venerdì 29 maggio 2020

LIBERTA' DI SUICIDARSI CON UN "AUSILIO IN FORMA COMMERCIALE" O PREVENIRE POVERTA' ED ESCLUSIONE SOCIALE?

Post di Francesco Maimone.
Da leggere fino in fondo: se appare evidente quanto siamo distanti dalla cultura giuridica e socio-politica tedesca, ciò basta a giustificare il fatto compiuto di aver lasciato la nostra Costituzione in un "limbo" solo per non dover porre in discussione i "principi" del diritto Ue (che la stessa Germania, per i suoi interessi finanziari ed economici, ormai pone così radicalmente in discussione)?


Cosa si può contrapporre, da parte di una classe innovatrice, a questo complesso formidabile di trincee e fortificazioni della classe dominante? Lo spirito di scissione, cioè il progressivo acquisto della coscienza della propria personalità storica…
(A. Gramsci)

1. In un recente post, Quarantotto si chiedeva  … qual è il valore di una vita salvata? E specialmente, quello di una vita che non si è potuta salvare?...”. Ci sembra opportuno recuperare quelle domande a partire da un’analisi comparata della giurisprudenza costituzionale in tema di “suicidio”. La problematica del fine vita affrontata di recente dai giudici costituzionali italiani e tedeschi, e passata in sordina, si rileva di estrema attualità ed è collegata anche alla “emergenza” in corso più di quanto non si riesca a percepire di primo acchito. Bisogna anticipare sin da subito che le pronunce della Corte Costituzionale italiana sono di gran lunga da preferire a quella dell’omologo plesso germanico. Non ci si può però esimere dal constatare, nei termini che verranno spiegati, le persistenti aporie a tutt'oggi irrisolte contenute nelle pronuncie della Consulta, soprattutto se confrontate con la giurisprudenza adottata dalla stessa degli ultimi tre decenni in materia di “diritti sociali”.

2. La Corte costituzionale federale tedesca è intervenuta sulla problematica del suicidio assistito con sentenza del 26 febbraio 2020 nel giudizio di costituzionalità dell’art. 217 del codice penale tedesco (Strafgesetzbuch-StGB) che disciplina il reato di sostegno professionale al suicidio” (Geschäftsmäßige Förderung der Selbsttötung), [sull’argomento, si rimanda all’approfondimento di F. CAMPLANI, Diritto penale e fine vita in Germania. I reati di omicidio su richiesta e di sostegno professionale al suicidio nello Strafgesetzbuch, in Giurisprudenza Penale Web, 2019, 1-bis]. Della dispozione in parola, il primo comma prevede che “Chiunque, con l’intenzione di agevolare il suicidio altrui, professionalmente offra, procuri o medi l’occasione per suicidarsi, è punito con la reclusione fino a tre anni o con la multa”. Secondo la dottrina citata, l’avverbio è stato utilizzato …per intendere un supporto attivo, continuato nel tempo…e organizzato alle altrui intenzioni di suicidarsi, senza la necessità che tale attività rappresenti una fonte di profitto per chi la propone…” [F. CAMPLANI, Diritto penale e fine vita in Germania, cit., 13].

2.1 Come si ricava dalla sentenza (§ 2), ognuna delle categorie di ricorrenti ha dedotto articolate argomentazioni per sostenere l’incostituzionalità dell’art. 217 a seconda della lesione ravvisata alla propria posizione: a) le persone affette da gravi patologie hanno sostenuto che la disposizione impugnata avrebbe violato la loro dignità umana (art. 1, comma I, della Grundgesetz, per brevità GG), nonché il loro diritto all’autodeterminazione (art. 2, comma I, GG), la quale includerebbe anche la decisione di ottenere assistenza al suicidio da parte di terzi; b) le associazioni hanno lamentato che l’art. 217 avrebbe leso la loro libertà di associazione (art. 9, comma I, GG), la libertà di scegliere la professione (art. 12, comma I, GG) ed il diritto al libero sviluppo (art. 2, comma I, GG); c) i rappresentanti organizzativi, dipendenti e medici svolgenti prestazione lavorativa presso le associazioni hanno sollevato le medesime censure dei loro datori di lavoro, denunciando altresì la violazione della loro libertà di coscienza (art. 4, comma I, GG); d) infine gli avvocati hanno affermato che la disposizione penale sarebbe stata lesiva della libertà di professione in quanto non avrebbe consentito loro di prestare consulenza ed assistenza nella gestione suicidaria (§ 3-6).

3. Senza soffermarci in modo dettagliato nell’analisi della corposa sentenza, appesantita da richiami comparatistici, analisi storiche ed esame di osservazioni presentate nell’occasione anche dagli “amici curiae”, è sufficiente ai nostri fini concentrare l’attenzione sui § 204 ss. nei quali i Giudici di Karlsruhe hanno sostanzialmente accolto tutte le censure proposte dai ricorrenti, dichiarando l’art. 217 del codice penale non conforme alla GG.

3.1. La Corte ha colto l’occasione innanzi tutto per declinare in modo compiuto un DIRITTO FONDAMENTALE AL SUICIDIO, ancorandolo al principio della cosciente autodeterminazione come corollario della dignità umana. E’ stato affermato che “…il diritto della persona capace di libera autodeterminazione…di suicidarsi è coperto dal contenuto di garanzia del diritto della personalità (§ 204) ed “…il rispetto e la protezione della dignità umana sono principi dell’ordine costituzionale(§ 205), con la conseguenza che “il diritto generale della personalità… comprende anche un diritto alla morte autodeterminata, che include il diritto al suicidio. La protezione dei diritti fondamentali si estende anche alla libertà di chiedere aiuto a terzi a tale scopo e di farne uso per quanto offerto” (§ 208). Sul punto, ha ancora specificato che “…la decisione di porre fine alla propria vita è di importanza esistenziale per la personalità di una persona” e che “il senso che l’individuo vede nella propria vita è soggetto ad idee e credenze molto personali” riguardanti “…questioni fondamentali dell’esistenza umana” in grado di influenzare “l’identità e l’individualità … come nessun altra decisione” (§ 209).

3.2 Tale esordio - sebbene i protagonisti principali della vicenda fossero persone affette da gravi patologie - ha però dato alla Corte la stura per spingersi ben oltre la fattispecie concreta; essa si è così preoccupata di osservare in via generale che “…il diritto alla morte autodeterminata come espressione della libertà personale non si limita alle situazioni definite da altri”, nel senso che “…il diritto di disporre della propria vita…NON SI LIMITA IN PARTICOLARE ALLE MALATTIE GRAVI O INCURABILI O A DETERMINATE FASI DELLA VITA”. Ciò in quanto il restringimento del diritto al suicidio a determinati motivi “…equivarrebbe ad una valutazione dei motivi per i quali la persona aveva deciso di suicidarsi e una predeterminazione basata sul contenuto che è estranea al concetto di libertà della Legge Fondamentale”. In breve, il diritto alla morte autoderminata come espressione del “libero arbitrio” (freier Wille), in quanto “RADICATO NELLA GARANZIA DELLA DIGNITÀ UMANA”, implica che “…la decisione autodeterminata relativa alla fine della propria vita NON RICHIEDE ULTERIORI GIUSTIFICAZIONI (e) DEVE ESSERE RISPETTATA DA PARTE DELLO STATO E DELLA SOCIETÀ” (§ 210 e, negli stessi termini, al § 211).

