiché il presupposto e il contenuto del potere d'eccezione non possono essere previsti a priori, trattandosi di un potere che riguarda un caso non descritto dall'ordinamento normalmente in vigore…” [Così P. PINNA, L'emergenza nell'ordinamento costituzionale italiano, Milano 1988, 133].

7.1 Dal momento che le disposizioni che disciplinano l’emergenza hanno ad oggetto l’attribuzione delle competenze, esse riguardano quindi l’organizzazione dei poteri. E’ stato quindi ben sottolineato, in proposito, come l’emergenza si configuri più specificamente come uno STATO DI ECCEZIONE ORGANIZZATIVO: “Lo stato d'eccezione organizzativo determina un assetto costituzionale straordinarioTuttavia, quest'ultimo tipo di stato d'emergenza può essere anche instaurato e gestito secondo il normale assetto dei poteri costituzionali. Questa è la tendenza prevalente negli attuali ordinamenti costituzionali, dove alle situazioni di emergenza si provvede in genere attraverso organi ordinari e con le medesime procedure decisionali utilizzate per la produzione del diritto normale, quindi non si ricorre ad assetti costituzionali imprevisti e provvisori…” [P. PINNA, Crisi costituzionali, in Dig. Disc.Pubbl., Torino, 1989, 484].

7.2 Il fatto-emergenza, quindi, presenta un aspetto che in apparenza potrebbe sembrare contraddittorio, poiché per un verso si sostanzia in una situazione che deroga quella ordinaria, potendo determinare persino la sospensione dei princìpi normalmente vigenti; per un altro verso, tuttavia, esso è allo stesso tempo capace di disvelare e riaffermare i principi fondamentali e la natura vera di un’organizzazione costituzionale. Se così non fosse, ci troveremmo di fronte ad un qualsiasi ordinamento liberale vecchio stampo, nell’ambito del quale, invece, … era abbastanza frequente il ricorso allo stato d'eccezione organizzativo, che fondamentalmente consisteva nella sospensione delle attribuzioni parlamentari e nella concentrazione del potere pubblico in capo ad un unico organo, in genere l'esecutivo[P. PINNA, Crisi costituzionali, cit.]. D’altronde, la relazione tra competenze ordinarie e straordinarie individua la forma di governo, come sapeva bene C. Schmitt allorchè affermava che “… il problema di chi decide di questo potere… diventa il problema stesso della sovranità…” [C. SCHMITT, La dittatura, Bari 1975, 204], anche se nel caso in esame risulta più opportuna l’affermazione di Heller “…sovrano è chi decide sullo stato normale…” [H. HELLER, La sovranità ed altri scritti sulla dottrina del diritto e dello Stato, Miano, 1977, 176].
Ancora più esplicitamente: se non fossero rispettate le attribuzioni-competenze costituzionalmente sancite (ovvero l’organizzazione dei poteri) - che qualificano la forma di governo - non ci troveremmo di fronte ad un semplice “stato di eccezione organizzativo (in cui, si badi bene, è comunque postulata la conservazione della costituzione in vigore), ma l’emergenza sarebbe una vera e propria “crisi costituzionale, questa sì di schmittiana memoria, cioè un “… processo di cambiamento dell'ordine politico… una fase di transizione da un ordine costituzionale a un altro” [così P. PINNA, Crisi costituzionali, cit., 481] (in disparte la considerazione che, come sanno i lettori del blog, nel caso dell’Italia la “crisi costituzionale” è già in atto da lungo tempo per via della violazione subdola e graduale della legalità e della “democrazia sostanziale-necessitata” derivante dall’adesione al diritto eurounitario).

