mercoledì 26 settembre 2018

DE GRAUWE E LA MERCIFICAZIONE DI TERRA, LAVORO E...MONETA. NO ESCAPE

Risultati immagini per VON MISES QUOTES
L'immagine soprastante, relativa a un noto aforisma di von Mises, mi è parsa appropriata e grottescamente divertente nel contesto del post: De Grauwe ne risulta...stroncato. Ma le fonti  DIRETTE della rivoluzione liberale stroncherebbero, a loro volta, il buon Mises...

POST DI ARTURO (naturalmente).


Nel post precedente ho dato conto del trattamento della questione euro contenuta nel libro di De Grauwe; questa volta recensirò il resto del volume, naturalmente con un’attenzione particolare ai temi più vicini agli interessi del blog. Non mancherà, credo, qualche spunto di interesse.

1. Iniziamo con una nota di colore, dal sapore fin troppo familiare: “La qualità delle nostre strade sta precipitando. A Lovanio, dove insegnavo, le profonde buche nelle strade quasi non vengono più riparate. Nel centro storico devo usare una mountain bike per evitare le buche e i bozzi che sfigurano le strade.” (pag. 51).
Tutto il mondo è paese, verrebbe da dire, o tutto il mondo è austero: “[…] dagli anni Ottanta la quota di investimenti pubblici in rapporto al PIL si è ridotta, riducendo le risorse disponibili per i beni pubblici” (Ivi).

1.1. Per noi non si tratta certo di una notizia sorprendente: come avevamo visto anni fa, era l’OCSE per prima a suggerire, in caso di “aggiustamenti”, di indorare la pillola della riduzione della spesa pubblica tagliando gli investimenti, in quanto politicamente meno sensibili rispetto alla spesa corrente (avevamo esaminato il caso italiano attraverso una lettura attenta del c.d. “rapporto Giarda”). Almeno finché la gente non inizia a cascare nelle buche o a precipitare dai ponti, naturalmente.

2. Veniamo ora al sodo: la tesi di fondo di De Grauwe consiste in una rilettura in chiave “ciclica” del punto di vista avanzato da Polanyi ne La grande trasformazione.

2.1. Riassumendo un po’ brutalmente, per Polanyi l’economia di mercato consiste in un progetto di separazione fra economico e sociale imposto alla società attraverso l’impiego del potere dello Stato (en passant, spero non vi sfugga la vicinanza di questa tesi, elaborata con gli strumenti dell’antropologia culturale, alla teoria marxiana della spoliticizzazione della società civile come risultato della c.d. accumulazione primitiva).
L’affidamento del benessere sociale alle forze cieche e impersonali del mercato, in particolare attraverso la mercificazione di terra, lavoro e moneta, sortisce non solo effetti indesiderabili, ma mette a rischio la possibilità stessa di riproduzione organica della società.  

2..2. Se i pericoli cui espone l’affidamento al mercato di terra e lavoro è intuibile, meno ovvio è il discorso sulla moneta, che può avere qualche interesse riportare, per saggiare una della tante rimesse a fuoco che la ricorrente pretesa di sottomettere la società a forze impersonali e politicamente incontrollabili ci costringe a compiere.
Vediamo un po’: 
“[…] se i profitti dipendono dai prezzi, gli accordi monetari che condizionano i prezzi debbono essere vitali per ogni sistema fondato sulla motivazione del profitto. Se nel lungo periodo i cambiamenti dei prezzi di vendita non condizionano i profitti, perché i costi corrispondenti scenderanno e saliranno di conseguenza, questo non è vero nel breve periodo, perché deve trascorrere un certo lasso temporale perché i prezzi fissati nei contratti, fra cui quello del lavoro, possano variare. Quindi, se il livello dei prezzi scendesse per ragioni monetarie per un periodo di tempo significativo, le imprese si troverebbero esposte al rischio di fallimento con connesse dissoluzione dell’organizzazione produttiva e distruzione di capitale. Insomma, il problema erano i prezzi i discesa, non quelli bassi. Hume è stato il fondatore della teoria quantitativa della moneta grazia alla scoperta che gli affari non sarebbero toccati da un dimezzamento della quantità di moneta: semplicemente i prezzi si aggiusterebbero sulla metà del loro attuale livello. Aveva tralasciato di aggiungere che nel processo l’economia potrebbe finire distrutta.” (K. Polanyi, The Great Transformation, Beacon Press, Boston, 2001, pag. 201). 

