sabato 14 maggio 2016

L'ANTICA INCOMPRENSIONE DELL'€UROPA E L'ITALIA INDIFESA DI OGGI





1. Il commento di Bazaar che precede ci offre una chiave di lettura generale del problema che stiamo per affrontare.
Ovverosia, cosa sia stata, da sempre, la costruzione europea e quali forze l'abbiano costantemente guidata e sospinta verso l'esito attuale. Naturalmente questa questione è affrontata ne "La Costituzione nella palude": ma appare utile tornarci su, in quanto i dati storici e istituzionali che risultano rilevanti nel definirla sono talmente numerosi che sarebbe stato impossibile racchiuderli in un unico libro (passabilmente) divulgativo, a pena di esporre il lettore a una sovralimentazione di elementi attinti dalla scienza economica, politica e soprattutto dalla giurisprudenza. 
Una continua ed ulteriore elaborazione arricchita di nuovi dati e conseguenti approfondimenti dell'analisi è in fondo il senso di questo blog (almeno finché rimarrà operativo, grazie anche al contributo di commentatori così attenti e profondi da divenire co-autori del discorso, esattamente come si auspicava fin dall'inizio della vita del blog).

2. Ora, è altrettanto vero che la comprensione del "problema €uropa" è soggetta alla individuazione di diversi livelli di lettura, che solo in forza di un'ormai complessa e difficile ricostruzione storica "multidisciplinare" può rendere fruttuosa l'applicazione delle conoscenze scientifiche proprie dell'economia o del diritto (assumendole come scienze sociali principalmente coinvolte nel processo ricostruttivo dell'attuale situazione).
Di questa complessiva difficoltà "cognitiva", che spiega anche perché la reazione all'instaurarsi in forma "orwelliana" del paradigma €uropeo sia stata agevolmente depotenziata e ritardata fino al momento in cui tale paradigma si era ormai fortemente consolidato, ci dà atto Claudio Borghi con una dimostrazione di rara onestà intellettuale:

3. Lo stesso Claudio, in linea con questa imparziale capacità di ricerca e di giudizio, procede alla ricognizione di un fenomeno drammatico, che, peraltro, in questo blog è stato spesso oggetto di discussione. E cioè, come la legge di esecuzione e ratifica di Maastricht fosse stata a suo tempo affidata a un parlamento complessivamente non in grado di comprenderne e anticiparne la reale portata in termini costituzionali.
Va detto per inciso: ne "La Costituzione nella palude", - non a caso e grazie al contributo filologico e critico di Arturo-, vengono riportate la analisi relative a natura ed effetti del trattato, quasi coeve a tale votazione parlamentare, che compì il prof. Guarino con (ormai desueta) chiarezza; almeno, rispetto alla comprensione giuridico-economica che, fin da allora, era affidata a uno schematismo in cui l'accademia ratificava, nei fatti, una preponderante vulgata mediatica, secondo un fenomeno di euro-conformismo già, a suo tempo, evidenziato da Luigi Spaventa in sede di approvazione, nel 1978, dello SME (egli parlò, per la precisione, di terrorismo ideologico europeistico).
Dunque, Claudio fa una valutazione storico-critica, drammatica, dicendoci che, dopo aver esaminato gli atti del dibattito parlamentare, l'unico che avesse compiuto un intervento rivelatore di una "profetica" consapevolezza, era risultato Lucio Magri (poi magari Arturo ci porterà l'esempio di altri analoghi interventi...):
4. Dai commenti al precedente post emerge, tra l'altro, la ricostruzione, offerta dal "solito" Arturo, della vicenda relativa alla prevalenza "selettiva" del diritto "comunitario" sulle fonti di livello costituzionale nazionali, quale affermato dalla Corte di giustizia europea già nel 1964 e seguito dall'adeguamento empirico, e apparentemente pragmatico, della nostra Corte costituzionale (in più fasi e fino ai nostri giorni). 
Su questo "adeguamento" rinviamo ai suoi interventi; ma il punto più importante e oggi straordinariamente attuale, è che il successivo ampliamento delle "attribuzioni" della Comunità europea, fino a Maastricht, e alla di poco successiva trasformazione in Unione europea, avrebbero posto l'esigenza di rivedere, nelle sue stesse premesse, il passaggio fondamentale con cui la Corte nazionale cedette il terreno, in modo praticamente irreversibile, alla prevalenza, contraddittoriamente selettiva, del diritto europeo sulla Costituzione.
Se dunque, - ma solo in una visione statica e non attenta, come vedremo, agli inevitabili effetti che sarebbero derivati dall'adozione dei modelli socio-economici contenuti nei trattati-, la regola empirica, un po' "a occhio", rigidamente nominalistica, fino a costituire una "petizione di principio", che un trattato economico incida per definizione "solo" sui "rapporti economici" e non su quelli sociali e politici, aveva una certa sostenibilità, approssimativa e temporanea, all'inizio degli anni '70, lo stesso non si può dire per i contenuti del "vincolo esterno" che parte dallo SME, passa per l'Atto Unico e arriva al "Maastricht" dell'unione monetaria

5. Più ancora, questo empirismo nominalistico della Corte denota la perdita, già negli anni '70, della consapevolezza circa l'inscindibilità, - affermata dai vari Ruini, Ghidini, Basso, Mortati, Calamandrei, in sede costituente- tra principi fondamentali della persona, al cui vertice assoluto è normativamente posto quello lavoristico, e Costituzione "economica", come previsione di strumenti che non sono eventuali e potenziali per l'azione politico-economica dello Stato, ma oggetto di un obbligo il cui mancato assolvimento vanifica proprio i diritti fondamentali della persona, quali intesi dai Costituenti e con gli effetti molto concreti che indica il post di Bazaar riportato all'inizio.

Arturo sulle origini della vicenda storico-giurisprudenziale in questione ci rammenta una serie di significativi elementi:
a) il caso "Costa contro Enel" scaturì dal ricorso proposto da due giuristi italiani, il professore di diritto costituzionale Giangaleazzo Stendardi e l'avvocato Flaminio Costa. 
Ci pare storicamente molto interessante tradurre quanto riferito, dalla fonte citata, sulla visione teorico-scientifca del primo: Stendardi aveva teorizzato il ruolo dell'attivismo legale davanti alle Corti come un quasi-sostituto della "responsabilità politica", in particolare al livello europeo. In vari scritti, prima e dopo il caso "Costa", sosteneva che "non è necessario avere un parlamento direttamente eletto dal popolo per realizzare la protezione dei cittadini; si richiedeva soltanto l'esistenza di una procedura idonea a proteggere gli individui direttamente di fronte alla organizzazione [europea]...Questo forte "credo" nella "Legge" come sommo strumento di protezione dei cittadini (persino più importante dell'esercizio del voto), fu naturalmente attivato in tale contesto contro la legge italiana di nazionalizzazione [del settore elettrico]. Stendardi, che era stato professore aggiunto alla scuola milanese "Bocconi" negli anni '50, e al tempo era un membro attivo del partito liberale italiano a Milano, era fortemente critico sul progressivo processo delle nazionalizzazioni in Italia".

b) Negli anni successivi alla sentenza "Costa contro Enel", (dopo un resistenza iniziale di cui ci ragguaglia Arturo nei commenti), la nostra Corte costituzionale arrivò a enunciare i presupposti della prevalenza del diritto comunitario su quello nazionale e sulla stessa fonte costituzionale...a certe condizioni. Sul punto commenta Arturo

E fu così che i liberali, che in Assemblea Costituente erano "quattro noci in un sacco", come ebbe a dire efficacemente il vecchio Togliatti, riuscirono a piantare un virus di portata europea in Costituzione, rispetto ai cui effetti devastanti la Corte Costituzionale ha dimostrato negli anni una cecità che si commenta da sola (basti ricordare la sent. 183 del 1973, in cui si ritiene estremamente improbabile ”l’ipotesi di un regolamento comunitario che possa incidere in materia di rapporti civili, etico-sociali, politici, con di­sposizioni contrastanti con la Costituzione italiana”, in quanto la ”competenza normativa degli organi della CEE è prevista dall’art. 189 del trattato di Roma” è limitata “a materie concernenti i rapporti economici”. Ah, beh, se si tratta "solo" di rapporti economici allora siamo tranquilli... 
6. Dal complesso delle fonti che abbiamo finora messo insieme, possiamo trarre alcune conclusioni, che servano possibilmente da chiarimento per individuare un filo conduttore in un insieme di dati storici e di concetti che, altrimenti, rischiano di sfuggire nella loro coerenza unitaria: questa, infatti, emerge se proiettata nel corso dei decenni, nei quali si collocano gli antecedenti ora riassunti ed in coordinamento con altri elementi sopravvenuti, ma fin dall'origine rispondenti ad un disegno iniziale, a realizzazione "progressiva" (temi già analizzati in questa sede)
a) l'idea, fatta propria dalla Corte costituzionale, che un trattato (parliamo di quello di Roma del 1957), che predicasse la creazione di un "mercato comune", promuovendo espressamente la libera circolazione "delle persone, dei servizi, delle merci e dei capitali", cioè un trattato di sostanziale liberoscambio, non avesse influenza sui "rapporti civili, etico-sociali e politici", è non solo manifestamente illogica dal punto di vista della attendibilità economica, ma contraria agli stessi espressi enunciati del trattato stesso (intediamo quello c.d. di Roma). Traiamo dalla fonte ufficiale (UE) appena linkata
"Dopo il fallimento della CED, il settore economico, meno soggetto alle resistenze nazionali rispetto ad altri settori, diventa il campo consensuale della cooperazione sovranazionale. Con l'istituzione della CEE e la creazione del mercato comune si vogliono raggiungere due obiettivi. Il primo consiste nella trasformazione delle condizioni economiche degli scambi e della produzione nella Comunità. Il secondo, più politico, vede nella CEE un contributo alla costruzione funzionale dell'Europa politica e un passo verso un'unificazione più ampia dell'Europa".

