lunedì 23 maggio 2016

BENE COMUNE, BENI COMUNI: MERCATO E PRIVATIZZAZIONI

Sculture provenienti dall'Abbazia di Cluny

1. Parliamo di "bene comune" e di "beni comuni": sul piano lessicale questi concetti si riferiscono, rispettivamente, all'interesse condiviso da parte di ciascuno e dell'insieme dei componenti di una comunità umana a perseguire il proprio "bene"collettivo, ed alla particolarità di alcune cose o "utilità" di essere fruibili in modo indiviso da parte di una collettività più o meno ampia di persone.
Di fronte a questi concetti, a seguito dell'ordinaria esperienza della vita sociale, possono venire in mente, fenomeni come il condominio degli immobili abitativi (quanto alla gestione della parti di proprietà comune), ovvero certe usanze dell'economia agricola nell'uso di determinati fondi (tipicamente, boschi e pascoli), o, ancora, a livello di immediato senso comune, i beni e i servizi pubblici di ogni tipo.
Su quest'ultima categoria si incentra il problema che deriva dall'uso, sempre più diffuso, della terminologia "bene o beni comuni". 
Laddove, infatti, i rapporti di diritto privato rendano praticamente e agevolmente delimitabile la comunità cui il bene in proprietà e gestione comune è strumentale (al miglior godimento della proprietà individuale), il problema dell'uso del termine "pubblico", non si pone. Siamo di fronte a riflessi necessitati, in base ad un'esperienza sociale ultramillennaria, del modo di essere di alcune proprietà private.

2. Ma in generale, l'uso del termine "bene comune" diventa un problema politico-giuridico allorché sia insistentemente proposto come sostitutivo del termine "bene pubblico": viene allora da chiedersi da dove scaturisca questa diffusa "sostituzione", quali siano le sue origini e, dunque, gli scopi effettivi di questa scelta terminologica.
La risposta sintetica a queste domande, è che si voglia eliminare l'uso del termine "pubblico", in quanto si abbia la volontà di affermare la inadeguatezza, la insufficienza e la inefficacia (a fini da precisare), del regime di proprietà e di gestione pubblica di determinati beni che, - via via che si sono affermate le democrazie rappresentative e solidali-, erano ascritti alla sfera dello Stato o degli enti pubblici territoriali (cioè quelli che, comunque, nella Costituzione dello stesso Stato, trovano una disciplina di riconoscimento).

Cominciamo con la disciplina della proprietà contenuta nella Costituzione, che trova la sua previsione fondamentale nell'art.42:
"La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati.
La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti.
La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d'interesse generale.
La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità."
3. Come vedete, il concetto di "bene comune" non figura in Costituzione: la proprietà è o privata o pubblica, cioè intrinsecamente "comune" in quanto l'ente pubblico proprietario (a cominciare dallo Stato, come ci dice il primo comma), è considerato normalmente, e per via di altri fondamentali articoli della Costituzione, un'organizzazione comune "a fini generali", rappresentativa di una vasta comunità (identificata per lingua e tradizione culturale comuni, in relazione ad un determinato territorio ove ciò sia storicamente riscontrabile): vale a dire, lo Stato è l'ente (comune) rappresentativo del popolo italiano detentore della sovranità, popolo che la Costituzione si preoccupa di dichiarare "effettivamente" partecipante alla vita dello Stato, impegnando le istituzioni di indirizzo politico, a loro volta necessariamente rappresentative, a svolgere un'azione che ampli e garantisca nel tempo questa partecipazione effettiva.
Il bene comune non statale, o comunque non appartenente ad un ente pubblico territoriale (esponenziale di una comunità che comunque si armonizza nel più ampio popolo sovrano, articolandosi in funzione di certe realtà territoriali considerate "naturali" e come tali riconosciute dalla Repubblica; cfr; art.5 Cost.), è dunque un bene privato.
Il regime della proprietà corrispondente alla legalità costituzionale è chiaro su questo punto.

4. Perché dunque si vuole sempre più utilizzare una categoria propria del regime dei beni privati per sostituirla a quella di "bene pubblico" (e al concetto di "interesse pubblico")?
La risposta più agevole è quella che si rivela dall'effetto sostitutivo appena descritto: al fine di poter affermare che una proprietà e una gestione private, di beni ascrivibili alle comunità territoriali, siano equiparabili a quelle pubbliche. Più precisamente, questa estensione di categorie del diritto privato pare rispondere all'esigenza di generare la convizione che sia indifferente, dato il mantenimento della qualificazione di "comune", che proprietà e gestione del bene, (in precedenza) gestito e utilizzato dallo Stato a favore della comunità dei cittadini, siano in mani pubbliche o private.

Il busillis va dunque spiegato cercando di capire cosa si voglia intendere per "comune", riferendolo al "bene" (cioè all'interesse generale perseguito da una comunità), o ai "beni" (cioè agli oggetti di proprietà, a fruizione o uso collettivo, pubblica o privata).

5. In termini storico-giuridici, la principale fonte di questa aspirazione all'indifferenza terminologica tra "comune" (anche se a titolarità preferenzialmente privata) e pubblico, origina da dottrine provenienti dalla Chiesa.
Sul "bene comune", inteso come aspirazione al benessere della collettività (sostitutivo dell'interesse pubblico), suggeriamo questa fonte riassuntiva contenuta nella Treccani.
Andiamo per sommi capi, partendo dalla diatriba sull'obbligo, o meno, di lavoro dei monaci, che animò la rivalità tra "cluniacensi e cistercensi". Certamente, in assenza dello Stato di diritto in senso moderno, cioè di un'organizzazione comune a fini generali corrispondenti, nei suoi effetti obbligatori, al perseguimento dell'interesse indifferenziato di un'intera comunità territoriale, monaci che si attivavano per procurarsi i mezzi di sopravvivenza e rifiutavano di farsi servire dai "secolari" (essenzialmente servi della gleba, legati alla proprietà immobiliare posseduta dal monastero o ad esso affidata in base a regole canoniche o di diritto feudale, che lavoravano per i monaci o ad essi corrispondevano una "decima"), avevano una credibilità maggiore agli occhi dei potenziali donatori e autori testamentari:
"Mentre la Regola di Benedetto affidava all’abate il possesso di tutti i beni (individuali e collettivi) con i quali questi doveva provvedere ai bisogni dei monaci, i cistercensi rifiutavano ogni possesso, persino quello di chiese e altari. La Carta caritatis, uno dei testi più significativi ai fini degli sviluppi del discorso economico successivo (la versione finale del testo risale al 1147), è su tale punto di una fermezza irremovibile (Stercal 2007; Zamagni 2009). Quale la conseguenza, certamente non voluta, né prevista, di tale duplice atteggiamento? Che lo stile di vita dei cistercensi, ben lontano dal lusso dei cluniacensi e improntato a rigore e povertà estrema, finì per attirare l’attenzione della gente che, persuasa del buon uso che delle liberalità costoro avrebbero fatto, inondò di donazioni i loro monasteri. Accadde così che, nel giro di pochi decenni, i seguaci di Bernardo si trovarono prigionieri della contraddizione che scaturiva dalla loro stessa spiritualità: vita sobria (e quindi bassi consumi) e lavoro produttivo – il sovrappiù agricolo che riuscivano a ottenere era superiore a quello realizzato nelle imprese tradizionali – avevano creato ‘l’imbarazzo della ricchezza’ (Milis 2002; cfr. Pacaut 1970, sulla vita all’interno dei monasteri cluniacensi e sulle difficoltà gravi che tale stile di vita andò a creare a partire dall’11° sec.)".  

6. Ed è qui che, sempre prima dell'irrompere del concetto di Stato e della sua sottoposizione a norme vincolanti a provvedere al benessere della comunità, si colloca la novità e l'evoluzione storicamente legata al concetto di produzione e commercio:

"Ai francescani il merito di aver individuato la via d’uscita dall’imbarazzo della ricchezza con l’invenzione di quel modello di ordine sociale che sarà poi l’economia di mercato. Francesco, fondatore di un movimento eremitico, trasformatosi, con uno sviluppo folgorante, in ordine mendicante, recepisce da Bernardo sia il principio secondo cui i contemplantes devono essere anche laborantes, sia la regola per la quale i frati dovevano rinunciare anche alla proprietà comune. 
Se ne distacca però su un punto fondamentale: se si vuole trovare uno sbocco al sovrappiù generato in agricoltura e nella mercatura, e così superare l’imbarazzo della ricchezza, occorre dilatare lo spazio dell’attività economica facendo in modo che tutti possano almeno potenzialmente parteciparvi. Occorre cioè trovare il modo di far circolare la ricchezza prodotta, onde evitare che essa ristagni nelle mani di pochi.
Come Giacomo Todeschini (2007) ha autorevolmente messo in luce, il convincimento in base al quale vi sarebbe un’insanabile inconciliabilità tra «economia di profitto» ed «economia di carità» è privo di solido fondamento. 
Ecco perché carità e profitto potevano apparire ai magistri francescani (Pietro di Giovanni Olivi, Bernardino da Siena, Bernardino da Feltre, Bonaventura da Bagnoregio, Guglielmo di Occam e altri ancora) e ai più attenti commentatori del modello della civiltà cittadina come le due facce della medesima realtà economica
Asse portante – anche se non unico – della civiltà cittadina è l’economia di mercato, intesa quale struttura di governo delle transazioni economiche (i mercati come luoghi degli scambi già esistevano in epoca greco-romana). I suoi tre principi regolativi discendono tutti, in qualche modo, dal pensiero francescano, prima vera e propria scuola di pensiero economico, come lo stesso Joseph Schumpeter ha riconosciuto nella sua monumentale History of economic analysis (1954). Due sono le novità che il francescanesimo introdusse nell’orizzonte culturale dell’epoca. La prima è che se usare dei beni e delle ricchezze è necessario, possedere è superfluo. Il che porta a concludere che «grazie alla povertà, poteva essere più facile usare e far circolare la ricchezza» (Todeschini 2004, p. 74). La seconda novità è che, se si vuole che la povertà come virtù possa essere concretamente praticata, è necessario che sia sostenibile, cioè possa durare nel tempo. Occorre dunque imparare a gestire il denaro, creando apposite istituzioni finanziarie". 