2.3. In effetti una delle funzioni fondamentali della banca centrale è sempre stata quella di evitare, o almeno ammorbidire, i contraccolpi della deflazione legati alle incerte disponibilità dei metalli preziosi. Non è quindi per nulla casuale, per dirla con Fantacci, che, quando la moneta, anziché essere d’oro, è l’oro (sto parlando della convertibilità aurea), essa diventa cartacea.
Ovvero: “La mia tesi è che il principio della moneta metallica non potesse funzionare senza l’introduzione della moneta di carta e la cancellazione della moneta immaginaria. Quest’ultima deve essere abolita perché, pur lasciando alla moneta metallica la funzione di mezzo di pagamento nelle transazioni internazionali, non le consente di rispondere ai meccanismi di equilibrio automatico che potranno essere poi schematizzati dagli economisti classici. La moneta di carta deve essere istituita perché quelle d’oro e d’argento non possono essere sempre commisurate alle esigenze della circolazione.” (L. Fantacci, La moneta, Marsilio, Venezia, 2005, pag. 141)
Aggiunge Fantacci: “Il gold standard, la moneta metallica, non poteva esistere senza la moneta di carta. La moneta non è mai stata un dato naturale. Nemmeno nel secolo d’oro, che stabilì l’identità della moneta con una quantità di materia metallica. Lo standard aureo non era una legge naturale, ma un’istituzione, funzionale alle esigenze del mercato autoregolato.” (Ibid., pag. 149).

(Che non è poi un’idea così originale: “un sostituto del bisogno è diventata la moneta, per accordo comune, e per questo ha il nome di moneta (nomisma), perché non è per natura, ma per convenzione (nomoi), e dipende da noi modificarla o porla fuori corso.”, Aristotele, Etica Nicomachea, 1133 a. Forse se si chiamano classici un motivo ci sarà…).

2.4. Insomma, un’istituzione dello Stato monoclasse al servizio del mercato autoregolato, ossia una forma di esercizio del potere, però senza politica
E naturalmente pure senza diritto, quando appunto una decisione politica su modi e finalità dell’esercizio di quel potere, nell’ambito di un più generale superamento di quella vecchia concezione del rapporto fra Stato e società civile, invece vi sia stata.  
Sono osservazioni che consentono di ribadire un punto su cui mi pare ci siano ancora equivoci: l’antistatalismo liberale è solo una posa ideologica per attaccare la democrazia, ma non corrisponde minimamente a una reale aspirazione o pratica di “non intervento”. Ne abbiamo ripetutamente parlato, soprattutto qui (n. 1), ma può essere una buona occasione per ripeterlo.
Come nota ad esempio Polanyi con ironia (op. cit., pag. 204):
L’attività delle banche centrali riduceva l’automatismo del gold standard a mera facciata. Essa implicava valute controllate da un potere centrale, che sostituiva la manipolazione al meccanismo autoregolato di offerta del credito, benché il procedimento non fosse sempre consapevole e deliberato. Risultò sempre più chiaro che l’unico modo per rendere il gold standard realmente autoregolato sarebbe stato eliminare le banche centrali. L’unico coerente sostenitore del gold standard che effettivamente invocò questo passo estremo fu Ludwig von Mises, il cui consiglio, se fosse stato seguito, avrebbe trasformato le economie nazionali in un cumulo di rovine.
Come ci ricorda De Grauwe (pag. 129), e si intuiva dalla citazione di Cesaratto che ho riportato la scorsa volta, il QE non rappresenta che un esempio estremo di questo interventismo della banca centrale riservato agli happy few: esso è figlio dell’ammonimento di Milton Friedman a pompare enormi quantità di liquidità nel sistema finanziario per evitare la spirale deflazionista degli anni ’30. E il resto dell’economia si accontenti di quel che cade dal tavolo.
Insomma, il mercato sempre ha avuto e, fino a prova contraria, sempre avrà, bisogno dello Stato, prima di tutto per gestire i bei frutti dell’emarginazione sociale che lascia dietro di sé (vi ricordo queste citazioni di Wacquant e Vickrey). Qualcosa mi dice che la prossima crisi finanziaria ci aiuterà a chiarire il punto. :-)