b) dunque, le stesse istituzioni UE hanno sempre e costantemente inteso il trattato (già quello del 1957) come avente uno scopo politico a cui l'approccio economico era essenzialmente strumentale: ma tale strumento si connotava, fin da allora, in senso liberoscambista e, co-essenzialmente, improntato all'idea neo-liberista della libertà di concorrenza come ipotesi macroeconomica di prevalenza del sistema dei prezzi, affidati alle dinamiche dell'economia privata non ostacolata dall'intervento dello Stato nel raggiungere l'efficienza allocativa. Quest'ultima non è univocamente volta a "crescita e sviluppo", ma subordina dichiaratamente entrambi alle condizioni della stabilità dei prezzi nonché della preferenza per la flessibilità verso il basso dei prezzi relativi ai costi d'impresa (in primis i salari), che consentono l'ipotizzata efficienza allocativa della singola impresa, automaticamente estensibile a equilibrio generale: cioè l'idea del liberismo neo-classico, superata esplicitamente dalla nostra Costituzione. Postulato, ossessivamente esplicitato, è che l'attività economica si esplichi in condizione di "libera concorrenza" e che ciò sia ostacolato dall'intervento dello Stato sulle dinamiche del mercato. Citiamo ancora per sottolineare la dichiarata chiarezza di questa concezione secondo la stessa fonte istituzionale europea:
"Il mercato comune si basa sulle famose "quattro libertà": libera circolazione delle persone, dei servizi, delle merci e dei capitali.
Esso crea uno spazio economico unificato che permette la libera concorrenza tra le imprese, e pone le basi per ravvicinare le condizioni di scambio dei prodotti e dei servizi che non sono già coperti dagli altri trattati (CECA e Euratom).
L'articolo 8 del trattato CEE prevede che la realizzazione del mercato comune si compia nel corso di un periodo transitorio di dodici anni, diviso in tre tappe di quattro anni ciascuna. Per ogni tappa è previsto un complesso di azioni che devono essere intraprese e condotte insieme. Fatte salve le eccezioni o deroghe previste dal trattato, la fine del periodo transitorio costituisce il termine per l'entrata in vigore di tutte le norme relative all'instaurazione del mercato comune.
Poiché il mercato è fondato sul principio della libera concorrenza, il trattato vieta le intese tra imprese e gli aiuti di Stato (salvo deroghe previste dal trattato) che possono influire sugli scambi tra Stati membri e che hanno per oggetto o effetto di impedire, limitare o falsare la concorrenza.
c) La Corte già disponeva di questo quadro di interpretazione autentica e vincolante dei trattati. L'influenza delle politiche tese ad instaurare la "libera concorrenza tra le imprese" su: a) livello dell'occupazione; b) livello dei salari; c) livello delle inevitabilmente connesse prestazioni previdenziali (e, più in generale, di ogni altra forma pubblica erogatrice di salario indiretto o differito, tra cui spiccano le prestazioni dell'istruzione e della sanità pubbliche), era obiettivamente conoscibile e prevedibile: non come questione scientifico-economica ma come effetto inevitabilmente predicato sul piano normativo dai trattati
d) E ciò era possibile, fin dagli anni '70, assumendo come riferimento interpretativo, certamente accessibile sul piano del dovuto chiarimento delle norme, le teorie economiche che predicano l'equilibrio del sistema sulla base dell'ipotesi (propria dei trattati) di vigenza e promozione della libera concorrenza: questa operazione nei lavori dell'Assemblea Costituente era stato compiuta per respingere proprio tali teorie, come viene ampiamente evidenziato ne "La Costituzione nella palude"
Era solo questione di tempo perché gli effetti sociali, cioè sul mondo del lavoro, sul livello di occupazione e sul benessere diffuso, di questa impostazione economica, che è in sé una forte scelta politica, si facessero sentire e iniziassero a modificare, nell'evidenza dei fatti, gli stessi rapporti politici
E la gradualità e estensione pervasiva delle relative politiche era espressamente prevista dal trattato del 1957, come abbiamo appena visto. 
e) Ma non solo: lo svolgimento di politiche coinvolgenti un numero crescente di settori economici a forte impatto sociale (al "minimo" agricoltura e trasporti) era altrettanto previsto, fino al punto di includervi tout-court, ed espressamente, la "politica industriale" che, come ci descrive Caffè, è il perno della sovranità effettiva di uno Stato, cioè la ragion d'essere delle "funzioni e gli scopi dello Stato": essa attiene infatti al problema di decisione politica, preliminare ad ogni altra, di cosa e quanto produrre e cosa scambiare con gli altri paesi. 
Da questa scelta, infatti, dipende il livello del reddito nazionale e della conseguente occupazione, laddove, com'è altrettanto notorio, un trattato liberoscambista, basato sull'inevitabile ipotesi delle funzioni economiche dello Stato come ostacolo principale all'allocazione efficiente delle risorse, assume come prioritaria l'azione del mercato secondo il principio allocativo dei "vantaggi comparati": tale meccanismo insito nel liberoscambio crea inevitabilmente una competizione commerciale e industriale tesa a instaurare una gerarchia tra gli Stati aderenti, con pochi vincitori e molti perdenti nella stessa competizione
6. L'implicito estendersi in progressione del meccanismo dei "vantaggi comparati" è anch'esso enunciato nel trattato del 1957, e preannuncia, senza equivoci, che le "politiche" che si assumeva l'istituzione CEE consistevano in "condizionalità" a carico degli Stati - e dei loro scopi e funzioni costituzionalmente sanciti...in precedenza- per consentire la riallocazione propria degli stessi vantaggi comparati:
Alcune politiche sono previste formalmente dal trattato, come la politica agricola comune (articoli 38-47), la politica commerciale comune (articoli 110-116) e la politica comune dei trasporti (articoli 74-84).
Altre possono essere intraprese a seconda delle necessità, come previsto all'articolo 235, secondo cui "quando un'azione della Comunità risulti necessaria per raggiungere, nel funzionamento del mercato comune, uno degli scopi della Comunità, senza che il presente Trattato abbia previsto i poteri d'azione a tal uopo richiesti, il Consiglio, deliberando all'unanimità su proposta della Commissione e dopo aver consultato l'Assemblea, prende le disposizioni del caso".
Sin dal vertice di Parigi dell'ottobre 1972, il ricorso a tale articolo ha permesso alla Comunità di sviluppare azioni nei settori della politica ambientale, regionale, sociale e industriale.
Oltre allo sviluppo di tali politiche viene creato il Fondo sociale europeo, diretto a migliorare le possibilità di occupazione dei lavoratori e il loro tenore di vita, e istituita una Banca europea per gli investimenti, destinata ad agevolare l'espansione economica della Comunità attraverso la creazione di nuove risorse".

7. Oggi noi sappiamo che la Corte si trova a fronteggiare direttamente un problema, posto dalla disciplina europea, che, solo in apparenza, appare esplicitamente incidente, rispetto al passato, sui rapporti politici, sociali e civili: quello del pareggio di bilancio.
Di questo aspetto ci siamo già occupati sia in "Euro e(o?) democrazia costituzionale" che ne "La Costituzione nella palude".
Richiamiamo qui dei post che ne sono parte fondamentale:

COSTITUZIONALITA' DELLE MANOVRE FINANZIARIE. UN DUBBIO INTERNO ALLA STESSA COSTITUZIONE


Nel secondo di tali post avevamo commentato un articolo di Federico Fubini che esprimeva il seguente concetto:"...il conflitto fra interpretazione della Costituzione italiana, regole europee e risorse è più acuto che mai. Lo è al tal punto che, in ambienti del governo, sta emergendo una tentazione: chiedere un rinvio del caso alla Corte di giustizia europea, per chiarire se la sentenza della Consulta italiana sia coerente con gli impegni di bilancio firmati a Bruxelles. 
Il nuovo Patto di stabilità (il “Six Pack” e il “Two Pack”) sono inclusi nel Trattato, dunque hanno rango costituzionale e il diritto europeo fa premio su quello nazionale. Il governo italiano potrebbe chiedere alla Corte di Lussemburgo se la sentenza dei giudici di Roma sia compatibile con essi."

A questo perentorio assunto del "fa premio su quello nazionale" (di diritto costituzionale) avevamo opposto la sentenza della Corte costituzionale n.238/2014, dove era ribadita la vigenza dei controlimiti, cioè della invalicabilità dei diritti fondamentali previsti nella Costituzione, nei confronti di qualunque fonte europea. Questa consolidata affermazione basterebbe perché l'affermazione gerarchico-militare di Fubini fosse già confutata. La sentenza della Corte costituzionale in materia di "adeguamento pensionistico"  ne è una traccia, ma, come abbiamo evidenziato, indiretta.

8. Questo perché, in quella occasione, la Corte in realtà aveva aggirato l'ostacolo ponendosi in "mezzo al guado" di un compromesso tra due soluzioni inconciliabili, che l'hanno, allo stato, arrestata sulle soglie di un problema diverso da quello del sindacato sulla compatibilità costituzionale dei trattati:
"Mi limito a suggerire una direzione di indagine:   - è più "equo" accorgersi degli effetti di restituzione retroattiva delle sentenze della Corte in vigenza dell'art.81 Cost.- cioè del pareggio di bilancio- per impedire una successiva redistribuzione punitiva derivante dalle esigenze di costante copertura appunto in pareggio di bilancio (caso della sentenza n.10), ovvero "ignorare" che, vigendo l'art.81 Cost. attuale, e il fiscal compact, qualcuno dovrà comunque pagare quella apparente restituzione e, dunque, l'intero sistema economico subire (per via fiscale) una equivalente contrazione (esattamente compensativa di quella dichiarata incostituzionale) di consumi, investimenti e occupazione?"
In sostanza, la Corte riaffermava il diritto fondamentale, ma ne subordinava la tutela effettiva, cioè il pieno ripristino sotto il profilo della eliminazione delle "lesioni" che il diritto stesso aveva subito nel corso del periodo di applicazione della norma illegittima, ad una ricercata compatibilità col principio del pareggio di bilancio.
Con ciò, da un lato, rifiutando di metterne in discussione la effettiva connessione coi pretesi scopi di "risanamento economico" e di promozione della crescita enunciati verbalmente come suo "titolo" giustificativo nominalistico, scopi che esso certamente non persegue (e nessuno lo afferma nemmeno più, neppure tra i massimi responsabili della politica economica), dall'altro, evitando di affrontare il cuore del problema: cioè cercare di spiegare quali siano le cause effettive della crisi economica italiana, sviluppatasi, dopo il 2011 in dipendenza delle politiche fiscali imposte dal mero scopo di mantenere in vita l'euro a detrimento del livello di occupazione e salariale.