7.4. Dovrebbe a questo punto risultare evidente il fatto che discutere sull’ammissibilità o meno delle ordinanze d’urgenza (nonché sull’organo cui spetta di dichiarare lo stato di emergenza e di emanare o delegare l’emanazione di dette ordinanze extra ordinem) non equivale solo disquisire su uno specifico genere di atti, ma significa ragionare sulla più fondamentale problematica afferente la POSSIBILITA’ DI DEROGARE LA FORMA DI GOVERNO PARLAMENTARE IN CASO DI EMERGENZA. Questo è il vero nodo teorico da scrutinare. 
Ora, se l'emergenza viene affrontata secondo le disposizioni contenute nella Costituzione, il problema del rispetto della forma parlamentare non si pone. In caso contrario, qualora si eserciti il potere di ordinanza, l’Esecutivo finisce invece per avere il monopolio su ogni decisione (l’argomento riguarda, come si sarà inteso, anche le attribuzioni-competenze relative, prima che all’approvazione, alla stessa negoziazione dell’ESM), situazione quest’ultima che pare essere in contrasto con la Costituzione (ecco la ragione degli interventi risoluti degli on.li Natali, Di Vittorio e Basso oltre che il messaggio di rinvio alle Camere del presidente Cossiga già citati nel post precedente).

8. C’è da dire subito al riguardo che la Corte Costituzionale ha sempre salvato la legittimità delle ordinanze di necessità ed d’urgenza sia nel sistema previgente sia a seguito dell’introduzione della legge sulla Protezione Civile.
Con la sent. n. 8/1956 (avente ad oggetto il giudizio di costituzionalità sull’art. 2 del T.U. delle leggi di P.S.), riconoscendo la natura amministrativa delle ordinanze, la Corte ha infatti riconosciuto la loro compatibilità con il sistema costituzionale delle fonti, qualificandole come provvedimenti che “… in quanto previsti dalle norme, stanno nel principio di legalità”, anche se costituiscono “… un'eccezione rispetto al principio della tipicità”. Fatto questo passo decisivo (con cui in sostanza si ammettevano le ordinanze in parola, purché fondate su una specifica autorizzazione legislativa che indichi il presupposto, la materia, le finalità d’intervento e l'autorità legittimata; negli stessi termini, si veda la sent. n. 201/1987, punto 5), la Corte si è preoccupata di individuare i limiti ed i caratteri del potere di provvedere mediante tali provvedimenti. Già nella pronuncia citata la Corte aveva specificato che le ordinanze devono rispondere ai principi di “efficacia limitata nel tempo in relazione ai dettami della necessità e dell'urgenza”, della “proporzionalità”, della “adeguata motivazione”, della “efficace pubblicazione” e, (clausola finale che enuncia uno standard che o è assunto come generico e opinabile, ed è perciò vanificato, o diviene tanto elevato da essere inesigibile: il che getta il dubbio generale sulla legittimità in concreto delle ordinanze), della “conformità ai principi dell'ordinamento giuridico”.

8.1 Con la sent. n. 26/1961 la Consulta ha disconosciuto la possibilità per le ordinanze di disporre contra legem negli ambiti coperti da riserva assoluta di legge, evenienza però possibile ove la riserva sia relativa e sempre che la legge espliciti i criteri idonei per circoscrivere la discrezionalità dell'organo al quale è stato attribuito il potere (ad esempio, con la sent. n. 133/1968 ha stabilito che “La riserva di legge di cui all’art. 41 Cost. non esige che la disciplina della libera iniziativa economica venga, tutta e per intero, regolata da atti normativi, bastando la predeterminazione di criteri direttivi che…delineino…l'attività esecutiva della pubblica amministrazione). Nelle successive pronunce, il giudice costituzionale ha poi posto la questione dei limiti al potere di ordinanza risolvendolo secondo l’ormai noto criterio della “ragionevolezza” (v. qui, p. 6.1). Difatti, ha affermato nelle sentenze n. 4/1977 e 100/1987 la possibilità che le ordinanze possano comprimere diritti costituzionali purché mediante ragionevole bilanciamento con valori di pari livello costituzionale.

