mercoledì 26 settembre 2018

DE GRAUWE E LA MERCIFICAZIONE DI TERRA, LAVORO E...MONETA. NO ESCAPE

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L'immagine soprastante, relativa a un noto aforisma di von Mises, mi è parsa appropriata e grottescamente divertente nel contesto del post: De Grauwe ne risulta...stroncato. Ma le fonti  DIRETTE della rivoluzione liberale stroncherebbero, a loro volta, il buon Mises...

POST DI ARTURO (naturalmente).


Nel post precedente ho dato conto del trattamento della questione euro contenuta nel libro di De Grauwe; questa volta recensirò il resto del volume, naturalmente con un’attenzione particolare ai temi più vicini agli interessi del blog. Non mancherà, credo, qualche spunto di interesse.

1. Iniziamo con una nota di colore, dal sapore fin troppo familiare: “La qualità delle nostre strade sta precipitando. A Lovanio, dove insegnavo, le profonde buche nelle strade quasi non vengono più riparate. Nel centro storico devo usare una mountain bike per evitare le buche e i bozzi che sfigurano le strade.” (pag. 51).
Tutto il mondo è paese, verrebbe da dire, o tutto il mondo è austero: “[…] dagli anni Ottanta la quota di investimenti pubblici in rapporto al PIL si è ridotta, riducendo le risorse disponibili per i beni pubblici” (Ivi).

1.1. Per noi non si tratta certo di una notizia sorprendente: come avevamo visto anni fa, era l’OCSE per prima a suggerire, in caso di “aggiustamenti”, di indorare la pillola della riduzione della spesa pubblica tagliando gli investimenti, in quanto politicamente meno sensibili rispetto alla spesa corrente (avevamo esaminato il caso italiano attraverso una lettura attenta del c.d. “rapporto Giarda”). Almeno finché la gente non inizia a cascare nelle buche o a precipitare dai ponti, naturalmente.

2. Veniamo ora al sodo: la tesi di fondo di De Grauwe consiste in una rilettura in chiave “ciclica” del punto di vista avanzato da Polanyi ne La grande trasformazione.

2.1. Riassumendo un po’ brutalmente, per Polanyi l’economia di mercato consiste in un progetto di separazione fra economico e sociale imposto alla società attraverso l’impiego del potere dello Stato (en passant, spero non vi sfugga la vicinanza di questa tesi, elaborata con gli strumenti dell’antropologia culturale, alla teoria marxiana della spoliticizzazione della società civile come risultato della c.d. accumulazione primitiva).
L’affidamento del benessere sociale alle forze cieche e impersonali del mercato, in particolare attraverso la mercificazione di terra, lavoro e moneta, sortisce non solo effetti indesiderabili, ma mette a rischio la possibilità stessa di riproduzione organica della società.  

2..2. Se i pericoli cui espone l’affidamento al mercato di terra e lavoro è intuibile, meno ovvio è il discorso sulla moneta, che può avere qualche interesse riportare, per saggiare una della tante rimesse a fuoco che la ricorrente pretesa di sottomettere la società a forze impersonali e politicamente incontrollabili ci costringe a compiere.
Vediamo un po’: 
“[…] se i profitti dipendono dai prezzi, gli accordi monetari che condizionano i prezzi debbono essere vitali per ogni sistema fondato sulla motivazione del profitto. Se nel lungo periodo i cambiamenti dei prezzi di vendita non condizionano i profitti, perché i costi corrispondenti scenderanno e saliranno di conseguenza, questo non è vero nel breve periodo, perché deve trascorrere un certo lasso temporale perché i prezzi fissati nei contratti, fra cui quello del lavoro, possano variare. Quindi, se il livello dei prezzi scendesse per ragioni monetarie per un periodo di tempo significativo, le imprese si troverebbero esposte al rischio di fallimento con connesse dissoluzione dell’organizzazione produttiva e distruzione di capitale. Insomma, il problema erano i prezzi i discesa, non quelli bassi. Hume è stato il fondatore della teoria quantitativa della moneta grazia alla scoperta che gli affari non sarebbero toccati da un dimezzamento della quantità di moneta: semplicemente i prezzi si aggiusterebbero sulla metà del loro attuale livello. Aveva tralasciato di aggiungere che nel processo l’economia potrebbe finire distrutta.” (K. Polanyi, The Great Transformation, Beacon Press, Boston, 2001, pag. 201). 

2.3. In effetti una delle funzioni fondamentali della banca centrale è sempre stata quella di evitare, o almeno ammorbidire, i contraccolpi della deflazione legati alle incerte disponibilità dei metalli preziosi. Non è quindi per nulla casuale, per dirla con Fantacci, che, quando la moneta, anziché essere d’oro, è l’oro (sto parlando della convertibilità aurea), essa diventa cartacea.
Ovvero: “La mia tesi è che il principio della moneta metallica non potesse funzionare senza l’introduzione della moneta di carta e la cancellazione della moneta immaginaria. Quest’ultima deve essere abolita perché, pur lasciando alla moneta metallica la funzione di mezzo di pagamento nelle transazioni internazionali, non le consente di rispondere ai meccanismi di equilibrio automatico che potranno essere poi schematizzati dagli economisti classici. La moneta di carta deve essere istituita perché quelle d’oro e d’argento non possono essere sempre commisurate alle esigenze della circolazione.” (L. Fantacci, La moneta, Marsilio, Venezia, 2005, pag. 141)
Aggiunge Fantacci: “Il gold standard, la moneta metallica, non poteva esistere senza la moneta di carta. La moneta non è mai stata un dato naturale. Nemmeno nel secolo d’oro, che stabilì l’identità della moneta con una quantità di materia metallica. Lo standard aureo non era una legge naturale, ma un’istituzione, funzionale alle esigenze del mercato autoregolato.” (Ibid., pag. 149).