7. Di questi problemi di origine, interna alla dottrina della Chiesa, della teorizzazione della "economia di mercato" abbiamo già parlato qui, con ampi approfondimenti nei commenti
Quello che più conta sono le conclusioni cui ci conduce la (autorevole) fonte qui adottata. Nelle successive elaborazioni, e nel confronto con l'inevitabile strutturarsi dell'economia mercantilista e, successivamente capitalista, il bene comune diviene una sorta di precondizione di conciliazione tra "economia di mercato" e elemento solidaristico; quest'ultimo, in essenza, è definito, a sua volta, da due elementi: la carità, cioè l'elargizione del minimo per la sopravvivenza a chi, per qualsiasi ragione ne sia privo, e la tendenza a temperare la spinta al profitto, cioè la facoltà attribuita a chi sia impegnato nella produzione e nello scambio, di non massimizzare il guadagno personale in funzione del riconoscimento di legami solidaristici con altri membri della propria sfera sociale di appartenenza.
Entrambi questi elementi, come si può scorgere, al di là della loro funzionalità effettiva a massimizzare il benessere collettivo, si affidano però ad una volontà di "bene" (comune, cioè che riconosce l'altrui interesse come limite alla propria tendenza personale ed esclusiva all'accumulo di ricchezza), che nasce esclusivamente dalla coscienza e dalla spontanea adesione individuale. 
Non è prevista una regola che "imponga" di fare la carità e, specialmente, in quale misura, né esiste un obbligo giuridico (diremmo di diritto positivo) a limitare la spinta al profitto in funzione di legami comunitari e solidaristici. Nondimeno, su queste basi, di "coscienza" e di volontarismo spontaneo (che reggono sull'ipotesi di una comune etica cristiana, per di più intesa in un modo storicamente ben determinato, cioè proprio delle "correnti", prima cistercensi e poi francescane), si assume tutt'ora la possibilità di sostenere sia la preferenza per l'economia di mercato, sia la coesistenza immanente di questa col perseguimento del benessere collettivo.

8. Il capitalismo persegue il "bene totale" e non il bene comune, e, in questo senso, va guidato e corretto in funzione di questa esortazione alla solidarietà volontaristica, ma, comunque ritenuta incoericibile, in base all'interferenza di regole dello Stato:
"La concorrenza, attraverso il meccanismo emulativo, stimola la propensione a intraprendere e induce al calcolo razionale. Dove c’è concorrenza non ci sono posizioni di rendita e quindi privilegi di sorta. Certo, la concorrenza è costosa, ma migliora la qualità, perché induce a ‘individualizzare’ di più i prodotti; a conferire a essi un’identità. Come accade in politica, dove la democrazia comporta bensì costi elevati, ma evita il peggioramento della qualità del vivere civile. 
D’altro canto, come insiste con forza Bernardino da Siena nelle sue Prediche volgari del 1427, se il fine per cui si fa impresa è quello del bene comune, i costi sociali della concorrenza non saranno mai eccessivamente elevati. Nella predica XXXVIII, intitolata De’ mercanti e de’ maestri e come si deve fare la mercantia, si legge: «Per lo ben comune si die esercitare la mercantia» (Prediche volgari sul Campo di Siena, 1427, a cura di C. Delcorno, 1989, p. 1101) e più avanti:
Cosa necessaria a una Città o Comunità si è che bisogna che vi siano di quelli che mutino [lavorino] la mercantia per altro modo; come s’è la lana che se ne fanno: lecito è che il lanaiolo ne guadagni. Ognuno di costoro possono e debbono guadagnare, ma pure con discrezione. Con questo inteso sempre, che in ciò che tu t’eserciti, tu non facci altro che a drittura. Non vi debbi mai usare niuna malizia; non falsar mai niuna mercantia, tu lo debbi far buono e, se non lo sai fare, innanzi la debbi lasciar stare e lasciarla esercitare a un altro che lo facci bene, e allora è lecito guadagno (p. 1138).
Dunque, se il mercante usa la sua ricchezza in vista del bene comune, la sua attività è non solo lecita, ma virtuosa. Si rammenti che è a Bernardino da Siena che si deve la prima sistematica definizione di bene comune dal punto di vista economico (Bazzichi 2010)."

9. In estrema sintesi fenomenologica, l'ipotesi che legittima il sostegno all'economia di mercato è dunque la "fraternità", intesa come patrimonio morale spontaneo della comunità e di ciascun individuo:
"Non c’è modo più semplice per convincersi che il fine del profitto di per sé non è costitutivo dell’economia di mercato che quello di riferirsi agli scritti degli umanisti civili (da Leonardo Bruni a Matteo Palmieri, da Antonino da Firenze a Bernardino da Feltre) e agli autori dell’economia civile del Settecento (Antonio Genovesi, Giacinto Dragonetti, Cesare Beccaria, Pietro Verri, Giandomenico Romagnosi).
La costante che ricorre in tutte le loro opere è che le attività di mercato vanno orientate al bene comune, dal quale solamente esse traggono la loro giustificazione ultima. Una delle prime trattazioni della nozione di bene comune è il De bono communi (1302) del domenicano fiorentino Remigio de’ Girolami. L’idea centrale che il testo sviluppa è che non si dà il bene della parte senza il bene del tutto in cui la parte è inserita: senza l’orientamento al bene comune, la società si distrugge e con essa i singoli individui (cfr. Bruni 2003 per una pregevole ricostruzione storica della nozione di bene comune come opposta a quella di bene particolare, dal Convivio di Dante a Francesco Guicciardini).
Ma in cosa precisamente consiste la differenza tra bene comune e bene totale? Una metafora chiarisce il punto. 
Mentre il bene totale può essere reso con l’immagine di una sommatoria, i cui addendi rappresentano il bene dei singoli, il bene comune è piuttosto assimilabile a un prodotto, i cui fattori rappresentano il bene dei singoli. È chiaro il senso della metafora: in una somma se alcuni degli addendi si annullano la somma totale resta comunque positiva. Anzi, può addirittura accadere che se l’obiettivo è quello di massimizzare il bene totale convenga ‘annullare’ il bene (o benessere) di qualcuno a condizione che il guadagno di benessere di qualcun altro aumenti in misura sufficiente per la compensazione. 
Non così, invece, con un prodotto, perché l’annullamento anche di un solo fattore azzera l’intero prodotto. 
Detto in altri termini, quella del bene comune è una logica che non ammette sostituibilità: non si può sacrificare il bene di qualcuno – quale che ne sia la situazione di vita o la configurazione sociale – per migliorare il bene di qualcun altro e ciò per la fondamentale ragione che quel qualcuno è pur sempre un portatore di diritti umani fondamentali. 
Per la logica del bene totale, invece, quel qualcuno è un individuo, cioè un soggetto identificato da una particolare funzione di utilità e le utilità – come si sa – si possono tranquillamente sommare (o confrontare), perché non hanno volto, non esprimono un’identità, né una storia. Essendo comune, il bene comune non riguarda la persona presa nella sua singolarità, ma in quanto è in relazione con altre persone. Esso è dunque il bene della relazione stessa fra persone; è il bene proprio della vita in comune. È comune ciò che non è solo proprio – così accade invece con il bene privato – e ciò che non è di tutti indistintamente – così accade con il bene pubblico.
La chiave attorno alla quale ruota il discorso sulla legittimità etica dell’attività economica di mercato è dunque la fraternità."

10. Questo insieme di lodevoli propositi, che certamente presuppongono una sforzo ideale e etico, constantemente ritrovabile nell'intera comunità sociale, (dato che la stessa teoria postula che se anche uno solo se ne tira fuori, rischia di azzerarsi il vantaggio di ogni possibile "bene comune"), viene dunque contrapposto all'interesse pubblico incarnato dalle norme dello Stato: inevitabilmente, se lo Stato limita il "libero mercato", da un lato nega la precondizione di diffusione del bene comune, dato che gli individui non potranno più liberamente esercitare la loro spinta solidaristica coessenziale all'iniziativa economica (secondo questa visione, ovviamente), dall'altro, disconosce il carattere esclusivamente privato, e funzionale al bene comune, della stessa illimitata disponibilità e trasmissione della proprietà mediante il "mercato" (se non altro lo Stato vorrà tassare e appropriarsi di una parte della proprietà delle ricchezza prodotta e deciderà di intestarsi  alcuni beni per ragioni di interesse statale, stabilite da norme pubblicistiche). 
Questi elementi, molto più del riscontro degli effetti storico-sociali concreti della teorizzazione, divengono il carattere fondante della teoria del "bene comune".

11. In questo concetto di bene comune, infatti, la scommessa etica della solidarietà insita naturalmente in ogni individuo impegnato a dar vita all'attività di mercato, è data come "vinta", per definizione, e lo Stato finisce per essere oggetto di una presunzione assoluta di intervento distorsivo. Tracce evidenti di questo ordine di pensiero le abbiamo in Roepke (ne trattiamo in "La Costituzione nella palude" pagg.185-186, nota 78) e, in generale, negli ordoliberisti a ispirazione cristiana (che, com'è noto, ammettono l'azione dello Stato in quanto garante e esecutore con regole di "polizia", del libero gioco del mercato e del sistema dei prezzi).
Traendo dalla fonte sopra citata (su relazioni tra "economia sociale di mercato" e dottrina sociale della Chiesa), si ha la conferma della piena attualità di questa visione in aderenza alle sue origini, ma pure della "realistica" consapevolezza, derivante dall'esperienza proprio dello svolgersi delle vicende storiche legate all'economica di mercato, del limite volontaristico, ineludibile, delle "personali" virtù umanistiche e solidaristiche, come tali incoercibili dallo Stato rispetto a qualsivoglia "individuo":
"Che cos'è il liberalismo?", si domanda il nostro autore (Roepke). 
"Esso è umanistico. Ciò significa: esso parte dalla premessa che la natura dell'uomo è capace di bene e che si compie soltanto nella comunità, che la sua destinazione tende al di sopra della sua esistenza materiale e che siamo debitori di rispetto ad ogni singolo, in quanto uomo nella sua unicità, che ci vieta di abbassarlo a semplice mezzo. Esso è perciò individualistico oppure, se si preferisce, personalistico". Dalla definizione di Röpke emerge una nozione di liberalismo che lo sgancia da un'idea dogmatica e rigida dello stesso, evidenziando i connotati di un pensiero umanistico, in quanto non condivide né l'idea pessimistica hobbesiana di un uomo per natura egoista, né quella ottimistica di Rousseau. Il liberalismo di Röpke fa proprio il principio caro alla tradizione dell'antiperfettismo e del realismo cristiano, di Agostino, di Pascal, di Rosmini, di Sturzo, fino ad arrivare a Giovanni Palo II, per il quale l'uomo, benché tenda verso il bene è pur sempre capace di male. Esso è personalistico, poiché "in conformità alla dottrina cristiana, per cui ogni anima umana è immediatamente dinanzi a Dio e rientra in lui come un tutto, la realtà ultima è la singola persona umana non già la società, per quanto l'uomo possa trovare il proprio adempimento soltanto nella comunità". Esso, inoltre, è antiautoritario, rendendo a Cesare quello che è di Cesare, ma riservando a Dio ciò che qualifica il suo rapporto con l'Assoluto: per il cristianesimo è la coscienza individuale che giudica il potere e non viceversa; esso, dunque, rifugge da ogni forma di nazionalismo, razzismo e imperialismo; in breve, è universale. Allora, il liberale per Röpke è "l'avvocato della divisione dei poteri, del federalismo, della libertà comunale, delle sfere indipendenti dello Stato, dei ‘corps intermédiaires' (Montesquieu), della libertà spirituale, della proprietà come forma normale dell'esistenza economica dell'uomo, della decentralizzazione economica e sociale, del piccolo e del medio, della gara economica e spirituale, dei piccoli stati, della famiglia, dell'universalità della Chiesa e dell'articolazione".
...In questa prospettiva andrebbe considerato anche il suo profondo convincimento in ordine alla contiguità ideale tra liberalismo e cristianesimo. In uno dei suoi scritti più celebri afferma: "il liberalismo non è [...] nella sua essenza abbandono del Cristianesimo, bensì il suo legittimo figlio spirituale, e soltanto una straordinaria riduzione delle prospettive storiche può indurre a scambiare il liberalismo con il libertinismo. Esso incarna piuttosto nel campo della filosofia sociale quanto di meglio ci hanno potuto tramandare tre millenni del pensiero occidentale, l'idea di umanità, il diritto di natura, la cultura della persona e il senso dell'universalità". Per Röpke, l'eredità spirituale che il cristianesimo ha tramandato al liberalismo è rappresentata dalla difesa della dignità di ogni singola persona umana contro tutte le forme di statalismo. Il fatto che esistano correnti di pensiero che mettono in discussione tale eredità spirituale, sostenendo, sul versante religioso, l'incompatibilità del cristianesimo con il liberalismo e, sul versante laico, l'incompatibilità delle istituzioni liberali con la fede cristiana, sarebbe il frutto, rispettivamente, di un "moralismo ignorante" e di un "economismo ottuso": "Un moralismo dilettantistico nell'economia nazionale è altrettanto scoraggiante quanto un economicismo moralmente indifferente, e purtroppo il primo è diffuso quanto il secondo".