8.2 Più di recente, infine, con le sentenze n. 418/1992 e n. 127/1992, hanno positivamente superato il vaglio di legittimità costituzionale anche le ordinanze di protezione civile di cui all’art. 5 della L. n. 225/1992 (come detto, oggi abrogato, e sostituito dagli artt. 24 ss. D.lgs. n. 1/2018). La Corte – del tutto in linea con la propria precedente giurisprudenza – non ha fatto altro che ribadire le condizioni che renderebbero legittimo l’utilizzo del potere di ordinanza, condizioni che in via generale possono così essere riassunte in ordine di importanza: 1) necessaria autorizzazione legislativa la quale deve delimitare il potere di ordinanza sia del Governo sia dei delegati (condizione in cui annoverare anche il rispetto delle riserve di legge); 2) carattere di provvisorietà dei provvedimenti amministrativi, i quali devono contenere deroghe limitate nel tempo; 3) strumentalità di tali atti da intendersi come proporzione e congruità tra l'evento emergenziale e le misure straordinarie.

9. Avendo riguardo in particolare alla prima delle condizioni elencate, bisogna però porsi la domanda: è ammissibile, in base a Costituzione, che UNA LEGGE ORDINARIA attribuisca ad altre autorità poteri analoghi a quelli legittimati dal decreto-legge, ovvero allo strumento disegnato dai nostri Costituenti per far fronte alle ipotesi di emergenza
Autorevole dottrina ha anche di recente ha risposto positivamente, sostenendo che la Costituzione conterrebbe “… una legittimazione costituzionale di atti normativi sub-primari derogatori di norme primarie” e che tale fondamento costituzionale sarebbe da rinvenire “…nei tradizionali princìpi del primum vivere e della salus rei publicae”, ritenuti “…veri e propri princìpi costituzionali; (e) sebbene i Costituenti abbiano consapevolmente deciso di non normare esplicitamente lo stato di emergenza…”, la loro positivizzazione sarebbe da rinvenire “…in significativi loci: nella previsione dell’indivisibilità (art. 5) e dell’unità (art. 87) della Repubblica, ma anche in quella dell’intangibilità dei princìpi supremi del vigente ordine costituzionale…”. Come conseguenza, “…poiché alla positivizzazione degli interessi conservativi dell’ordinamento non fa seguito una disciplina specifica delle competenze e dei procedimenti per la loro tutela, è da ritenere che la legittimazione s’indirizzi alla fonte primaria” 
[così M. LUCIANI, Il sistema delle fonti del diritto alla prova dell’emergenza, in Rivista AIC, n. 2/2020, 113-114; nello stesso senso si veda A. RUGGERI, Il coronavirus contagia anche le categorie costituzionali e ne mette a dura prova la capacità di tenuta, in in diritti regionali.it, fasc. 1/2020, 371, secondo cui i principi fondamentali dell’ordinamento “…si presentano talora sovrastati in situazione di emergenza ed obbligati a piegarsi davanti alla “metanorma” salus rei publicae suprema lex esto…”].

9.1 Ora, bisogna segnalare che i Costituenti ebbero di certo presente la problematica in parola, che fu oggetto di specifica attenzione da parte della “Commissione Forti
Nel documento che fu presentato all’Assemblea Costituente, i Relatori dimostrano infatti di aver esaminato la problematica delle “ordinanze governative di urgenza diverse dai decreti legge”, cioè “quelle con cui viene dichiarato lo stato di pericolo pubblico e lo stato di guerra”. 
Ebbene, in quell’occasione, gli eminenti studiosi appartenenti alla Commissione affermarono come fosse necessario che la Costituzione si occupasse in modo espresso di detti provvedimenti, ciò in quanto:
“….esse non possono a tutti gli effetti considerarsi comprese nella generale disciplina dei decreti-legge e ciò, da un lato perché non hanno il carattere di norme giuridiche permanenti e dall’altro perché sono tali che, per il loro stesso contenuto, devono avere un’efficacia giuridica superiore a quella del decreto-legge e della stessa legge ordinaria, in quanto possono sospendere alcune libertà costituzionali e taluni principi garantiti dalla Costituzione, ciò che né la legge né a maggior ragione il decreto-legge, potrebbe fare
La Sottocommissione ha considerato che vi possono essere casi di natura eccezionale, in cui esigenze di carattere generale derivate DAL PERICOLO PER LA STESSA VITA DELLO STATO devono prevalere sui diritti individuali dei cittadini, e ha individuato questi casi in quello di guerra e nell’altro di pericolo pubblico…Essa ha riconosciuto che quando questi casi si verificano, è necessario che tanto il Parlamento quanto il presidente della Repubblica siano forniti di poteri eccezionali, che li autorizzino a sospendere alcune libertà individuali, nel supremo interesse della difesa dello Stato, salvo, pel presidente della Repubblica, l'obbligo di provocare la ratifica del decreto da parte del Parlamento [RELAZIONE ALL’ASSEMBLEA COSTITUENTE – Vol. I, Problemi costituzionali organizzazione dello Stato, Roma, 1946, 222-223].