3.3 Fissata tale specificazione, la Corte ne ha fatto discendere alcune conseguenze, e cioè: I) che  “… il diritto di uccidersi, protetto dall’art. 2, paragrafo 1, GG, comprende anche la libertà di chiedere aiuto a terzi”(§ 212). In tali eventualità, invero, “l’esercizio di un diritto fondamentale dipende dal coinvolgimento di terzi ed il libero sviluppo della personalità dipende in questo modo dalla partecipazione di un altro(§ 213);
II) che il divieto di promozione del suicidio legato alle imprese “rende praticamente impossibile per i denuncianti avvalersi dell’aiuto suicida” (§ 216). Siffatto divieto, atteggiandosi a “limitazione oggettiva della libertà di suicidarsi” (§ 218), è stato perciò giudicato non rigorosamente proporzionato (§ 220-223) alla tutela della libertà fondamentale ed all’autonomia dell’individuo. Il ragionamento è stato infine esteso anche a tutti quei soggetti (medici, avvocati etc.) i quali collaborano con organizzazioni che prestano assistenza al suicidio (cfr. § 310 ss.).

4. Sebbene non si disponga di sufficienti riferimenti storico-esegetici in grado di consentire una ricostruzione sistematica del significato che i costituenti tedeschi hanno inteso attribuire nella GG a concetti chiave come “dignità umana”o “libero sviluppo della propria personalità”, non è tuttavia fuori luogo affermare che la sentenza tedesca rappresenti un manifesto dell’individualismo sfrenato ed anticomunitario (qui, p. 7 e 8), avallato dai giudici con un un formalismo riesumato dalla “cassetta degli attrezzi” di matrice illuministica. Tale conclusione risulta particolarmente giustificata se si considerano i capi della sentenza (e sono tanti) in cui la “libertà” della persona (nella fattispecie, quella di togliersi la vita anche in assenza di patologie irreversibili e refrattarie a trattamenti sanitari) viene fatta corrispondere tout-court al “libero arbitrio” di un soggetto totalmente astratto non contaminato con la realtà concreta.

4.1 Il suicidio, nella visione della corte tedesca, non presenterebbe insomma alcun legame e rapporto eziologico con le condizioni sociali; lo Stato, dal canto suo, avrebbe il compito non di adoperarsi attivamente per creare le condizioni affinché la vita sia sempre degna di essere vissuta, bensì quello prevalente di tutelare (non viene spiegato come) la genuinità dell’autodeterminazione della persona (§ 223). Ecco perché il divieto di promozione del suicidio legato alle imprese “… deve essere valutato in base ad una rigorosa proporzionalità” (v. anche § da 227 a 230).

4.2 Il principio di “rigorosa proporzionalità” (che sappiamo già essere un parametro caratteristico nel giudizio della corte tedesca) nonché quello di “ragionevolezza” (§ 223) sono perciò gli strumenti utilizzati dai giudici per sancire il désengagement sostanziale dello Stato teutonico oltre che nei rapporti con gli altri Stati appartenenti all’U€, ancor prima nei rapporti interni. Nessuna solidarietà della Germania, dunque, in primo luogo nei confronti dei propri cittadini i quali, a quanto pare di intuire, qualora non trovassero di loro gradimento le c.d. riforme Harz (compresa la “meravigliosa” Hartz IV), saranno “liberi” di “farla finita”, brandendo il vessillo dell’autodeterminazione e della dignità umana proprie di una democrazia filosofica, in un cortocircuito logico tipico di un teatro dell’assurdo.

4.3 La riflessione non dovrebbe trascurare, oltre al già rammentato “diritto fondamentale” di togliersi la vita (disegnato da Karlsruhe alla stregua di mera “libertà negativa”), anche quello di avvalersi di soggetti terzi (privati) in grado si fornire un ausilio professionale ed “in forma commerciale”. Dietro tali capi della sentenza si può intravvedere la scrittura di uno “Statuto” nel quale la vita umana (e persino le sue sofferenze) viene concepita come nuova “categoria merceologica”, una semplice “materia prima” come tante altre; la trasformazione dell’essere umano a quello che già Heidegger definiva “puro fondo” (bloss Bestand) e che anzi paventava potesse diventare “la più importante materia prima” (wichtigste Rohstoff) [M. HEIDEGGER, Oltrepassamento della metafisica, in Saggi e discorsi, Milano, 1976, 60]. Il capolavoro di impronta orwelliana consiste, allo stesso tempo, nello spacciare tale operazione come una conquista da annoverare tra i “diritti fondamentali, in modo che si possa ottenere l’adesione se non la collaborazione entusiasta degli oppressi. Ci pare superfluo aggiungere altro, dovendosi lasciare alla coscienza del lettore il compito di trarre le proprie conclusioni.

5. Anche la Corte Costituzionale italiana si è occupata recentemente dell’argomento, in particolare con l’ordinanza n. 207/2018 e la successiva sentenza n. 242/2019 che hanno definito il c.d. caso Cappato.
5.1. La Corte d'Assise di Milano aveva sollevato q.l.c. dell'art. 580 c.p., laddove prevede il delitto di istigazione o aiuto al suicidio, per violazione tra l’altro degli artt. 2, 13 e 32 Cost, che riconoscerebbero alla persona la facoltà di autodeterminarsi anche in ordine alla fine della propria vita. Con ordinanza interlocutoria (n. 207 del 2018), la Corte ha affermato che, entro determinati limiti, la norma impugnata sarebbe stata censurata di incostituzionalità, a meno che il Parlamento non avesse nel frattempo provveduto ad approvare una nuova disciplina della materia, rinviando all'udienza del 24 settembre 2019. A tale udienza, dopo aver appurato il mancato intervento del legislatore, la Corte ha dichiarato incostituzionale l'art. 580 c.p. nei termini di cui infra.

5.2 Tra le citate pronunce e quella della Corte di Karlsruhe deve registrarsi un divario abissale, non fosse altro che la Consulta non ha mai lontanamente ventilato un diritto soggettivo a morire, tanto meno “fondamentale” [si rinvia alle interessanti osservazioni di F. CONSULICH, Stat sua cuique dies libertà o pena di fronte all'aiuto al suicidio?, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, fasc.1, Marzo 2019, 101 ss.]. Anzi, già nell’ordinanza interlocutoria (cui si farà riferimento nel prosieguo, ed alla quale la sentenza n. 242/2019 si ricollega in “consecuzione logica e complementare”), la Corte aveva avvertito che “l’incriminazione dell’aiuto al suicidio non può essere ritenuta incompatibile con la Costituzione”. Posta tale importante premessa, i giudici hanno ritagliato con certosina attenzione un'area di illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. al ricorrere, però, di rigorose condizioni (cfr. punto 8 delle considerazioni in diritto).

5.3 E dire che, con il provvedimento di rimessione, il giudice a quo aveva pur tentato di prospettare l’illegittimità dell’art. 580 c.p.c. facendo leva su argomentazioni che ricordano quelle “liberali” ed individualiste utilizzate nell’esaminata sentenza della Corte tedesca (cfr. le considerazioni in fatto). La Consulta ha però correttamente respinto detta tesi. Di tutto il ragionamento esplicitato dalla Corte nell’ordinanza n. 207/2018, in questa sede preme tuttavia sottolineare alcuni profili che, per le implicazioni sistematiche e socio-politiche che ne dovrebbero discendere, sembrano inspiegabilmente essere stati trascurati nei pur numerosi commenti che è stato possibile reperire.