2.5. Naturalmente il rapporto fra Stato e mercato può essere molto diverso: il punto sollevato da Polanyi, e ripreso da De Grauwe, era proprio questo: l’abbandono della finzione che pretendeva che terra, lavoro e moneta fossero merci, ossia il superamento di free trade, deregolamentazione del mercato del lavoro e gold standard, è ciò in cui consiste la Grande Trasformazione.
Si tratta, a guardar bene, di uno dei vari modi per esprimere quel passaggio, avvenuto durante e dopo la crisi del ’29 e la seconda guerra mondiale, descritto da Minsky in termini di trasformazione di un capitalismo “small government gold standard constrained laissez-faire” in uno “big government flexible central bank interventionist” (argomento sui cui vi rimando ovviamente al capitolo I di Euro e (o?) democrazia costituzionale).
Mentre Polanyi riteneva la trasformazione irreversibile, abbiamo invece assistito a un ritorno indietro: ecco spiegata la metafora del pendolo contenuta nel titolo del libro.
De Grauwe ritiene tuttavia che questo ritorno al “capitalismo liberale”, per usare proprio un’espressione di Polanyi, a partire dagli anni Ottanta dello scorso secolo, e il crescente scontento che ha prodotto, preludano a una nuova oscillazione verso un ruolo più attivo, o meglio: diversamente attivo, dello Stato.
Certo, sul piano del, diciamo, distacco di larghe fette dell’elettorato dalle meraviglie del “nuovo”, non si può dire che le preoccupazioni di De Grauwe siano infondate; anche nell’identificazione dei motivi di scontento l’analisi è abbastanza plausibile; è nell’identificazione delle cause, e quindi dei rimedi, che il libro secondo me risulta molto insoddisfacente.
Delle varie questioni esaminate selezionerò le due che mi sembrano più importanti, e rispetto a cui con più evidenza si manifesta l’inadeguatezza delle analisi e delle conseguenti terapie: la finanziarizzazione e la disuguaglianza

3. Nel capitolo 3 De Grauwe dà atto dell’inattendibilità del modello dei mercati efficienti, che non tiene conto delle esternalità legate a comportamenti “da mandria”: “dinamiche di boom euforico che si trasformano in pessimismo e recessione sono state parte del capitalismo per secoli, spingendolo costantemente contro questo suo limite. Tali dinamiche sono il risultato delle esternalità: le previsioni costituiscono un processo collettivo in cui le aspettative di qualcuno influenzano quelle di altri. Siamo ben lontani dalla favola (fairy tale) del mercato efficiente in cui individui indipendenti raccolgono informazioni per compiere la miglior previsione possibile, senza influenzarsi reciprocamente” (pag. 29). 

3.1. Piccola parentesi: quello delle esternalità è uno degli espedienti a cui ricorre l’economia neoclassica per restituire un po’ di realismo a modelli basati sull’individualismo metodologico, dai quali emerge l’immagine di una società, se tale si può definire, composta di automi senza storia, tanti io “acosmici”, li definirebbe Del Noce, da cui ogni traccia di politica è stata accuratamente purgata.
In realtà, per citare il solito Castoriadis, “il sottospazio economico, come ogni sottospazio sociale, non è né discreto né continuo (va da sé che questi termini sono utilizzati in senso metaforico). Nelle loro attività economiche, un individuo o un’azienda sono certo identificabili come entità a parte, ma la loro attività da ogni punto di vista è costantemente intrecciata con quella di un numero indefinito di altri individui o aziende in una molteplicità di modi non propriamente separabili.
Un’azienda decide in funzione di un “clima generale” nella pubblica opinione, e le sue decisioni modificheranno questo clima generale. Le sue azioni, senza che lo voglia o lo sappia, renderanno la vita e l’attività di altre aziende più facile (economie esterne) o più difficile (diseconomie esterne) e in cambio subirà, positivamente o negativamente, gli effetti delle azioni di altre aziende e di altri fattori della vita sociale. L’imputazione di un risultato economico a un’azienda è puramente convenzionale e arbitraria, segue delle frontiere tracciate dalla legge (proprietà privata), la convenzione o l’abitudine.” Che in quanto tali potrebbero ovviamente essere poste in discussione: non sia mai!
Chiusa parentesi.