9.2 Bisogna ricordare, in proposito, che nelle discussioni dell’Assemblea Costituente, allorquando si previde di introdurre lo strumento del decreto-legge con l’emendamento 74-bis dell’on. Codacci Pisanelli (democristiano), l’on. Crispo (liberale) propose di accorpare un altro emendamento al fine di distinguere – tra gli strumenti da utilizzare in caso di emergenza – per un verso il decreto-legge e, per altro, proprio le ordinanze extra ordinem. Tale ultima proposta però non fu accolta per l’opposizione dell’on. Codacci Pisanelli e l’emendamento di quest’ultimo divenne il definitivo art. 77 Cost. oggi vigente [per la ricostruzione in argomento, si veda A. CARDONE, Il rapporto tra le ordinanze del Governo e i decreti legge, in Associazione  per gli studi e le ricerche parlamentari, Quaderno n. 22, Seminario 2011, Torino, 2013, 56 ss.].

9.3 Si può concordare, con la dottrina appena, citata sul fatto che dietro al silenzio dei Costituenti vi fu il rifiuto di costituzionalizzare “un potere amministrativo in grado di derogare i diritti e le libertà fondamentali”, e ciò “in conseguenza dell’esperienza del regime fascista”, nonché della conoscenza, da parte dei Costituenti, del potere sospensivo legale” previsto dall’art. 48, comma II, della Costituzione di Weimar che era stato protagonista del noto processo svoltosi nel 1932 davanti allo Staatgerichtsof e che tanta eco ebbe tra i costituzionalisti:
…il rischio che si dovette paventare ai Costituenti fu, dunque, quello di aprire la via ad un’esperienza analoga a quella che si era consumata nella Repubblica di Weimar…” [A. CARDONE, Il rapporto tra le ordinanze del Governo e i decreti legge, cit., 58-59]. 
Le ragioni di tale silenzio - contrariamente però alle conclusioni di A. Cardone - sembrano qui più che significative. Pertanto, è da ritenere che i Costituenti, pur coscienti della possibilità di eventi che avrebbero potuto mettere in pericolo la “stessa vita dello Stato” (salus rei publicae), optarono per non inserire in Costituzione una espressa disciplina sulle ordinanze governative di urgenza, ritenendo che in realtà il decreto-legge fosse già sufficiente come strumento generale conservativo dell’ordinamento nel caso in cui si dovesse far fronte anche simili evenienze, in ossequio alla tutela dei diritti e delle libertà fondamentali
Piuttosto, c’è da considerare che “LE NORME CHE PREVEDONO DEROGHE ALLA NORMALE RIPARTIZIONE DELLE COMPETENZE COSTITUZIONALI, HANNO CARATTERE ECCEZIONALE, fanno eccezione alla regola secondo cui non sono ammessi assetti costituzionali straordinari, si tratta di norme di stretta interpretazione e assolutamente inderogabili... In altri termini, la Costituzione in vigore disciplina lo stato d'emergenza, sicché i provvedimenti straordinari non possono derogare, neppure provvisoriamente, a tali norme della costituzione, che costituiscono il minimo costituzionale insospendibile, che perciò sono vigenti ed efficaci anche in regime d'emergenza…” [P. PINNA, Crisi costituzionali, in Dig. Disc.Pubbl., cit.; si veda anche P. BARILE, Le libertà nella Costituzione, Padova, 1966, 51].