9. Ebbene, l'impossibilità di risolvere questo genere di problemi in modo logico e conforme al dettato costituzionale, - che non dovrebbe mai consentire una norma, di qualsiasi origine, che in concreto, e per "fatto notorio", non potendosi ignorare l'impatto delle misure di consolidamento fiscale, sia limitativa dell'occupazione-, discende dalla scelta contraddittoria operata con le prime sentenze del 1973 e seguenti: deriva cioè dall'illusione di poter considerare in qualche modo "neutrale" la sovrapposizione del sistema neo-liberista rafforzato dal trattato di Maastricht rispetto alla questione fondamentale di quali siano "i fini e le funzioni dello Stato", per usare le parole di Caffè, previsti dalla Costituzione in rapporto alle politiche economiche e fiscali
Queste ultime non possono continuare a essere considerate un "qualcos'altro" rispetto alla tutela dei diritti fondamentali della persona.
L'alternativa al recepire in pieno questa interconnessione, voluta dai Costituenti in un'armonia complessa (come disse Basso in un celebre intervento in Costituente), sarebbe quella di separare da tali diritti fondamentali il diritto al lavoro, arrivando però a ratificarne quel carattere di "mero enunciato enfatico" (oggi tanto di moda), che non solo fu respinto come formula dagli stessi Costituenti, ma la cui accettazione ridisegna definitivamente, in senso profondamente modificativo, l'insieme dei diritti fondamentali concepiti nella Costituzione del 1948.

10. La Corte, come abbiamo già visto, assume come aprioristicamente attendibile ciò che è invece fortemente e ragionevolmente dubitabile: e cioè che gli obblighi assunti verso l'UE e che hanno portato alle politiche dettate dal fiscal compact, (inclusi i patti di stabilità interna che tanto incidono sul livello minimo essenziale delle prestazioni ad ogni livello di governo territoriale), siano stati contratti per superare la crisi economica italiana e "tornare alla crescita".
Ma nel far ciò si limita ad accettare come incontestabile questo enunciato puramente nominale, cioè a ritenere che siccome una fonte europea - e la legislazione conseguente che l'Italia è costretta ad adottare- enuncia un fine, questo sia indubitabilmente rispondente al vero: e, per di più insindacabile, non solo alla luce dei suoi effetti, - completamente contraddittori, scaturenti da tali fonti (europea e nazionale pedissequa), cioè alla luce della irrisolvibile recessione e stagnazione che derivano dall'applicazione delle politiche finanziarie imposte dall'UEM-, ma anche alla luce degli stessi presupposti giustificativi del fiscal compact assunti dalle istituzioni europee che l'hanno imposto
Con questo, in pratica, chiudendosi in un mondo di enunciati inerziali e fuori dal dibattito politico-ecomico che agita l'intera UEM, che ha reso ormai di pubblico dominio gli scopi effettivi del fiscal compact: la correzione degli squilibri commerciali e finanziari scaturenti dal meccanismo della moneta unica al fine esclusivo di mantenere in vita quest'ultima.

Questa presunzione assoluta di veridicità delle "intitolazioni" strategiche delle fonti europee, scisse dai loro scopi effettivi, facilmente accertabili in base a imponenti analisi e giustificazioni provenienti da dichiarazioni formali delle più importanti istituzioni europee, pare un vecchio punto debole della nostra Corte.
Un punto debole che si riverbera sulla operatività dei più autentici principi fondamentali della Costituzione del 1948 e che denuncia ormai un difettoso approccio culturale e interpretativo che ha superato i quaranta anni.

39 commenti:

  1. Scoprire che c'era il timbrino di qualità della Bocconi già alle origini certo la dice lunga.

    Non avevo messo tutte le date dei casi. Lo faccio qui: Van Gend en Loos è del 1963; Costa v. Enel del 1964. La Corte Costituzionale non abbozzò però subito rispetto all'impostazione della Corte di Giustizia, almeno sul piano formale dei rapporti fra ordinamenti (che comunque, mi pare, ha la sua gran bella importanza: "La dottrina del Diritto costituzionale [richiama in particolare Crisafulli] ha sempre sottolineato che la determinazione sui fatti e sugli atti produttivi di diritto in un gruppo organizzato è l’espressione più propria della “sovranità” e la perdita del controllo del sistema delle fonti equivale alla perdita della sovranità", S. Mangiameli, L'esperienza costituzionale europea, Aracne, Roma, 2008, pag. 45).

    L'impostazione originale della Corte Costituzionale (sentenza 14/1964), proprio sul caso Costa e qualche mese prima della sentenza europea (che è difficile leggere altrimenti che come una bacchettata ai giudici italiani), era questa, e mi sembra utile ricordarla: "L'art. 11 viene qui in considerazione per la parte nella quale si enuncia che l'Italia consente,in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni e promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

    La norma significa che, quando ricorrano certi presupposti, é possibile stipulare trattati con cui si assumano limitazioni della sovranità ed é consentito darvi esecuzione con legge ordinaria; ma ciò non importa alcuna deviazione dalle regole vigenti in ordine alla efficacia nel diritto interno degli obblighi assunti dallo Stato nei rapporti con gli altri Stati, non avendo l'art. 11 conferito alla legge ordinaria, che rende esecutivo il trattato, un'efficacia superiore a quella propria di tale fonte di diritto.

    Né si può accogliere la tesi secondo cui la legge che contenga disposizioni difformi da quei patti sarebbe incostituzionale per violazione indiretta dell'art. 11 attraverso il contrasto con la legge esecutiva del trattato.

    Il fenomeno del contrasto con una norma costituzionale attraverso la violazione di una legge ordinaria non é singolare. Spesso la Corte ha dichiarato illegittime le norme dei decreti legislativi per non aderenza con la legge di delegazione, trovando la causa dell'illegittimità nella violazione dell'art. 76 della Costituzione.

    Ma rispetto a quella parte dell'art. 11 in cui é contenuta la norma presa in esame ai fini di questa causa, la situazione é diversa. L'art. 76 pone delle regole circa l'esercizio della funzione legislativa delegata, e per questo la non conformità ai principi della legge-delega importa violazione dell'art. 76. L'art. 11, invece, considerato nel senso già detto di norma permissiva, non attribuisce un particolare valore, nei confronti delle altre leggi, a quella esecutiva del trattato.

    Non vale, infine, l'altro argomento secondo cui lo Stato, una volta che abbia fatto adesione a limitazioni della propria sovranità, ove volesse riprendere la sua libertà d'azione, non potrebbe evitare che la legge, con cui tale atteggiamento si concreta, incorra nel vizio di incostituzionalità. Contro tale tesi stanno le considerazioni ora esposte, le quali conducono a ritenere che la violazione del trattato, se importa responsabilità dello Stato sul piano internazionale, non toglie alla legge con esso in contrasto la sua piena efficacia."


    Che orrore, vero? Ma grazie al cielo che c'era la Corte di Giustizia a ristabilire un po' di stato di diritto (o di Legge?) in Italia (e in Europa)!

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  2. Il tira e molla fra le due corti comunque andò avanti per alcuni anni. Stavo pensando, visto che volevo farlo per me, interessa uno specchietto con le principali pronunce della Corte Costituzionale in materia di rapporti col diritto europeo, per averne sotto gli occhi le diverse fasi?

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    1. Certo che interessa: c'è tutto un vasto campo delle più recenti che attende di essere visitato criticamente...anche se sostanzialmente sono attestate sulla "credibilità nominalistica", che scarta a priori ogni eterogenesi dei fini, di cui parla il post.

      Alcune eloquenti applicazioni dottrinarie di endorsement alla inerzialità giurisprudenziale:
      http://www.lincei.it/files/documenti/LectioBrevis_Gallo_20150109.pdf
      http://www.federalismi.it/document/15092015105339.pdf

      Ne traggo questa "perla" assolutamente emblematica:
      "Il Patto è nato alla fine degli anni Novanta per garantire allo Stato la possibilità di coordinare e controllare le autonomie locali a fronte di vincoli nazionali di bilancio stabiliti in sede europea e si pone quindi al centro di quella trasformazione che ha visto lo Stato rivolgersi alla sovranazionalità e alla subnazionalità per curare efficacemente gli interessi generali della comunità governata".

      Osservo solo che la valutazione di efficacia presuppone la fissazione di obiettivi e la verifica della misura del loro raggiungimento: se l'obiettivo è la cura degli interessi della comunità governata, - sotto il profilo di prestazioni essenziali quali sanità pubblica, istruzione, sostegno all'occupazione, capacità di risparmio diffuso, accesso all'abitazione, e via derivando dalla Costituzione- non si comprende come il "livello comunitario" abbia mai contribuito, nei dati e nei fatti, a tali obiettivi.

      Si tratta di fantasiose derivazioni paralogiche: altro esempio di costituzionalismo patafisico, cioè fondato sull'immaginario "creativo" (di realtà inesistenti).

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  3. Per una visione d’insieme e sintetica (da “prendere con le pinze”), dal punto di vista storico, degli orientamenti politici in ordine a “Le culture politiche italiane e il Trattato di Maastricht (1992-1994)” http://www.officinadellastoria.info/magazine/index.php?option=com_content&view=article&id=242:-le-culture-politiche-italiane-e-il-trattato-di-maastricht-1992-1994&catid=23:storia-italiana-e-integrazione-europea&Itemid=33#_ftnref).