3.2. Dicevo, da De Grauwe, dopo tali ammissioni, accompagnate della consueta citazione del famoso XII capitolo di Keynes, ci si potrebbe aspettare un qualche minimo accenno alla possibilità di limitazioni alla libertà di circolazione dei capitali. Neanche a parlarne, ovviamente.
De Grauwe cita anche il noto libro di Reinhart e Rogoff, Questa è volta e diverso, in cui, benché Cesaratto (Sei lezioni di economia, Imprimatur, Reggio Emilia, 2016, pag. 251) lo consideri “brutto” (probabilmente per l’impostazione molto mainstream), possiamo comunque trovare questo interessante grafichino:


Ma guarda un po’. Pare che durante la c.d. “repressione finanziaria”, cioè “il regime di controllo dei movimenti internazionali dei capitali e di disciplina dei mercati finanziari nazionali, che costituì uno dei pilastri del sistema finanziario internazionale del dopoguerra, quello progettato alla conferenza di Bretton Woods” (A. Bagnai, L’Italia può farcela, Il Saggiatore, Milano, 2014, s.p.), di crisi bancarie praticamente non ve ne siano state.
Non è che il misterioso rimedio all’“irrational exuberance” di greenspaniana memoria forse poi così misterioso non è?

FINE DELLA PRIMA PARTE


domenica 23 settembre 2018

LIBERISTA SFRENATO, A VOLTE PERSINO SELVAGGIO


POST DI BAZAAR



«Liberista sfrenato, a volte persino selvaggio»

(La democrazia costituzionale ed i suoi nemici)

In un interessante articolo, Luciano Capone, giornalista de “Il Foglio”, ci porta nei meandri del pensiero elitista di matrice liberale, regalandoci minuti di autentica estasi intellettuale.

Chiaramente non perché si condivida alcunché dell’elaborazione del giornalista, ma, se si desidera usare una metafora, si può affermare che ci si addentra nell’analizzare l’articolo con lo stesso entusiastico interesse con cui un oncologo esamina una biopsia particolarmente rivelatrice di una forma di cancro; o con l’appassionata curiosità di uno psichiatra che valuta gli effetti particolarmente vistosi di un paziente affetto da grave psicosi.

L’articolo si apre indicativamente così, non con una fenomenologia di fatti, ma con una serie di (pre)giudizi sulle orme della tradizione “elitistico-liberale”:

« Stiamo vivendo in un’epoca storica particolare. Le persone si trovano di fronte a problemi epocali – come la stagnazione economica o l’immigrazione – sono molto arrabbiate perché non vedono una via d’uscita all’orizzonte e in questa situazione vengono preferite le spiegazioni semplicistiche e le soluzioni facili a quelle più articolate. »

1 – Teorema della memoria corta (detto anche l’Alzheimer del liberista, oppure morbo di Al)

Secondo Luciano Capone – senza alcun riferimento al capitalista liberale statunitense, «sfrenato, e a volte persino selvaggio» – quest’epoca storica sarebbe «particolare»; ovvero i fatti sociali che la caratterizzano non sarebbero già conosciuti e studiati da un’abbondante letteratura (Bagnai 2011).

Siamo alla terza (alla terza!) globalizzazione, e gli effetti del «capitalismo sfrenato» –  come diceva l’amico di Al, Karl Popper – del liberoscambismo «selvaggio», della deregulation finanziaria, sono dibattuti e discussi almeno dai tempi di Adam Smith.