12. Riteniamo che siano ora chiarite origini e portata del concetto di "bene comune", e che quindi risulti  verificato, nella coerenza del relativo pensiero, come esso sia alternativo e, in termini molto pratici, oppositivo a quello di interesse pubblico generale incarnato dallo Stato costituzionale democratico.
Questa concezione, incentrata sulla virtuosità etica (inevitabile) dell'economia di mercato, fornisce la naturale cornice concettuale del concetto di "beni comuni". In assunto, che verificheremo: il "bene comune" prescinde e si legittima indipendentemente dalla proprietà e dalla gestione pubblica, assoggettata a norme che ne garantiscano la rispondenza all'interesse pubblico (considerato un'interferenza inefficiente sul prodotto finale delle forze del mercato). 
La proprietà privata del bene ad uso collettivo (cioè "comune), - per la sua natura di bene indivisibile o a causa della precedente regolazione statale che considerava prioritario l'interesse pubblico alla proprietà ed alla gestione del bene-,  diviene superflua: quello che conta è l'attitudine solidaristica che, in base alla spontanea virtù dell'operatore privato, tale gestione può sviluppare.
Non si nasconde che tale virtù spontanea possa non esserci e che quindi qualche norma dello stesso Stato possa imporre dei limiti ad un uso volto esclusivamente alla massimizzazione del profitto nella gestione del bene comune; ma quello che, in questa visione, così spesso richiamata dalla politica e dalle giustificazioni del legislatore (essenzialmente dedicatori all'attuazione di direttive europee),  assume carattere di gran lunga prevalente è la sottolineatura della inefficienza dello Stato, della sua corruzione e degenerazione morale e della conseguente maggior legittimazione morale dell'operatore privato sia a gestire con maggiori efficienza, "onestà" e trasparenza il "bene comune". Ovviamente, in questo caso, si parla degli ex beni pubblici, dato che i "beni comuni" già appartenenti naturalmente alla sfera del diritto privato, non avrebbero bisogno di questa dottrina e di queste premesse "etiche" per essere sottratti, quantomeno, alla gestione pubblica.
In tal senso la formale proprietà pubblica rimane un dettaglio secondario: l'importante è che la gestione sia stabilmente e senza possibilità di alternative affidata alle forze del mercato, cioè ad operatori privati.

13. A riscontro di questa sostanziale funzione del concetto di "bene comune", affermativa di un regime privato di gestione, al più volontaristicamente "temperato", riportiamo quanto ci illustra Pietro Folena in suo scritto del 2005. Parte da una spiegazione "didattica" del concetto di bene comune, (ricorrendo poi al ben noto esempio del pascolo ad uso civico ed ai problemi di reciproca limitazione dell'uso individuale consentito ai vari "legittimati"):
"Il concetto di “beni comuni” (“common goods”), in economia, indica originariamente quei beni quali le risorse naturali (acqua, la fauna, ecc.) esauribili, ma dal cui sfruttamento nessuno può essere escluso. I beni comuni sono anche definiti più precisamente come “beni di proprietà comune” – il che non va confuso con la proprietà pubblica, cioè dello Stato o altra istituzione pubblica. Si tratta di una distinzione non secondaria, di cui parleremo più avanti, perché presuppone un diverso modello di gestione, al di là della “mera proprietà”. Il problema originario dei beni comuni era (ed è) quello di stabilire delle regole che permettessero lo sfruttamento tendenzialmente universale della risorsa prevenendone l’esaurimento."
Com'è evidente, la "proprietà comune" non va "confusa con la proprietà pubblica", e quel che è più importante è che è il "diverso modello di gestione, al di là della "mera proprietà".
14. Sulle modalità di gestione lo scritto ci spiega che ne esistono una "liberista" e una "statalista". La prima viene fatta oggetto di una critica, che riporterò solo in parte ma che appare piuttosto confusa, in quanto si incentra su obiezioni non più relative al bene ad uso collettivo o indiviso, ma a distorsioni normali della gestione di proprietà private individuali e, comunque, non risulta del tutto coerente con quanto viene poi affermato (a sostegno della teoria del "bene comune". cioè la "terza via", quella "migliore"):
"...Alla provocazione di Hardin si è risposto con la formazione di due scuole di pensiero. La prima, quella che chiameremo liberista, sostiene che la soluzione della tragedia va ricercata nel mercato. Privatizzare i beni comuni, si sostiene, costituisce un freno all’eccesso di sfruttamento. Riprendendo l’esempio del pascolo, si potrebbe privatizzare il terreno, magari dividendolo tra i diversi allevatori. Nessuno di loro, quindi, potrà depauperare le risorse dell’altro e il pascolo rimarrà in equilibrio. E’ facile però obiettare che nessuno assicura che tutti gli allevatori sfrutteranno la loro parte oltre il limite di sopportazione sistema-pascolo. Può al contrario accadere facilmente che uno di loro decida di farvi pascolare 100 capi. Per un breve periodo, fin quando il pascolo non si sarà esaurito, l’allevatore “rampante” guadagnerà dieci volte il profitto dei suoi concorrenti i quali, a loro volta, saranno indotti a comportarsi alla stessa maniera, distruggendo l’intera risorsa. La natura della proprietà, quindi, non pare essere un freno alla “cupidigia” dei singoli.

Inoltre c’è una questione che non viene affrontata: quando il terreno era un bene comune, in ogni momento un nuovo allevatore poteva decidere di farvi pascolare la propria mandria ma, una volta diviso tra gli allevatori originari, solo loro e i loro eredi potranno sfruttare l’erba che vi cresce. Del resto “privato” non è forse il participio passato di “privare”? Si potrebbe anche pensare che il terreno, stavolta indiviso, venga acquistato da una persona esterna al gruppo di allevatori, la quale potrebbe affittare per l’uso pastorizio a chiunque. In tal modo – sostiene la scuola liberista – il proprietario si comporterà in modo tale che il pascolo rimanga sempre florido, poiché esso è la sua fonte di profitto e sarà suo interesse evitarne il depauperamento. Evidentemente non si può pensare che il proprietario ceda gratuitamente l’uso della risorsa, poiché non guadagnandoci nulla sarebbe indotto a lasciarla deperire...
...La maggiore criticità attualmente è rappresentata dall’acqua, bene comune per eccellenza in quanto assolutamente indispensabile alla vita. Difatti, sebbene ovviamente nessuno abbia mai proposto la privatizzazione della risorsa in sé, i processi di privatizzazione che coinvolgono le reti idriche nei fatti compromettono lo status di bene comune: dove gli acquedotti sono stati privatizzati, infatti, la logica del profitto ha portato a consistenti aumenti delle tariffe, ad un peggioramento della qualità dell’acqua erogata, all’esclusione dei morosi e delle fasce sociali più deboli. Inoltre nei paesi più poveri l’accesso all’acqua è divenuto motivo di conflitti armati (“le guerre dell’acqua”).
15. Insomma, una volta privatizzato il bene, esso è in qualche modo di proprietà individuale e perde ogni connotato il problema della massimizzazione del bene collettivo: se si verificano gli inconvenienti che egli segnala, questi attengono ai normali problemi gestionali della proprietà privata e, in generale, ai c.d. "fallimenti del mercato". Si tratta in definitiva di un attacco alla funzionalità della proprietà privata operabile rispetto a qualsiasi bene suscettibile di utilizzazione economica in regime di mercato (problema che è proprio affrontato dal sopra citato, e dimenticato, art.42 Cost. che, infatti, affida alla legge dello Stato di assicurare la "funzione sociale" della proprietà).