5.4 Ed infatti, allorché ha rinvenuto la ratio di tutela sottesa all’art. 580 c.p., individuandola nella “persona umana come valore in sé” e nel “rispetto del bene della vita”, la Consulta ha espressamente impiegato in motivazione il parametro costituzionale di cui all’art. 3, comma II, Cost., declinandolo nei termini che meritano integrale menzione:
“… Il divieto in parola [ovvero l’aiuto al suicidio] conserva una propria evidente ragion d’essere anche, se non soprattutto, nei confronti delle persone malate, depresse, psicologicamente fragili, ovvero anziane e in solitudine, le quali potrebbero essere facilmente indotte a congedarsi prematuramente dalla vita, qualora l’ordinamento consentisse a chiunque di cooperare anche soltanto all’esecuzione di una loro scelta suicida, magari per ragioni di personale tornaconto. Al legislatore penale non può ritenersi inibito, dunque, vietare condotte che spianino la strada a scelte suicide, in nome di una concezione astratta dell’autonomia individuale che IGNORA LE CONDIZIONI CONCRETE DI DISAGIO o di abbandono nelle quali, spesso, simili decisioni vengono concepite. Anzi, è compito della Repubblica PORRE IN ESSERE POLITICHE PUBBLICHE VOLTE A SOSTENERE CHI VERSA IN SIMILI SITUAZIONI DI FRAGILITÀ, RIMOVENDO, IN TAL MODO, GLI OSTACOLI CHE IMPEDISCANO IL PIENO SVILUPPO DELLA PERSONA UMANA (art. 3, secondo comma, Cost.)”.

5.5 Il giudizio della Corte ci sembra ineccepibile e rovescia di centottanta gradi quello dell’omologa Corte tedesca: nell’ordinamento italiano, ed a Costituzione vigente, non può trovare posto un generale “diritto di morire” ancorato alla mitica autodeterminazione” della persona né tanto meno al suo “libero arbitrio. L'interruzione dell'esistenza può, semmai, giustificarsi in modo del tutto eccezionale e come extrema ratio di tutela della personalità dell'individuo e delle sue scelte in presenza di rigorosissimi presupposti che possono coincidere - fuor di ogni moralismo - con altrettante vicende drammatiche della vita di ogni persona. L’intervento dell’Ordinamento non può, pertanto, limitarsi all’asettica astensione “liberale” di fronte al proposito di chi intende darsi la morte, anche servendosi dell’aiuto di terzi (libertà negativa). Viceversa, l’Ordinamento (la Repubblica) ha in modo fisiologico il dovere di adoperarsi con ogni mezzo nel rimuovere gli ostacoli che si frappongano al “diritto di fiorire” della persona (libertà positiva) e, quindi, di consentire alla stessa di vivere pienamente ed in modo dignitoso.

6. Discorso chiuso, dunque? Niente affatto. A noi sembra, invece, che siffatto approdo giurisprudenziale debba rappresentare solo l’inizio di una riflessione il cui finale attende fattivo compimento. 
Il fatto che la Corte Costituzionale abbia evocato proprio l’art. 3, comma II, Cost. - norma nella quale Romagnoli intravvedeva “… la prova più evidente della sincerità” della Carta – non può infatti farci dimenticare che altrettanto atteggiamento sincero non sempre si è riscontrato nella Corte Costituzionale nell’uso della norma in parola, “… UN USO GENERALMENTE FURTIVO” che aveva portato Livio Paladin a “…(sconsigliare) la Corte di proseguire oltre su questa strada – “una strada sbagliata”…” [così U. ROMAGNOLI, Commentario della Costituzione, (a cura di) G. Branca, art. 3, Bologna, 1975, 171-172; il riferimento è a L. PALADIN, Il principio costituzionale di uguaglianza, Milano, 1965, 137 ss.].

6.1 E’ innegabile anche oggi, d’altronde, che “… dalla stragrande maggioranza degli operatori giuridici la disposizione [sia] considerata un grande brutto “cliente”, un botoletto dotato di mostruosa vitalità che è bene lasciare all’uscio, sonnecchiante e al guinzaglio. Dal loro punto di vista, non hanno torto” poiché “il 2° comma dell’art. in questione rappresenta davvero la cattiva coscienza dell’ordinamento e dei suoi sacerdoti” [U. ROMAGNOLI, cit.]. 
L. Basso non a caso qualificava l’art. 3, comma II, come “… LA NORMA FONDAMENTALE DELLA COSTITUZIONE [quella che] LA PUÒ SOVVERTIRE TUTTA”. Ed in questo senso, è incontestabile il fatto che sovente la Corte si sia servita principalmente “… del 1° comma dell’art. in esame per accedere [solo] in punta di piedi all’interno delle strutture giuridiche costruite dalla “esperienza storica liberale e democratica” allo scopo di sottoporle ad un’ispezione che, per il modo in cui è condotta, non suscita a priori eccessivo allarmismo”, ciò in quanto “il 1° comma è figlio della stessa esperienza “liberale democratica” [U. ROMAGNOLI, cit., 174], mentre dovrebbe sottolinearsi “… che nell’art. 3, 2° comma, l’esperienza liberale e democratica quasi rinneghi se stessa” [P. RESCIGNO, Persona e comunità, Bologna, 1966, 391].

7.  L’uso “furtivo” di tale norma [come ammesso anche dalla dottrina, cfr. per tutti F. SORRENTINO, Uguaglianza formale, Costituzionalismo.it, fasc. 3/2017, 20], proprio perché “sovversiva”, se proprio per questo motivo non può passare inosservato, allo stesso modo rischia di rivelarsi insoddisfacente nel caso in cui si limiti ad una deferente e simbolica menzione. Brandire l’art. 3, comma II, Cost., implica, infatti, il pieno riconoscimento di quella formidabile carica pragmatica-effettuale [F. SORRENTINO, cit. , 4, parla di “valore dinamico e positivo” del precetto in parola”] che le è sottesa, ciò in quanto l’uguaglianza sostanziale - come compito inderogabile della Repubblica - rappresenta il “… corollario finalistico e perciò qualificante, risolutivo delle questioni, domande, aspirazioni, obiettivi la ragione e la direzione costituzionalmente vincolata della dinamica che gli è costituzionalmente prescritta [così G. FERRARA, I diritti del lavoro e la costituzione economica italiana ed in Europa, in Costituzionalismo.it, fasc. 3/2005]. Detto diversamente, proprio perché della Costituzione è coinvolto il principio più importante ed in grado di esprimere al massimo grado il concetto di sovranità, non può ritenersi appagante il solo “gettare il sasso e poi ritirare la mano”.

7.1. E’ possibile cogliere appieno il senso di quanto appena detto se si considera che “… scarsa importanza pratica [la norma di cui all’art. 3, comma II] rivestirebbe se non trovasse svolgimento in disposizioni, armonicamente coordinate fra loro, rivolte, per una parte, a darle immediata concretezza” [C. MORTATI, Costituzione delle Repubblica italiana (voce), in Enc. del diritto, Milano, 1962, 217], disposizioni che difatti si rinvengono “… nella seconda parte [della Cost.], dedicata ai rapporti economici” [C.MORTATI, cit.] e che formano quella che impropriamente è denominata “costituzione economica” (artt. 36-47 Cost.) da intendersi come gli “STRUMENTI ATTRAVERSO I QUALI SI DISPIEGA L’ASSIOMA [del fondamento-lavoro]” [G. FERRARA, I diritti del lavoro, cit. , 2].