Che l’unione monetaria avrebbe comportato una «stagnazione economica», ovvero che l’euro avrebbe impresso «un bias deflazionista all’economia mondiale» (R.N. Cooper, 1978), non lo sapevano solo gli economisti in ambito accademico, ma anche coloro che politicamente premevano per l’integrazione europea (Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America, 1978).

Se abbiamo la documentata certezza che l’unione monetaria fu una consapevole scelta politica che avrebbe danneggiato il capitalismo industriale (quello soprattutto rappresentato delle PMI non in grado di delocalizzare) e la classe lavoratrice (tramite la compressione dei salari, l’instabilità occupazionale e l’alto tasso di disoccupazione e sottoccupazione), è anche documentato che la scelta del «liberismo sfrenato» accompagnata all’adesione alla «economia sociale di mercato» dei trattati europei, avrebbe usato l’immigrazione per riformare la sociostruttura in senso classista:

«Con l’annunciata costituzione dell’Unione europea, che già oggi vede al suo vertice i grandi paesi d’immigrazione del continente, noi possiamo facilmente prevedere la tentazione della classe dirigente a seguire il modello americano nella costruzione di una società a piramide, a strati etnico-sociali sovrapposti, incomunicabili fra loro, che avrebbero alla loro base gli immigrati dei paesi più lontani, e poi quelli dei paesi “associati” e poi ancora quelli “comunitari”, e in seguito i lavoratori locali e su di loro, man mano, gli altri strati superiori. La classe operaia resterebbe così divisa in tanti tronconi che si distinguerebbero per le loro origini etniche e non per i loro comuni interessi di classe, proprio così come oggi in America.» Paolo Cinanni, “Che cosa è l’immigrazione" (raccolta di scritti pubblicati tra il 1969 ed il 1973).

Un’analisi già compiuta più volte in questi spazi.

Cosa significa? Che gli studiosi delle scienze sociali hanno poteri divinatori?

No: significa che a scelte politiche corrispondono oggettive conseguenze sulla sociostruttura e sui rapporti di forza che questa permette tra capitale, lavoro ed i ceti creati dai relativi rapporti di produzione.

Deduciamo quindi che, secondo l'articolo in commento, «le spiegazioni semplicistiche e le soluzioni facili» sono da decenni quelle che – date determinate decisioni politiche – i massimi esperti di scienze sociali avevano usato per predire le dinamiche sociologiche in atto. Ovvero le dinamiche che, nei fatti, si sono effettivamente realizzate convalidando le determinanti ideologiche e di interesse materiale che erano ab origine ipotizzate nelle analisi e nella costruzione degli scenari previsionali.

Ma il liberista ha notoriamente la memoria corta: deve sedare il disagio cognitivo e il senso di inadeguatezza intellettuale causati dal veder costantemente i capisaldi della propria fede nel mercato invalidati dalla realtà: la realtà, ovvero ciò contro cui si va a sbattere.

Il liberista brama la fine della Storia perché il diritto all’oblio logora chi non ce l’ha.

Soprattutto quando la coscienza è quella che è. (Sicuramente non è il caso del nostro simpatico giornalista)


2 – Assioma dell’elitista: qualsiasi fenomeno avverso per le classi subalterne è un complotto di Madre natura. (Potere è potere di non prendersi responsabilità).

Lo smemoratino autore propone quindi un cavallo di battaglia della guerra fredda, un lavoro che un importante autore non proprio di simpatie socialiste come Voegelin definì: «una vergognosa e dilettantesca schifezza»: ovvero “La società aperta e i suoi nemici” di Karl Popper.

Opera in cui Popper ha l’audacia di affermare che i complotti non esistono salvo quelli tramati dai «nemici» della società aperta, ossia dai “nemici” dei liberali: ovvero, se esiste un complotto, è quello cospirato dai socialisti ai danni della grande borghesia liberal e dei rentier. (Che qualcuno chiamò giudaico-bolscevico, ma transeat).