(Che non è poi un’idea così originale: “un sostituto del bisogno è diventata la moneta, per accordo comune, e per questo ha il nome di moneta (nomisma), perché non è per natura, ma per convenzione (nomoi), e dipende da noi modificarla o porla fuori corso.”, Aristotele, Etica Nicomachea, 1133 a. Forse se si chiamano classici un motivo ci sarà…).

2.4. Insomma, un’istituzione dello Stato monoclasse al servizio del mercato autoregolato, ossia una forma di esercizio del potere, però senza politica
E naturalmente pure senza diritto, quando appunto una decisione politica su modi e finalità dell’esercizio di quel potere, nell’ambito di un più generale superamento di quella vecchia concezione del rapporto fra Stato e società civile, invece vi sia stata.  
Sono osservazioni che consentono di ribadire un punto su cui mi pare ci siano ancora equivoci: l’antistatalismo liberale è solo una posa ideologica per attaccare la democrazia, ma non corrisponde minimamente a una reale aspirazione o pratica di “non intervento”. Ne abbiamo ripetutamente parlato, soprattutto qui (n. 1), ma può essere una buona occasione per ripeterlo.
Come nota ad esempio Polanyi con ironia (op. cit., pag. 204):
L’attività delle banche centrali riduceva l’automatismo del gold standard a mera facciata. Essa implicava valute controllate da un potere centrale, che sostituiva la manipolazione al meccanismo autoregolato di offerta del credito, benché il procedimento non fosse sempre consapevole e deliberato. Risultò sempre più chiaro che l’unico modo per rendere il gold standard realmente autoregolato sarebbe stato eliminare le banche centrali. L’unico coerente sostenitore del gold standard che effettivamente invocò questo passo estremo fu Ludwig von Mises, il cui consiglio, se fosse stato seguito, avrebbe trasformato le economie nazionali in un cumulo di rovine.
Come ci ricorda De Grauwe (pag. 129), e si intuiva dalla citazione di Cesaratto che ho riportato la scorsa volta, il QE non rappresenta che un esempio estremo di questo interventismo della banca centrale riservato agli happy few: esso è figlio dell’ammonimento di Milton Friedman a pompare enormi quantità di liquidità nel sistema finanziario per evitare la spirale deflazionista degli anni ’30. E il resto dell’economia si accontenti di quel che cade dal tavolo.
Insomma, il mercato sempre ha avuto e, fino a prova contraria, sempre avrà, bisogno dello Stato, prima di tutto per gestire i bei frutti dell’emarginazione sociale che lascia dietro di sé (vi ricordo queste citazioni di Wacquant e Vickrey). Qualcosa mi dice che la prossima crisi finanziaria ci aiuterà a chiarire il punto. :-)

2.5. Naturalmente il rapporto fra Stato e mercato può essere molto diverso: il punto sollevato da Polanyi, e ripreso da De Grauwe, era proprio questo: l’abbandono della finzione che pretendeva che terra, lavoro e moneta fossero merci, ossia il superamento di free trade, deregolamentazione del mercato del lavoro e gold standard, è ciò in cui consiste la Grande Trasformazione.
Si tratta, a guardar bene, di uno dei vari modi per esprimere quel passaggio, avvenuto durante e dopo la crisi del ’29 e la seconda guerra mondiale, descritto da Minsky in termini di trasformazione di un capitalismo “small government gold standard constrained laissez-faire” in uno “big government flexible central bank interventionist” (argomento sui cui vi rimando ovviamente al capitolo I di Euro e (o?) democrazia costituzionale).
Mentre Polanyi riteneva la trasformazione irreversibile, abbiamo invece assistito a un ritorno indietro: ecco spiegata la metafora del pendolo contenuta nel titolo del libro.
De Grauwe ritiene tuttavia che questo ritorno al “capitalismo liberale”, per usare proprio un’espressione di Polanyi, a partire dagli anni Ottanta dello scorso secolo, e il crescente scontento che ha prodotto, preludano a una nuova oscillazione verso un ruolo più attivo, o meglio: diversamente attivo, dello Stato.
Certo, sul piano del, diciamo, distacco di larghe fette dell’elettorato dalle meraviglie del “nuovo”, non si può dire che le preoccupazioni di De Grauwe siano infondate; anche nell’identificazione dei motivi di scontento l’analisi è abbastanza plausibile; è nell’identificazione delle cause, e quindi dei rimedi, che il libro secondo me risulta molto insoddisfacente.
Delle varie questioni esaminate selezionerò le due che mi sembrano più importanti, e rispetto a cui con più evidenza si manifesta l’inadeguatezza delle analisi e delle conseguenti terapie: la finanziarizzazione e la disuguaglianza