7.2 In altri termini, è necessario ribadire (qui, p. 2) che se da un lato i principi fondamentali della Carta (art. 1-12) fissano lo scopo che la Repubblica deve perseguire (la c.d. “democrazia necessitata”), le disposizioni contenute nella parte economica configurano gli strumenti (o mezzi) con i quali detto fine deve essere realizzato. La questione, d’altronde, fu chiara ai futuri Costituenti e dagli stessi dibattuta, in quanto – come ebbe a scrivere tra gli altri Calamandrei nell’agosto del 1945 -  “… il problema vero non [era] quello della enumerazione dei diritti (sociali)…”, ma il problema vero era quello “di predisporre i mezzi pratici per soddisfarli [P. CALAMANDREI, Costituente e questione sociale, in Costruire la democrazia – Premesse alla Costituente, Editrice Le Balze, 2003, 79]. 
Che poi il “sistema economico” scelto e contenuto nelle disposizioni della seconda parte della Carta sia stato quello di chiara ispirazione keynesiana, è ormai un dato storico assodato che si ricava agevolmente dai lavori della Costituente la quale, nel concepire la trasformazione dell’esistente ed il superamento del capitalismo storico”, delineò quelle che Meuccio Ruini definì “le quattro vie”, ovvero: “… lo Stato assistenziale (welfare), la perequazione e distribuzione dei redditi, la modifica strutturale dell’impresa privata e l’estensione dell’impresa pubblica [M. RUINI, Lavoro e comunità di Lavoro, Ed. Nuova Cultura, 2013, 73].

7.3. Bisognerà prima o poi prendere atto, in generale, dell’importanza che rivestono i mezzi nella realizzazione di uno scopo, come ben spiegato da Hegel nella sezione “teleologia” della sua Scienza della Logica. La teleologia presuppone un contenuto e quindi un concetto; e tale contenuto, in quanto scopo razionale, deve essere una totalità: “… La relazione dello scopo è perciò più che un giudizio; è il sillogismo del libero concetto per sé stante che si riconnette con sé stesso mediante l’oggettività…” [G.W.F. HEGEL, Scienza della Logica, trad. it. A. Moni, Bari, 1925, Libro III 223]”. Il concetto si presenta perciò come realizzazione dello scopo soggettivo quale unità di essere oggettivo con lo scopo medesimo. Dal che ne consegue che l’unico modo per connettere uno scopo con l’oggettività è il mezzo per realizzarlo, il quale svolge la stessa funzione di medio di un sillogismo espresso dall’oggettività, ad un estremo, e dalla soggettività dello scopo dall’altro. Entrambi si mediano proprio attraverso il mezzo: “… Lo scopo si conclude per opera di un mezzo coll’oggettività, ed in questa si conclude con sé stesso. IL MEZZO È IL TERMINE MEDIO DEL SILLOGISMO” [G.W.F. HEGEL, Scienza della Logica, trad. it. A. Moni, Bari, 1925, Libro III, 228].

8. Per tornare alle pronunce della Consulta, si può dire che l’utilizzo dell’art. 3, comma II, Cost., dovrebbe immancabilmente comportare: 
a) che fosse data sempre per riconosciuta dai giudici costituzionali la sostanziale ed intima inferenza tra quelle che Lavagna ha definito “le norme strumentali” - ovvero, la “costituzione economica” - e le “norme di scopo”, cioè la democrazia sociale [C. LAVAGNA, Costituzione e socialismo, Bologna, 1977, 52 e 61]; 
b) per l’effetto logico, che fossero sempre soggetti a rigoroso sindacato di costituzionalità anche tutti quegli atti normativi che introducano nell’Ordinamento disposizioni suscettibili di incidere negativamente sulla parte economica della Carta nel senso di sterilizzarla. Diversamente, è del tutto inutile ed erroneo già “nel concettoqualsiasi accenno (peraltro “furtivo”) alla democrazia sostanziale, al diritto al lavoro e ad una vita dignitosa, abdicandosi a priori alla realizzazione dello scopo per mancanza o non pertinenza del mezzo.

8.1 L’attenzione, come si può intuire, non può che essere rivolta in via prioritaria al diritto €urounitario e, per esso, a tutte le innumerevoli disposizioni che in più di mezzo secolo ne hanno integralmente recepito i principi, dando luogo a quella “… vicenda relativa alla prevalenza selettiva del diritto comunitario sulle fonti di livello costituzionale nazionali” (qui, p. 4) e che, lungi dall’essere stigmatizzata, ha invece fatto parlare di una “nuova costituzione economica”. 
Oggi più che mai risulterebbe vano, d’altronde, occultare che … l’ordinamento costituzionale italiano [sia] stato avvolto nell’ordinamento europeo, che lo ha come inglobato e [dovendosi constatare] che le normative dei Trattati dell’Unione si ispirano a principi diversi da quelli che sono sanciti nella Costituzione italiana, SPECIE IN MATERIA DI DIRITTI SOCIALI e quanto alla PROIEZIONE DEL FONDAMENTO DELLA REPUBBLICA ITALIANA” [G. FERRARA, cit.; si veda, per una analitica trattazione, L. BARRA CARACCIOLO, Euro e(o?) democrazia costituzionale, Roma 2013].

8.2 Se lo scopo principale dei Trattati €uropei non è quello di cui all’art. 3, comma II, Cost., realizzato mediante un diffuso intervento pubblico nell’economia, bensì la restaurazione del “capitalismo storico” la cui disciplina economica, mutuata dai principi ordoliberali, è affidata ad un unico principio (quello del mercato aperto e della concorrenza finalizzati al mantenimento della stabilità dei prezzi, con la mon€ta unica a funzionare da gold standard come punta di diamante del sistema), allora non può confutarsi che “… tutti i limiti all’iniziativa economica privata incompatibili [con i nuovi scopi] veng(a)no automaticamente a cadere [così come] dall’integrazione del Trattato con gli articoli 41 e 42 della Costituzione consegu(a) che la disciplina dell’iniziativa economica privata e dei beni privati deveattenersi ai principi della concorrenza e del mercato, in questi sensi dovendo oggi vincolativamente interpretarsi le espressioni “utilità sociale” e “funzione sociale”…” [così G. GUARINO, Verso l’Europa, Milano, 89].

9. Orbene, in base a quanto detto, viene però da domandarsi perché la Corte Costituzionale non abbia mai scritunato funditus la costituzionalità della normativa interna che ha recepito nell’Ordinamento il diritto €uropeo (dalle leggi di ratifica dei vari Trattati a quelle di attuazione delle innumerevoli direttive, quando non auto-applicative), cioè di quel complesso sistema normativo che, basato sull’acritico principio del “primato del diritto comunitario”, ha nei fatti neutralizzato lo strumentario economico della Carta. Come si giustifica il fatto che la Consulta possa aver ritenuto “difficilmente configurabile” (in aderenza all’abbrivio iniziale contenuto nella sentenza n. 183/1973) l’influenza di Trattati commerciali sui rapporti civili ed etico-sociali (si veda qui, in proposito, l’analitica ricostruzione giurisprudenziale di Arturo), tanto da non sentire il bisogno sino ad oggi di approntare un indagine analitica sulla questione?