    In ordine alla “profetica consapevolezza” di cosa ci aspettasse con la ratifica del Trattato di Maastricht, mi sono permesso di spulciare parzialmente alcuni atti parlamentari della Camera dei Deputati e mi è gelato il sangue nel constatare come più di uno avesse capito che qualcosa non quadrava sia dal punto di vista giuridico che, necessariamente, da quello economico. Le sedute parlamentari alla Camera ove le forze politiche espressero il loro voto si concentrarono nelle giornate del 27, 28 e 29 ottobre 1992. Le dichiarazioni di voto ci dimostrano come non tutti fossero accecati dall’Europa. In sostanza gli oppositori furono soprattutto il MSI ed il PRC. A favore del sogno europeo si schierarono il neonato PDS, la DC, il Partito Radicale (o Gruppo Federalista Europeo).
    Riporto questa dichiarazione di voto che denunciava in modo attuale sia il metodo utilizzato (totale sottrazione di dibattito nel Paese nonché monopolio governativo, con esautorazione del Parlamento) che il merito: (segue)

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    1. Un caso che la "crisi valutaria" avesse preceduto quel dibattito di un mese circa (settembre)? Un caso che queste ratifiche vengano spesso decise -più o meno apertamente- in regime di "governo dell'emergenza"?
      Almeno all'epoca qualcuno ancora parlava in dissenso: 20 anni dopo, il pareggio di bilancio in costituzione e la ratifica del fiscal compact saranno adottati da una maggioranza praticamente bulgara.......

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  4. “Permettetemi anzitutto, colleghi, di esprimere un dubbio di fondo. Noi abbiamo la sgradevole sensazione che si stia andando, con frenesia suicida, con immotivata fretta e con pressappochismo, ad un voto espresso per mero simbolismo politico, al quale ci costringe il Governo Amato. Stiamo rischiando di svolgere una discussione sul nulla, il che è sempre aberrante sotto il profilo politico e pericoloso per le sorti della democrazia, ove si consideri che sostanzialmente si dà all'esecutivo una delega in bianco, una incostituzionale superdelega, sottratta al controllo, minimo fìnanco, del Parlamento. Ci troviamo, colleghi, di fronte all'ennesimo golpe istituzionale, iscrivibile in quel distorto rapporto che si è venuto a creare tra esecutivo e Parlamento e che la scorsa settimana ha provocato una importante iniziativa politica delle opposizioni, garantista, democratica, costituzionale. La realtà è che, dopo le tempeste monetarie degli ultimi sessanta giorni, che fanno pensare a quanto avesse ragione Carlo Marx quando illustrava nella Critica dell'economia politica la sacralità della moneta per il capitale; dopo le scorribande in Europa dei fondi e dei capitali a cui il nostro Governo, in nome di una malintesa libertà, non ha contrapposto alcun vincolo o controllo; soprattutto (si tratta di un dato politicamente rilevante), dopo il voto della Danimarca e quello francese, dopo il dibattito che, in termini di fratture e di punti di vista contrapposti, si è aperto in Gran Bretagna e nella stessa Germania, riesce a noi diffìcile comprendere a quali fini, su che cosa, per quali contenuti noi stiamo qui delegando il Governo a firmare il trattato. Lo dico con estrema responsabilità, ma anche con grande fermezza: noi non accettiamo che il Parlamento sia ridotto ad una cassa di risonanza del Governo, non accettiamo di elargire a chicchessia, tantomeno al Governo Amato, deleghe in bianco! Noi impugniamo la costituzionalità di un siffatto processo decisionale! A nostro avviso, sarebbe costituzionalmente opportuno e politicamente saggio sospendere questa finta discussione parlamentare, questa allegoria di un'approvazione che il Governo vuole estorcere, E FAR USCIRE, ANCHE IN ITALIA, IL DIBATTITO DALLA CLANDESTINITÀ. È vero - il ministro Colombo dovrebbe saperlo - che l'Italia è il paese dei misteri, dei segreti, degli omissis; è vero che l'opacità nella gestione del potere fa velo alla trasparenza ed allo Stato di diritto; è vero che siamo l'Italia di Ustica. MA È UNA VERGOGNA PER LA DEMOCRAZIA IL FATTO CHE L'UNICO PAESE EUROPEO NEL QUALE ALLA GENTE SIANO STATI SEQUESTRATI LA CONOSCENZA, IL DIBATTITO, IMA DECISIONALITÀ SIA PURE PARZIALE E DIMEZZATA SUL TRATTATO DI MAASTRICHT, SIA PROPRIO L'ITALIA. (segue)

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  5. Questo è il vero deficit di democrazia. Ai lavoratori, alla gente si racconta ogni sera dagli schermi televisivi, da parte di compiacenti giornalisti, che occorre stringere la cinghia in nome di Maastricht, che lo Stato sociale universalistico deve diventare residuale in nome di Maastricht, che il salario nominale, per la prima volta dal dopoguerra, deve scendere in nome di Maastricht, senza che i soggetti sociali e politici possano discutere apertamente e collettivamente e dire la propria, esprimere quindi il proprio punto di vista. Ci troviamo di fronte ad una situazione stranissima, nella quale Maastricht è diventato per il nostro paese, per le bambine ed i bambini del nostro paese, in verità per ogni cittadino comune, una sorta di mostro affamatore dalle cinquanta teste e dalle cento braccia, come il vendicatore mitologico dell'ira di Zeus contro i titani. Siete voi, signori del Governo, i veri antieuropeisti, perché in nome della finanza, della valorizzazione del capitale, dell'intreccio tra profitti e rendite finanziarie state distruggendo l'idea forte dell'Europa solidale, dell'Europa dell'autodeterminazione dei popoli, dell'Europa come socialità nuova, come comunità nuova. Non solo, ma state distruggendo anche l'idea di una nuova statualità, tanto più necessaria in un momento nel quale si frantuma drammaticamente l'idea stessa dello Stato nazione, delle identità statuali nazionali, e consuma la sua crisi annunziata nella tragedia quotidiana della frammentazione, del sangue versato, della povertà, degli esodi biblici di massa. VOI STATE COSTRUENDO UN'EUROPA CHE SARÀ INSIEME L'EUROPA DEI CAPITALI E L'EUROPA DELLO SVILUPPO MALTHUSIANO, L'EUROPA DEI RAZZISMI E DEI PROFUGHI, A CUI N O N SI RISPONDE CON IL VECCHIUME DELLE VETUSTE IDENTITÀ NAZIONALI, DELLE PATRIE E DEI GAGLIARDETTI TRICOLORI, CON UN ANTIEUROPEISMO PATRIOTTARDO DI TIPO «LEPENISTA», ma muovendo al trattato una critica globale - come noi facciamo - sul piano istituzionale, politico, sociale e militare. Noi siamo per la costruzione di un'Europa democratica, pacifista, ispirata alla giustizia sociale ed alla solidarietà nei suoi rapporti con il terzo e il quarto mondo, per un'Europa nella quale i popoli comunichino reciprocamente le loro identità, rompendo il muro dei Diktat delle gendarmerie militari. (segue)

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  6. Permettetemi, colleghi, di notare, incidentalmente, che gravissime sono le responsabilità che a tale proposito si sono assunte ad esempio le confederazioni sindacali nell'accettare o sbiadimento progressivo, lo scadimento ed il definitivo annullamento dell'idea di Europa sociale e federale, che è nella tradizione italiana dell'europeismo più alto e democratico; così come gravi responsabilità si sono assunte e si assumerebbero in quest'aula quei gruppi parlamentari della sinistra che - com è successo nella discussione al Senato - si attardassero nei dubbi retorici nelle fumisterie, in una logica emendativa e correttiva che appare tardiva, desolata ed inefficace rispetto alla caduta grave di politicità e di storicità nella quale l'Europa dei dodici è caduta. Questo atteggiamento non produrrebbe altro effetto che quello di alimentare una torbida e pericolosa caduta di credibilità dell'idea europea; sarebbe spia di un immane fallimento, della perdita assoluta di ogni punto di vista e di ogni identità. La nostra proposta dunque sul piano istituzionale è precisa e nello stesso tempo semplice; non solo, ma è ovvia, come deve essere il delinearsi di un vero processo democratico. Invece di condurre qui un simulacro di discussione, intempestiva e insieme frettolosa, imposta sullo stile dei ladri di Pisa da un Governo reticente e timoroso ad un Parlamento di uma Repubblica che è ancora parlamentare, UTILIZZIAMO IL TEMPO CHE L'ATTUALE RIFLESSIONE, IN TUTTI I PRINCIPALI PAESI EUROPEI, CI LASCIA PER ANDARE AD UNA INFORMAZIONE DI MASSA E AD UNA CONSULTAZIONE POPOLARE. Noi chiediamo che la Commissione bicamerale per le riforme istituzionali stralci ed anticipi la discussione sull'istituto referendario. In quella sede riproporremo il tema della legittimità dell'istituto referendario in ordine a quelle materie che attengono ai trattati internazionali e che oggi sono escluse, recuperando anche l'importante discussione sul referendum propositivo che era stato già parte ampia e non mediocre dei lavori della Commissione Bozzi, oltre che rispondere ad una domanda politica forte che è cresciuta in questi anni nel paese. In via subordinata, se non si realizzasse un consenso sufficientemente ampio intorno a questa nostra proposta, proponiamo sin da ora l'indizione di un referendum consultivo.