3. Nel capitolo 3 De Grauwe dà atto dell’inattendibilità del modello dei mercati efficienti, che non tiene conto delle esternalità legate a comportamenti “da mandria”: “dinamiche di boom euforico che si trasformano in pessimismo e recessione sono state parte del capitalismo per secoli, spingendolo costantemente contro questo suo limite. Tali dinamiche sono il risultato delle esternalità: le previsioni costituiscono un processo collettivo in cui le aspettative di qualcuno influenzano quelle di altri. Siamo ben lontani dalla favola (fairy tale) del mercato efficiente in cui individui indipendenti raccolgono informazioni per compiere la miglior previsione possibile, senza influenzarsi reciprocamente” (pag. 29). 

3.1. Piccola parentesi: quello delle esternalità è uno degli espedienti a cui ricorre l’economia neoclassica per restituire un po’ di realismo a modelli basati sull’individualismo metodologico, dai quali emerge l’immagine di una società, se tale si può definire, composta di automi senza storia, tanti io “acosmici”, li definirebbe Del Noce, da cui ogni traccia di politica è stata accuratamente purgata.
In realtà, per citare il solito Castoriadis, “il sottospazio economico, come ogni sottospazio sociale, non è né discreto né continuo (va da sé che questi termini sono utilizzati in senso metaforico). Nelle loro attività economiche, un individuo o un’azienda sono certo identificabili come entità a parte, ma la loro attività da ogni punto di vista è costantemente intrecciata con quella di un numero indefinito di altri individui o aziende in una molteplicità di modi non propriamente separabili.
Un’azienda decide in funzione di un “clima generale” nella pubblica opinione, e le sue decisioni modificheranno questo clima generale. Le sue azioni, senza che lo voglia o lo sappia, renderanno la vita e l’attività di altre aziende più facile (economie esterne) o più difficile (diseconomie esterne) e in cambio subirà, positivamente o negativamente, gli effetti delle azioni di altre aziende e di altri fattori della vita sociale. L’imputazione di un risultato economico a un’azienda è puramente convenzionale e arbitraria, segue delle frontiere tracciate dalla legge (proprietà privata), la convenzione o l’abitudine.” Che in quanto tali potrebbero ovviamente essere poste in discussione: non sia mai!
Chiusa parentesi.

3.2. Dicevo, da De Grauwe, dopo tali ammissioni, accompagnate della consueta citazione del famoso XII capitolo di Keynes, ci si potrebbe aspettare un qualche minimo accenno alla possibilità di limitazioni alla libertà di circolazione dei capitali. Neanche a parlarne, ovviamente.
De Grauwe cita anche il noto libro di Reinhart e Rogoff, Questa è volta e diverso, in cui, benché Cesaratto (Sei lezioni di economia, Imprimatur, Reggio Emilia, 2016, pag. 251) lo consideri “brutto” (probabilmente per l’impostazione molto mainstream), possiamo comunque trovare questo interessante grafichino:


Ma guarda un po’. Pare che durante la c.d. “repressione finanziaria”, cioè “il regime di controllo dei movimenti internazionali dei capitali e di disciplina dei mercati finanziari nazionali, che costituì uno dei pilastri del sistema finanziario internazionale del dopoguerra, quello progettato alla conferenza di Bretton Woods” (A. Bagnai, L’Italia può farcela, Il Saggiatore, Milano, 2014, s.p.), di crisi bancarie praticamente non ve ne siano state.
Non è che il misterioso rimedio all’“irrational exuberance” di greenspaniana memoria forse poi così misterioso non è?

FINE DELLA PRIMA PARTE


1 commento:

  1. "Insomma, un’istituzione dello Stato monoclasse [la moneta] al servizio del mercato autoregolato, ossia una forma di esercizio del potere, però senza politica.
    E naturalmente pure senza diritto..."

    Osservo: e mica solo la moneta...

    Romani - Capitolo 13 (Sottomissione ai poteri civili)

    [1]Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c'è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio.
    [2]Quindi chi si oppone all'autorità, si oppone all'ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono si attireranno addosso la condanna.
    [3]I governanti infatti non sono da temere quando si fa il bene, ma quando si fa il male. Vuoi non aver da temere l'autorità? Fà il bene e ne avrai lode,
    [4]poiché essa è al servizio di Dio per il tuo bene. Ma se fai il male, allora temi, perché non invano essa porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi opera il male.
    [5]Perciò è necessario stare sottomessi, non solo per timore della punizione, ma anche per ragioni di coscienza.
    [6]Per questo dunque dovete pagare i tributi, perché quelli che sono dediti a questo compito sono funzionari di Dio.
    [7]Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo, il tributo; a chi le tasse le tasse; a chi il timore il timore; a chi il rispetto il rispetto.

    Peccato che i vescovi si tradiscano ogni santo giorno dando addosso al Governo Conte...

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