10. Si può fondatamente ipotizzare che il mancato intervento della Corte in tale contesto sia una “conseguenza diretta” delle stesse ragioni per cui il principio di uguaglianza sostanziale continua ad essere impiegato solo di rado in sede di giudizio costituzionale, cioè in primis l’ossequio alla DISCREZIONALITÀ DEL LEGISLATORE (v. qui, p. 4, 5.2 nonché i commenti al post), profilo in base al quale sarebbe precluso al giudice costituzionale ogni “interferenza politica” con l’attività del Parlamento ed ogni valutazione di norme legislative sotto il profilo del “merito”. Poiché – come viene sostenuto - il giudice costituzionale non può sostituirsi al Parlamento e “… creare essa stessa l’intervento legislativo necessario a rimuovere gli ostacoli all’eguaglianza sostanziale…”, tale circostanza escluderebbe anche sindacati intorno alla legittimità o meno dei mezzi necessari a realizzare il disposto dell’art. 3, comma II. La Corte, pertanto, potrebbe solo verificare la conformità al principio di eguaglianza (formale) di interventi legislativi i quali, differenziando in modo irragionevole diverse situazioni, dovessero eccedere dall’obiettivo di cui all’art. 3, comma II, Cost. [si veda in questi termini F. SORRENTINO, cit., 20, in nota].

11. Ora, a noi sembra francamente che tali “tecniche argomentative e decisionali” della Corte siano a dir poco discutibili e che, senza troppi giri di parole, finiscano soltanto “… per autorizzare la classe dominante a limitare l’azione riformatrice alle sole riforme che essa medesima ritiene di poter accettare” [U. ROMAGNOLI, cit., 186]. A monte, la stessa propensione della Corte a “confondere” tra il 1° ed il 2° comma dell’art. 3 Cost., come ebbe a rilevare Paladin [L. PALADIN, Il principio costituzionale di uguaglianza, cit.], evidenzia i limiti di tale approccio nella realizzazione del programma costituzionale, volendo l’art. 3, comma I, “una parità che non sacrifichi la realtà” [così M. FRAGALI, Studi per il ventesimo anniversario dell’Assemblea Costituente, Ed. Vallecchi, VI, 1969, 272]. E il mancato impiego in modo autonomo dell’art. 3, comma II, Cost., in materia di uguaglianza “…sta lì a dimostrare che il 2° comma, scaraventato fuori dalla porta, viene fatto rientrare dalla finestra, per alloggiarlo ragionevolmente in qualche ripostiglio della casa” [U. ROMAGNOLI, cit., 174].

11.1 In via generale, si consideri infatti che se fossero portati alle estreme conseguenze i riflessi della “discrezionalità del legislatore”, si giungerebbe inevitabilmente a legittimare quest’ultimo (tramite sue condotte commissive o omissive) finanche a stravolgere la Carta, mentre la creazione della Corte Costituzionale ha risposto ad un intento diametralmente opposto, ovvero quello di evitare che “tutto il nostro ordinamento costituzionale e gli stessi diritti fondamentali di libertà [fossero] abbandonati all’arbitrio di una maggioranza parlamentare o dell’esecutivo” [L. BASSO, La crisi della Corte, “Avanti”, 28 marzo 1957]. 
Non può revocarsi in dubbio, al riguardo, che i nostri Costituenti avessero avuto una “preveggenza luminosa circa l’importanza di apprestare strumenti che rendessero perenne l’affermazione della democrazia” del lavoro contro il ritorno delle “forze regressive”, individuando in tale evenienza proprio nella Consulta l’organo cui incombe il dovere di dichiarare l’incostituzionalità di quelle norme contrastanti o limitative dei “diritti al lavoro” [si veda L. BARRA CARACCIOLO, La Costituzione nella palude, cit., 91-92, nella parte in cui riporta il discorso dell’on. Ghidini pronunciato in Costituente l’8 marzo 1947; anche qui, p. 4].

11.2 Quello della “discrezionalità del legislatore” e del correlato utilizzo dell’art. 3, comma II, non in maniera autonoma, ma come parametro di controllo di costituzionalità in tema di uguaglianza solo sotto il profilo della “ragionevolezza”, ad una attenta analisi si rivelano dunque delle tecniche decisionali derivanti dal “… PREGIUDIZIO PROPRIO DEL LEGALISMO POSITIVISTICO, ligio al dogma dell’assoluta sovranità del Parlamento, superato ormai dalla SOVRANITÀ DELLA COSTITUZIONE e dal principio che ne discende del dovere della legittimità costituzionale” [C. MORTATI, Appunti per uno studio sui rimedi giurisdizionali contro comportamenti omissivi del legislatore, in Foro it., Milano, 1970, 190], espedienti giuridici che, in ultima analisi, hanno l’unico effetto di far camminare la Corte “… sul filo del giustificazionismo ad ogni costo…” rispetto alla realtà esistente [così U. ROMAGNOLI, cit., 187].

12. Nello specifico, quanto al mancato intervento (o meglio, fino ad ora, della assoluta mancanza di prospettazione del problema) ad opera della Corte in materia di idoneità degli strumenti per la realizzazione dello scopo di cui all’art. 3 capoverso, ci sembra che tale scelta risponda proprio alla stessa logica: se nell’attuazione dell’uguaglianza sostanziale la Corte non deve intromettersi nella “discrezionalità” del Parlamento, agli stessi limiti si vede soggetto un controllo sull’attitudine dei mezzi che di quella discrezionalità implicitamente condivide la sorte.

12.1 Sul punto, tuttavia, a noi pare più razionale e generalizzabile quanto sostenuto da C. Mortati, il quale rilevava che se:
“… è vero che il problema della congruenza dei MEZZI predisposti per assolvere un obbligo imposto allo Stato per soddisfare diritti…attiene alla politica legislativa…è da chiedere se la discrezionalità nella scelta del mezzo non incontri un limite costituito dalla sussistenza di un minimo di idoneità del mezzo prescelto a realizzare l’imperativo costituzionale. Se risultasse sicuramente dimostrato che L’ISTITUTO ADOTTATOMANCA DEI REQUISITI MINIMI NECESSARI AL CONSEGUIMENTO DEL FINE, non potrebbe non competere al giudice della legittimità costituzionale desumerne quanto sufficiente per dichiarare il contrasto con il parametro da assumere per il giudizio.
A confortare tale soluzione giova richiamare IL PRINCIPIO DELL’EFFETTIVITÀ SANCITO DALL’ART. 3 COSTITUZIONE; principio che indubbiamente si rivolge al legislatore, cui però impone che l’adempimento dell’obbligo di consentire ai meno dotati di mezzi economici la soddisfazione degli interessi costituzionalmente protetti non venga effettuato in modo da renderlo illusorio e solo apparente. Sembra inesatto ritenere estraneo al sindacato della Corte, facendolo rientrare nel merito, accertare quando ciò accada. Infatti la pronuncia che giunga ad una conclusione del genere, risolvendosi nella constatazione…della assoluta inidoneità delle norme predisposte ad assolvere all’obbligo predetto, RIENTRA NELLA CATEGORIA DI QUELLE BASATE SULLA RAGIONEVOLEZZA” [C. MORTATI, Appunti, cit., 968].