9.4 In forza di quanto detto, si ritiene non possa essere accolta la tesi per cui “… la Costituzione contiene il fondamento legittimante (espresso ancorché implicito) della normazione extra ordinem… [così M. LUCIANI, Il sistema delle fonti del diritto alla prova dell’emergenza, cit., 116]. 
Anzi, per quanto poc’anzi precisato, sembra proprio il contrario, ovvero che detto fondamento legittimante, ancorché in modo implicito, sia escluso
Di conseguenza, il legislatore ordinario non è autorizzato a conferire ad altre autorità poteri analoghi a quelli legittimati dal decreto-legge, così come non può attribuire ad libitum la “forza di legge”, dal momento che essa è data dalla Costituzione ad un numero chiuso di atti sottoposti a sindacato di costituzionalità, tra i quali non rientrano le ordinanze amministrative di necessità ed urgenza. 
In merito, la dottrina ha evidenziato che “… se può essere vero in linea di principio che l’indeterminatezza della situazione può richiedere poteri altrettanto indeterminati, è vero altresì che PROPRIO NELLE SITUAZIONI EMERGENZIALI NON POSSIAMO RINUNCIARE AI PRINCIPI FONDAMENTALI DI UNO STATO COSTITUZIONALE
La SALUS REI PUBBLICAE, pur essendo un obiettivo fondamentale, non può giustificare poteri illimitati…” [A. MORRONE, Garanzia della Costituzione e crisi economica, in Diritti sociali e crisi economica, AA.VV, edizioni Franco Angeli, 2017, formato ePub]. 
Per richiamare una metafora macchiavelliana, gli argini (i principi fondamentali, in primis quello della sovranità popolare) servono proprio allorché si verifichi l’esondazione del fiume (la situazione d’emergenza), non certo quando il fiume è in secca (condizione di normalità istituzionale).

9.5. Sul punto è quindi da considerare che “… Nell'ordinamento vigente la priorità è rappresentata, ANZICHÉ DALLA SALVEZZA DELLO STATO inteso come una (qualsiasi) organizzazione della sovranità, DALLA SALVEZZA DELLA COSTITUZIONE intesa come un particolare tipo di organizzazione della sovranità in cui si materializza il patto sociale tra forze politicamente e socialmente eterogenee. Il problema della continuità costituzionale si pone, allora, come una tematica centrale delle situazioni di emergenza. In questa ottica dagli artt. 77 e 78 Cost. è dato desumere un principio organizzatore inderogabile anche nello stato d'eccezione: la forma democratica nella sua specificazione parlamentare” [Così G. MARAZZITA, Le ordinanze di necessità dopo la l. n. 225 del 1992 (Riflessioni a margine di Corte Cost.n. 127 del 1995), in Giur. cost., fasc. I, 1996, 505].

9.6. Insomma, in un ordinamento democratico retto da Costituzione rigida non pare che possano trovare più spazio posizioni più o meno liberali ormai superate secondo cuivi (sarebbero) momenti in cui la salus pubblica diventa suprema lex, capace di sovrapporsi a tutte le garenzie dell'ordinamento giuridico e di comprimere ed eventualmente sopprimere, sfere di attività del cittadino le quali normalmente sono garentite e tutelate dal diritto obiettivo…casi in cui un organo dello Stato, relativamente assai modesto, diventa, in piccolo, un sovrano assoluto, per ciò che si attribuisce una potestà di apprezzamento insindacabile, che arriva a sovrapporsi a un diritto soggettivo del privato. Si verifica, in piccolo, quella confusione di poteri che al Montesquieu appariva fatalmente generatrice di dispotismo tirannico...” [così V.E. ORLANDO, Intorno ai provvedimenti d'urgenza secondo la legge com. e prov., in Foro it., 1935, III, 150].