Vediamo invece perché la proprietà e, quel che è più importante, la gestione pubblica non andrebbero più bene come rimedi ai fallimenti del mercato:
"La seconda scuola è quella che potremmo definire socialdemocratica classica. Essa sostiene che il bene comune va semplicemente statalizzato. Sarà infatti lo Stato a dare in concessione il pascolo ai diversi allevatori, in condizione di parità di accesso, o comunque lo sfrutterà per il bene di tutta la comunità. Non è forse lo Stato (almeno in un regime democratico) il più autentico rappresentante degli interessi generali? Vi sono molte ragioni per sostenere questa tesi, né è il caso qui di preoccuparsi di confutarla in nuce. E, tuttavia va rilevato come l’attuale crisi della democrazia rappresentativa, la sfiducia verso la politica di strati sempre maggiori della popolazione, la corruzione, e altri fenomeni degenerativi che in Italia abbiamo conosciuto fin troppo bene pongono qualche interrogativo sulla sufficienza di un controllo statale dei beni comuni. Né è possibile pensare che ognuno di questi possa essere efficacemente gestito attraverso concessioni che mettono in moto innumerevoli ingranaggi burocratici. La soluzione – che nasce dall’esperienza della democrazia partecipativa – come vedremo più avanti, è un’originale mix di autogoverno e socialdemocrazia. Una “terza via” tra il “privato” e lo “statale” che disegna una nuova idea di “pubblico” in cui lo Stato è uno degli attori, non l’unico". 
16. Insomma, lo Stato democratico è in crisi "rappresentativa" per corruzione e altri fenomeni degenerativi. Quindi, non è più in grado di concedere "il pascolo" e garantirne l'uso collettivo in modo  da non suscitare la "sfiducia" dei cittadini e senza "ingranaggi burocratici".
Fatta una ricognizione delle "criticità", poste da vincoli internazionali, che imporrebbero la privatizzazione dei servizi pubblici, inclusa sanità e istruzione, nonchè legate all'allargamento del concetto di "bene comune" ai beni immateriali (qui la spiegazione si fa confusa perché non si comprende più il confine con il "bene privato di pubblico interesse", che, un tempo, era il titolo di un intervento legislativo di tutela statale, ma che ora è affidato alla superiore volontà dei trattati internazionali free-trade, tra i quali viene citata anche la direttiva Bolkenstein), ci offre la soluzione:
"Si è detto che vi sono due modi “classici” per gestire i beni comuni: uno liberista e l’altro “statalista”. Ma l’esperienza della democrazia partecipativa, in particolare del bilancio partecipato, ci dà una terza possibilità: quella che prevede, accanto alle istituzioni pubbliche, comitati di cittadini e associazioni che dicano la loro sulle regole e sulle scelte concrete riguardanti la gestione del bene. Non si tratta di una novità tout court. Qualcosa di simile avveniva sin da Medioevo, soprattutto nei paesi anglosassoni, dove il concetto di “beni comuni” (i “commons”) ha valenza giuridica. Ma anche in Italia esiste una tradizione, che oggi va sotto il nome di “usi civici”. Terreni agricoli e pastorali che appartengono a comunità, gestiti da comitati di cittadini interessati al loro utilizzo, spesso in collegamento con l’istituzione del luogo. Un esempio sono le cosiddette “Regole trentine”, riformate in peius recentemente. Ad esempio, negli Ambiti Territoriali Ottimali per i servizi idrici, è possibile introdurre, accanto al comitato di gestione istituzionale, un comitato formato da cittadini e rappresentanti di associazioni con poteri effettivi di co-decisione. In tal modo il bene acqua cessa di essere un bene “statale” e ritorna alla sua natura di bene “comune”, “comunitario”.
17. La soluzione appare attraente: accanto agli enti pubblici (le istituzioni), si suggerisce l'arricchimento con la partecipazione attiva di "comitati di cittadini e associazioni" che dicano la loro sulle scelte relative alla "gestione del bene".
Ed è proprio questo il punto: se andiamo a vedere cosa è accaduto per i "servizi idrici", non è che poi, né le istituzioni che rimangono formali proprietarie del bene ad uso pubblico, nè questi comitati e associazioni, abbiano molta scelta. 
La forma unica e obbligatoria di gestione del bene pubblico, nel caso l'acqua e le reti e le funzioni varie di pubblica utilità che si accompagnano alla loro distribuzione, è vincolata: l'affidamento a una società privata. Con tutti i problemi, segnalati dallo stesso Folena, di fallimenti del mercato e di "inefficienze" dettate dalla posizione naturale di monopolista "locale" acquisita dal gestore privato e, duque, di tendenza all'instaurazione di una rendita e di contrazione dei costi e della qualità del servizio.
Si verifica cioè nella sua sostanza, e senza differenziazioni rilevanti, esattamente la soluzione liberista che veniva poco sopra criticata: al riguardo basti vedere la disciplina via via introdotta durante gli ultimi anni.

18. Stabiliti gli ambiti territoriali ottimali per una gestione che, in assunto, consenta economie di scala nella gestione delle reti, si finisce per supporre (juris et de jure) che queste economie di scala ci siano e che i gestori privati, stimolati dagli enti istituzionali e dagli eventuali comitati e associazioni che compongono quella che si riduce ad essere una "stazione appaltante", siano effettivamente indotti a politiche di investimenti, manutenzione e trasparenza, nonché tariffarie, "solidali e umanitarie": cioè che appunto tengano conto della prefissazione, in sede di affidamento, di principi regolatori quali 
• la prevenzione dell’esaurimento; 
• il mantenimento della qualità originaria; • il mantenimento – o addirittura l’incremento – della disponibilità della risorsa, stante l’incremento demografico e dei consumi;
• l’accesso universale; 
• la difesa della proprietà comune del bene. 
Ebbene predeterminare in sede di affidamento queste condizioni, in realtà, consegue alla condizione di monopolista locale dell'affidatario, cosa che si avrebbe cioè immancabilmente in qualunque forma di privatizzazione della gestione, comunque la si voglia giustificare e denominare: tuttavia, il sistema complessivo di controlli pubblici è, esattamente come in qualsiasi privatizzazione, reso arduo dalla debole resistenza del settore pubblico alla "forza politica", derivante da quella economica, del gestore. Si privatizza e si espone il controllore pubblico al pericolo della capture, che contraddistingue tutte le forme di "regolatori" rispetto ai settori "privatizzati" e, comunque, tutti i regolatori "settoriali", come ci insegna l'esperienza, anche attuale, e, in ogni modo una sterminata letteratura giuridico-economica sul tema.

19. Insomma, quando si parla di beni comuni e di affidamento della loro gestione, si parla di monopoli naturali: la concorrenza all'atto dell'affidamento non elimina questo problema e neppure può eliminarlo una gestione partecipata in fase di determinazione delle condizioni di (obbligatorio) affidamento al settore privato.
Tra teoria dei "beni comuni" e privatizzazione tout-court della gestione, - cioè della facoltà essenziale del proprietario, quella che attribuisce al bene il suo vero "interesse pubblico" comunitario e che, un tempo, era affidata al settore pubblico attraverso la formula dell'azienda autonoma, cioè tramite organi dello Stato o dell'ente locale territoriale-,  non si scorge alcuna differenza.
Il privato, per quanto pressato da "associazioni e comitati", ed ammesso che questi abbiano un'effettiva attitudine a far rispettare le condizioni di interesse generale (dell'affidamento) più degli enti territoriali pubblici, i quali, almeno, hanno una responsabilità elettorale verso i cittadini interessati, dovrà agire secondo logiche economiche e di equilibrio aziendale: i profitti in qualche modo devono emergere per remunerare il capitale e indurre all'investimento almeno "lordo" (la manutenzione e l'operatività effettiva di funzioni come la depurazione delle acque, l'effettiva raccolta distinta tra acque meteoriche e acque di risulta fognaria, ecc.). La maggior efficienza di un monopolista privato, per quanto sottoposto a controllo istituzional-partecipativo, rimane pur sempre dubbia: di certo è indimostrato che sia superiore a quella ottenibile dagli organi tecnici pubblici che una volta gestivano senza problemi di "fallimento del mercato".

20. Per concludere, riportiamo quanto osservato sul tema da Massimo Florio, il più attento studioso italiano delle privatizzazioni e dei loro effetti:
"Ho cercato di dimostrare che (a seguito di privatizzazioni e liberalizzazioni, ndr.) 

(a) i cittadini in genere hanno guadagnato poco o nulla dalle privatizzazioni, (b) le fasce di utenti più povere hanno pagato prezzi più alti,

(c) i contribuenti ci hanno rimesso perché lo stato ha venduto a prezzi troppo bassi e in vari casi ha perso entrate,

(d) la produttività delle imprese non è aumentata significativamente,

(e) i maggiori beneficiari sono stati gli azionisti, gli intermediari finanziari, i consulenti (in una parola la City).



Mi sono anche occupato di privatizzazioni in Italia, in dieci edizioni del Rapporto sulla Finanza Pubblica e in altri interventi (tra i quali La sinistra e il fascino concreto delle privatizzazioni).

La mia lettura del caso italiano è che le cose qui sono andate anche peggio che in Gran Bretagna. 
Sia i governi di centro-sinistra che quelli di centro-destra hanno cercato di fare cassa vendendo soprattutto banche, telecomunicazioni, autostrade, aziende del settore dell’energia, anche altro, ma con effetti del tutto irrilevanti o modesti sul piano dell’efficienza e del benessere degli utenti, e invece distribuendo rendite ad ambienti capitalistici più o meno parassitari.

Mi sono convinto, soprattutto studiando il caso Telecom Italia (in I ritorni paralleli di Telecom Italia), che la vera origine delle privatizzazioni non sia il liberismo, anche se ovviamente i miti della libera concorrenza hanno avuto un peso nella retorica, ma uno scambio fra rendite politiche e finanziarie
La tesi che ho sostenuto (in Le privatizzazioni come mito riformista) è che in particolare la sinistra, oltre più ovviamente la destra, abbia cercato di accreditarsi presso i gestori della finanza offrendo loro in pasto delle attività perfette per montarvi operazioni speculative, garantite dalla dinamica nel tempo dei flussi di cassa. Il caso delle autostrade è in questo senso emblematico. Il rischio imprenditoriale è nullo, la rendita garantita, gli investimenti attuati minimi e neppure rispettati, le tariffe aumentano con e più dell’inflazione, il contribuente continua a farsi carico della spesa per la rete in aree meno ricche e più a rischio (vedi autostrada Salerno-Reggio Calabria e grande viabilità interregionale), mentre un ambiente imprenditoriale come quello dei Benetton e altri sono diventati dei concessionari, con tutto quello che questo implica di rapporti con la politica. In tutti i settori privatizzati le spese di ricerca e sviluppo sono diminuite, indebolendo il potenziale tecnologico. Più recentemente mi sono occupato della dimensione europea delle liberalizzazioni e privatizzazioni (ne L’esperienza delle privatizzazioni), in particolare di elettricità, gas, telefonia, giungendo a queste conclusioni per i quindici stati dell’Unione Europea prima dell’allargamento nel 2004: (a) soprattutto per l’elettricità le privatizzazioni hanno comportato aumenti dei prezzi per i consumatori; (b) la separazione delle reti dalla gestione (vedi Terna, Snam Rete Gas, ecc.) è spesso costosa e senza chiari vantaggi per la concorrenza; (c) l’introduzione della concorrenza peraltro ha mitigato ma non rovesciato in benefici mezzi questi effetti avversi; (d) indagini ufficiali dell’UE, come quelle di Eurobarometro, mostrano che i consumatori si dichiarano più soddisfatti nei paesi che hanno adottato meno le privatizzazioni; (e) dove c’è stata più privatizzazione è aumentato il numero di famiglie in difficoltà nel pagare le bollette.