Questa cospirazione ordita contro la “Società aperta” è avallata dal nostro, il quale, infatti, per senso dello Stato… ehm, no, è liberale…  per senso civico... meglio…   sentenza che «dove  si  diffonde una mentalità del genere poi i gruppi sociali tendono a organizzare contro-complotti».

Avete letto bene: se i subalterni non allineati al pensiero unico sono “complottisti”, scopriamo che gli elitisti sono «contro-complottisti» e hanno pure elaborato una “teoria contro-cospirazionista della società”.

Apperò.

Ciò che in realtà negava Popper, era di fatto l’esistenza del conflitto di classe – (Bazaar 2016) – supportando in modo un po’ «dilettantesco» – citando Voegelin – il paradigma epistemologico naturalista sostenendo che la prospettiva del conflitto generi la credenza patogena nei ceti subalterni che questi siano effettivamente subalterni e che, quindi, si possa organizzare la società con una maggior giustizia distributiva, una maggior giustizia sociale (che invece – secondo i liberali – non esiste, la distribuzione del reddito è naturale, e l’unica giustizia deve consistere in quella commutativa, con relativi procedimenti arbitrali).  Questa nuova consapevolezza (falsa, stando con il nostro), chiamata coscienza nazionale e di classe, porterebbe «i gruppi sociali» – aka la classe lavoratrice oppressa – ad ordire «contro-complotti», ossia a sindacalizzarsi e ad organizzarsi politicamente per rivendicare politiche socioeconomiche favorevoli ai propri interessi materiali.

Al giovane autore ricordiamo che il padre dell’epistemologia delle scienze sociali moderne rimane effettivamente Karl, ma non Karl Popper – anche se vanta Soros tra i suoi discepoli – ma Karl Marx, che di discepoli non ne ha più da decenni.

Qualcuno, però, la sociologia conflittualista prodotta da ciò che in economia si chiama conflitto distributivo, non se l’è dimenticata.

Lo sguardo di un democratico vero, ossia sociale, ha lo sguardo carico di prospettiva del conflitto. Prospettiva sociologica abbracciata dalla stragrande maggioranza dei nostri padri costituenti.

È difficile quindi leggere le ardite tesi del nostro senza provare gli stessi sentimenti che investivano Voegelin a sentir il vecchio liberale vaneggiare di «teoria cospirativa della società»:

«“Questa concezione dei fini delle scienze sociali deriva dall’erronea teoria che, qualunque cosa avvenga nella società – specialmente avvenimenti come la guerra, la disoccupazione, la povertà, le carestie, che la gente di solito detesta – è il risultato di diretti interventi di alcuni individui e gruppi potenti”, scriveva il filosofo liberale. Egli però non intendeva dire che nella storia non ci siano mai complotti. 
Anzi, Popper sosteneva che spesso avvengono “tutte le volte che pervengono al potere persone che credono nella teoria della cospirazione” che “sono facili quant’altre mai ad adottare la teoria della cospirazione e a impegnarsi in una contro-cospirazione contro inesistenti cospiratori”. In un altro passaggio di “Congetture e confutazioni”, spesso citato da Umberto Eco, Popper era ancora più esplicito: “Quando i teorizzatori della cospirazione giungono al potere, essa assume il carattere di una teoria descrivente eventi reali. Per esempio, quando Hitler conquistò il potere, credendo nel mito della cospirazione dei Savi Anziani di Sion, egli cercò di non essere da meno con la propria contro-cospirazione”. La Soluzione finale

Ohibò.

Secondo i liberali che vanno dal moderato Popper, a quelli sfrenati, a volte persino selvaggi, la «disoccupazione e la povertà» sarebbero fatti naturali e non derivanti dal conflitto distributivo e da chi si organizza per “vincerlo” e trarre maggior profitto.