10. Appare poco convincente, altresì, la tesi secondo cui costituirebbe comunque un momento di garanzia per i consociati l’ammissione del sindacato giurisdizionale sulla declaratoria dello stato di emergenza, sui decreti del Presidente del Consiglio e sulle ordinanze di protezione civile in genere [in tal senso M. LUCIANI, Il sistema delle fonti del diritto alla prova dell’emergenza, cit., 116-125].
Questa enfasi sul sindacato giurisdizionale "frazionabile", (e comunque atto a vanificare in prevalenza la responsabilità primaria ed immediata della Corte costituzionale di assicurare la "continuità costituzionale", in assenza, com'è noto, di un potere processualmente regolato della Corte di pronunciarsi in via di urgenza), risulta, nel complesso, praeter Constitutionem:  quindi delinea un congegno sub-ottimale di tutela effettiva (art.24 Cost.), ben al di sotto dello standard che caratterizza la tipizzazione costituzionale delle garanzie dell'ordinamento repubblicano. 
E ciò per la semplice ragione che “… i problemi dell’emergenza sono naturaliter problemi politici, attengono all’indirizzo politico: in tal senso sono “political questions”
...Nelle crisi ha un rilievo essenziale il contesto (la situazione di crisi o di emergenza): l’indeterminatezza del contesto può rendere indeterminati e imprevedibili i poteri esercitabili in concreto. Ciò non toglie che quei poteri, in uno stato costituzionale, sono sempre subordinati ai principi di una Costituzione. Nelle crisi e nelle emergenze se la regola è la decisione politica, marginale e sussidiaria è la decisione giudiziaria…” 
Ciò vale sia per il ruolo dei giudici costituzionali sia per quello dei giudici ordinari (in questo caso amministrativi, TAR e Consiglio di Stato), in quanto “… la decisione del giudice è parziale, post eventum, in definitiva priva di sanzione, priva di effettività nei confronti dei titolari di indirizzo politico Il rischio di politicizzazione della giurisdizione è maggiori nella crisi, per effetto del plusvalore politico proprio delle decisioni della crisi...” [così A. MORRONE, Garanzia della Costituzione e crisi economica, cit.].
10.1 Cerchiamo di chiarire meglio il passaggio. Lo Stato liberale ammetteva un potere di eccezione notevolmente esteso in grado di incidere sulla struttura e sul funzionamento del potere pubblico. Viceversa, “… nell'attuale ordinamento italiano l'esercizio di una simile potestà eccezionale imprevista determinerebbe uno stato di crisi, che, quindi, non può essere ammesso. In particolare, non sono ammessi provvedimenti di emergenza incidenti sull'organizzazione costituzionaleperché l'ordine costituzionale vigente, diversamente da quello liberale, non è politicamente omogeneo. Negli ordinamenti omogenei dal punto di vista politico, come quello liberale, l'unità dello stesso ordinamento e la stabilità della costituzione sostanzialmente dipendono dal mantenimento di un dato ordine politico-sociale. Perciò la difesa della omogeneità politica, quindi l'esclusione dallo Stato degli interessi ed indirizzi politici antagonisti con quelli dominanti, costituisce una esigenza vitale dell'ordine costituzionale, che giustifica e legittima l'uso di tutti i mezzi giuridici necessari, anche di quelli più imprevisti dall'ordine costituzionale e legale vigenti.
Invece, negli ordinamenti politicamente non omogenei, come quello in vigore, per…assicurare l'unità sostanziale dell'ordinamento e la stabilità della Costituzione, assume un rilievo decisivo l'integrità delle previsioni costituzionali che dispongono le strutture e i mezzi attraverso cui si esercita il potere pubblico. In particolare, il mantenimento di un assetto costituzionale pluralistico e il rispetto delle regole democratiche, sono elementi decisivi per l'esistenza di un ordinamento, nel quale operano forze che perseguono indirizzi politici contrastanti. Pertanto, nell'ordinamento democratico e pluralistico in ogni caso deve essere garantita una condizione nella quale nessun partito politico sia escluso dalla possibilità di concorrere alla determinazione delle scelte politiche. In altri termini, non vi è alcun ordine politico-sociale determinato da conservare, non vi è, dunque, alcuno scopo che possa giustificare il ricorso a processi decisionali imprevisti. Tanto è vero che perfino la sovranità va esercitata “nelle forme e nei limiti della Costituzione” (art. 1 Cost.). In definitivale regole del gioco democratico non possono essere mai sospes(e).
L'esclusione dell'eventualità che, per provvedere al caso d'eccezione, si instauri un'organizzazione costituzionale straordinaria e imprevista, determinando una concentrazione del potere pubblico, conosce una forma minima di garanzia NELL'INSOSPENDIBILITÀ DELLE ATTRIBUZIONI DEI SOGGETTI POSTI AL VERTICE…” [così P. PINNA, Crisi costituzionali, in Dig. Disc.Pubbl., cit., 484 ss.; per una impostazione analoga, cfr. L. PALADIN, Commento art. 77, in Comm. cost., a cura di G. Branca, La formazione delle leggi, II, Bologna, 1979, 579 ss.].