Verso dove andiamo? Sono convinto, anche osservando l’esperienza degli Stati Uniti, che l’appetito illimitato del capitalismo finanziario, quindi il suo immettere nel gioco sempre nuove scommesse, condurrà alla privatizzazione dello stesso stato sociale, cioè sanità, istruzione, previdenza e persino assistenza; e forse anche di alcune funzioni classiche dello stato come difesa, ordine pubblico e giustizia. In altre parole lo scenario è quello dello “stato minimo”.
Le ragioni di questa tendenza, di nuovo, non hanno molto a che vedere con efficienza e competizione. Non esiste alcuna evidenza empirica che possa sostenere che in generale la gestione privata di ospedali, consultori, asili nido, scuole, università, pensioni, ecc. consenta abbattimenti di costi.
Dove li si osserva sono dovuti, in generale, a riduzioni reali di stipendio dei dipendenti o a condizioni di lavoro peggiori, spesso con abbassamento conseguente della qualità delle prestazioni, oppure al ricorso a personale immigrato.

Ovviamente, nel settore pubblico, ad esempio nelle università, si annidano aree anche ampie di parassitismo sociale: ma sarebbe molto meno costoso, e quindi più produttivo, motivare i dirigenti e sensibilizzare gli utenti dei servizi pubblici, eliminando così questa patologia attraverso un maggiore controllo democratico e un management di qualità.

Viceversa, quello che ci attende è una tendenza a creare una “industria” della sanità, dell’educazione, della pensione complementare. Negli USA questi settori sono ben presenti in borsa o in altri circuiti finanziari, spremono alte rendite dagli utenti grazie al fatto che comunque, nonostante le apparenze, operano in mercati non competitivi, e soprattutto costituiscono formidabili lobby in grado di impedire, ad esempio, ad Obama di riformare efficacemente la disastrosa sanità statunitense.

Una volta che si creano gruppi che controllano i flussi di cassa derivanti dal controllo dell’energia, dell’acqua, della sanità, della previdenza, ecc., la stessa democrazia come la abbiamo conosciuta in Europa nella seconda metà del 900 è a rischio.

La capacità dei gruppi finanziari che controllano gli ex servizi pubblici di influire sui governi e sulle stesse opposizioni parlamentari diviene così formidabile che, di fatto, diventa impossibile tornare alla gestione pubblica. Semplicemente diventa più facile comprare i governi, i parlamentari, i giornalisti, gli economisti, e il dissenso viene emarginato. Il vero rischio delle privatizzazioni perciò non è la relativamente piccola perdita di benessere sociale (ma non trascurabile per i gruppi in fondo alla scala sociale), caso per caso, industria per industria, ma il rischio politico-economico per il sistema nel suo insieme. Questo aspetto è stato colto nell'ultimo scritto di Tony Judt, uno storico della New York University, recentemente scomparso. “Come nel diciottesimo secolo”, egli scrive, “così oggi: svuotando lo stato delle sue responsabilità e risorse, ne abbiamo ridimensionato la centralità nella vita pubblica. Ne risultano ‘comunità fortezza’, intese nelle varie accezioni dei termini: settori della società che considerano se stessi fondamentalmente indipendenti dai funzionari pubblici e dal resto della società. Se ci si abitua a trattare unicamente o principalmente con agenzie private, nel tempo la relazione con il settore pubblico perde di cogenza e significato. Non importa che il privato faccia le stesse cose, meglio o peggio, a un costo maggiore o minore. In ogni caso, si finisce per perdere il senso di fedeltà alle istituzioni e di comunanza con gli altri cittadini”.E’ un processo ben descritto da Margaret Thatcher in persona. “La società non esiste affatto”, ella scrive: “esistono solo individui, uomini e donne, e famiglie”.

Se non esiste la società, ma solo gli individui e uno stato che agisce da “guardiano notturno” (supervisionando da lontano attività alle quali non prende parte) che cosa ci tiene, e ci terrà, insieme? Abbiamo già accettato la formazione di polizie private, di servizi di posta privati, di agenzie private fornitrici dello stato in tempo di guerra e molto altro ancora. Abbiamo “privatizzato” esattamente quelle responsabilità che lo stato moderno aveva laboriosamente riunito sotto la propria cura nel corso del diciannovesimo e del ventesimo secolo, afferma sempre Judt.

La mia lettura di ciò che sta accadendo è quella di un rischio per la coesione sociale e per la qualità della democrazia.  
E’ questo l’effetto generale della distruzione del faticoso compromesso raggiunto in Europa dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale fra la tendenza instabile e potenzialmente sempre autodistruttiva del capitalismo e un modo di produzione statale, che, con tutti i suoi limiti, sottrae una parte della società alle febbri speculative. In questo senso, il compromesso “socialdemocratico” europeo, il “modello sociale europeo” e la stessa costruzione dell’UE, nonostante ovviamente non siano un’alternativa al capitalismo, sono l’unica eccezione rimasta in campo al dilagare della finanza globale. Ed è un’eccezione oramai vicina ad essere travolta, anche per la fondamentale incomprensione di buona parte della sinistra europea dei processi in atto (quando non si tratta piuttosto di corruzione più o meno mascherata dei partiti e dei sindacati “riformisti”).

Dunque la mia lettura della recente crisi globale (in Antologia della crisi globale) pone la questione della modifica strutturale dei rapporti di forza fra lavoro e capitale al centro della spiegazione di ciò che sta accadendo, e che trova nelle liberalizzazioni e privatizzazioni un elemento costitutivo. Solo una soggettività politica molto determinata potrebbe a questo punto invertire il processo."

21 commenti:

  1. Il miglior post del 2016 (sino ad oggi).
    Al di là della profondità dei temi trattati con il consueto supporto documentale, l'approccio critico mai banalizzante e il desiderio di condividere argomenti fondamentali ma non frequentemente messi a disposizione al comune cittadino, plaudo una formidabile chiarezza espositiva e una impaginazione particolarmente pulita e funzionale.
    Grazie ancora di esserci.

    dott.Zivalo

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  2. Appena l'ho letto ho sentito il bisogno di citarlo su Goofynomics in merito alla discussione sulla scuola.
    Molte persone sembrano essere catturate a livello viscerale dall'idea che lo statobrutto impedisce il pluralismo (mentre questo è esplicitamente garantito solo qui) e affascinate dall'idea della comunità - in quel caso scolastica - privata che fa il bene dei loro pargoli. Il problema della segmentazione TOTALE della società che ne deriva non li tocca minimamente.
    Naturalmente, appena esposte queste ovvietà, l'accusa di fascismo (???) e razzismo culturale (??????) è arrivata dopo due nanosecondi.

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    1. Che ci vuoi fare? Non mi sorprende: la propaganda tecno-pop è molto più potente e diffusiva di quanto non si creda, una volta sterminate le "risorse culturali" della democrazia.

      Studiare costa e molto spesso ci si accontenta di luce riflessa, nel bene ma soprattutto nel male (accurtamente incompreso o, meglio, pre-compreso). Specialmente rispetto al corretto intendimento della Costituzione democratica.

      In sostanza, si può dire che il celebre discorso di Lelio Basso, in sede di Costituente, che attacca alla base la pretesa contrapposizione tra Stato e cittadini (come unica via alla democrazia sostanziale non reversibile dallo stato di eccezione dettato dai mercati), viene tradito una seconda volta (dopo i riusciti tentativi di disattivazione che denuncia nel "Principe senza scettro"): e proprio allorquando chi lo ignora, o addirittura lo nega, produce il massimo del danno rispetto al proprio stesso interesse...

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  3. Sembra quasi che le "privatizzazioni del 2000" ci riportino indietro ad epoche pre-industriali, dove i latifondisti (così si leggeva sui libri di storia del liceo) creavano artificialmente le carestie per i loro interessi. E cosa è, in fondo, la "carestia creata artificialmente" se non un modo di massimizzare il profitto creando, allo stesso tempo, delle tensioni sociali che si ritorcono contro chi le deve gestire?

    Cade anche il mito della presunta imparzialità ed efficienza del sistema degli appalti (soprattutto per quanto riguarda i servizi, come acqua, trasporti pubblici, sanità ed altro). Sistema tanto caro alla legislazione ed alla giurisprudenza europee, che tanto si preoccupano di insistere sulla garanzia della massima partecipazione alle gare. Più che una garanzia, leggendo il post, sembra allora parlarsi di illusione ottica, dato che, una volta perfezionatosi l'affidamento, gli strumenti di controllo statali e delle "comunità" appaiono assai poco incisivi.
    E questo senza contare che lo schema composto da un decisore che assegna, tramite una procedura formale, un appalto a una pluralità di soggetti privati fa nascere "naturalmente", in capo a ciascuno di questi, un potenziale "interesse a corrompere"!

    Condivido pienamente chi parla di "miglior post del 2016". Da leggere, rileggere, e soprattutto divulgare.


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  4. Splendido post. Da segnalare, a proposito di privatizzazione della scuola, e sui supposti benefici di tornare ad una scuola cattolica "liberamente scelta", il seguente articolo di propaganda tratto dal sito ultraliberista Bruno Leoni:
    "Uno dei maggiori economisti del secolo scorso, Milton Friedman, suggerì l'introduzione di "voucher" che garantissero a tutti la libertà di scegliere una scuola, pubblica o privata, proprio a partire dall'idea che la competizione induce a porsi al servizio dei clienti: in questo caso, degli studenti e delle famiglie. La libertà, insomma, va apprezzata in sé e produce pure buoni frutti. In tal senso va aggiunto che la chiesa per secoli ha saputo trarre beneficio da un ordine sociale che le garantiva ampia facoltà d'azione, lasciandola agire quale luogo di educazione delle giovani generazioni: basti pensare ai gesuiti e a molti altri ordini religiosi. In seguito, con il pieno trionfo dello stato moderno, lo spazio di un'istruzione indipendente si è ridotto sempre di più, poiché i poteri sovrani hanno avuto bisogno di dotarsi di formidabili strumenti di costruzione del consenso. Dopo l'unificazione di metà Ottocento, in particolare, da noi si è proceduto con determinazione a una progressiva statizzazione del sistema di insegnamento non tanto al fine di estendere e universalizzare la conoscenza (come talvolta si legge ancora), ma perché nella classe dirigente risorgimentale era forte la consapevolezza che, se si doveva "fare gli italiani", era cruciale controllare le agenzie incaricate di formare le coscienze delle nuove generazioni. La scuola pubblica sorge al fine di operare una sostituzione: bisogna che i valori della società cattolica lascino il posto ai nuovi principi della Patria e della comunità nazionale. E' stata proprio l'esigenza di marginalizzare la fede cristiana a soffocare ogni possibilità di un mercato educativo nella Penisola. Per questo la difesa del diritto a esistere delle scuole confessionali coincide con la difesa della libertà di tutti ed è anche necessario rilevare come gli istituti a ispirazione religiosa e la stessa funzione educativa della chiesa abbiano potuto esprimersi al meglio entro un quadro che lasciava spazio alla voglia di fare e al desiderio di mettersi al servizio degli altri."
    http://www.brunoleoni.it/a-scuola-di-imu
    biografia Carlo Lottieri:

    https://it.wikipedia.org/wiki/Carlo_Lottieri

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  5. grazie Maestro ;)

    Condivido e, nel mio piccolo, cerco di difendere il BENE COMUNE e aumentare la dose di fraternità nel mondo.