 

Adam Smith sosteneva che

«Quali siano comunemente i salari dei lavoratori, dipende ovunque dal contratto che abitualmente viene perfezionato tra le due parti, i cui interessi non sono affatto i medesimi. I lavoratori desiderano guadagnare il più possibile, i padroni pagare il meno possibile. I primi sono disposti ad unirsi al fine di aumentare, questi ultimi al fine di diminuire i salari dei lavoratori. […] Non è, tuttavia, difficile prevedere quale delle due parti ottiene, generalmente in tutte le occasioni, il sopravvento nella controversia, e costringe l'altra in conformità dei suoi desiderata. I padroni, essendo meno numerosi, possono unirsi molto più facilmente; e la legge, inoltre, autorizza, o almeno non vieta loro, di associarsi, mentre lo vieta ai lavoratori».

Era il 1776.

Dobbiamo ritenere Adam Smith il padre del complottismo moderno? Un potenziale pensatore in grado di generare tragedie al pari della «Soluzione finale»?

Sicuramente l’abuso del pensiero smithiano ha generato tragedie: quelle causate dal liberismo acritico – a volte, selvaggio! – dei suoi nipotini.


3 – Il complotto di chi crede nella democrazia e nella Costituzione del ‘48: fenomenologia dell’anticospirazionismo liberale

Al nostro «pare essere sfuggito di mente» un periodo di almeno due secoli di letteratura scientifica, ma in compenso si ricorda selettivamente che «l’unico reale piano complottista», che consiste in «un piano para-golpista per condurre l’Italia fuori dall’Eurozona» – «tramite l’istituzione di un “Comitato” extracostituzionale», è quello organizzato dai “sovranisti” che prestano la propria professionalità ai partiti di governo di questa legislatura.

Se l’unico “complotto” è quello dei “complottisti” che lavorano per la democrazia e la giustizia sociale su cui questa si fonda, è evidente che, affermare pubblicamente di voler assicurarsi che la Repubblica sia condotta nell’alveo della legalità costituzionale, si trasforma in una cospirazione «para-golpista» per sovvertire la Costituzione in se stessa. Magia.

Il rischio di questo pericoloso sovvertimento potrebbe essere una «Soluzione finale». Il nostro dixit.

«I cospirazionisti, insegna Popper, non sono soltanto pericolosi perché credono ai complotti finti. Ma soprattutto perché, quando arrivano al potere, attuano quelli veri.» Chiosa, raggiungendo il culmine della tipica raffinatezza liberal dell’analisi sociologica.

Possiamo sviluppare così l’assioma: «Un cospirazionista che accede al potere si trasforma in un cospiratore».

(“Cospiratore” contro se stesso, dato che siamo in un regime democratico… almeno che non si ritenga sovversivo far rispettare la Costituzione formale al posto di quella materiale… magari anche a discapito di interessi esteri...)

Possiamo assumere che il nostro, in realtà, da bravo elitista liberale, ci stia parlando per proiezione, ovvero ci stia dicendo che – usando le parole del più rappresentativo tra coloro che si occuparono di sottrarre Banca d’Italia al controllo democratico, Andreatta – il processo di integrazione europea sia stato una «congiura aperta» o – stando con Guido Carli – un «atto sedizioso» configurabile come «un piano para-golpista per condurre l’Italia [dentro l’] Eurozona».

L’esegesi dell’articolo ci dà altri spunti di riflessione: «l’unico reale piano complottista» è quindi quello realizzato «tramite l’istituzione di un “Comitato” extracostituzionale», tipo Commissione Europea che, secondo voci maligne, sarebbe un noto comitato d’affari: il paradiso dei lobbisti «al riparo del processo elettorale», ricordando Monti.

Insomma, il nostro ci dà da intendere che i trattati europei operino extra e contra constitutionem.

Capiamo quindi che le scienze sociali supportano il progresso democratico quando riconoscono la volontà politica delle élite di imporre «disoccupazione e povertà», «la stagnazione economica o l’immigrazione». Tutt’altro che «analisi semplicistiche» che portano a «soluzioni facili».

Anzi, a seguire questa chiave ermeneutica, ipotizzare di lasciare il potere ai liberali, che non possono soffrire il controllo democratico della sovranità popolare, viene da pensare che l’unica soluzione riservata all’Europa dagli “anti-cospirazionisti” sia proprio la soluzione paventata dal nostro: quella «finale».