11. Alla luce di quanto detto - escludendo la trattazione di altri profili della problematica e che comunque non possono essere trattati per ragioni di spazio – se si esclude in radice l’ammissibilità per il legislatore ordinario di attribuire competenze extra-costituzionali e poteri di adottare ordinanze extra ordinem come quelle di cui si discute [sono tali le ordinanze in cui la la legge si limita ad indicare in termini estremamente generici sia la situazione legittimante che l'intervento atto a fronteggiarla; nella sostanza di tratta una mera attribuzione di competenza a dichiarare lo stato d'emergenza e ad intervenire con le misure straordinarie che si ritengono congrue anche in deroga alla disciplina vigente. Il potere conferito alla pubblica amministrazione è molto discrezionale, un potere libero nel contenuto o comunque con un contenuto non predeterminato], allora non si tratta più discutere dei “limiti” di dette competenze e provvedimenti o della tecnica di redazione di questi ultimi secondo i principi affermati ininterrottamente dalla Corte Costituzionale, oltre che da copiosa dottrina.

11.1. Si tratta, per converso, di mettere in discussione l’intero impianto del D.Lgs. n. 1/2018 in quanto contrario a Costituzione così come la legge delega che ne ha autorizzato l’adozione (la c.d. “fonte primaria intermediaria” legittimante, come definita da M. Luciani). Si può affermare di detta fonte intermediaria quello che Rescigno ha sostenuto della abrogata L. n. 225/1992 (pressochè recepita nella sostanza dal “Codice della Protezione Civile, v. artt. 24 e ss.), ovvero che:
La costruzione originaria della legge 225, quella che si riferisce a catastrofi naturali ed eventi imprevedibili simili, a mio parere si rivela incostituzionale: la incostituzionalità sta proprio nel fatto che la dichiarazione dello stato di emergenza non viene fatta con decreto-legge ma con un’ordinanza, con la conseguenza che: a) viene esclusa l’emanazione del Presidente della Repubblica e cioè una forma di controllo prevista dalla Costituzione nel caso di decreto legge; 
b) viene esclusa la legge di conversione, e dunque il controllo anzitutto politico delle Camere previsto di nuovo dalla Costituzione nel caso del decreto legge. 
In sintesi, la legge 225, PER QUESTO ASPETTO È UNA FRODE ALLA COSTITUZIONE PERCHÉ ATTRIBUISCE AL GOVERNO UN POTERE CHE POTREBBE E DOVREBBE ESSERE ESERCITATO MEDIANTE DECRETO LEGGE e quindi in tal modo consente al Governo di eludere i vincoli stabiliti in Costituzione per gli atti straordinari di necessità ed urgenza previsti e disciplinati con l’art. 77…” [P.U. RESCIGNO, Sicurezza urbana: poteri e garanzie, in Atti del convegno Monteriggioni 11 giugno 2010, Maggioli, 2011, 39; nello stesso senso G. MARAZZITA, Le ordinanze di necessità dopo la l. n. 225 del 1992, cit.].