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  7. In secondo luogo, poniamo una riserva di costituzionalità alla ratifica del trattato di Maastricht, già sollevata nel paese ed in dottrina d a eminenti costituzionalisti; la proporremo anche in sede di presentazione di emendamenti, che noi riteniamo ammissibili, insieme a quelli presentati da altri gruppi, ed in sede di deliberazione conclusiva. Il nostro esplicito richiamo è all'articolo 19 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati. Riteniamo, infatti, che qualsiasi presa di posizione o azione nazionale prevista in applicazione di un'azione comune e qualunque misura di recepimento sul piano nazionale delle decisioni del Consiglio non potrà in nessun modo essere incompatibile o trovarsi, per i suoi effetti, in contrasto con l'articolo 11, prima e seconda parte, della Costituzione italiana e con i princìpi materiali fondamentali che in esso hanno trovato espressione, nonché con la Carta delle Nazioni Unite. Non è problema giuridico di poco conto, perché di fatto attiene all'intera struttura costituzionale italiana, ponendo mano in termini per noi inaccettabili (e siamo confortati da amplissimi giudizi della dottrina) alla rigidità della revisione costituzionale ed all'ormai famoso articolo 138 della Costituzione che da alcune parti politiche si tenta di travolgere. Nè varrebbe opporre alle nostre argomentazioni, come maldestramente si è fatto, che vi è una prassi affermatasi nelle prime tappe comunitarie. Infatti, come è ovvio, non può fondarsi una violazione costituzionale su altre precedenti; e l'attuale, poi, sarebbe di ben altro spessore e qualità: supererebbe di gran lunga le pur gravi violazioni del passato.
    l'articolo 11 della costituzione, infatti, parla esplicitamente di «limitazioni» e non di «trasferimenti» di sovranità, e fu storicamente redatto (basta andare a leggere le relazioni alla costituente) in vista di una struttura internazionale come l'organizzazione delle nazioni unite e non sovranazionale come le comunità, che creano incostituzionalmente norme giuridiche valide direttamente in italia: può riguardare, dunque, solo obblighi esterni, assunti dall'italia nelle condizioni —tutte da verificare, peraltro — di cui all'articolo 11, e che limitano la tradizionale sovranità statale nei rapporti internazionali, e non certo invece situazioni incidenti direttamente sui poteri degli organi statali, per assegnare poi gli stessi ad organi esterni, cioè quelli comunitari. maastricht incide, colleghi, sino alla sottrazione totale (o forte restrizione di sovranità) di poteri a taluni organi, anzitutto al Parlamento. Un primo gravissimo contrasto con la Costituzione è formale ed è costituito dall'alterazione del circuito sovranità popolare-Stato, sancito dall'articolo 1, secondo comma, che recita: «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Solo organi italiani, eletti o risultanti dai procedimenti del sistema italiano e secondo le rispettive competenze, esprimono la sovranità del popolo italiano. Ad essi spetta, tra l'altro, la responsabilità di attuare princìpi di base e diritti fondamentali, dall'articolo 2 sino all'articolo 47 della Costituzione. Un ulteriore contrasto, sostanziale, è che nel quadro comunitario o dell'Unione europea, gli organi esterni — con partecipazione assolutamente preminente degli esecutivi statali — alterano lo schema di fondo della divisione dei poteri, che è alla base del sistema italiano. Salta, per determinanti e sempre più ampi settori, la garanzia della legge e della stessa Costituzione.

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  8. Vi sono ancora specifici contrasti con singole norme costituzionali, come la prevista intangibilità dei tassi di cambio, la previsione di una Banca centrale, l'invasione di altre sfere nazionali in base al principio di sussidiarietà, le gravi azioni vincolanti di sicurezza comune, che di fatto prefigurano una gendarmeria europea di pronto intervento intervento che per struttura, armamento, addestramento, filosofia globale, più che a motivi di sicurezza, risponde a princìpi neocoloniali e neomilitaristi, trasformando tutti gli eserciti europei, ed anche il nostro, in guardiani armati del villaggio globale. In terzo luogo, non dimentichino i colleghi parlamentari che la I e la V Commissione di questo Parlamento hanno subordinato esplicitamente l'approvazione a punti qualificanti sul piano della legittimità costituzionale e del deficit di democrazia, che non possono cadere nel dimenticatoio, facendo finta che non siano stati apposti e votati in Commissione. Avremmo, così, uno strano Parlamento bifronte, dove la destra non sa quello fa la sinistra, dove ciò che si approva in Commissione viene contraddetto dal voto in aula. Attenzione, colleghi: andremmo alla sublimazione del gattopardismo e del trasformismo. Il Parlamento italiano, meno che mai in questo momento storico, può permetterselo, onorevole D'Onofrio. Picconerebbe, annullerebbe, disintegrerebbe se stesso: non mi pare che i picconatori del Parlamento, che sono poteri forti in questo paese, abbiano bisogno di un aiuto autolesionista e suicida in quest'aula. Mi si permetta, in conclusione, un'ultima considerazione, al di là di quelle di ordine costituzionale: l'unica di merito che vorrei svolgere (in proposito interverranno anche altri compagni). Noi siamo fermamente e duramente contrari al trattato di Maastricht; non già perché siamo contro l'Europa, ma proprio perché vogliamo costruirla davvero, nella democrazia, nella giustizia sociale, in un quadro di rapporti internazionali fra nord e sud diverso da quello attuale. L'attuale trattato, badate colleghi, già non sta reggendo; sicuramente non reggerà alla prova: con ogni probabilità, incentivando recessione, disoccupazione, povertà (e quindi attacchi alla democrazia e nuove spinte di destra) andrà presto in crisi e questa sua crisi produrrà, di qui a qualche anno, molte macerie e grandi mali. Non facciamo allora gli apprendisti stregoni: facciamo crescere il dibattito, cerchiamo di rompere il cappio monetarista recessivo, antisociale, antidemocratico, che sta strangolando l'Italia e l'idea stessa d'Europa, proprio in nome di un'Europa dei popoli e democratica. Insomma, colleghi, mi pare non vi sia — e a noi, come gruppo, sembra che non vi sia — motivo alcuno, se non l'affannoso arrancare di Amato dietro ad ogni ancora di salvezza, per non dichiarare l'incostituzionalità del disegno di legge di ratifica del trattato di Maastricht e sospendere questa discussione, che porterebbe ad un'Europa sbagliata, che non piace ai popoli; che porterebbe, quindi, alle macerie d'Europa. Speriamo che perlomeno, questa volta, prevalga il buon senso! (GIOVANNI RUSSO SPENA, XI Legislatura, 27 ottobre 1992).

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    1. Grazie a Lei, a Bazaar, ad Arturo e a tutti quelli che cercano da quattro anni di far aprire gli occhi a persone come me che li avevano murati fino a poco tempo fa. Un giorno vi ringrazieranno in tanti, ci può scommettere. Colgo l'occasione per chiederLe un chiarimento. Leggendo gli atti parlamentari, mi sono accorto che anche i partiti che hanno votato contro l’approvazione del Trattato, nell’affermare di essere interessati ad un’Europa democratica, e sociale, affermavano tuttavia di ispirarsi ad Altiero Spinelli. Ciò significa che nemmeno quelle forze politiche avevano compreso l’idea di Spinelli e cosa significasse il Manifesto di Ventotene (si veda la dichiarazione di voto dell'on. Severino Galante, Rifondazione Comunista, nella seduta del 28 ottobre 1992). Ora, non vorrei rischiare di apparire saccente, ma che cosa c'era in quel Manifesto di così onirico ed irresistibile che potesse giustificare l'abbandono della via costituzionale?

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    2. L'internazionalismo.
      Il che spiega il successo nell'ambito marxista, assecondando un equivoco che da List allo stesso Marx (come mostratoci da Bazaar) fino a Lenin, non aveva ragion d'essere: l'internazionalismo dei lavoratori, - organizzati su basi nazionali che ne consentono un'azione efficace, e da queste portati ad una solidarietà orizzontale e plurinazionale-, non ha nulla a che vedere con il governo sovranazionale dei mercati.
      Ma, per ragioni che tutt'ora appaiono misteriose, questa differenza non è stata mai compresa e ammessa.

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    3. Sono completamente frastornato di fronte a tanta consapevolezza espressa ben 24 anni fa! Come è potuto sparire per tanti anni questo patrimonio civile e culturale immenso? Questo discorso andrebbe pubblicato sui manifesti di tutte le città del belpaese.
      Peraltro, mi vergogno profondamente perchè se in quel ormai lontano '92 avessi ascoltato questa dichiarazione temo che non l'avrei creduta.
      Grazie.

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    4. Bisogna però tenere conto che la strada della "costruzione" europea è disseminata di consapevolezza misteriosamente revocata, in nome della presunta real-politik: possiamo citare i casi di Guido Carli e Luigi Spaventa, ex multis, che di fronte alla progettazione del vincolo monetario, erano stati lucidissimi a individuarne con immediatezza le conseguenze di radicale cambiamento ordinamentale e politico rispetto al modello di crescita e sviluppo del dopoguerra.
      Insomma, non è un caso che qui si faccia tale "filologia": non per dare ragione retrospettivamente a tali voci, ma per evidenziare come poi non ci sia stata una continuità coerente.
      Infatti, a denunciare l'emergenza attuale, così tanto prevista e prevedibile, siamo in pochi: e non sarà un caso

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    5. Grazie per il chiarimento, Presidente. Riporto un altro stralcio di consapevolezza! “Siamo di fronte ad una Europa la cui costruzione non è delegata alla volontà e alla fantasia dei popoli, ma alle monete, alle banche, alle cancellerie, ai ministri. Mi chiedo altresì di chi abbiamo paura e per quale motivo sia stata previsto questo modello autoritario. Credo che si abbia paura di un'Europa delle società, di un'Europa dei popoli, di un' Europa che sta tentando di ricostruire in mezzo alla gente, nella società civile, un nuovo mod o di fare politica, nuove regole di politica, all'interno delle quali inserire altri valori, altre indicazioni, altri indirizzi, altri percorsi. … QUESTA È UN'EUROPA ASOCIALE, CHE AZZERA LE CONQUISTE, I VALORI, LE TAPPE CHE ERANO STATE RAGGIUNTE NELLA COSTRUZIONE DELLO STATO SOCIALE. Abbiamo già parlato anche di questo; ABBIAMO PARLATO DEI VALORI SOCIALI CHE IN QUESTO TRATTATO VENGONO SOLTANTO LAMBITI, SFIORATI, CHE ANNEGANO TUTTI PRUDENTEMENTE IN UNA GRANDE PALUDE; mi riferisco ai valori della solidarietà, del lavoro, dell'ambiente, del rispetto dei diritti umani, della cooperazione nord-sud… Siamo prigionieri di un'ideologia che frantumerà sicuramente l'idea di redistribuzione delle risorse e di equità sociale…. Il vertice di Oporto, recentemente, ha fornito indicazioni molto chiare, tassative: nella contraddizione tra tutela sociale e crescita economica, dovremo privilegiare quest'ultima; per ridurre il deficit di bilancio dovremo fare in modo che il mercato del lavoro sia più flessibile. «MERCATO DEL LAVORO PIÙ FLESSIBILE» NEL MIO VOCABOLARIO VUOL DIRE SEMPLICEMENTE LIBERTÀ DI LICENZIAMENTO. Tale è l'Europa che stiamo andando a costruire, questo è il grado di socialità che questa Europa possiede! È un'Europa-fortezza, è un'Europa prigioniera del proprio egoismo, prigioniera di una visione autoritaria…” (GIOVANNI CLAUDIO FAVA, XI Legislatura, 29 ottobre 1992).