12.2 Non sembra nemmeno corretto si possa negare a priori, peraltro, un sindacato materiale e di merito circa un “eccesso di potere” compiuto dagli organi legislativi (e concettualmente collegato alla loro attività “discrezionale”), oltre che per quanto sin qui esposto, anche perché - come rileva Pierandrei – “…quando all’Assemblea costituente si prescelse la formula relativa alla legittimità costituzionale non si escluse che essa, data la sua analogia con la formula vigente nell’ambito amministrativo, si potesse riferire ai vizi accertati in quest’ultimo, e quindi anche all’eccesso di potere” [F. PIERANDREI, Corte Costituzionale (voce), in Enc. dir., Milano, 1962, 906]. 
In ogni caso, sarebbe inesatto vietare un tale sindacato in presenza di norme che fissano principi ed indicano fini da perseguire e che per ciò stesso sono dotate di minore “elasticità”; in presenza di tali norme, infatti, subentrano “limiti” alla discrezionalità del legislatore che “…non potrebbero essere superati se non mediante violazione della Costituzione” [così F. PIERANDREI, Corte Costituzionale, cit., 907]. Non vi è dubbio, quindi, che norme di tal genere siano sindacabili per irragionevolezza secondo diversi profili, in un “giudizio di pertinenza (diretto a verificare se i mezzi normativi predisposti per raggiungere un certo fine sono o meno ragionevolmente strumentali rispetto a questo) o in un “giudizio di congruità (in cui la valutazione attiene alla non palese inidoneità dei mezzi normativi rispetto ai fini costituzionali) [queste le illuminanti classificazioni di C. LAVAGNA, Ragionevolezza e legittimità costituzionale, in AA.VV., Studi in memoria di Carlo Esposito, Padova, 1973, 1580].

13. Alla luce di quanto detto e provando a rispondere al quesito sopra formulato, pare dunque che non sussistano fondate ragioni di natura squisitamente giuridica perché la Corte continui ad imporsi un self-restraint da un lato nella utilizzazione più frequente ed “autonoma” del parametro di costituzionalità di cui all’art. 3, comma II, Cost. e, dall’altro, nel sindacato di merito di norme sotto il profilo della adeguatezza o meno dei mezzi predisposti per la realizzazione dello scopo sotteso a detta norma
Gli unici ostacoli che sembrano frapporsi, invero, sono i dogmi dell’ordoliberismo di importazione €uropea che, nei confronti degli strumenti diretti a realizzare la democrazia costituzionale, si atteggiano a “VINCOLO ESTERNO” (inteso come adeguamento ordinamentale italiano all'indirizzo politico derivante dai trattati UE e dall'adesione alla moneta unica) ormai marchiato a fuoco persino nel modificato art. 81 Cost. e dotato di una cogenza tale da non essere messo in discussione, data la sua accettazione “… implicita e mai verificata, secondo un’unica scuola di pensiero” (così Quarantotto nei commenti).

13.1 Per ritornare al tema del “fine vita” dal quale questo intervento ha preso le mosse e nel tentativo di coerentizzare il discorso fin qui condotto, è da segnalare come le cronache giornaliere continuino ad informarci circa un tessuto sociale sempre più in progressivo sfaldamento a causa dell’ennesima e diuturna emergenza. Si registra giornalmente – come già dopo la crisi post 2008 – un aumento del numero dei suicidi ed un innalzamento costante dei livelli di povertà e di esclusione sociale per milioni di italiani, il tutto immerso in un clima surreale fagocitato dal mantra della “scarsità delle risorse” e del “debito pubblico che grava sulle future generazioni” (due dei tanti falsi corollari del “vincolo esterno”).

14. Ora, se è da condividere - come ha affermato di recente il Presidente della Consulta – essere “LA CARTA COSTITUZIONALE così com’è…a offrire a tutte le istituzioni e a tutti i cittadini LA BUSSOLA che consente di navigare “per l’alto mare aperto” dell’emergenza e del dopo emergenza che ci attende ...”, è altrettanto vero che l’ineccepibilità di tale assunto imponga come estremo atto di coerenza che la Corte si avvii finalmente verso una radicale rivisitazione del proprio approccio nei confronti del diritto €uropeo. Sarebbe questa volta sì “ragionevole” prendere finalmente atto che senza una moneta nazionale, gli strumenti di politica fiscale, economica e industriale così come congegnati dai Costituenti, e dissattivati dal “vincolo esterno”, è del tutto illusorio che si possa porre in essere politiche pubbliche volte a sostenere chi versa incondizioni di fragilità” (così nell’ordinanza n. 217/2018), in primo luogo attraverso il diritto ad un lavoro dignitoso (artt. 4 e 36 Cost.).
Qualora ciò non dovesse accadere e la Corte optasse invece per continuare nella “amministrazione della quotidianità” [così, U. CERRONI, Studi sassaresi, Sassari, 1971, 144], auspichiamo ci venga quanto meno risparmiato in futuro il mero “omaggio formale” alla norma di cui all’art. 3, comma II, Cost.

sabato 9 maggio 2020

LA SENTENZA DI KARLSHUE DEL 5 MAGGIO E L'EVOCAZIONE DELL'ESM: COSA VUOLE VERAMENTE LA GERMANIA?

Come già avvenuto per il precedente post, pubblichiamo un brano, del libro di prossima pubblicazione, concernente la più stretta attualità; si tratta di un estratto di alcune delle complessive considerazioni che derivano dall'analisi del contenuto e degli effetti della sentenza della corte costituzionale tedesca del 5 maggio 2020 (compiuta dopo la sua pubblicazione).
La parte qui riprodotta riguarda più direttamente il merito economico di tale effetti.
Ma, come vedremo, una disamina logicamente rigorosa fa emergere l'abile strumentalità (tattica), della presa di posizione ostentata con la sentenza, rispetto a un più ampio obiettivo: quello di restaurare la German dominance nell'Unione europea.
Un obiettivo che in realtà non esige neppure l'integrale recepimento da parte della BCE. 
La Germania, infatti, alzando la posta in gioco nella contesa sulla flessibilità di applicazione delle regole dell'eurozona, si pone in una situazione win-win: da adesso in poi, la BCE e la Commissione dovranno assolvere un onere della prova molto più rigoroso riguardo alla necessità di interpretazioni flessibili ed "evolutive" del quadro normativo dell'eurozona.
E questo appesantimento delle cautele imposte per poter legittimare le varie forme di tolleranza nell'allentamento della morsa deflazionistica,  rafforzandosi la priorità di un pronto ritorno alla logica del consolidamento fiscale, è già una vittoria per la Germania.
Quantomeno nel suo impatto sulla visione che, già di suo, possiede la classe politica italiana.