    Questo attività non è facile ma è bella.

    Che cosa occorre per realizzare questo obiettivo? Io ritengo necessarie due cose, in particolare, la cultura/spiritualità dei componenti della comunità ( non si deve mai smettere di coltivare le "risorse culturali" della democrazia) e
    la ridefinizione dei limiti delle comunità. Come per ogni insieme bisogna definirne i criteri di appartenenza, le frontiere e le condizioni al contorno. Fatto questo, è necessario non renderlo un insieme chiuso ma essere in grado di gestire le osmosi tra insiemi.

    La metafora dellla sommatoria o prodotto dei beni ci indica che la ripartizione equa di beni è quella che ottiene i risultato massimo , soprattutto se la quantità di bene che si divide NON è INFINITO, quindi in situazione di limiti delle risorse la massimizzazione avviene con il prodotto dei beni equamente distribuiti !

    SOMMA BENE 1 BENE2 BENE3 BENE4 PRODOTTO
    21 10 9 1 1 90
    21 9 8 2 2 288
    21 8 7 3 3 504
    21 7 6 4 4 672
    21 6 5 5 5 750
    21 6 6 5 4 720
    21 5 5 7 4 700
    21 3 4 7 7 588
    22 3 1 9 9 243
    21 1 0 10 10 0

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    1. Te vojo bbbene, ma obiettivamente aderisci ostinato a ciò che già sentivi come a te congeniale, contraddicendo però ciò che il post evidenzia:
      - sia la natura a-storica (ormai) della scommessa di cristianità totale e convergente degli attori economici, che si dà per vinta, pur instauratosi il capitalismo (dei cui effetti sociali, in tal modo non ci si cura, insistendo su soluzioni e rimedi rimasti invariati dall tempo dei "comuni" medievali...e già allora...);

      - sia la conversione di questa visione in un inevitabile appoggio ai settori politico-oligachici tout-court; ciò che, in definitiva, è frutto di un cosciente compromesso in cui si finisce per privilegiare una parte rinunciando, in concreto (delle posizioni ufficiali) alla coerenza del tutto (peraltro mai realizzata nei fatti della Storia). Cioè considerando comunque preservabile la prevalenza dell'idea di capitalismo di mercato e contrastando quella di intervento riequilibratore dello Stato democratico, perchè comunque costituirebbe un'interferenza all'idea di "carità" (volontaristica e indeterminata) e "temperanza" (wishful thinking rispetto alla corsa al profitto).

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  6. Pensare ad una spiritualità dei componenti della comunita' non significa necessariamente riferirsi alla religione cattolica , tanto meno alla gerarchia vaticana. Questo pero' non significa disconoscere la forza del messaggio cristiano e la profondita' dei testi biblici. Il punto "storicamente" dirimente e' il secondo . La definizione di comunita' e i sui confini . Come si puo' conciliare il diritto delle persone a migrare ( fisicamente e mentalmente), cioe' evolvere la loro condizione e/o salvarsi da mondi che finiscono ma contemporaneamente mantenere l'ordine sociale e la gestione dello "Stato" ( o qualsiasi cosa che intermedii gli interessi collettivi) . Oggi tutto avviene troppo velocemente e gli stati sono attraversati metricialmente da organismi internazionali ( wto, fmi, agenzie non governative , multinazionali , religioni) che tendono a mescolare / squilibrare e il riequilibrio non segue con pari intensita' .... ?!

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    1. a) l'altrui spiritualità, cioè esterna alla Chiesa cattolica (estendere la teoria riportata nel post a tutto il cristianesimo sarebbe una forzatura evidente), non produce una identica né "equivalente" "dottrina sociale" a rilevanza politico-economica generale (anzi, non risultano altre dottrine sociali altrettanto influenti e politicamente sinergiche col capitalismo): quindi non ci serve fare riferimenti attributivi di una confluente spiritualità altrui.
      Proprio perché in termini politici, non "confluisce" (almeno sulla ipostatizzazione dell'economia di mercato, non è pervenuta: tralasciamo le teorizzazioni di Weber sul protestantesimo che non sono dottrine ecclesiali e che Chang ha agevolamente ridicolizzato);

      b) Il punto non è disconoscere "la forza del messaggio cristiano", profilo del tutto irrilevante; tale disconoscimento non entra, evidentemente, in gioco neppure per un attimo nell'uso strategico della dottrina dei beni comuni: questa dottrina SEMMAI VANTA UN NUOVO E RAFFORZATO RICONOSCIMENTO: IN PRATICA E' "AL POTERE".

      c)(IL PUNTO E' SEMMAI CHE TALE DOTTRINA SERVE, IN MODO COSCIENTE O DISSIMULATO CHE SIA, A DISCONOSCERE IL RUOLO DELLO STATO DEMOCRATICO NELLA RISOLUZIONE DEL CONFLITTO SOCIALE (disconoscendo pure quest'ultimo, con un riduzionismo a "questione sociale" risolvibile ESCLUSIVAMENTE dalla volontaristica coscienza di operatori economici "credenti"; per fare un es; oggi, Lapo Elkan, Briatore, gli a.d. bancari e i gran commis delle privatizzazioni degli anni '90. Devo aggiungere altro? Forse i loro corifei €uropeisti, spesso cristiani, all'interno della tecnocrazia UE-M?)

      d) La questione dell'immigrazione (quelli che "migrano" sono gli animali e preferisco ritenere queste genti ancora composte da persone umane), è chiaramente indotta dal mondialismo neo-liberista a fini di ristrutturazione DEFINITIVA dei rapporti di forza sociale, in senso pre-democratico (con un malthusianesimo IMMANENTE verso i popoli ospiti, quanto al loro futuro comunitario in senso FISICO, e anche verso quelli emigranti, la cui comunità viene comunque automaticamente dissolta..nel mercato del lavoro deflazionista universale).

      MA TALE ULTIMO ASPETTO E' A RIGORE ESTRANEO AL TEMA DEL POST (che riguarda le dottrine politico-economiche alla base della depredazione dei beni e delle utilità democratiche dei popoli degli ex Stati democratici)

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  7. Riflessione di grado zero, su sintomi di natura linguistica emergenti dal discorso di un difensore della scuola "pubblica privata" (è passata la formula ossimorica, e non per colpa esclusiva della propaganda che sappiamo...). Di là, su Goofy, dico, il defensor de quo iterava ostinato la parola "pluralità", accuratamente tacendo il per nulla sinonimico "pluralismo".
    Io non sono un giurista (evito il "ma..." e opto per un "dunque"!), dunque pongo la questione su un altro piano.
    A scuola si lavora su tre livelli:

    1. la mediazione didattica (metodologie, a propria volta dipendenti da teorie dell'apprendimento, della conoscenza e pedagogico-didattiche e dunque, trattandosi di scienze umane, non neutre rispetto a etiche, visioni e persino ideologie; e strumenti)

    2. i contenuti (che il peloso, ideologizzatissimo mainstream pedagogistico proclama perfettamente indifferenti e fungibili, unicamente funzionali allo sviluppo di skills - competenti de che?)

    3. i valori.

    Bene: tutti gli elementi suelencati afferiscono alla libertà d'insegnamento (il limite è solo "esterno": l'Intelligent Design non è scienza - oppure interno/mediato, come nel caso del punto 1, con le decisioni in merito prese dal Collegio docenti e parzialmente vincolanti. A proposito, gli ambienti ministeriali lo dicono mero "organo tecnico", come se ciò bastasse a devitalizzarne la radice lato sensu politica...).

    Ora, niente è meno stimolante e inerte di un ambiente perfettamente omologato (per contratto, per qualità dichiarata dell'offerta, per identità, per caratteristiche degli operatori...) di una scuola (de)privata dell'altro da sé - pedagogico, culturale, valoriale - a livello di offerta (e la domanda? Di cosa abbisogna una società per educarSI - non "essere educata"! - alla dimensione relazionale, solidale, partecipativa, critica, dialogica, dialettica...?).
    Dice: ma la pluralità dell'offerta potrebbe riguardare unicamente gli aspetti strumentali e organizzativi, il pluralismo venendo da sé quando non vi siano filtri per docenti e discenti. NULLA DI PIÙ IDEOLOGICO! E qui non serve che mi dilunghi, la cosa è stata più volte dimostrata anche su questo blog. Per tacere del fatto che i filtri vi sono e persino qualificano la famosa "offerta"!

    Lo so per esperienza: negli ambienti omogenei(zzati) il pluralismo te lo scordi, e con esso la dialettica e l'educazione alla convivenza civile, e la pluralità diventa allora parcellizzazione in entità CHIUSE (vedi anche il dipolo oppositivo comunità/società: nessuna sineddoche è possibile).

    Alla faccia della (LORO!) società aperta. Ci mancavano solo i beni immateriali (culturali, etici, relazionali etc.) trattati come merci (ancora, 'sto abominio terminologico della "offerta formativa"...).

    Me ne sono salvato due volte, da studente e poi da docente, entrambe rischiando l'anossia da soffocamento intellettuale. E la chiamano libertà...

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  8. Scusate, solo una precisazione, ché sennò posso parere sprovveduto.

    Nel commento precedente ho omesso obiettivi e finalità, fondamentali sì, ma comunque dati in termini generali: la scuola "privata non statale" (eddàje...) non può esimersene.

    Invece parlavo di contenuti (opzionali e fungibili) perché non è affatto indifferente la loro funzionalizzazione (vedi Linee guida gelminiane, ma anche Moratti prima e Buonasquola poi) all'acquisizione di competenze.
    Quali? Vedi Framework €uropeo e nostre Competenze chiave di cittadinanza: linguistiche, metacognitive, matematiche, essenzialmente, e in termini di "autonomia e responsabilità".
    In che ambito? A quale riguardo?
    Nulla. Morte dei contenuti - dunque, ad esempio, diritto costituzionale cancellato dal quinto anno dei Tecnici a favore del diritto amministrativo (che pacchia! e quale utilità!); oppure la perfetta opzionalità della conoscenza del cancellierato Brüning o del Piano di Settembre in storia (servirebbe tempo, ma hanno da andare in aZZZienda per l'alternanza scuola/lavoro): quegli argomenti van bene quanto Storia del taglio e cucito in Polesine, se servono a sviluppare le skills. DE CHE? DE CHE??? Abominio, ripeto.