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    6. Quando poi venne l'euro, cioè la più efficace realizzazione concretamente autoritaria di tutto ciò, improvvisamente, proprio l'euro, divenne il garante del sogno e della pace. Non pare che ci sia un gigantesco salto logico "inspiegabile"?

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    7. C'è un salto logico incredibile. Ripensando a come sono andati i fatti, quelle dichiarazioni in effetti hanno un retrogusto meramente apotropaico. Chissà perché accade sempre così: anche durante il nazismo molti sapevano. Credo che la storia di questa dolorosa pagina della nostra democrazia sia ancora tutta da scoprire e da raccontare. E ciò che ne verrà fuori non sarà per niente edificante

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  9. Oltre a ricordare che se c'è stato un dibattito in Italia sulla posizione di Napolitano all'entrata nello SME, lo dobbiamo al "nostro" Arturo, che per primo segnalò l'incredibile consapevolezza del futuro PdR del destino dei lavoratori italiani a causa del progetto europeista, mi preme ricordare che un intervento al pari - se non meglio - di quello tenuto da Spaventa e lo stesso giorno insieme a quello di Napolitano, fu sempre di Lucio Magri.

    Comunista di estrazione cattolica che non aveva neppure conseguito una laurea.

    E sulla "cecità" dei costituzionalisti, e sulla chiarezza di vedute di chi poteva vantare un'alta levatura morale prima che "intellettuale", fa riflettere sull'etica della classe intellettuale, e sul rapporto di questa con i "grandi ideali".

    La differenza tra Sogno e Fogno...

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    1. @Bazaar .. ciao

      ripropongo un vecchio commento ..

      "Di Lucio Magri ricordo i Martini dry con oliva taggiasca serviti in coppette cocktail di Boemia all'imbrunire sulla magnifica terrazza romana preparati con perfezione maniacale da Lalla, la cameriera sudamericana.
      Si sa .. la classe non è acqua - in effetti era Martini - e qualcuno, di tanto in tanto, preferiva un "bianchin sprusa", un "ombra" chiara o, con vezzo esterofilo, un robusto "gin cup".

      Sai quanto della "posizione" del Giorgio - meglio "lettura" del "centralismo" - sorrideva il grigentino Ingrao ..

      :-)

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    2. @ Bazaar.
      Sul fatto che la classe intellettuale sia espressione del potere quasi per intero hai ragione. Però ci sono da fare delle riflessioni. In Italia, più che altrove, il diritto allo studio sancito in Costituzione non si mai esplicato nella realtà come diritto di tutti, specie per le classi subalterne. Ancora oggi abbiamo tassi di laureati molto simili ai paesi del terzo mondo. E' normale che se la maggior parte dei laureati proviene dall'elite che si può permettere di far studiare i figli fino all'età adulta, questi siano poi espressione per lo più del potere dominante.
      Detto questo, non è vero però il contrario. Tranne qualche lodevole eccezione, le classi subalterne, quelle non istruite, non paiono aver maturato una consapevolezza tale da risultare efficaci a livello di opinione pubblica e spinta al cambiamento; anzi, visti i livelli di propaganda, sembra proprio che le classi subalterne si ritrovino, per lo più, senza alcuna preparazione nel criticare i "dogmi" neoliberisti e i mantra sullo statoladro e la CastaCorruzione.
      Però, se ci riflettete bene, da chi è stata compiutamente sviluppata l'attuale critica contro l'euro e contro l'Europa neoliberista se non da laureati? Luciano Barra Caracciolo e Alberto Bagnai sono entrambi laureati; questo per dire che la laurea, specie se deriva dalle Università pubbliche (non stiamo parlando dei bocconiani), non è solo sinonimo di indottrinamento, ma anche di critica documentata e seria al dogma dominante, che deriva da una preparazione superiore sugli argomenti oggetto della critica. E se le Università fossero maggiormente aperte anche alle classi subalterne, tramite un efficace diritto allo studio, io sono certo che di Alberto Bagnai e Barra Caracciolo ce ne sarebbero molti di più, e in molti di questi luoghi cambierebbe anche l'aria asfittica che attualmente si respira.

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    3. Io penso che lo sviluppo dello spirito critico sia perfettamente alla portata anche di chi ha una cultura da scuola secondaria superiore. Chi "fa bene" il liceo, avrebbe infatti, in teoria, tutti gli strumenti (non dico per fornirsi delle risposte ma quanto meno per) farsi delle domande.

      Invece il problema è proprio che, a fronte di una scolarizzazione e di un'alfabetizzazione relativamente diffusa, le masse restano sostanzialmente prive di spirito critico. E questo tacendo il fatto che anche tra il drammaticamente esiguo "popolo dei laureati" il pensiero mainstream rimane maggioritario (spesso una delle cose che mi sorprende è il vedere la totale fedeltà alla favola della corruzzione e del debito pubblico, o alla vulgata de "se non era per il tasso di cambio l'euro era buono" da parte di persone il cui livello culturale suggerirebbe l'esistenza di ben altre sensibilità).

      Un argomento sicuramente da approfondire.......

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    4. Non sopravvaluterei la laurea, in sé, come indice culturale di mobilità sociale e di accesso alla classe dirigente criticamente dotata.
      Io e Alberto, siamo laureati a La Sapienza di...altri tempi. Anzi, parlo con maggior sicurezza per me, dato che la mia laurea risale al 1982. Tempi in cui la laurea era solo uno strumento in più per non rimanere disoccupati...a meno che non si fosse cooptati dall'attività familiare. Che era, e probabilmente rimane, il maggior sbocco occupazionale concepito dal sistema economico italiano.
      Un sistema che, nella sua più autentica tradizione, risulta più fiero del suo pragmatismo familista che non del conseguimento della laurea, vista dai "furbi" come inutile fatica in termini lavorativi (o come etichetta formalistica da conquistare col minimo sforzo): tra l'altro potendo offrire di tale mentalità anche una solida conferma dei fatti, almeno sul piano retributivo.

      La Sapienza, poi, aveva un livello prestigio, almeno nel campo giuridico, praticamente senza pari in Italia (usando come indicatore la quantità di percorsi vincenti nei concorsi più prestigiosi, derivanti da quell'ateneo, in quegli anni).

      Ma rimane un fatto anche questo congiunturale: stiamo parlando dell'Italia dei baby-boomers, che non aveva ancora introiettato completamente gli effetti dell'europeizzazione malthusiana e deflattiva a qualsiasi costo.

      Non voglio elaborare oltre (lo fa già il blog): oggi le università non svolgono più quel ruolo di alimentazione della classe dirigente "acculturata". Proprio perché da un lato non preparano altro che a essere cittadini €uropei (attraverso una mistificazione ideologica che non colpisce solo le scienze sociali), e quindi servono essenzialmente a formare cittadini politicamente "più" addomesticati al pensiero unico; mentre dall'altro, proiettano nel mondo del lavoro "unità di precariato" incapaci di ricostruire un modello di società alternativo a quello in cui vivono (convinti della scarsità di risorse, della indiscutibile priorità del problema ambientale, e della internazionalizzazione come "opportunità", anziché come costo impostogli inerzialmente).

      Persino quelli che non hanno preoccupazioni, in quanto "imboccati" sul sentiero familista, non sono più quelli di una volta: sono sempre di meno e sempre più rassegnati; ma non consapevoli.

      In sintesi: direi che tutto sommato i baby-boomers sono l'ultima generazione che comunque, laureata o meno, è risultata in grado di produrre qualche traccia di sopravvivenza al sistema dell'istruzione, sapendola utilizzare, ma anche superare, col senso critico.
      Poi il futuro ci riserverà una nuova generazione di sicuri ribelli: ma saltandone un paio...

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    5. @ Lorenzo
      Non ho detto che chi non ha una laurea non sia per ciò stesso fornito di spirito critico. Quello che io affermo è che chi ha una preparazione superiore ed è anche dotato di spirito critico naturalmente riesce a elaborare la sua critica a livelli più incisivi e approfonditi. Keynes comunque aveva studiato a Cambridge. Se avesse fatto solo le elementari siamo sicuri che sarebbe stato in grado di elaborare la sua critica?
      @ Quarantotto
      Perfettamente condivisibile la cooptazione delle Università da parte delle élite, perfettamente d'accordo sul fatto che ormai la laurea non sia più sinonimo di mobilità sociale delle classi subalterne, come dovrebbe invece essere. Ma in uno Stato neoliberale hayekkiano che rinuncia a fornire posti pubblici fissi ai laureati è normale che questi poi non trovino sbocchi, visto anche come è strutturato il sistema privato delle imprese, sistema comunque sotto shock data l'imposizione dell'euroausterità. Ma in un sistema sano la laurea dovrebbe essere un'arma di mobilità sociale per le classi subalterne e di ricambio della classe dirigente, oltre che di critica sociale documentata e approfondita. E le Università non dovrebbero essere luoghi di propaganda neo€uroliberista; neo€uroliberismo che del resto usa anche altri spazi, come Tv, internet, giornali e cinema, per diffondere i suoi postulati alle classi subalterne meno istruite e perciò impossibilitate anche ad una critica approfondita e documentata, tranne rare eccezioni.
      In uno Stato sovrano e indipendente anche l'Università dovrebbe essere gestita dal popolo indipendente dai poteri esterni e sovranazionali, e credo che questa impostazione fosse quella che intendevano i nostri costituenti riguardo il diritto allo studio. E' chiaro che per ricostruire l'Italia si debba partire anche da una critica al sistema Universitario. E' chiaro che nell'Università elitaria attuale vista come riproduzione di una classe "acculturata" dai dogmi €uropeisti e neoliberisti ci sia qualcosa che non va.

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    6. @ Lucs Parenti.

      Il mio intervento non era affatto di contestazione al suo. Forse mi sono espresso male. Non intendo affatto negare che la laura sia condizione quanto meno necessaria per la formazione della classe intellettuale di una comunità.