...

f) In coerenza con l’anomalia di quanto appena evidenziato, risulta pure il passaggio della pronuncia relativo alla specificazione degli effetti di politica economica il cui “proporzionale” accertamento sarebbe mancato da parte della BCE e che la CGUE sarebbe stata metodologicamente incapace di rilevare.
Questi effetti sproporzionati e malamente ”accertati” in via preventiva, ed è questo un punto cruciale, sono enunciati con una controvertibile affermazione di merito tecnico-economico che, in assunto, risulta però del tutto avulsa da un univoco e dimostrato collegamento con la lesione o compressione di interessi socio-economici tedeschi inclusi in un altrettanto ben individuato parametro costituzionale tedesco.
Eloquente, come vedremo nel brano sotto-riportato è l’assunto, peraltro formulato in termini condizionali, della possibile equivalenza di effetti del PSPP a quelli della concessione di una linea di credito nell’ambito del meccanismo europeo di stabilità (ESM).
La descrizione riguarda infatti, non la generalità, ma una selezione, dal punto di vista tedesco, delle conseguenze economiche e finanziarie che possono essere attribuite al PSPP nei riguardi di tutti gli Stati membri, senza che sia in alcun modo dimostrato che queste conseguenze siano evitabili nell’ambito di qualsiasi azione, intrapresa da qualsiasi banca centrale (al mondo), per tentare di reflazionare allorché il target inflattivo legalmente stabilito (dal trattato, nel caso), non sia riscontrato stabilmente nell’economia di riferimento di una qualsiasi banca centrale:
Il PSPP migliora le condizioni di rifinanziamento degli Stati membri poiché gli consente di ottenere il finanziamento sui mercati dei capitali a condizioni considerevolmente migliori di quanto non si sarebbero altrimenti ottenute; in tal modo ha un significativo impatto sulle condizioni di politica fiscale entro cui si trovano ad operare gli Stati-membri. In particolare, il PSPP potrebbe produrre gli stessi effetti degli strumenti di assistenza finanziaria contemplati dagli artt.12 e seguenti del Trattato ESM. Il volume e la durata del PSPP può rendere sproporzionati gli effetti del programma, ancorché questi effetti siano inizialmente conformi alla “legge primaria” (ndr; ossia alla norma europea che lo consente).
Il PSPP influisce anche sul settore delle banche commerciali, trasferendo elevate quantità di bonds governativi ad alto rischio nel bilancio del sistema dell’euro, cosa che migliora significativamente la situazione economica di rilevanti banche e ne accresce il rating di credito.
Inoltre, gli effetti economico-politici del PSPP includono il suo impatto economico e sociale virtualmente su tutti i cittadini, che ne sono quantomeno indirettamente influenzati, tra l’altro, quali azionisti, locatori, proprietari di immobili, risparmiatori o detentori di polizze assicurative. Ci sono, per esempio, perdite considerevoli per il risparmio privato.
Ed ancora, poiché il PSPP abbassa il livello generale dei tassi di interesse, consente a imprese economicamente dissestate di rimanere sul mercato. Infine, più a lungo il programma prosegue e più il suo volume totale aumenta, maggiore risulta il rischio che l’eurosistema divenga dipendente dalle politiche degli Stati-membri, in quanto non si può semplicemente terminare e “disfare” il programma senza porre in pericolo la stabilità dell’unione monetaria”.
Porre la questione nei termini sviluppati dalla corte tedesca, lungi dal costituire un sindacato giuridico (di costituzionalità), si presenta come una radicale contestazione, sul piano di una dottrina economica, del potere stesso di svolgere politiche monetarie volte a perseguire il target inflattivo; viene contestato non il modo - conforme a presupposti e termini comuni alle tecniche di intervento generalmente praticate dalle banche centrali -, ma la stessa adottabilità (efficace) del PSPP.
Rimarchevole, per la sua evidenza, è la radicale e decisiva differenza di presupposti tra il sostegno finanziario dato mediante il PSPP, (appunto: l’esigenza di ricondurre l’inflazione in prossimità del target inflattivo del 2%, in tutta l’eurozona), e la concessione di una linea di credito nell’ambito del meccanismo europeo di stabilità, (notoriamente la difficoltà di un singolo paese ad avere accesso ai mercati per rifinanziarsi, a causa di sue proprie difficoltà macroeconomiche; segnatamente dell’indebitamento prolungato con il settore estero; presupposto che, include, normalmente, semmai un mancato rispetto per eccesso, non per difetto, del target inflattivo).
Tale differenza è ignorata a piè pari dalla corte tedesca, che attribuisce forzatamente (come abbiamo visto) alla BCE il “colposo” (in quanto incautamente imprevisto) perseguimento di un preteso interesse estraneo a quello puramente reflattivo; vizio di “sviamento di potere” che, ad essere ragionevoli, sarebbe quasi impossibile non riscontrare in tutti i casi di c.d. Quantitative Easing (oltre a costituire, come abbiamo altrettanto visto, un vizio di eventuale mera illegittimità e non una radicale carenza di potere della BCE).
Ma la differenza evidenziata ha pure una sostanza nell’economia reale: la corte, scendendo nel merito della discrezionalità tecnico-economica della BCE (cosa che, sul piano del sindacato giurisdizionale, è da ritenere sempre un ultra vires) considera, appunto, selettivamente, gli effetti del PSPP, trascurando del tutto i risvolti occupazionali, e quindi sui livelli della crescita e della coesione sociale, del mancato stabile mantenimento, per difetto, del target inflattivo (pur stabilito al modesto limite del 2%).
Risulta invece evidente che un assessment degli effetti politico-economici del PSPP, correttamente compiuto, dovrebbe ponderare, con quelli relativi ai tassi di interesse eccessivamente bassi e ai prezzi degli asset inflazionati (in Germania), i risvolti sulla crescita ed occupazionali del PSSP stesso. A questi ultimi fini, le politiche fiscali, contrariamente a quanto afferma apoditticamente la corte tedesca, non sono state agevolate dal PSPP in direzione espansiva in una misura così “significativa”, quanto semmai mantenute ad un livello di “non asfissia”.
E a riprova di ciò sta l’immediata reazione, dei governi della stessa eurozona a fronte della crisi economica “da pandemia”, nel senso di sospendere il patto di stabilità e crescita e di riportare a livelli elevati i deficit pubblici, consci del fatto che, PSPP o meno, l’azione fiscale precedente era già in precedenza ridotta al lumicino; come, d’altra parte, comprovavano i livelli di inflazione, che mai hanno raggiunto stabilmente, pur dopo il primo programma di acquisti della BCE, avviato nel 2015, un livello prossimo al 2%.
Ed è pur vero, ed altrettanto non casualmente ignorato dalla sentenza tedesca in commento, che i livelli occupazionali strutturali e le dinamiche degli incrementi salariali nell’eurozona, ben prima della crisi pandemica, non erano affatto così floridi e si parlava, di conseguenza, di debolezza strutturale della domanda in un’area in prolungata e sostanziale stagnazione, proprio in quanto costretta dalla Germania ad un modello di crescita export-led intrinsecamente deflazionista.
E dunque, tutto si poteva dire, tranne che, in vigenza del fiscal compact, l’intervento fiscale fosse di carattere espansivo. L’esplicitazione delle preoccupazioni macroeconomiche della corte tedesca, dunque, peccano proprio di un preconcetto, di un bias, delimitativo degli effetti preventivabili del PSPP, che, nella sua considerazione, appaiono, paradossalmente, proprio il vizio (considerato inemendabile) imputato alla BCE.

g) Ma, se pure la sentenza di Karlsruhe non risulta attendibile e coerente né dal punto di vista giuridico né da quello del “merito” economico, da essa traspare una forte determinazione ad ottenere una riaffermazione della German dominance, che, evidentemente, l’implicita clemenza fiscale (cioè nel contenimento del costo di finanziamento degli Stati-membri) instaurata dai programmi di acquisto della BCE, aveva in qualche modo posto in ombra.
La sentenza è dunque un’occasione per questa riaffermazione, lanciando un forte messaggio germanocentrico, così riassumibile:
- i trattati non si toccano e le regole dell’eurozona devono continuare ad essere osservate senza alcuna tentazione di aggiramento e, tantomeno, di riforma.
- La Germania, di fronte alla ipotizzata debolezza delle istituzioni Ue, si auto-dichiara custode di questa invariabilità delle regole, che escludono qualsiasi evoluzione verso una inaccettabile (per la Germania) dimensione federativa, dovendo tutto rimanere in termini di “associazione tra Stati sovrani”.
- La debolezza delle istituzioni UE rende la Germania legittimata a ripristinare direttamente l’ortodossia delle regole, anche sostituendosi all’azione carente di queste stesse istituzioni.