    Ultimo. Un formatore salesiano mi indottrinava, un giorno, sul fatto che "la domanda va educata".

    Capito cos'è, la pluralità dell'offerta?
    Bon. Chiedo scusa per la prolissità.

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    1. Beh, la chicca del formatore salesiano per il quale "la domanda va educata", giustifica un adeguato spazio espositivo :-)
      Volendo il diritto amministrativo può essere un ottimo spunto per un processo ascendente verso la migliore comprensione della Costituzione del '48, avendo a disposizione proprio l'esigenza di trattare aspetti fondamentali per gli slogan più utilizzati: Stato brutto, evasione, burocrazzzzia, spesa pubblica improduttiva ecc.
      Ma esigerebbe conoscenze, nei docenti, che sono ormai "gli oscuri frammenti di un discorso sconosciuto". E che "deve" rimanere tale. Ad ogni costo.
      http://orizzonte48.blogspot.it/2014/02/gli-oscuri-frammenti-di-un-discorso.html

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  9. Chapeau bas! Questo è un post che andrebbe messo in evidenza nella home page del blog, se posso permettermi un conZZZiglio.

    Abbiamo dinnanzi ai nostri occhi la sempre più grezza esecuzione di un disegno raffinatissimo, consistente nella guerra totale al mezzo che ci permette di analizzare, categorizzare, giudicare e infine modificare la realtà: il linguaggio. Detto in maniera brutale, ci stanno privando della facoltà di esaminare puntualmente, sviluppare criticamente e raccogliere sistematicamente le intuizioni, di separare il necessario dal contingente, cioè della ragione, cioè di ciò che ci rende più di tutto umani. L'uomo comune pensa socialismo e vede Martin Schulz, pensa Stato e vede l'esattore iniquo e implacabile del Capitale, pensa giustizia e vede un diritto svuotato di ogni considerazione etica, pensa economia e vede concezione crematistica di "chi ce la fa" (cfr. Il Pedante).
    Tuttavia, l'effetto più tragico di questo processo non si manifesta nelle vittime ignare, bensì nei pochi superstiti consapevoli, gli oppressi, che saranno costantemente immersi in un mondo rifondato sulla dicotomia insanabile fra reale e razionale: ora, è chiaro che una simile rottura dell'equilibrio fra corpus e mens non può che condurre alla pazzia, che prima sarà esterna - saranno gli altri, i conformati cioè, ad indicare come pazzo il resistente -, e poi interna - perché l'uomo è un animale sociale e non può sopportare di vivere in una situazione di perenne dissonanza cognitiva, a meno di non perdere la capacità di relazionarsi socialmente col proprio simile: e in effetti, i "vincenti" di questa "grande società" saranno proprio degli psicopatici caratterizzati da una costante e programmata condotta antisociale -.
    Il primo stadio della patologia consiste nell'ineffabile sensazione di vivere in un epoca non corrispondente alla propria etica, circostanza pressoché inevitabile in un'epoca che fa propria l'etica condivisa di non avere un'etica (che potremmo definire società "inetica" o dell'etica antiumana). Il secondo stadio consiste nell'esprimere con chiarezza questo concetto a parole. Per il prosieguo dell'elenco si dovrà probabilmente attendere che gli ulteriori sintomi si manifestino.
    Il rimedio possibile è uno solo: creare un'oasi, un luogo fisico in cui i sopravvissuti possano vivere in comunità in piena sintonia col proprio essere.

    Per quanto concerne i carnefici, invece, è altrettanto ovvio che si tratta di soggetti in preda ad un delirio, se è vero che esso si manifesta essenzialmente attraverso la compresenza di tre elementi: certezza soggettiva, incorreggibilità e impossibilità del contenuto. Non si tratta di soggetti con cui è possibile alcun tipo di dialogo, figurarsi di compromesso. So che per alcuni tale diagnosi potrà apparire oggi eccessiva, ma a questo punto della storia è esattamente l'idea che mi sono fatto di loro e, con grande franchezza, vedo difficile un mutamento tale della situazione che possa fungere da portatore di metanoia. Ci tengo a precisare che tutto ciò non ha niente a che vedere con considerazioni di castigo o di vendetta: è puramente una questione di sopravvivenza, che è pre-condizione per tutto ciò che può venire dopo.

    Grazie di cuore, Quarantotto, per l'opportunità che ci metti ogni giorno a disposizione!

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  10. Sono in ottimi rapporti (e comunanza di vedute) coi miei colleghi di diritto, farò loro presente la Sua dritta, qua sopra. Hai visto mai che si rimettano a studiare... per il bene pubblico!

    Chiedo venia per un refuso: era "scuola pubblica non statale" e ho scritto "privata non statale". Non so quale delle due espressioni abbia meno senso...

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  11. Scontato il vivissimo apprezzamento per il post (e per quel grande medievalista/modernista che è Giacomo Todeschini). Basta leggere, anche distrattamente, le fumose teoriche dei cantori dei "beni comuni" per capire cosa c'è sotto: "Nella fase che stiamo vivendo, invece, un tratto caratteristico dei beni comuni consiste nel movimento ascensionale che li ha portati dalla periferia al centro del sistema, rendendo quasi sempre improponibili le suggestioni tratte dai modelli del passato. La loro portata innovativa, muovendo dalla persona e dai suoi diritti, si distende oltre questo confine, proietta la persona stessa oltre il luogo in cui vive per le interdipendenze che condizionano l’accesso ai beni della vita - le modalità della produzione, le logiche del commercio internazionale, la salvaguardia di
    ambienti e tradizioni. E' la logica del «comune», non della «co­munità», a fondare lo spazio dei beni comuni, sempre più globali: a meno che, con quest’ultimo termine, non ci si voglia riferire alla «comunità umana», dunque all’opposto di una chiusura in frontiere nelle apparenze protettive, ma nella sostanza pericolosamente legate a una appartenenza che può produrre conflitti con chiunque ne ab­bia una diversa e opponga interessi concorrenti sul medesimo bene."
    (S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari, 2012, pag. 123).

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  12. Trovo interessante anche un altro aspetto che viene toccato e che mi sembra fondamentale per una distinzione in termini di conseguenze politiche di due diverse sensibilità in ambito cristiano. La questione era stata sollevata a suo tempo con la consueta chiarezza da La Pira. Il suo articolo "L'attesa della povera gente", che, come si ricorderà, era stato scritto con l'aiuto di Caffè, sollevò un mare di polemiche, soprattutto sul Sole24Ore (sarebbe interessante leggere tutti gli articoli: si scomodarono perfino Malvestiti, Bresciani Turroni e Angelo Costa. Il Sole però un archivio storico on-line non ce l’ha). La risposta di La Pira non si fece attendere e consiglio a tutti, ma soprattutto ai cristiani, di leggersela.

    Osserva La Pira: "è stata toccata la premessa religiosa, quando sono state riportate le parole di Gesù: « I poveri li avrete sempre con voi », quasi a legittimare l’impotenza di un determinato sistema economico, finanziario e politico incapace di eliminare dal suo seno il cancro della disoccupazione e quello della miseria."

    (Tema peraltro già trattato in termini filosofici da Hegel).

    La risposta di La Pira è perentoria: "I poveri non sono un'eucarestia sociale".

    Ovvero: "La premessa cristiana impegna nel fine ed impegna anche nella ricerca sempre viva dei mezzi proporzionati a tale fine: questi mezzi devono esistere, esistono, se ad essi è legato un fine così essenziale per l’uomo: si tratta di ricercarli con amore appassionato, con mente sempre aperta ad ogni spiraglio di luce che permetta, in qualche modo, di intravederli.
    Keynesiani, non keynesiani? I nomi non contano, contano le cose: credere che sia possibile una tecnica risolutiva (anche se con prudenza) del massimo problema sociale (disoccupazione e miseria) o essere scettici intorno alla possibilità di essa ed alla efficacia risolutiva di essa: questo è il dilemma.
    La radice del contrasto che questa polemica così viva ha messo in luce è tutta qui: è un contrasto di fondo; rileva due concezioni diverse delle ripercussioni sociali del cristianesimo, due modi diversi di concepire la finalità dell’economia, della finanza e della politica. Non è un dissenso di dettaglio, non si può dire che, in fine, le due parti sono d’accordo: no, non sono d'accordo, perché il loro disaccordo tocca le idee di base e di orientamento.”
    La parte in neretto è enfatizzata con un corsivo nel testo originale.

    Quindi, possiamo dire, carità e profitto vanno d'accordo perché l'esistenza della povertà è un orizzonte che non solo non può ma nemmeno deve essere superato in quanto fornisce l’occasione per l’esercizio della virtù, sia per il povero che per il ricco, giustificando contemporaneamente l’ordine che la produce. Et tout se tient.

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  13. «Per Röpke, l'eredità spirituale che il cristianesimo ha tramandato al liberalismo è rappresentata dalla difesa della dignità di ogni singola persona umana contro tutte le forme di statalismo. Il fatto che esistano correnti di pensiero che mettono in discussione tale eredità spirituale, sostenendo, sul versante religioso, l'incompatibilità del cristianesimo con il liberalismo e, sul versante laico, l'incompatibilità delle istituzioni liberali con la fede cristiana, sarebbe il frutto, rispettivamente, di un "moralismo ignorante" e di un "economismo ottuso"»

    Che sia un'eredità del cristianesimo non ne dubito, che trovi legittimazione nel messaggio evangelico lo può dire solo un analfabeta, prima morale che intellettuale.

    Ogni tanto mi chiedo chi abbia realmente scritto i Vangeli: se una cosa è certa è che, a questo punto, non fosse cristiano.

    «è antiautoritario, rendendo a Cesare quello che è di Cesare, ma riservando a Dio ciò che qualifica il suo rapporto con l'Assoluto: per il cristianesimo è la coscienza individuale che giudica il potere e non viceversa»

    Non è appunto antiautoritario, razza di ipocrita e circonventore di incapaci di un Röpke: rispetta l'autorità statuale romana e mette in discussione i rapporti etico-sociali strutturati nella società ebraica, infiammando l'iraconda reazione di chi esercitava il potere ierocratico.

    L'individuo Gesù (o persona, che per i cattoliberisti è a quanto pare la stessa cosa) si fa giudicare e si sottomette al potere e all'autorità romana, che coincide con la volontà divina stessa. La condanna morale è proprio sul "non interventismo" pilatesco, che della giustizia nel diritto, se ne lava le mani.

    «Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli (5,20)»

    «Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia (5,6)»

    Perché chi disquisisce di "beni pubblici" non parla di giustizia sociale?