      Il mio ragionamento, in realtà, si innestava sul suo e voleva sottolineare la clamorosa sconfitta del sistema moderno di istruzione.
      La diffusa scolarizzazione e la percentuale più alta di diplomi di scuola superiore rispetto al passato, infatti, non ha dato luogo a cittadini in grado di esercitare responsabilmente il ruolo che la Costituzione gli affida (la sovranità appartiene al popolo). Per contro, la stragrande maggioranza della popolazione (inclusa una buona parte di laureati), si è fatta praticamente "travolgere" dalla vulgata mediatica senza opporre la minima resistenza.

      Io mi domando: cosa, se non la resistenza alla propaganda, è indice di una "buona scuola" (per riprendere una frase celebre di chi ci governa)? Sotto questo aspetto, ahimè, il fallimento è conclamato.

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  10. Mi scuserà bazaar: io non sono un povero cristo, eppure i "diritti civili", tipo matrimonio same sex, utero in affitto + altri ricchi premi e cotillons della democrazia mi danno parecchio fastidio.

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    1. Rispetto il fastidio, meno l'elaborazione che mi pare emerga. Ad iniziare dal valore che si dà al concetto di "democrazia" così come intesa dai costituenti.

      (Ricordando che la Boldrini può dire certe scempiaggini proprio perché non siamo in una Democrazia compiuta, ma in una fase di restaurazione oligarchica)

      Bisognerebbe poi indagare approfonditamente il concetto di "tradizionalismo".

      Ad esempio, il concetto di famiglia "cattolico" - quando c'era chi effettivamente lottava per emancipare i "poveri cristi", a differenza di chi sosteneva la relativamente moderna società in caste del tipo "oratores, bellatores, laboratores" - veniva già ritenuto piuttosto "moderno", "borghese": «la Tradizione affonda le sue radici nel matriarcato».

      Tutto il Vangelo è emancipazione, e solo chi "non ha orecchie per intendere" può pensare che l'oggetto della Parola abbia a che fare solo col trascendente, dove l'unica materialità sarebbe un mero conforto nell'aspettativa di un "progresso" post mortem.

      L'etica gesuana era - ed è - socialmente progressista in modo esplicito.

      È un dato di fatto che la condanna a morte ebbe un movente prettamente politico e reazionario.

      È da questa constatazione materiale e carnale che nasce qualsiasi contenuto esegetico degli scritti evangelici.

      Non credi ai contenuti valoriali della nostra Carta? Se è così avrei dei forti dubbi sulla compatibilità tra i contenuti etici evangelici e quelli che sottendono l'auspicio di un ordine diverso da quello democratico, con il principio cardine della giustizia sociale.

      Poi possiamo, al contrario, fare della simpatica dialettica tra ideologie aliene alla nostra coscienza, un bella discussione tra rigorose omodossie create dagli ingegneri sociali. Possiamo anche discutere dei bambini gettati nel cassonetto, o della violenza negli stadi.

      Metanoia non è già rivoluzione?

      Vogliamo mettere in discussione le nostre più profonde convinzioni o vogliamo continuare a ragionare nel recinto di significanti creati da altri? Magari pure con la presunzione di esternare elaborazioni come "proprie opinioni"?

      Ma capisco anche che chi non ha empatia per "i poveri cristi", ha difficoltà - almeno stando con Schopenhauer - anche ad avere un'etica tout court.

      Ma non credo sia il nostro caso.

      Riflettere sul rapporto tra modernismo e reazione, e tra progresso sociale e tradizionalismo, chiarendo il significato da associare a questi sostantivi, può essere utile ad elaborare questo "fastidio", che, tra l'altro, provo anch'io.


      Democratico. Come Basso e Dossetti.


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    2. In quella democrazia di cui parla Bazaar (io non riesco a concepirne un'altra) rientra la scuola che Calamandrei definiva "organo costituzionale" , come missione per l'elevazione della persona e non come allevamento di animali nozionistici finalizzati al mercato e alla perenne utilita'. La teoria e' visione panoramica tendente all'aletheia, l'empiria e' tunnel ottico funzionale al particolare ed alla certezza (quando va bene) in vista del "mercato del lavoro" e basta. E' la seconda che sta nella prima, e non viceversa, anche se il ministro Giannini, bonta' sua, lavora all'incontrario. E cosi' il mercato elesse solo professori, scomparvero i maestri e terminammo di imparare per via erotica (Platone). I maestri sono quasi tutti morti. Ed il mercato ha bisogno che anche la loro memoria cada nell'oblio, che diventi nulla. Peggio che bruciare i libri, come faceva Hitler. "La saggezza e la giustizia iniziarono ad abbandonare la Terra allorquando i dotti, organizzati in sette, cominciarono ad usare la loro dottrina a scopo di lucro.."(Giordano Bruno, De immenso). Ma siamo gia' oltre il materiale, stando al pensiero di Bruno, nel mondo in cui solo puo' giustificarsi una metanoia, a patto che se ne riconosca per prima il concetto (cosa che il professore di rado insegna) e che si ammetta che il pensiero autentico trae origine da un altrove che non e' possesso privato, come solo i veri poeti non meramente decorativi ci hanno insegnato. Solo in quell'altrove ci si accorge che e' possibile parlare di Valori e di Etica, e di cui e' un grande esempio (a mio avviso) la Costituzione come testo laico formulato in enunciati giuridici, "testamento spirituale di centomila morti"(sempre Calamandrei). Fino a che ci diranno che siamo abitatori solo delle sfere piu' infime, non ci sara' spazio per la Costituzione ne' per alcuna metanoia

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    3. Caro Bazaar,
      dalle due righe che ho scritto non emerge nessuna "elaborazione" per la quale provare simpatia o antipatia, perchè non ce l'ho messa.
      E' una storia lunga. Se ne avrai voglia, ne parleremo di persona. Comunque, tanto per chiarire due o tre cosette di fondo:

      1) i "contenuti valoriali" della nostra Costituzione mi vanno bene, li approvo politicamente ed eticamente. Non ci "credo", perchè non sono oggetto di fede.In questo campo (sociale, politico, istituzionale) a mio avviso ci si appella alla sofrosyne-prudentia, non alla pistis-fides.

      2) Secondo me, tirare in ballo i criteri di reazione e progresso quando si parla di Vangelo è un grave errore (l'errore ad esempio di Dossetti, un uomo e un cristiano molto migliore di me). Meglio tirare in ballo i criteri di vero e falso, giusto e sbagliato.

      3)Metanoia non è già rivoluzione? Sì, interiore. Alla rivoluzione politica e sociale come metanoia collettiva non ci credo per niente. Anzi, ti dirò che mi pare un'idea più che sbagliata, che conduce a un'eterogenesi dei fini garantita. La spiegazione del perchè è molto ben articolata nell'opera di Eric Voegelin sullo gnosticismo politico, con la quale concordo per intero.

      4) Non è nè cortese nè leale, e lo sai, la frasetta velenosa: "Ma capisco anche che chi non ha empatia per "i poveri cristi", ha difficoltà - almeno stando con Schopenhauer - anche ad avere un'etica tout court." Non ho voglia di polemizzare con te che sei una persona intelligente e stimabile, ma se desideri dialogare ti invito a cambiare registro. Altrimenti te la puoi cantare e suonare da solo.

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    4. Permettimi Roberto, la Costituzione in sé è già metanoia, fuori dalle credenze religiose e dalle visioni intimistiche di percorsi (in ciò condivido) che sono rigorosamente personali. La Costituzione è metanoia in quanto quel testo rappresenta il "nuovo", la mutazione radicale, ed i trattati costituiscono il "vecchio", quella vecchia scienza dell'800 che Ruini rimproverava ad Einaudi di voler riproporre. Possiamo anche smettere di sentirci in colpa :-). Sono ESSI che sono in colpa. E siccome la Costituzione rientra nel campo del giuridico, che si creda o no in essa, bisognerebbe rispettarla e farla rispettare. Che poi ci si riesca è un altro conto, altrimenti non saremmo qui a discuterne così amabilmente

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    5. Caro Francesco,
      grazie per la replica cortese e articolata. Che la Costituzione rappresenti una novità, una mutazione radicale sul piano giuridico, politico, culturale; che sia in questo senso più "nuova" dei Trattati di fondazione della UE, pur stipulati tanti anni dopo; e che dunque se ne possa parlare, metaforicamente, come di una "metanoia", mi va anche bene.
      A me basterebbe dire che la Costituzione è politicasmente e giuridicamente migliore, molto migliore dei Trattati UE, ma se tu che ne sai tanto più di me preferisci presentare così il tuo giudizio, perchè no.
      Non mi va bene, nel senso che non sono per niente d'accordo, che si conferisca alla Costituzione italiana, o a qualunque altra Costituzione, un valore direttamente religioso. L'identificazione tra varo della Costituzione antifascista e tappa del piano provvidenziale in una teologia della storia che fa convergere cristiana storia della salvezza e progresso sociale è, naturalmente a mio avviso, un grave errore, non solo teologico ma politico e culturale: perchè sostituisce ai criteri vero/falso, buono/cattivo, i criteri progresso/reazione, antifascismo/fascismo: è vero e buono quel ch'è progressista e antifascista, falso e cattivo quel ch'è reazionario e fascista.
      Dopo di che, si finisce per non capire più niente nè del cristianesimo, nè della storia e della politica (forse anche del diritto, ma qui non mi pronuncio). E', in sintesi brutale e per questo ingenerosa, l'errore di Dossetti. Personalità alla quale va tutto il mio rispetto e il mio dissenso.
      Quanto al resto (colpa, rispetto della Costituzione, etc.) concordo in pieno.

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    6. Caro Roberto, di "velenoso" c'è solamente il cercare di far passare l'Assemblea Costituente per una conventio ad excludendum.

      Ed è provocatorio agire in questo modo su un blog che ha come progetto divulgativo principale la comprensione delle fondamenta del nostro ordine sociale. E lo è a maggior ragione perché da quel poco che hai argomentato confermi, sia che non hai seguito il lavoro fatto in questi spazi, sia ciò che ho presunto "per una tua elaborazione personale" del significato della Carta.

      Carta che, stando almeno con Hobbes, rappresenta la formalizzazione giuridica della condivisione di fondamentali presupposti etici.