h) Ma nel caso del PSPP, cosa vogliono veramente i tedeschi sotto le spoglie dell’accertamento degli integrali effetti economici e fiscali di misure di politica monetaria?
Molto semplicemente, abolire o rendere praticamente marginale ogni forma di politica monetaria espansiva, rendendo quasi impraticabile anche l’idea stessa che debba svolgersi un’azione della banca centrale di qualsiasi segno reflattivo (inclusa la politica dei tassi di interesse). Prova ne è il tentato decalogo che, presentato come un’esigenza di approfondimento istruttorio, la corte tedesca impone tra le righe (ma neanche troppo) alla BCE, infine al punto IV del comunicato, e che culmina in particolare in queste “prescrizioni”, che, affermate dalla CGUE, condizionano (più di ogni altra), il giudizio della corte tedesca sulla non elusione del finanziamento diretto degli Stati posto dall’art.123 TFUE. La corte le considera binding e perciò non derogabili:
“ – i bonds di pubbliche autorità possono essere acquistati soltanto se l’emittente sia accertato come in possesso di una minima qualità di credito che gli fornisca l’accesso ai mercato obbligazionari; e
- gli acquisti devono essere ristretti o interrotti, e le obbligazioni acquistate devono essere vendute sul mercato, se il proseguire l’intervento sui mercati si riveli non più necessario per raggiungere il target di inflazione”.
Ora l’accesso al mercato in funzione del “merito” del credito e la rivendita dei titoli acquistati non appena si riveli che la loro detenzione non sia più necessaria a fini reflattivi, sono la vera chiave del caveat tedesco per ribadire l’intangibilità dell’art.123 TFUE (cioè del divieto di finanziamento, anche indiretto, degli Stati ad opera della BCE).
La seconda condizione, nelle caratteristiche macroeconomiche divenute strutturali per via della “morsa” deflattivo-competitiva imposta dalla stessa Germania (completamente ignorata dalla sentenza in commento), pare di quasi impossibile realizzazione in concreto: cioè, proprio come situazione stabile e, sempre più, fisiologica, nell’eurozona.
Inoltre, al momento, mentre l’eurozona è alle prese con la profonda e repentina recessione determinata dalle conseguenze dei vari livelli di lockdown imposti nei vari paesi, risulta addirittura fuori dalla realtà. E lo rimarrà probabilmente per anni, considerata la ribadita immutabilità dei trattati e, con essi, delle regole dell’eurozona.
Non di meno, la ribadita prospettiva della rivendita dei titoli, intesa come obbligatoria assenza di qualsiasi vincolo implicito alla detenzione fino alla scadenza e al successivo reimpiego della liquidità in nuovi acquisti dei titoli dello stesso Stato-membro – meccanismo, per il momento, alla base della capacità costante di intervento della BCE e delle banche centrali “mandatarie” del SEBC, e divenuto de facto una garanzia del debito pubblico dell’eurozona, sia pure in un modo discontinuo e quantitativamente limitato -, si pone intanto un riferimento normativamente ineludibile.
Ma è la prima condizione, quella del merito del credito che diventa pregiudiziale de futuro: appare anzitutto rivolta all’Italia, che ha ormai un rating dei titoli bbb, al di sotto del quale gli acquisti diverrebbero non più consentiti.
La Germania sottolinea l’autonomia escludente di questa clausola: anche se uno Stato dell’eurozona fosse alle prese con la più persistente deflazione, (e quindi afflitto da un’elevata disoccupazione strutturale), il giudizio dei mercati sulla sua situazione macroeconomica, influenzato inevitabilmente dalla debole crescita derivante dalla sottoposizione alle regole fiscali, rigide e pro-cicliche, del patto di stabilità e crescita, diventerebbe preclusivo degli acquisti dei suoi titoli.
E posto che la Germania si attende, come vedremo, un accurato accertamento degli effetti economici e fiscali del PSPP da parte della BCE, in assenza del quale prenderebbe le distanze dal compartecipare ancora al programma con la sua banca centrale, la via dell’armonizzazione della disciplina del programma stesso mediante il futuro assessment, fa emergere la spinta ad un avvicinamento, se non proprio ad un’assimilazione, della disciplina stessa a quella che contrassegna ormai l’OMT e, più in generale, lo stesso ESM.
L’accesso al mercato, in funzione del merito del credito di uno Stato, un aspetto squisitamente fiscale e macroeconomico, diviene la discriminante invalicabile, a prescindere da ogni altra considerazione, anche per le misure di politica monetaria: non appena, in base a un sistema di valutazione della sostenibilità del debito, esistente o, meglio ancora, da introdurre, il merito di uno Stato fosse valutato negativamente, l’assistenza monetaria imperniata sull’acquisto dei titoli sarebbe sottratta alla BCE e devoluta a linee di finanziamento condizionale
Ed infatti, in questa prospettiva si può meglio spiegare la nuova formulazione dell’art.3 del trattato ESM riformato, che prevede appunto una valutazione della sostenibilità del debito pubblico dei paesi dell’eurozona come attività preparatoria e “conoscitiva” dell’ESM stesso, a prescindere dalla effettiva richiesta di assistenza finanziaria che possa essere avanzata da uno Stato.
Si affaccia però un’altra concreta soluzione: nella regolazione dell’assessment per l’ammissione (eligibility) al Pandemic Crisis Support, pubblicata il 7 maggio 2020, si parla di una valutazione generalizzata di sostenibilità del debito pubblico per tutti i paesi dell’eurozona. L’allegato 1 relativo, appunto, all’accertamento del rischio alla stabilità finanziaria, in pari data, tende a confermare tale valutazione.
Ma, per l’appunto, si tratta di condizioni e direttive che sono legate al rebus sic stantibus, cioè alla valutazione transeunti (e come tale in futuro revocabile) dell’attuale permanere di una situazione eccezionale di crisi economica; ciò vale, specialmente, nel determinare l’evoluzione, altrettanto mutevole nel tempo, delle eventuali “condizionalità” che si collegano all’assoggettamento dello Stato membro dell’eurozona al finanziamento dell’ESM.
La BCE, in questo quadro di drammatizzazione della presente congiuntura, parrebbe doversi preparare a diventare un co-attore del finanziamento ESM; finanziamento che non avrebbe senso pratico ove i programmi di acquisto proseguissero con la flessibilità di condizioni che sono attualmente dichiarate dalla BCE stessa; perché, infatti, ricorrere a un finanziamento con obbligo di restituzione (a breve-medio termine) della sorte capitale se il finanziamento fiscale fosse ottenibile a condizioni più vantaggiose dalla BCE mediante il PSPP o il PEPP?
La BCE, invero, non avrebbe motivo di vendere i titoli, perdurando la segnalata situazione di inflazione largamente sotto il target del 2%, né di smettere di reimpiegare alla scadenza dei titoli la liquidità rimborsatagli dagli Stati. E inoltre, gli interessi maturati in corso di detenzione sono in larga parte accreditati, cioè restituiti, agli Stati mediante le rispettive banche centrali acquirenti per conto della BCE.
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