    Perché è più facile far passare cammelli da crune di aghi, che mandare ricchi in paradiso?

    Per i diversamente esegeti ricordo che la ricchezza è relativa, quindi non è un'asserzione a carattere pauperistico: poiché il Regno dei cieli è di coloro che si conformano alla Parola - che, sfido chiunque a disgiungerla dall'Etica che viene affermata sopra il "vuoto ritualismo" della comunità ebraica del tempo - gli individui che oppongono una reazione alla rinuncia dei privilegi di classe, sono dannati.

    La giustizia sociale è giustizia, e l'agire per perpetuare la disuguaglianza sociale è immorale, contrario alla volontà divina.

    È immorale, e quindi non configurarntesi come "caritas", l'elemosina sociale e il principio di sussidiarietà che si può configurare come dazione caritatevole non volta all'emancipazione dall'indigenza e dall'oppressione.

    L'aristocratico radicale Nietzsche, che inveisce contro la "sovversione" socratica e gesuana, afferma che la "liberalità" del padrone verso il servo, è, guarda un po', a discrezione del padrone, e la può elargire in uno sporadico gesto di commozione e magnanimità. Ma guarda un po' le coincidenze...

    Carletto Marx, che non era marxista e non era cristiano - a quanto pare - come Gesù, nel Capitale fa espressamente riferimento al cristianesimo - nei suoi contenuti solidaristici e comunitaristi evangelici - come «unica religione utile».

    Il problema è che "gli interessi generali" implicano un qualche temperamento delle disuguaglianze sociali.

    Ma, certo, queste banalità le affermo solo perché sono un "moralista ignorante" e un keynesiano "ottuso".

    Ogni capra si tenga il pastore che merita....

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    1. "Quindi, possiamo dire, carità e profitto vanno d'accordo perché l'esistenza della povertà è un orizzonte che non solo non può ma nemmeno deve essere superato in quanto fornisce l’occasione per l’esercizio della virtù, sia per il povero che per il ricco, giustificando contemporaneamente l’ordine che la produce. Et tout se tient".

      "Il punto non è disconoscere "la forza del messaggio cristiano", profilo del tutto irrilevante; tale disconoscimento non entra, evidentemente, in gioco neppure per un attimo nell'uso strategico della dottrina dei beni comuni: questa dottrina SEMMAI VANTA UN NUOVO E RAFFORZATO RICONOSCIMENTO: IN PRATICA E' "AL POTERE"."
      "È immorale, e quindi non configurarntesi come "caritas", l'elemosina sociale e il principio di sussidiarietà che si può configurare come dazione caritatevole non volta all'emancipazione dall'indigenza e dall'oppressione."
      "Perché chi disquisisce di "beni pubblici" non parla di giustizia sociale?"

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  14. “Se non esiste la società, ma solo gli individui e uno stato che agisce da “guardiano notturno” (supervisionando da lontano attività alle quali non prende parte) che cosa ci tiene, e ci terrà, insieme?”

    La confusione affermatasi tra “bene comune” e “bene pubblico” (e quindi di “interesse pubblico”) continua a postularsi anche in quelle teorie dell’interesse pubblico che, solo formalmente lo ammettono, ma nella sostanza lo negano in maniera decisa, riducendolo a fantasma nominativo.

    Il concetto di “interesse pubblico” (dotato essenzialmente di carica normativa ed etica), come distinto dall’interesse privato, non è conosciuto nell’antichità, ove l’interesse pubblico si identificava con il politico (si veda Aristotele) e non esisteva una dimensione propriamente privata come da noi intesa comunemente. Quello di interesse pubblico, distinto dal privato, è quindi un concetto che si afferma alcuni secoli dopo, ovvero con la nascita della società civile (e dell’individuo) intesa come società politica con le sue regole di convivenza (contribuiscono a ciò la diffusione di concetti cristiani come individuo e coscienza, lo sviluppo del commercio, la riforma protestante e il sorgere dello stato di diritto). Nasce cioè una dimensione civile che si fonda sulla contrapposizione riconoscibile tra pubblico e privato. E’ proprio da allora che si pone il problema del contenuto da dare all’Interesse Pubblico.

    I realisti (che rifiutano qualsiasi approccio etico-normativo) affermano che l’interesse pubblico nemmeno esiste, che è pura retorica, poiché non sarebbe giustificabile razionalmente. Meglio studiare la realtà come scontro tra gruppi di interessi, solo dal punto di vista empirico. In tale ottica sostanzialmente scettica si muovono personaggi come Schubert (there is no public-interest theory worthy of the name …political scientist might better spend their time, G. Schubert, Is there a Public Interest theory? 1962, 162-176) o Sorauf. Pubblico sarebbe solo una definizione emozionale nascente dalla pura intuizione. In sostanza, l’interesse pubblico sarebbe sganciato da ogni istanza etica e “pubblico” sarebbe da ricollegare all’interesse di particolari gruppi di individui. E’ Bentley che infatti ci dice che “we schall never find a group interest of the society as a whole. We schall always find that political interests and activities of any given group” (Bentley, The process of government; a study of social pressures, 1908, 222). E’ una questione di rapporti di forza e di conflittualità e la società è sostanzialmente una giungla dove vince il più forte (soprattutto economicamente). segue

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  15. Poi ci sono i teorici per cui la società è una somma di individui che si organizzano in gruppi di interessi e che cercano di influire sulle decisioni politiche a proprio favore. A differenza dei realisti (che non prevedono alcun assetto assiologico), questi personaggi ammettono una minima valenza etica individuata nella libertà della interazione dei gruppi di interesse, ammettendo di fatto il pluralismo etico. In questi personaggi l’interesse pubblico equivale alle regole del gioco tipiche della “società aperta” popperiana. L’interesse pubblico è pluralista e liberale e non esistono principi assoluti, ma un politeismo assiologico. Pertanto, vengono a fondersi libertà individuale ed uguaglianza formale. Bentham, come sappiamo, è l’esponente di questa corrente; per lui l’interesse pubblico non ha sostanza etica riconducibile alla società nel suo complesso, ma si identifica con la somma degli interessi dei singoli individui (una visione alla Margaret Thatcher): “The interest of the community is one of the most general expressions that can occur in the phraseology of moral: no wonder that the meaning of it is often lost. … The community is a fictitious body, composed of the individual persons who are considered as constituting as it were its members. The interest of the community then is, what? the summ of the interest of the several members who compose it” (J. Bentham, An introduction to the Principles of Moral and Legislation, cap. I, par. VI). La stessa visione di Hayek, che non è per niente originale.
    E’ ovvio che in entrambe queste farloccate (che però sappiamo aver attecchito) il fenomeno del lobbying è ovviamente ammesso: se non esiste un interesse pubblico superiore facente capo alla società (intesa in senso organico) da realizzare, allora nulla vieta il fenomeno. Per i realisti il problema nemmeno si pone, le azioni di lobbying sono naturali e per i personaggi come Bentham sono addirittuta l’espressione del pluralismo e della protezione della sfera privata contro gli attacchi dell’autorità pubblica.

    A ben vedere, cos’è che accomuna le due visioni (quelle più importanti, perché si potrebbero citare anche altri gruppi di personaggi simili)? La mancanza di una sostanza etica sottesa all’interesse pubblico o, nel caso dei fans di Bentham, un politeismo etico ed un relativismo assiologico mascherati da religione della tolleranza. Viene demolito qualunque limite all’irrompere dell’arbitrio nelle relazioni tra uomini fino ad affermarsi della logica della guerra e dell’idea sofistica di Trasimaco. Frutti velenosi della modernità. segue

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  16. In presenza di tali virus, la questione allora è: perchè dovrebbe esistere un “interesse pubblico” come accolto in Costituzione e, di conseguenza, perché optare per una gestione pubblica dei beni comuni e non viceversa per una gestione privata? In presenza di un pluralismo etico ed assiologico, come è possibile affermare che sia “giusto” il primo modello e non il secondo? Tutte le visioni (dice il chierico della tolleranza e della società aperta) hanno uguale diritto di cittadinanza e il prevalere di una visione sull’altra corrisponde a pura “violenza”. Il crisitano autentico (non deviato dal tradimento cattolico della menzogna bimillenaria o da diversa dottrina) potrebbe rispondere che è giusto una soluzione piuttosto che un’altra in base ad un’etica evangelica (personalmente sottoscriverei, ma non è questo il problema); il laico autentico (cioè non il positivista puro kelseniano del diritto, ovvero senza sostanza etica) si ribellerebbe e direbbe che auctoritas non veritas facit legem, soluzione che sta a base dei moderni stati di diritto. La nostra Costituzione supera entrambe le visioni precedenti, e costituisce una geniale sintesi assommante la pregnanza valoriale ed etica (fusione di più pensieri, anche cristiano ed in genere “umanista”) e la forma tipica delle norme giuridiche. Tuttavia nemmeno la Carta Fondamentale, a quanto pare, con la sua normatività e la sua carica assiologica, riesce a fare argine a quel relativismo etico ed assiologico che purtroppo ha preso piede.

    Bisognerebbe smontare “in ragione” la fallacia di ogni relativismo etico ed assiologico, opera incompiuta dell’Illuminismo. Recupero, in materia etica, della “ragion pratica” e socratica come essenza del dare ragione (lògon didònai), una ragione che sia evidente a tutti. “Al fondo dello scetticismo assiologico ed etico che ha attraversato il XX secolo noi troviamo precisamente una dissociazione tanto radicale quanto ingiustificata fra esperienza di valori e la ricerca della verità, fra vita autentica e la ragione. Una dissociazione che affonda … una radice anche nel pensiero di un gigante della filosofia morale moderna, Immanuel Kant. Questo è ciò che vide Edmund Husserl fin dal suo primo esordio come docente-che fu un corso di filosofia morale, dove si trovò a criticare il nietzscheano Al di là del bene e del male e dove concepì quello che molti ignorano essere stato il vero progetto di tutta la sua vita: riuscire a confutare lo scetticismo pratico. Perché l’antichità era riuscita a confutare definitivamente quello logico – al prezzo di costruire l’eidetica del vero, la logica (l’esplicitazione cioè del concetto stesso di verità, mediante gli assiomi di logica). Mentre la modernità filosofica aveva fallito il suo compito, il suo “telos”: costruire un’eidetica del bene, un’etica. E non aveva dunque mai potuto sconfiggere lo scetticismo pratico” (R De Montincelli, La questione morale, 136).

    Alla fine del percorso, si scoprirebbe (cosa di cui i seguaci di questo blog sono coscienti) che le norme della nostra Costituzione sono eticamente giuste e vere per ogni uomo che appunto abbia “ragione”, non attaccabili da alcun relativismo in progressivo avanzamento.

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