      Il tuo cercare di far passare la fermezza e la determinazione nel difendere la Carta per "religione", è un'altra affermazione che, per come l'hai inserita nella discussione, è altrettanto "velenosa".

      Guarda: non ci siamo.

      Non esiste né il "compromesso" morale né la "moderazione" etica: preferisco "cantarmela e suonarmela", seguendo il consiglio morale di Cicerone: «...preferisco andare fuori strada con Platone, piuttosto che condividere opinioni veritiere con questa gente»

      Sì, sui Valori sono intransigente.

      Quindi "pistis-fides" un bel nulla: basta studiare.

      Ma questo ribaltamento del laico materialismo - da cui elevarsi verso lo spirituale - con la Religione, è confermato da questa affermazione: "tirare in ballo i criteri di reazione e progresso quando si parla di Vangelo è un grave errore"; che andrebbe ben argomentata, visto che sono proprio i reazionari - ovvero gli attuali controrivoluzionari - a vedere nell'etica evangelica una sovversione rispetto alla Tradizione. Nietzsche lo esprime chiaramente.

      E, di converso, Marx richiamerà l'etica evangelica dandone un contenuto valoriale opposto nello stesso Capitale.

      Ovvero, grandi autori della storia hanno condiviso - per quel che mi riguarda, ovviamente - il contenuto socio-politico dell'etica evangelica.

      C'è chi difende le istituzioni religiose ma aborre l'etica delle Fonti sacre, c'è chi le ha combattute ma ne ha rilanciato il Messaggio.

      Che la nostra rivoluzionaria Costituzione possa portare ad una "eterogenesi dei fini" è anche questo da dimostrare: mentre in questi spazi si è ben argomentato il motivo per cui è proprio l'articolo 3 senza il secondo comma - come da tradizione liberale - ad avere un'eterogenesi dei fini, da cui la "doppia verità" nei contenuti ben noti ai liberali classici.

      Comunque, l'identità tra metanoia e rivoluzione, articolando l'intuizione tra il contenuto interiore ed individuale del primo concetto, con quello sociale del secondo, è voluta: non solo perché era un invito esplicito a metterti in discussione e, magari, iniziare a seguire il lavoro che si fa in questi spazi.

      Ma anche perché ci credo: perché è il senso che ho tratto tanto dal "mito della caverna" di Platone, quanto dalle gesta del Budda... quanto dal Vangelo.

      La morale individuale è connessa all'etica sociale: non c'è vero cambiamento interiore che non presupponga un impegno sociale.

      Almeno che non sei liberale e hai come religione l'individualismo metodologico.

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    7. Comunque: il fatto che in quello stralcio di discussione postata abbia scritto che "i diritti civili sono principalmente un problema per i poveri cristi", non era evidentemente riferito al contenuto del diritto in sé e al fastidio di chi ritiene immorale un determinato costume o comportamento, ma semplicemente al fatto che chi è facoltoso non ha veramente bisogno di vedersi riconosciuti giuridicamente questi diritti: gli interessa solo il diritto di proprietà e la relativa giustizia commutativa.

      I "poveri cristi" - cioè gran parte della popolazione terrestre - non possono godere di fatto nemmeno del diritto di proprietà... figuriamoci cosa se ne fanno di vedersi tutelata la reversibilità in caso di unione civile quando non puoi permetterti neanche di pagare i contributi INPS, o la polizza assicurativa: mi chiedo cosa te ne fai di avere il diritto all'interruzione della gravidanza quando non hai i soldi per pagare la sanità privatizzata. (L'aborto, in realtà, verrà fatto gratuitamente, come già in USA nei ghetti neri, in onore del malthusianesimo).

      E se ci fosse giustizia sociale, non ci sarebbero neanche donne disposte a dare il "proprio utero in affitto".

      I cattolici hanno di fatto inquinato il dibattito dall'inizio proponendo una dialettica ideologicamente orientata che ha spianato la strada ai neoliberali e ai neomalthusiani.

      E francamente, mi sono rotto di ascoltare le litanie delle ideologie alienate di tutti i vari orientamenti.

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    8. Caro Bazaar,
      a quanto pare non ci intendiamo. Se capiterà un'altra occasione, magari ci riproveremo. Tolgo il disturbo.

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    9. Per non generare equivoci: la frase che obiettivamente ha suscitato "obiezione" (argomentata, al di là del soffermarsi sulle implicazioni dei toni) è la seguente: "...eppure i "diritti civili", tipo matrimonio same sex, utero in affitto + altri ricchi premi e cotillons DELLA DEMOCRAZIA".

      Questo blog, con una ricostruzione giuridico-economica, arricchita da apporti di approfondimento relativi a fonti plurime, ha cercato, lungo un percorso di anni, di illustrare come tale insieme di "pseudo-diritti" siano una costruzione affermatasi, al contrario, in forza della sospensione e dell'alterazione strategica della democrazia quale intesa nella Costituzione. Cioè siano il prodotto dell'opposto della democrazia costituzionale.

      Si trat,ta, cioè, a ben vedere di (abili) accorgimenti mediatico-politici che tendono a forzare, per implicito ma per necessità logica, la gerarchia tra politica e Costituzione, invertendola e creando una nuova legittimità extra-ordinem ad un ordinamento neo-oligarchico.

      Per rendersi conto di ciò non occorre neppure il criterio del vero-falso, ma soltanto quello ermeneutico-giuridico della corretta identificazione del volere normativo supremo della nostra Carta in rapporto all'identificazione dell'obiettivo di arrivare "allo stato di fatto, allo stato meramente politico in cui le forze politiche sarebbero di nuovo in libertà senza avere più nessuna costrizione di carattere legalitario" (Calamandrei).

      In questo stato di fatto, non i "poveri cristi" come categoria minoritaria e residuale, ma la schiacciante maggioranza dei cittadini vengono ingannati al fine di essere resi "poveri cristi" (in massa) con la loro stessa adesione; cioè un'ondata moetiva suscitata da una serie di cosmesi che negano l'operatività dei principi fondamentali della Costituzione e consolidano lo stato di fatto favorevole alla ridotta minoranza che si arroga, persino, il merito di una concessione che a loro non costa nulla, ma le cui implicazioni sono devastanti per chi si presta all'inganno.

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  11. Ciao Quarantotto in riferimento agli intellettuali trovo interessanti queste righe tratte dal libro Minima Mercatalia di Diego Fusaro pag 453:
    " Diventa allora comprensibile il giudizio critico lukacciano, secondo cui la Kritische Theorie dei Francofortesi si configurerebbe come il " Grand Hotel dell'Abisso, un albergo di lusso edificato sulle cascate, in modo che l'ospite tra gli agi del lusso, possa ogni tanto, con lo sguardo, provare la vertigine dell'orrore del burrone dal sicuro rifugio della sua confortevole stanza. L'odierno sistema globalizzato si caratterizza a tutti gli effetti come un Grand Hotel dell'Abisso, in cui, tra gli agi del flusso edenico delle merci, agli intellettuali è permesso muovere qualsivoglia critica, a patto che l'accompagnino sempre con la diagnosi dell'intrasformabilità del mondo, in quella figura concettuale del radicalismo solo fittizio di chi, dopotutto, preferisce soggiornare al sicuro entro i perimetri del confortevole albergo sull'orlo dell'abisso."
    Inoltre parafrasando le parole di Costanzo Preve riferite ad Umberto Eco possiamo dire che gli intellettuali si sono donati totalmente e intimamente alla "modernità".
    Siamo sideralmente lontani nello spazio e nel tempo dalle parole di J.G. Fichte La missione del dotto:
    "L'intellettuale non vede solo il presente ma anche il futuro; non vede solo il momento attuale, ma anche la meta verso cui l'umanità è indirizzata"

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    1. Ma pure "questi" intellettuali vedono "la meta verso cui l'umanità è indirizzata". Solo che pensano che non li riguardi, credendo di aver fatto un patto, spesso esplicito ma sempre nascosto, con ESSI.
      E' ormai evidente che si crede fermamente nella suddivisione definitiva dell'umanità stessa in due categorie...Lo sport più in voga è dimostrare quanto non si possa mai appartenere alla seconda (quella dei nuovi esseri umani "inferiorizzati")

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    2. Ma infatti! Ormai i sentimenti di razzismo verso gli italiani sono pienamente istituzionalizzati. Se la premessa (ovviamente non dimostrata ma diffusa in ogni dove coi megafoni dei mass media) è che la corruzione è elemento costitutivo del popolo italiano, allora la lotta alla corruzione non può che essere una guerra contro il popolo. Diventa la legittimazione delle peggiori perversioni antipopolari da sempre covate da queste “””classi dirigenti”””.
      C’è una comune appartenenza di fascismo, comunismo atlantico della berlingueriana questione morale ed €uropeismo, che gli fa vedere la società come un “loro” versus noi, dove loro sono sempre il manico del bastone necessario a raddrizzare il filo della schiena alla plebaglia.
      Ma oggi c’è forse un quid pluris: si sono resi conto che possono finalmente sostituirci, con la tecnologia, la manipolazione delle migrazioni etc…, e quindi eliminarci. La “durezza del vivere” non è più un campo di rieducazione, ma un campo di sterminio camuffato da campo di rieducazione.
      E per certi aspetti questo può essere liberatorio, in un’ottica di chiarimento dei fatti e delle parti in causa e quindi strategica.

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  12. Io come ricercatore ho provato ad oppormi alla possibilità di aderire ad una
    polizza sanitaria privata Unipol inserita nel contratto ricerca. Pensavo che sarebbe
    stato facile con i miei colleghi, che dovrebbero appartenere alla "elite" culturale
    del paese, trovare facile ascolto in favore dell'importanza
    del Servizio Sanitario Nazionale eppure il riscontro è stato nullo: mi hanno semplicemente ignorato.
    Ritengo siano preparatissimi nella loro ricerca specialistica ma che sia
    difficile farli riflettere su problemi così essenziali che esulano
    dal loro interesse specifico. Pur avendo gli strumenti tecnici per
    comprendere le problematiche economiche basilari semplicemente passano
    oltre. Il "mainstream" è così radicato da lasciare senza parole.
    roberto b.

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