11.2. Il principio violato dal combinato disposto L. n. 34/2017 – D.Lgs. n. 1/2018 nelle emergenze di rilievo nazionale non è, in primo luogo, solo quello della legalità formale (in quanto, come spiegato, sia i soggetti cui è attribuito il potere sia gli atti amministrativi che essi posso adottare sono individuati da una fonte primaria “intermediaria” che incide su competenze e che non poteva essere emanata dal legislatore), ma anche il principio della legalità sostanziale (ovvero, la fonte primaria attribuisce un potere generico e generale, ampiamente discrezionale, e cioè quello di stabilire qualunque cosa il soggetto abilitato decida di decidere in ordine a quanto previsto dall’art. 25, comma II, lettere da a) ad f).
Tale illegittimità riguarda, come detto, la dichiarazione dello stato di emergenza (che non è tecnicamente una ordinanza di necessità ed urgenza ma, appunto, una dichiarazione che mette in moto il complesso meccanismo previsto dalla D.Lgs. n. 1/2018, autorizzando tra le altre cose l'emanazione delle ordinanze di protezione civile”, art. 24, comma I), ma anche le ordinanze di protezione civile strettamente intese. 
Ed infatti, il D.Lgs. n. 1/2018 non prevede quante e quali saranno tali ordinanze, indicando solo le autorità che possono emanarle (per esempio, il Capo del Dipartimento della Protezione civile o lo stesso Presidente del Consiglio nella forma di d.P.C.M. ) ed il rapporto tra le stesse, finendo tuttavia per creare un quello che P.U. Rescigno definiva un “minisistema” (nel quale rientra anche la nomina di imprecisate task-forces, critieri di scelta dei componenti e operato delle stesse, tutte materie sulle quali il Parlamento non interloquisce) in grado di decidere in deroga ad ogni disposizione vigente seppur “nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento giuridico”, locuzione, come abbiamo visto, del tutto insufficiente e che rischia, a ben vedere, di assomigliare più ad una formula di stile.

11.3. La conclusione obbligata cui può giungersi al termine di queste brevi riflessioni è una sola: ovvero che – a monte - la deliberazione di uno stato di emergenza di rilievo nazionale non può essere rimessa alla totale discrezionalità del Governo e dichiarata con d.P.C.M, così come non può permettersi che l’emergenza sia gestita sostanzialmente con ordinanze extra ordinem, derogando di fatto alla forma di governo parlamentare
Di contro, una volta che sia ammesso come legittimo l’impianto risultante dalla normativa richiamata, risulta poi vano affannarsi per lamentare post eventum la violazione di possibili “riserve di legge, sia perché anche la distinzione tra riserva assoluta e riserva relativa in molti casi si rivela incerta e problematica [Cfr. in tal senso, R. GUASTINI, Riserva di legge, in Dig. Disc.Pubbl., 1994], sia perché, altresì, è ampiamente preventivabile che un organo possa esercitare ultra vires un potere che gli sia stato comunque conferito, e sia perché, una volta che venga esercitato un potere contra Constitutionem, il pregiudizio ai diritti ed alle libertà dei cittadini sarà stato comunque già inferto ed è alquanto improbabile – vista la portata epocale della lesione originata ad esempio dal caso Covid-19 - che lo stesso possa trovare adeguato ristoro da parte degli organi che lo hanno causato
Se si vuole evitare che quanto sta accadendo in queste settimane possa ripetersi, la conseguenza è a dir poco ovvia e non ammette alcuna scorciatoia: l’abrogazione delle disposizioni in materia di Protezione Civile più volte menzionate nella parte che si è cercato di spiegare essere contrarie alla Carta, con la riscrittura di una nuova disciplina ricondotta ai principi fondamentali della vigente Costituzione che, si ribadisce, già disciplina lo stato d’emergenza.

11.4. Nel frattempo, ci sentiamo certamente di condividere il seguente monito: “…La guardia non può essere abbassata…soprattutto perché l’esperienza insegna che “le regole emergenziali sopravvivono all’emergenza, normalizzando quella deminutio di libertà che costituisce il costo di ogni legislazione emergenziale”. Il rischio che all’uscita dall’emergenza ci si ritrovi con un saldo negativo in termini di libertà è alto, perché le lusinghe di chi chiede di barattare libertà e sicurezza sono molto insidiose…” [M. LUCIANI, Il sistema delle fonti del diritto alla prova dell’emergenza, cit., 141]. Monito che è anche una speranza, invero molto flebile, visto la condizione di completa irriconoscibilità complessiva alla quale è stata ridotta la nostra democrazia costituzionale negli ultimi quarant’anni.